Walter Kempowski - Tadelloser & Wolff

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Walter Kempowski

Tadellรถser & Wolff Un romanzo borghese

avieri


Pubblicato nel 1971, al termine di una disperata prova mnemonica e della raccolta di testimonianze che ne hanno preceduto la stesura, Tadellöser & Wolff annuncia ogni successivo progetto dell’uomo-archivio Walter Kempowski, ideale custode della memoria condivisa della Germania, da quarant’anni impegnato nella rielaborazione del passato. Il romanzo, il primo della Deutsche Chronik, incide come al microsolco le voci dell’infanzia dell’autore. Negli anni fra il 1938 e il 1945, la storia della sua famiglia, sensali marittimi di Rostock, è allo stesso tempo la storia della borghesia tedesca al tramonto del Terzo Reich. Sullo sfondo la guerra, i bombardamenti, i campi di sterminio. In questo scenario, gli occhi del piccolo Walter assistono al dilagare della follia collettiva: immagini e suoni del quotidiano vengono laconicamente registrati nella loro spettacolare mancanza di senso, mentre canzoni e marcette propagandistiche accompagnano il dodicennio nazista con l’insistenza di un basso continuo. La tranquilla operosità anseatica, tesa con candido cinismo verso il benessere, e la fiducia incondizionata concessa a Hitler collidono con il motto dello stemma cittadino: «sit intra te concordia et publica felicitas». Il sottotitolo dell’opera, Un romanzo borghese, graverà, allora, come una lapide sulle idee di patria, famiglia, società. Con questo racconto insieme tenero e spietato, tanto realistico quanto grottesco, il problema della trasmissione della memoria si apre a un ulteriore interrogativo: come trasmettere, del ricordo, anche l’oblio?


collana arno 4



Walter Kempowski

Tadellรถser & Wolff Un romanzo borghese

avieri


Walter Kempowski Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese ISBN 978-88-89312-33-9 A cura di Domenico Pinto Traduzione di Diana Politano e Francesco Vitellini Postfazione di Raul Calzoni © 2007 Ipermedium Comunicazione e Servizi s.a.s. Lavieri editore - via IV Novembre, 19 - 81020 S. Angelo in Formis (CE). Titolo originale: Tadellöser & Wolff. Ein bürgerlicher Roman © 1981 by Albrecht Knaus Verlag a division of Verlagsgruppe Random House GmbH, München, Germany. info@lavieri.it www.lavieri.it


Sommario

Tadellöser & Wolff. Un romanzo borghese . . . . . . . . . . .

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L’«angelo della storia» e la coralità della memoria . . . . . . . 323 di Raul Calzoni


Nota del curatore

La scommessa tecnica di questa traduzione si alimenta dell’aiuto fornito dall’autore per l’edizione italiana. Walter Kempowski ha indicato le chiavi di passi problematici e messo a fuoco usi particolari; senza la sua autoesegesi il lavoro non sarebbe giunto al termine. La resa del testo presentava ai suoi traduttori, Diana Politano e Francesco Vitellini, problemi ardui: per il carattere di lingua segreta dell’idioletto familiare, per il sistema di ellissi su cui riposa il libro, per l’indeterminabilità dei parlanti – ottenuta con un vasto ricorso alle costruzioni impersonali – che spinge a divinare referenti e soggetti (come un cloze text da integrare, il romanzo richiedeva supplementi d’immaginazione, tripli salti logici da compiere). Un forte contributo all’intelligenza dell’originale è arrivato da Michael Herrmany, ponte prezioso fra le due lingue; Daniele Ventre ha invece restituito le risonanze formali della quasi totalità delle rime e delle canzoni intarsiate nell’opera. Consulenze e apporti sono pervenuti inoltre da Marco Berisso, Silvia Bortoli, Stefano Gallerani, Marco Grosso, Antonio Pane, Luca Gabriel Popper e Marianne Schneider. Le poche note di pronto soccorso sono per lo più adibite a sciogliere giochi di parole e alcuni acronimi. L’obiettivo principale era quello di rendere disponibile il primo pannello della Deutsche Chronik, il vasto polittico della Germania di Kempowski, lasciando aperto, al lettore italiano, il compito di commentare reticenze e lacune nelle immagini della memoria, come è nello spirito dell’«archivista della vita». D.P.


Dedicato a Detlev Nahmmacher



Tutto puramente immaginario!



1 Al mattino eravamo ancora seduti su casse da imballaggio grigie nella vecchia casa, a bere caffè (è nostro quello che c’è dentro?). Aloni chiari sulla carta da parati scurita. E la grande stufa, che esplosione quella volta. A mezzogiorno si sarebbe già dovuto pranzare nella casa nuova. La palma da vaso fu regalata al giardiniere, non era più possibile tenerla. Meraviglioso come si era sviluppata in tutti quegli anni. Il nerbo ce lo portammo dietro, ogni tanto «ahi ahi!» c’era da prenderle. Sarebbe stato bello nella casa nuova, incantevole. Avremmo visto: stupendo. Un panorama dal balcone – delizioso. E nessuna stufa da scaldare, anche questo meritava conto. Già da lontano, mentre tornavo da scuola, vidi il carro dei traslochi, imbottito, i cavalli con le coperte rosso ruggine sulla groppa e placche d’ottone alle briglie. Noi, s’intende, stavamo vicino a Bohrmann. Il pianoforte a coda era ancora dentro, quindi non avevo perso nulla. I facchini con le cinture intorno ai fianchi, dei ganci attaccati sotto. Svitarono i piedi; l’issarono in una slitta su per le scale. Sette quintali di peso. Gli uscivano fuori le vene. «Ragazzi», fece mia madre, «ma è mai possibile...». Proprio non si rimediavano un paio di uomini forti nel vicinato? Un signore grasso sgusciò tra i facchini, guardò trasognato verso l’alto delle scale. Lassù entrava luce da una finestra a vetri cattedrale. L’uomo si chiamava Quade, lui aveva costruito l’edificio. Era una casa spaziosa, anche se: 2° piano, come aveva notato zia Silbi fin dall’inizio. Il guardaroba tutto rosso. Sopra la cassapanca in quercia già i bersagli e la sciabola di mio padre. («Poi quella verrà affilata, giovanotto»). A destra la libreria con le relazioni telegrafiche dei Wolff e – «Pesci velenosi e veleni di pesce» – innumerevoli volumetti Kosmos. Mio fratello si stiracchiò davanti allo specchio. L’appartamento era da Bonomicoli. Non pensavo anch’io? «Sì». «E quindi sii felice». Per tutte le stanze erano state comprate lampade nuove. In soggiorno artigli d’aquila reggevano le plafoniere. Nelle camere da letto la luce fluiva attraverso l’alabastro. Allo smisurato paralume di carta nella sala da pranzo c’era appesa una campanella, con cui poi avremmo chiamato la domestica.


Per la cucina non erano state comprate lampade, ce n’era già una. Kröhl, un impiegato della Finanza in pensione, montò le lampade. Suonava la viola nel quartetto (violinisti ce n’erano a iosa), si rendeva utile volentieri. «Potresti accendere per favore? L’interruttore di sotto. Grazie». Quando ancora era in servizio, una volta aveva detto a mio padre: «Qua è di nuovo tutto sbagliato». «Perché “qua”?», aveva ribattuto mio padre. «E perché: “di nuovo” e “tutto”?». Questo le garbava, disse mia, che la cucina non era piastrellata. Le piastrelle dabbasso erano così fredde. Nei lavandini l’acqua sgorgava da un buco come una sorgente. La chiusura si doveva azionare mediante un pulsante. «Fantastico». Le finestre dell’appartamento, purtroppo, si aprivano tutte verso l’interno. «Ce la caveremo», disse mia madre. Ma i vasi dei fiori doveva spostarli ogni volta. Giusto dirimpetto il macellaio, nella vetrina un’aquila fatta di sego e rose di pancetta. A fianco, il droghiere. Tutto nelle vicinanze, ottimo. Dietro l’angolo «Mode Viennesi». All’incrocio stavano sistemando un nuovo segnale stradale, c’era scritto «stop». Un balcone spazioso con un tetto di vetro e sporgenze nel muro per sistemarci sassifraghe e cactus a barba d’ebreo. Ancora gli alberi erano spogli, ma la vista sarebbe stata bella, oltre i giardini in fiore fino alla torre verde di St. Jakobi. «Ragazzi, che bello», disse mia madre, «eh, che bello», e rinsaldava i gerani. Sulla sinistra, vicino a una casa a più piani dipinta di giallo, alla cui facciata posteriore, frastagliata, era appesa una quantità di balconi di ferro con cassette di margarina piene d’erba cipollina, si poteva addirittura indovinare il piccolo campanile della chiesa cattolica, con quel suo forte scampanio. Mio padre tornò dal lavoro per sera. Indossava calzoni alla zuava sale e pepe. Cantando, attaccò il cappello da pesca a uno dei ganci rossi del guardaroba. Come ogni estinto riposa quieto... Questa era la canzone della loggia, come la chiamava mia madre. «La compenserò in miglior vita», disse a Kröhl e gli diede la mano, «per il momento mille grazie». Osservò i lampadari: «Qua è di nuovo tutto sbagliato...». Poi si sedette al pianoforte a coda, si appoggiò all’indietro e suonò: al gran Pascià inni cantate... Plink-plink! – sì, andava. 14


Sopra lo strumento era appeso il quadro del porto dalla grossa cornice dorata, un regalo di nozze del console Discher. Si diceva non fosse stato a buon mercato. Mia sorella Ulla («Che belle trecce che hai, bambina mia»), sette anni più grande di me, ebbe la mansarda. «Badate!», gridava, e portava su dei vasi. Indossava un abito di lana color ruggine, con ghirlande di fiori ricamate per traverso. Io dividevo la camera con mio fratello Robert. Sei anni più grande di me. I capelli biondi molto ondulati, come le onde del Mar di Galilea, nella Bibbia illustrata, sulle quali cammina Gesù. Sosteneva che da me emanava «una puzza pestilenziale». Tirava su col naso continuamente, come se di tanto in tanto ricaricasse gli ingranaggi. Allora mia madre diceva: «Salute! Vuoi un tocco di pane?». Gli piaceva indossare cravatte. Le annodava con pazienza. Dopodiché si stiracchiava ancora un poco, quasi volesse dire: «Sono proprio un bel tomo». «Allora, volpone?», faceva, quando ci incontravamo nel corridoio. Mia madre discendeva, come lei asseriva, da un’antica famiglia ugonotta, i de Bonsac. Nobilitati nel XVI secolo. L’antenato, da coppiere, avrebbe saputo distinguere subito il vino buono da quello cattivo. Era pervenuto alla famiglia anche uno stemma, che adesso stava appeso a Wandsbek, dove era inciso Bonum bono, al buono il bene E sullo stemma, coppa e uva. Dandomi la buonanotte mi metteva la mano sulla fronte. («Non sembra una contessa?»). Poi pronunciava lunghe preghiere, durante le quali i suoi occhi a poco a poco si riempivano di lacrime. «Oh, buon Dio, guarda quanto siamo inermi davanti a te, sii misericordioso, aiutaci in tutte le necessità del corpo e della vita, che tutto il bene in noi venga fuori, e fa’ di noi i tuoi figli. Aiuta tutti gli uomini con la tua bontà onnipotente, che tutto dis-, dis-, dis- dispone e ordina...», e così via. Durava spesso parecchio, ed io, allungandomi e stirandomi, cercavo di far capire che poteva bastare. Allora cantava Sono stanca, vo a posar... Tutt’e quattro le strofe. Aveva una bella voce. 15


Alla fine si chinava verso di me, e io avevo il permesso di baciarla. «Ma non sulla bocca». Quando mio padre aveva finito di scorrere la «Abendpost» – «Tadellöser & Wolff!» – di solito suonava il pianoforte ancora a lungo. Con la porta aperta potevo sentirlo bene. Il «Mormorio di primavera» di Sinding o le Danze della lega di Davide. «Con brio un po’ spudorato». Nella porta della nostra camera erano inserite lastre di vetro rigate. Imboccato il corridoio di fronte vedevano subito se, nonostante il divieto, stessi ancora leggendo. («Kai fuori dal letto»). Tenevo il dito, con l’attenzione al massimo, sempre sull’interruttore. Mia madre non è mai riuscita a scoprirmi. «Sul tuo onore?». Però mio fratello Robert, che talora partecipava all’avvicinamento di soppiatto, era più furbo, lui toccava la lampadina. «Di’ un po’, non ti vergogni?». Lui stesso leggeva fino all’alba. Lok Myler: «L’uomo che cadde dal cielo». Al mattino si tirava su con difficoltà. («Levataque!»). E già che era di guardia alla finestra! Per mio padre, uno superstizioso, doveva fare da vedetta in cerca di ragazze giovani. «Dai papà, muoviti!». Quindi arrivava di corsa, incurvito, come se non si potesse raddrizzare, rasato a metà, trascinando le pantofole e con le braghe penzoloni. «Buono all’uovo», adesso nessuna vecchiaccia poteva più rovinargli la giornata. La colazione era sempre molto armoniosa. «Che dice la mia pelle?», domandava mio padre e allungava il collo. Ad Ypres s’era beccato il gas. «Meraviglioso», bisognava dire, «niente gonfiori o abrasioni», altrimenti tutta la giornata sarebbe andata in malora. All’ultimo arrivato si gridava: «Ah, s’alza il sole!». Poi doveva cercare a lungo i suoi panini – «fuoco! acqua!» – nascosti da qualche parte (il più delle volte sul grembo di mia madre). «Chi non viene all’ora giusta il suo pasto non si gusta». Di fianco al piatto di mio padre c’era il foglio del calendario. «Calendario storicogeografico di Meyer», con i giorni commemorativi nazionali. 1916 – Presa di Fort Douaumont. Per me, seduto alla fine del tavolo, aveva in serbo innocui scherzi. Che cosa significasse «Muccorretrovacche», «Sputa all’istante!». «La mucca corre dietro alle vacche», dovevo poi rispondere. 16


Dunque seguiva il «buono all’uovo». Mio padre comprò per sé una bici nuova. Quella vecchia, coi pedalini per chi sedeva dietro, era arrugginita. Inoltre un impermeabile con le falde che si potevano abbottonare fino a sopra. «Così sembro proprio un francesino», diceva. Mia madre fece rifoderare tutte le poltrone, i vecchi rivestimenti di velluto non li poteva più vedere. Per il balcone – «no, che vista!» – comprò sedie di canna. Da Tillich, le «Mode Viennesi», si fece confezionare un vestito, uno azzurro chiaro. La parte superiore era tagliata come una pellegrina, con tre bottoni sul petto. Di lì si diramavano pieghe piatte in tutte le direzioni. Io ebbi un cosiddetto abito amburghese, col sopra che si abbottonava ai pantaloni. I miei due fratelli ricevettero il permesso di entrare allo yacht club, ma i vestiti bianchi non furono accordati. Al circolo di canottaggio non c’erano voluti andare. Non erano mica schiavi di galea. Se Ulla avesse avuto una fisarmonica, sosteneva Robert, ci avrebbe sicuramente torturato con le canzonette. Sull’armonica a bocca suonava Della Saal sui chiari liti son castelli alteri e arditi. Lei istigava mio fratello alle malefatte. Quando la cosa veniva alla luce c’erano arresti in camera. Non era un vero ragazzo, sosteneva lei. I veri ragazzi tornavano a casa con ginocchia sbucciate e buchi nei pantaloni. Quelli scavalcavano tutti i recinti. «Mi riveleresti, per favore, quale recinto dovrei scavalcare?», domandava Robert. Dacché andavano a vela, mio padre era spesso costretto a rimanere sulla scala con l’orologio in mano. «Da dove state tornando?». Da adesso in poi si cambiava musica. In più Ulla ottenne un abbonamento per l’equitazione. Nel maneggio poteva trottare intorno all’arena a 5 marchi l’ora. In tuta, per sua disperazione. Però, si lagnava, Kati Rupp aveva una tenuta da cavallerizza. «E allora ti devi trovare un altro padre, che io le palanche non le trovo mica sugli alberi». La osservavamo dall’ombra della tribuna. Quando il cavallo scorreggiava, mio padre rideva. 17


In uno spettacolo era inginocchiata sopra la sella. Dopo disse che in quel giro s’era presa una fifa blu, aveva avuto le vertigini. Una volta le era arrivata una staffa contro la fronte. «Quanta segatura c’è là dentro?», chiese Robert quando comparve col bernoccolo. Ulla scattava foto ai cavalli con la sua Agfa-Box. Finivano nell’album. Sotto si scriveva «il buon compagno». Tutta la famiglia venne fotografata. Mamma nel completo con la pellegrina, Robert mentre va a vela ed io nell’abito amburghese. Papà addirittura come milite delle sa ai piedi di una betulla.

2 Sotto di noi, al primo piano, abitava Woldemann, un commerciante in legname benestante, corpulento. Portava i capelli neri – lucidi come scarpe laccate – pettinati con una forte riga in mezzo. Al mignolo un anello dalla pietra blu. «Allora, inglesino?» mi disse con voce grave, e prese una delle bottiglie di vino aperte che stavano dappertutto. Ne bevve senza bicchiere, a lunghi sorsi. Nella «camera dei signori» poltrone gigantesche con sopra cuciti dei cuscini, più comode che da noi, anche il tappeto più grande, e i quadri adatti. Accanto al tavolino da fumo un grammofono nero, simile a un comò. Sul davanti una specie di porta per far uscire la musica. Non è dolce, non è brava, non è buona, la signorina Gerda... ? Sul grammofono una bambola di cera nella celluloide. Indossava un abito di pizzo. «Filigrana», diceva mia madre. Al muro il dipinto a olio d’un pollaio: la cornice nera larga il doppio del quadretto rosa. Di mattina Woldemann sedeva in veste da camera al tavolino da caffè. Faceva ruotare il piatto girevole su cui stavano marmellata e miele. Mangiava l’uovo col cucchiaio d’argento. («Uovo e argento? Ma fa la muffa!»). Leccava le gocce dal bricco del latte schioccando le labbra. Ognun felice, ognun orgoglioso, se l’avesse, la signorina Gerda... 18


Il panino lo mangiava con forchetta e coltello. La moglie era giovane e intraprendente. «Woldi», gli diceva. Mentre il grammofono sonicchiava lei andava su e giù nell’appartamento, da una confezione di cioccolatini all’altra, si arrotolava i capelli e spolverava con un piumino le porcellane di Copenhagen. Mio padre urlava sempre così forte, ma a chi si riferiva con «moccolone»?

La loro figlia Ute aveva 9 anni, come me. Capelli a caschetto neri e occhi blu scuro. Tranne poche giornate di broncio rimanevamo insieme a lungo. Stavo per lo più sdraiato sul tappeto, e lei sedeva sulla mia pancia. Era bello caldo e confortevole. Io ritiravo persino le gambe, perché potesse appoggiarsi. Allora lei si dondolava un po’ e si metteva le dita nel naso. (La prima volta mi ero ribellato. La parte superiore del mio abito amburghese era saltata pure via dai pantaloni). In tal modo imparai a conoscere tutti i mobili dal di sotto: il tavolino con le gambe attaccate alla buona dal falegname, la poltrona con cinghie simili a quelle dei facchini, il cestino dei rifiuti che odorava sempre di marcio perché vi erano state gettate bucce di mela. Una volta avemmo un litigio: quale fosse più importante, il sesso maschile o quello femminile. Il padre viene superato dalla sovranità, diceva lei, enumerando con le dita; e il continente dalla terra. Ma la terra da Dio, risposi, e quello era maschile. Tutta la gente a un tratto si ferma, per guardar dietro alla bimba bella... Quando la mamma si faceva sentire nel corridoio ci allontanavamo di scatto. «... sennò v’arriva una sventola», diceva. Dietro l’edificio c’era una fabbrica d’acqua di seltz, apparteneva al nostro padrone di casa. Per i boschi o per le gole, Dr. Krause frizza-al-sole. Ci sedevamo nelle casse delle bottiglie ed entravamo col nastro trasportatore. Attraversava capannoni bui, oltrepassando insenature di bottiglie vuote. Trenino dell’orrore! Saltavamo giù in un locale piastrellato. Qui si imbottigliava la frizza-al-sole. Operai in camici di gomma erano vicini al nastro, e stavano a guardare come le 19


bottiglie marciavano a scatti in fila, e come dal macchinario venivano riempite, tappate, rovesciate, etichettate e fatte rotolare nelle casse. La leva che rovesciava le bottiglie era imbottita. Da sotto ne veniva incontro una seconda che le riceveva delicatamente. Di tanto in tanto una bottiglia si spaccava con uno scoppio sordo. Allora piovevano schegge. Le casse piene erano depositate in cantina. Qua era fresco. Ute sapeva dove stava la gassosa all’asperula. La bevevamo tutta d’un sorso – «a chi finisce prima» – e ruttavamo. In ufficio c’era odore di tabacco e menta. Qui la signorina Reber, abbronzata per lo sci, siglava documenti in un lampo. «Reber», diceva che il cognome lo si poteva leggere anche al contrario. Suo fratello, aviatore nella legione, si chiamava addirittura Otto! Mi regalò un canzoniere «Sulla resistenza e sulla natura dei ragazzi». Non volevo anch’io diventare un Pimpf 1 forzuto? Ute ricevette «Filatrice Lodegrazie, un nuovo libro di canzoni per ragazze». L’aurora si è levata la buia notte muore. A nuovi dì, fa’ cuore, chiama l’alba ora nata. «Voglio un litro d’acquavite», disse un ubriaco che stava giusto entrando. Al muro c’era appeso Clausewitz. Dovevamo evitare l’incontro con il dottor Krause. Lui attraversava il cortile in calzoni da cavallerizzo. Qui era rimasta una porta aperta, lì c’era della carta. Forse si potrebbero risparmiare chiodi nella fabbricazione delle cassette da bottiglia. Per dimostrare la bontà del suo pozzo fece riempire un secchio di zinco. «Chiara come cristallo». L’affiancò all’acqua di rubinetto di Rostock. Sbalorditivo! Una brodaglia marrone e argillosa. Diceva che nell’acqua di rubinetto galleggiavano veri e propri escrementi. Witschorek, il conducente della motrice, cercava sempre di scacciarci. Veniva dai Sudeti. Una volta cantai per scherzo «Quelli dell’Egerland stanno uniti...». L’uomo si mise quasi a piangere. Dal cocchiere Boldt eravamo sempre ben visti. Fischiettando allegro mescolava avena e paglia tritata, ci versava anche un po’ di gassosa alla mela. Guadagnava 36 marchi alla settimana. Mio padre mi dava per lui dei sigari fumati a metà. Il cavallo bianco «Max» era un «camerata di guerra». Il dottor Krause se l’era portato dalla Galizia. Sotto il cartellino «camerata di guerra» c’era una croce di ferro, 20


ma in cartone. Nella guerra mondiale anche alcune navi avevano ricevuto la croce di ferro, e i cani portaordini. Evitavamo Max perché mordeva. Invece la grossa cavalla Nora era inoffensiva. Norella, al pozzo avanti alle cancella, diceva il cocchiere Boldt. Lei tirava un po’ più forte di Max.

Verso sera, quando avevamo bevuto abbastanza, tornavamo in casa. Là giocavamo a nascondino al buio, e in breve eravamo di nuovo sdraiati sul tappeto. Le luci delle macchine che passavano si spostavano sul soffitto. La pancia singhiozzava. Non è dolce, non è brava, non è buona... Ute si dondolava un po’ avanti e indietro. All’ascolto, che non venissero i genitori. «... sennò v’arriva una sventola». Cercammo di stabilire se suo padre fosse «più alto» di mio padre, o il dottor Krause, chissà se era lui il più alto. «’turalmente», diceva lei invece di «naturalmente». A cena mia madre domandava: «Ma come ti sei conciato? Fritto e marinato...». E Robert, scuotendo la testa, diceva: «Quanto ti hanno potato male, albero...». Tra l’altro la Leberwurst era abbastanza buona.

3 Mio padre «amava la sua città natale», come veniva sempre ripetuto. Era membro dell’Associazione per le Antichità di Rostock e ne frequentava regolarmente le conferenze: «Gli esercizi spirituali della guardia cittadina» o «I soldati di Rostock nella Guerra dei Trent’anni». Nelle Fiandre se l’era cavata piuttosto bene col dialetto. La domenica, mentre mia madre irrorava l’arrosto, ci portava a fare un giro. La mano destra dietro alla schiena, tenendo con la sinistra il bastone da passeggio, avanti e indietro. Siccome conosceva molte persone, si levava di continuo il cappello. Con i commercianti parlava di parcelle, tonnellate e dividendi; alle signore diceva «mia carissima signora» e baciava loro la mano. Lui stesso era chiamato «signor 21


Kempowski» o «Körling». Nel frattempo sostavamo alla cunetta e scrutavamo le finestre sbarrate del carcere, nel caso riuscissimo a individuare una faccia pallida. «Signor Kempowski! Posso venire con lei?», gridava gesticolando, dall’altro lato della strada, un uomo col labbro leporino. Era il dottor Heuer. «Anche questa», disse mio padre. «Be’, come va?». Una volta gli rivolse la parola un marinaio ubriaco. In quell’occasione non si tolse il guanto. «Non si sa mai cos’hanno toccato persone del genere», disse. Da giovane fu costretto a riscattare un capitano in un bordello; gli avevano levato i calzoni perché non poteva pagare. Di Rostock la gente diceva che non era Lubecca o Amburgo, ma che era pur sempre meglio di Wismar o Stralsund. Una città che da secoli veniva deturpata da cattivi architetti. Era meraviglioso che dopotutto conservasse ancora una certa attrattiva. Lo Steintor, ad esempio, che puzzava di piscio d’uomo: quando il tram passava lì sotto, doveva abbassarsi il pantografo. «Come i soldati, un tempo, sbattevano giù i ponti levatoi!». O il Kröpeliner Tor, provvisto, da uno che goticheggiava, di torri e archi, e panche su cui i vecchi giocavano a Skat. «Lo sapevo che dovevo tirare l’asso», la pipa rimaneva appesa alla bocca sdentata solo grazie a un anello di gomma. A fianco, adagiato tra i cespugli dei giardini dei bastioni, come un Goethe sdraiato in Italia, ma più campagnolo. I campanili delle chiese erano o troppo grandi o troppo piccoli. La massiccia Marienkirche, un orrore architettonico con una gigantesca ala ovest, abbastanza grande da avere tre campanili, coperta in fretta con un casco simile a una testa di gallina, conformemente agli ordini. «Come una chioccia coi suoi pulcini». E St. Petri, una chiesa che era quasi tutta campanile. Oggi la gente non potrebbe più costruire cose simili, sostenevano. Correvano strane dicerie sulla composizione della malta. Alla posta mio padre svuotò la cassetta 210. Il 210 era stato il suo numero di reggimento. («Volete essere eroi?»). Scorreva le lettere di sfuggita, – «cavoli, quanta» – e se le ficcava in tasca. Le poste in stile gotico erano vicine al Rosengarten, quel che rimaneva dei giardini dei bastioni. Un tempo vi si arrivava da un sentiero laterale. Quando quello fu chiuso, la gente scavalcava le transenne per protesta. A fianco della posta si trovava il monumento ai caduti degli anni ’90. Lì ci mostrò i cognomi «Vespa» e «Siano» che, curiosamente, stavano proprio l’uno sotto l’altro. 22


«Urrà!», avevano urlato i negri senegalesi. E gli aviatori; quelli erano i più infami. Perché non si poteva sfuggire. Aveva mai ucciso dei nemici? Non che lui sapesse, aveva sempre mirato più o meno nella loro direzione. Erano stati solo dei puntini neri. Dal monumento ai caduti, giù verso il porto, oltre i bastioni, per vedere se fossero arrivate altre navi. Fare una breve visita agli amici, «Brennevin». Squadrare i nemici di sfuggita. Non era permesso dire «skipper», né «carcassa» o «rottame». Di fianco al Mönchentor, in stile classico – sopra l’arcata una testa di leone con le fauci aperte e sul tetto una specie di ciotola di bronzo – c’era il nostro ufficio. Su alcune cartoline se ne vedeva un pezzo. Un tempo era stata una taverna, la cantina per la birra, con la botola, c’era ancora. Mio padre andò nell’ufficio commerciale e si mise a telefonare. Parcelle, tonnellate e dividendi. Nel frattempo noi giravamo il copialettere. «Ti metterai a ridere», disse mio fratello, «questa cosa funziona ancora. Tienici un pollice sotto». Sulla scrivania del procuratore una lastra di pietra come fermacarte. Al muro: Hitler, Hindenburg e Bismarck l’uno sull’altro. Poi si risaliva la Mönchenstraße, in direzione del Neuer Markt. Pezzi di cannone agli angoli delle strade, in modo che gli edifici non venissero danneggiati dalle auto. «Qui un tempo aveva abitato Fritz Reuter». Case e capannoni incastrati le une negli altri. Recinti, pali per stendere i panni e comignoli di latta sugli uniformi tetti catramati. «Prima fabbrica di caramelle e zucchero a vapore sotto vuoto», screpolato e slavato, su un muro. Nelle finestre a pianterreno vasetti di cactus con piccole pagode e ponticelli. Taverne: se entri puoi guardar fuori. Di tanto in tanto un bel frontone a gradini, con finestre sottotetto e lucernari. Ma i fotografi avrebbero dovuto lavorare di fino, se volevano prenderli tutti nella lastra. Al Neuer Markt veniva mostrato il posto dove c’era stata una fontana, e sotto al municipio, ad un pilastro, un piccolo serpente, la cui provenienza e il cui scopo erano inspiegabili. Alle 12 c’era un concerto all’aperto. Si svolgeva presso il monumento a Friedrich Franz III, sotto la quercia del ’70-71. Padri con bimbi sulle spalle. 23


Il direttore della banda musicale zoppicava. Quando gli ascoltatori spingevano, li rimbrottava. Sinfonia della Gazza ladra. «Accidenti, mi dia un fa!». Io osservavo i tromboni a tiro, che venivano tirati continuamente in modo diverso da come si pensava fosse giusto. L’oboista, un caporale, aveva del cotone nelle orecchie. Al battere della bacchetta i soldati mettevano via i loro strumenti e tornavano in caserma col tram. Sulla via di casa cercavamo di individuare dei «tipi», per esempio Herbig, l’amante della natura, che si diceva trottasse ogni domenica verso Kösterbek con un violino nello zaino. «Anche lui è una creatura di Dio». O il professor Totenhals, che si tappava sempre le orecchie quando attraversava la strada. Una volta ci venne incontro un uomo, camminava molto incurvito. Chiedemmo perché mai camminasse così. «A quello i figli hanno dato molti grattacapi», disse mio padre. Nelle scale c’era già odore d’arrosto, e quando era aperto il portone si sentiva tintinnare l’argenteria. «Eccuoci qua!». «Era ora, mi stavo quasi rassegnando».

4 La domenica c’era budino a forma di grappolo d’uva. Mia sorella, ancora a 16 anni, pretendeva di avere gli acini e non le foglie: «Cacca calda!». Dopo mangiato si rendeva grazie, a questo ci pensava la mamma. Mio padre diceva: «Amin-amehn» e faceva pressione più volte sul tavolo, con forza. «Gesù, Karl...». «Che c’è?». Si alzava e correva piegato alla credenza. Lì c’era il barattolo, afferrava un pugno di biscotti e li infilava in bocca come talleri. Che non lo capiva, diceva mia madre, ma non aveva appena mangiato bene e in abbondanza? «Non parlare, donna!». I biscotti tappavano gli spiragli e le fessure finali dello stomaco, e se li conteggiava in bocca. 24


Ci demmo una mossa per andare al cinema. Stanlio e Ollio venditori di elettrodomestici. Mio fratello sempre un paio di passi avanti. Ulla mi prendeva per il collo e mi girava la testa verso destra o sinistra, a seconda del percorso da seguire. Era necessaria una certa fretta, perché prima bisognava riscuotere i soldi dal nonno. La casa del nonno era nei pressi della porta cittadina, tra le ville dei consoli Böttcher e Viehbrock decorate da mascheroni ilari e tristi. I fattorini si servano dell’entrata posteriore. Per la sua sedia a rotelle venne posto sulle scale un piano inclinato. La casa era molto spaziosa, due livelli, tutte stanze immense, un tempo vi si erano tenute feste. Nell’ingresso una vetrina di mogano con le ceramiche. Una tazza dorata da cui una volta avrebbe bevuto la regina Luisa. Ma anche il piccolo domatore di tori in porcellana di Copenhagen. Di fianco alla vetrina lo sgabello col catetere. Di tanto in tanto il direttore del museo veniva a chiedere dei piccoli acquerelli di Rostock. Il vecchio era seduto nel bovindo e leggeva. Sulla pancia una bottiglia di Steinhäger piena d’acqua calda. («Il buon vecchio»). Se fuori passavano conoscenti, li salutava amichevolmente e bofonchiava: «Anche tu sei un bello stronzo». Ci mettemmo davanti a lui. Come segnalibro fece uno strappo nella pagina: Gli ultimi giorni di Pompei. Quindi strimpellava al violino canzoni popolari e raccontava barzellette della Prussia Orientale, per cui la dentiera gli cascava. (Avevamo paura di non capirle e ridevamo troppo presto). Qualche anno prima andò a sbattere contro il bidone dei rifiuti, per questo adesso era paralizzato. Dopo si toglieva di bocca il tabacco biascicato e mio fratello, quella canaglia, doveva tendere la mano. «Nonno, ora dobbiamo andare». «Allora dammi il borsellino...». Le deboli dita aprivano il portamonete a fisarmonica e cercavano gli spiccioli. «Ti bastano?», e posava 5 pfennig sul bracciolo, come se non li avesse mai visti. «Noo, nonno». «Ti potesse venire un po’ di bene...», e posava ancora una moneta. A volte anche una scaglia di pesce, ficcata nel portafoglio a capodanno perché non restasse mai vuoto. Quando bastavano afferravamo i soldi e scappavamo via. Saltare giù per i gradini, sbattere le porte. «Scommettiamo che non ce la faremo?». 25


«Invece ti do la mia parola». Il vecchio colpiva la finestra con il bastone da passeggio e agitava il pugno. Ce la facevamo sempre. Pochi minuti prima delle 2 raggiungevamo il Ka-LiSonne, un cinema cui era annessa una sala da ballo. «Vietato ballare lo swing», stava scritto su un cartello. Ressa di bambini. Un gong suonò e il sipario si tinse di verde, rosso e arancione. Stan Laurel e Oliver Hardy, fra gli acuti fischi dei bambini, gettavano uova sulla testa di un droghiere. E quello, in cambio, prendeva i loro orologi da taschino e li ficcava nella centrifuga. Con Robert a fianco non si rimaneva mai in pace. Ti dava continuamente dei colpetti per chiedere se avessi visto quella scena. Poi si diceva che il film era stato epocale oppure «superbo». Una volta diedero il film «Aurora», con Adele Sandrock. Era stata una fregatura. Noi volevamo sempre ridere, ma quella volta non c’era niente da ridere. Dopo il cinema si andava al caffè letterario. Lì erano seduti gli amici dello yacht club. Ebrei indesiderati! Heini, maglione a collo alto, monete di rame sul cinturino dell’orologio, forte da morire; Michael, con i suoi atteggiamenti da aristocratico annoiato, del quale si diceva che il padre avesse un autentico Rembrandt, tutto nero, senza niente da vedere; e Bubi, un «vero ragazzo», come asseriva mia sorella. Presto si sarebbe dovuto andare di nuovo in barca. Mio fratello disse di aver fatto una scoperta orrenda e si palpò le tasche: nulla più da fumare! r 6, a doppia fermentazione, Domandai se non potessi avere la scatola vuota. Ero forse sopraffatto dalla pazzia? Dovevo chiudere il becco e svignarmela.

Nei giardini anteriori campanule appassite, bossi su sentieri che nessuno percorreva, ringhiere di ferro arrugginite, un cane che piscia.

È vietato appoggiare biciclette.

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Se in lontananza spuntava un ragazzo si cambiava percorso. Verso il terrapieno inferiore, su cui ancora non erano state collocate le panchine. Attraverso la Schröderstraße, lungo il muro diroccato di una fabbrica di conserve alimentari. Oltre la finestra della cantina del vasaio Wernike, dove c’erano i forni e un gufo verde di maiolica. Quello l’avrebbe un giorno comprato e scassato a terra, diceva mio fratello ogni volta che ci passava davanti. Per i boschi o per le gole, Dr. Krause frizza-al-sole. La fabbrica chiusa, il cancello assicurato con una catena. Nelle scale la luce a tempo: scattava. Ute era di nuovo dai suoi nonni. Estrassi con cautela la chiave del nostro appartamento dalla buca per il latte. Per aprire ci voleva tempo. Doveva avvenire senza rumore. Se cigolava appariva mia madre con l’impronta del cuscino sulla guancia: «Titolo: il silenzio pomeridiano!». E poi magari si svegliava anche papà: «Moccolone!». Nel guardaroba era appeso il suo cappello da pesca. A fianco c’era quello di mia madre, con l’uccello finto sopra, sembrava sempre dovesse cascarle a terra. Bastoni da passeggio nell’entrata: uno si apriva come un bizzarro ombrello e ci si sedeva sopra. Strisciai attraverso l’appartamento. Sulla pendola s’era ritrovata, durante il trasloco, una pantofola che anni prima fu cercata invano. Le pere incollate alla credenza, dentro c’erano cristalli e una coppa di Meißen. L’orlo del tappeto, che si poteva usare come strada per le macchinine Märklin. Se si era fortunati, il Graetz trasmetteva ancora delle favole. «Lascia, mio servo!». Il più delle volte, però: poemi sinfonici di Sibelius. Nella libreria a sinistra Lutero e la Storia del Rauhes Haus. In mezzo Wiechert, Hesse e Ruth Schaumann. Ma anche «I Buddenbrook» e «Professor Unrat» («crediatelo bene»). Proprio in fondo, libri d’arte con le intramontabili opere dei grandi maestri. Le avevo provviste di bigliettini per non incappare nelle immagini della crocifissione. Giuditta con la testa di Oloferne. Nella libreria a destra le storie di reggimento; Chamberlain, Stegemann e Lilly Braun. Lo scaffale con gli spartiti non c’era neanche bisogno di vederlo da vicino. A tal punto attraenti erano le copertine: flauti e violini inghirlandati di fiori, all’interno regnava la scrittura segreta dei pianisti, tenuta insieme da grandi legature. 27


Sulla scrivania una cartellina intarsiata con un calendario francese. Tutte le lettere franavano. E i depliant dei sigari della fabbrica Loeser & Wolff. Con l’aiuto di questi depliant mio padre sceglieva quali sigari ordinare solo per lui, ancora solo per lui e quali invece per i fornitori. Sotto, nella scrivania, una scatola piena di foto. Di mio nonno, grosse e scure: 1905, ai cari genitori per le nozze d’oro, ma anche sottili e più recenti, di carta artigianale, da un allegro picnic: bottiglie di vino su una coperta stesa. Si raccontava che il cane avesse pestato il burro. (Mia madre con pettinatura alla maschietto). «Ci vogliono andare con il cavallo, a Rostock?». Cartine delle Fiandre. Mio padre se le portava volentieri in bagno, per «chiarire la situazione», come diceva. Caggia, caggia, lieta saggia... «La mia prima pattuglia ce l’ho gia alle spalle», aveva scritto, «Ma poi la mia uniforme aveva un aspetto! Ho camminato in un fossato...». Non gli piaceva che qualcuno uscisse dal bagno proprio mentre lui arrivava. Perché la tavoletta era ancora calda.

Dopo il caffè di solito veniva Manfred, un compagno di scuola silenzioso. Uno con occhiali di nichel, che mangiava sempre panini al formaggio. «Che zazzera rossa, no?», diceva mio fratello. Doveva prima chiedere ai suoi genitori se poteva giocare con me, aveva detto quando l’avevo invitato la prima volta; non sapeva mica che gente eravamo. Aveva la pelle spessa e piena di lentiggini; poteva infilarci degli aghi senza sentire niente. Aveva ereditato statuine di stagno da uno zio: aztechi e spagnoli, con una verniciatura di prima qualità. Stavano dentro scatole di sigarette, una di fianco all’altra. Guerrieri giaguaro e guerrieri con lo spadone, fanteria all’assalto e in fuga, portatori dell’insegna del sole; caduti, morti. Mia madre, che teneva le statuine lontane da sé, sosteneva che gli Aztechi erano persone senza un vero mento, un popolo con quelle teste da uccello. Nella biblioteca pubblica Manfred aveva preso in prestito un libro: «La conquista del Messico». «Tienimi pulito», diceva il libro. Era illustrato. Divinità di pietra, ravvolte all’infinito su se stesse. Piramidi a gradoni, templi ri28


volti verso il sole. Cuori dipinti nelle fauci della divinità Quetzalcoatl. Sacerdoti incrostati di sangue con lame di ossidiana davanti a vittime che si inarcano. Huitzilopochtli, un nome difficile. Quando finalmente riuscii a pronunciarlo mi meravigliai del fatto che nessuno se ne meravigliasse. I criminali pericolosi venivano legati ad un’impalcatura di legno e gli si strappava la pelle del viso, per attirare gli uccelli predatori. Di mattina combatteva sempre con i suoi cuscini, diceva Manfred. Li prendeva a pugni e ci si metteva sopra a cavalcioni. Si lasciava sempre sconfiggere dal piumone. Quando non eravamo disturbati inscenavamo delle storie. Una si chiamava «Chi la fa l’aspetti». Lui era Cortés, sdraiato sul divano e mi tirava calci. Io dovevo liberarmi delle catene, buttarmi su di lui, gridare «libertà» e legarlo al modo degli Aztechi. («Ma stringi di più!»). E allora dovevo gridare con disprezzo: «Chi la fa l’aspetti!». La prima volta disse: «Chi la fa l’aspetti» – pensava di non poter sopportare questo disprezzo. Ma potevamo tranquillamente provare, era proprio curioso di vedere se l’avrebbe sopportato. «Chi – la – fa...»: ogni singola parola sembrava annientarlo. O Dio no, diceva, non lo sopportava, e roteava gli occhi, era proprio difficile da sopportare, questo disprezzo! Ma io dovevo lo stesso continuare a parlare lentamente. Era curioso di sapere se ce l’avrebbe fatta. Allora lo dovevo picchiare sulle cosce con un righello, leggermente, delicatamente finché non si arrossavano, sempre di più. Riusciva ancora a resistere? Sì, continua, continua. Infine voleva essere spinto sotto il letto. Gli dovevo lanciare dietro del pane che afferrava con i denti. Il pensiero che magari io me ne andassi lasciandolo lì era terrificante, diceva. Che io andassi fino alla porta. Chissà se l’avrebbe sopportato. Una volta lo spinsi nel ripostiglio e chiusi la porta. Presi il nerbo dal guardaroba e diedi più volte dei colpi brevi e forti. La paletta di metallo sferragliò e la scopa cadde a terra. Gridò che era orribile. Come m’era venuta quell’idea? La cosa, però, lo sorprese molto! 29


«Allora, Huitziloportlo?», disse mia sorella a cena. «Sei proprio bollente». Mio fratello le dava la sua parola che avevamo di nuovo fatto il diavolo a quattro. Io ero una piaga dell’umanità. Ma che gli Aztechi avessero avuto teste da uccello lo ascriveva al regno della fantasia. Cosa significasse Muccorretrovacche, volle sapere mio padre da me e: «Ulla, bambina mia, imita ancora la testa di bufalo del Meclemburgo». Comunque la Lebenswurst aveva un ottimo sapore.

5 Quando poi fummo alle scuole superiori, Manfred mi veniva a prendere ogni mattina. Il campanello suonava, al solito, nel momento in cui eravamo già tutti seduti intorno al tavolo della colazione. («Che dice la mia pelle?»). La grande ceramica di Bunzlau e la caffettiera variopinta comprata al mercatino di Pentecoste. Ognuno aveva le sue posate, le altre erano «velenose». «C’è Valte?», chiedeva Manfred da fuori. «Sicuramente», rispondeva la domestica e lo faceva entrare. Mentre imburravo i miei due panini – papà arraffava sempre i più croccanti – Manfred sedeva in una nicchia, parte della sala da pranzo da cui il costruttore Quade aveva ricavato la tromba delle scale; le gambe avviticchiate intorno alla sedia. Di fianco a lui i sei tavolini inseriti l’uno nell’altro, sopra la testa un quadro delle dune del Mar Baltico presso Graal. A Graal si erano conosciuti i miei genitori. («Mi voleva baciare di continuo, e io pensavo che sarei rimasta incinta. Che scemi»). Religione l’avevo fatta? Affida la tua via e ciò che opprime il cuore Alla fidata cura di Lui che il cielo muove. Ieri erano usciti i francobolli per la mostra di fiori e piante. Verde scuro e porpora. Io di certo non sarei più riuscito a trovarli. 30


Un blocco di München-Riem oggi valeva già 15 marchi e non avevo neanche quello. Com’è che si chiamava? volle sapere mio padre, il tuorlo dell’uovo gli colava sulle dita. «München-Riem? e che vorrebbe dire?». Mi piaceva mangiare uno spesso strato di burro e uno sottile di marmellata ai mirtilli. Era permesso inzuppare nel caffellatte. Dov’è che il suo vecchio aveva prestato servizio, si informò miò padre. Ma guarda, nell’artiglieria. (La Cavalleria sarebbe stata meglio, la Marina notevolmente peggio, visto che: «Quelli all’epoca ci hanno traditi»). Nell’artiglieria dovevano essere bravi a fare i calcoli. Ammirava da sempre quelle persone, mica potevano vedere dove sparavano. – Avevano anche elmetti diversi. A mia madre diceva qualcosa di St. Quentin. «St. Quentin», lo pronunciava come era scritto. Mia sorella mangiava cetriolini e ci beveva sopra acqua tiepida. Rimise la gomma nella custodia della penna stilografica e chiuse la cerniera. «Ora fammi il favore e lasciati sentire per bene», disse mia madre e le porse il quaderno in ottavo, quello blu, dove prima aveva scritto delle osservazioni divenute indispensabili. Io dovetti prendere le mie pillole di calcio e un cucchiaio d’olio di fegato di merluzzo. Mio padre era seduto di nuovo davanti al foglio del calendario. 1689, i francesi devastano Heidelberg. «Hm, hm». Il panino lo dovevo finire di mangiare, buttarlo era malacreanza. La gente povera pativa la fame e io buttavo la mia merenda, per Robert queste cose erano assolutamente inconciliabili. Sulla via per la scuola – «Casetta del sapone» – si passava vicino a una casa molto stretta. Sulla porta c’era scritto Anno 1903. Alla finestra stavano sempre due pechinesi, quando ci vedevano latravano come impazziti. Proprio a fianco la sinagoga bruciata, con una stella di Davide rotta al cancello di ghisa. «Ci vivono ancora ebrei veri», disse Manfred. Aveva controllato nell’indirizzario, «Abraham Glücksmann, custode della sinagoga». In Patriotischer Weg erano state ritrovate delle dita mozzate, opera di Israele. Quelli uccidevano i cristiani, li facevano a pezzi e se ne sbarazzavano. Per loro era una buona azione. In ogni sinagoga esisteva una cantina incrostata di sangue. Così sarebbero andati in cielo. 31


E al macello ebreo gli animali venivano prima dissanguati e poi torturati a morte, lentamente. All’altezza della scuola di recupero, il «Ginnasio Margarina»,2 ci sorpassava Robert. Perciò si spostava sull’altro lato della strada. Già da lontano lo si poteva sentire mentre dava la corda all’orologio. Portava una minuscola ventiquattrore, una borsa da barbiere, come la chiamava lui. Se ci si rideva sopra, diceva: «Il riso abbonda sulla bocca degli stolti». Toni Leo, fisioterapeuta. Vicino al Café Drude gettava la sigaretta dietro alla cassetta dei telefoni. Là era troppo vicino, poteva anche imbattersi in un insegnante.

Il nostro ginnasio ora si chiamava «Scuola dei sette tigli». «Che stupidità», diceva mio padre. Invece di prima, seconda, terza, si doveva dire uno, due, tre. Portare berretti da scolaro era proibito. Nell’atrio il gruppo del Laocoonte imbrattato d’inchiostro. Le giacche dimenticate venivano messe sulle spalle dei due figli. «Tira su quella carta». Al muro un rombo della gioventù hitleriana fatto di chiodini colorati. Adunata mercoledì ore 15, palazzetto dello sport. «Togli le mani dalle tasche, ragazzo». Durante l’esame d’ingresso alla scuola superiore avevo scritto «ha» senza la «h». Anche le bamboline di porcellana, di cui si parlava nel dettato del whw,3 non mi erano riuscite bene. Ma, ovviamente, venni ammesso. Ero pur sempre il figlio di «Körling». (85 dozzine di uova costano 51 marchi del Reich; quanto costano dunque 3 decine?). Che mestiere facevano i nostri padri. Direttore di banca, consigliere regionale, ingegnere capo dell’Aviazione. «Sensale marittimo e armatore», dissi io. «Una cosa sola non è sufficiente?», fu chiesto al di sopra degli occhiali. Caporeparto in un’impresa comunale, la cosa non era molto attraente. La scelta era fra due insegnanti: uno grassottello e pelato ed uno più alto e torvo con la testa da gufo. Il grassottello, così m’immaginavo, era molto simpatico. Speriamo di non finire col gufo! 32


Note al testo 1

Nella gioventù hitleriana venivano così chiamati i ragazzi fra i 10 e i 14 anni. Le scuole di recupero erano frequentate per lo più da bambini di famiglie povere, che mangiavano margarina al posto del burro. 3 Il Winterhilfswerk des Deutschen Volkes (Istituto di assistenza invernale per il popolo tedesco) venne fondato nel 1933 nell’ambito dell’Assistenza Sociale Nazionalsocialista. Le collette raccoglievano denaro, generi alimentari, carbone. 4 La paronomasia si basa su Bär («orso»), la successiva su Blut («sangue»). 5 Corona di spighe di grano e foglie che, secondo l’usanza, viene appesa in occasione dell’Erntedankfest, la festa di ringraziamento per il raccolto. 6 Epiteto con cui si indicavano i combattenti francesi nella prima guerra mondiale (propr. «peloso»). 7 Nella lingua del Terzo Reich la perifrasi definiva il periodo della Repubblica di Weimar (1919-1933). 8 Lo Julklapp è un regalo, chiuso in tanti involucri, consegnato con un lancio da una persona che rimane nascosta. Si riceve per la festa del solstizio d’inverno. 9 Gioco di parole modellato su Siebengestirn («Pleiadi»). Siebenkäs («Setteformaggi») è il protagonista di un romanzo di Jean Paul (1763-1825). 10 Nella gioventù hitleriana le ragazze fra i 10 e i 14 anni. 11 Pierd è basso tedesco per «cavallo»; Knüppel, anche in tedesco standard, «bastone». Bonaria canzonatura fra città vicine. 12 Ovvero «sacco di fagioli». 13 Il corrispettivo dello Jungmädel per i ragazzi 10 e 14 anni. 14 Der Blanke Hans («il fulgido grigio»), è una metafora del mare del Nord in tempesta. Detlev von Liliencron (1844-1909) scrisse una poesia dal titolo Truzt, Blanke Hans. 15 Gruppi giovanili, attivi fra il 1939 e il 1947, che opposero al nazismo forme di resistenza. 16 Reichsstelle für industrielle Fettversorgung: uno degli uffici che controllava la distribuzione di beni di prima necessità. La RIF imprimeva la sua sigla anche sul sapone. 17 Del Bund Deutscher Mädel facevano parte le ragazze tra i 14 e i 21 anni. 18 Viene tradotto liberamente Hängolin, il nome di un medicinale che, così si supponeva, era somministrato ai soldati per far calare la libido. 19 Gli uffici della Kinderlandverschickung mettevano al riparo madri e bambini dai bombardamenti. 20 Verein für Deutsche Kulturbeziehungen im Ausland (Società per le relazioni culturali tedesche all’estero), fondato nel 1881. 2



Walter Kempowski, nato a Rostock nel 1929, è fra i maggiori scrittori tedeschi contemporanei. Ha acquisito grande notorietà con il ciclo di romanzi fortemente autobiografico Die deutsche Chronik (La cronaca tedesca, 1971-1984) e grazie al progetto Das Echolot (L’ecoscandaglio, 19932005), gigantesca ricostruzione documentaria del secondo conflitto mondiale. Nella parabola letteraria e personale di Kempowski – che dal 1948 al 1956 ha scontato, nella DDR, una condanna per spionaggio – la comprensione del passato e le cause profonde del nazismo vengono elaborate con una estrema lucidità.


«Tadellöser & Wolff? Ma che cosa signica?». Be’, buono all’uovo, nient’altro. Si parlava così in città. «Bonomicoli», c’era anche questo modo di dire. Quando qualcosa piaceva si diceva semplicemente «Bonomicoli». Oppure «Cattivicoli», o «Malanova & Jenssen». Era così in città. A Berlino avevano modi di dire del tutto diversi. Non ci si arrivava tanto facilmente.

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