Ragione e non ragione

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STUDI MERIDIONALI saggi e classici

Ivan Scarcelli

Ragione e non-ragione. La maturitĂ politica di Giuseppe Rensi


volume stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Baridipartimento per lo studio delle società mediterranee

Associazione culturale Liberaria Editrice, 2010. via S.Tommaso D’Aquino 8/c 70124 Bari. tel.3456407523 www.liberariaeditrice.it www.liberaria.puglia.it


Abbreviazioni Gli scritti di Giuseppe Rensi maggiormente citati nel testo saranno indicati con le seguenti sigle:  AEL

= Autorità e libertà (1926), ed. a cura di A. Montano, Bibliopolis, Napoli 2003.  CDF = Le colpe della filosofia (1924), in appendice ad AEL [v. sopra].  FAS = La filosofia dell’assurdo (1937), ed. a cura di R. Chiarenza, Adelphi, Milano 1991.  FAUT = La filosofia dell’autorità (1920), De Martinis & C., Catania 1993.  ILA = L’irrazionale, il lavoro, l’amore, Unitas, Milano 1923.  IRR = L’irrazionalismo, saggio facente parte di ILA [v. sopra].  LAV = Il lavoro, saggio facente parte di ILA [v. sopra].  LFS = Lineamenti di filosofia scettica, I ediz., Zanichelli, Bologna 1919.  PPIM = Princìpi di politica impopolare (1920), Volpe, Roma 1974.  Pr/DD = Prefazione alla terza ed. (1926) de La democrazia diretta, in appendice alla riediz. a cura di N. Emery, Adelphi, Milano 1995.  SP/1 = Spinoza (1929), ed. a cura di A. Montano, Guerini e Associati, Milano 1993.  SP/2 = Spinoza, ed. ampliata (postuma), Fratelli Bocca, Milano 1942.  TPRP = Teoria e pratica della reazione politica (1922), Volpe, Roma 1974.


Introduzione Giuseppe Rensi è una “cartina di tornasole” del pensiero politico italiano1, o meglio del rapporto fra filosofia, ideologia e politica in Italia. Press’a poco si esprime allo stesso modo Aniello Montano, nel denso saggio che precede l’edizione di Autorità e libertà da lui curata, in un passo che vale la pena riportare per intero: «[...] Rensi è uno scrittore sincero, reattivo, tanto da apparire talora anche ingenuo e contraddittorio. Questa sua reattività può essere usata da chi si avvicina a lui con scarsa simpatia per accusarlo di mancanza di rigore teorico e di condotta poco coerente. Se si vuole evitare di liquidarlo come scrittore rapsodico e bizzarro e se, di contro, non lo si vuol leggere in modo unilaterale, sfrondandolo di quanto non rientra nella linea di lettura prescelta, bisogna collocare ogni sua affermazione di un qualche peso teorico nel contesto che l’ha alimentata o l’ha strappata come reazione. In tal modo ogni suo scritto può essere utilizzato come indicatore, come cartina di tornasole, di un clima politico e sociale»2. Per questo motivo – e dunque per la loro impareggiabile capacità di svelare certi aspetti del “retrobottega” dell’ideologia politica del suo tempo, mentre è all’opera, e da lì risalire alle «menzogne convenzionali» del “Politico” reale3, delle quali l’“ideale politico” si vorrebbe eppur non si può disfare – i suoi testi, se per alcuni versi rispecchiano limiti e pregiudizi della loro epoca (ma questa osservazione si può fare intorno a quasi ogni pensatore), per altri posseggono una straordinaria carica di attualità, specialmente per i dilemmi etico-politici che pongono e per le contraddizioni che additano (irrisolti ancora gli uni come le altre); non è del resto un caso che, soprattutto nell’ultimo quindicennio, si assiste a una forte ripresa degli studi sulla sua figura di pensatore4, La collocazione di Rensi nel panorama del pensiero politico italiano è stata egregiamente affrontata finora quasi soltanto in relazione al primo periodo della sua attività, ovvero quello dell’impegno socialista. Si vedano, a tal proposito, gli eccellenti saggi: P. Serra, Il pensiero politico di Giuseppe Rensi tra dissoluzione del socialismo e formazione dell’alternativa nazionalista (1895-1906), F. Angeli, Milano 2000; Id., Giuseppe Rensi. La rivolta contro il reale. Introduzione agli scritti politici giovanili con una antologia di testi (1895-1906), Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006; A. Castelli, Un modello di Repubblica. Giuseppe Rensi, la politica e la Svizzera, B. Mondadori, Milano 2004. 2 A. Montano, Introduzione ad AEL, pp. 42-43. 3 Una delle fonti più citate da Rensi nelle note del suo primo importante saggio, Gli Anciens Régimes e la democrazia diretta (1902), è un volume di Max Nordau, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà (1883), che all’epoca ebbe un discreto successo, e un cui capitolo s’intitola “La menzogna politica”: cfr. M. Nordau, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà, F.lli Bocca, Milano 194610: in partic. si vedano le pp. 161-181, sulla critica al parlamentarismo. 4 Si può parlare dunque, come tra gli altri fa Pasquale Serra, di una vera e propria “Rensi-renaissance”: a suo giudizio, l’inizio di quest’ultima si può far risalire a un fondamentale saggio di Antonio Santucci, che in effetti ricostruiva con brillante concisione i tratti salienti della filosofia rensiana (cfr. P. Serra, Giuseppe Rensi. La rivolta contro il reale, cit., pp. 21-23; il saggio cui si fa riferimento è: A. Santucci, Un “irregolare”: Giuseppe Rensi, pubbl. prima in «Rivista di Filosofia», 1984, poi in Aa. Vv., Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, a cura di O. Pompeo Faracovi, Belforte, Livorno 1985, pp. 201-239). Ma aggiungerei che l’impulso decisivo a questa ripresa è stato dato – anche a livello editoriale – da Sciascia, che fu promotore, presso la casa editrice Adelphi, della riedizione delle Lettere spirituali di Rensi, cadute nell’oblio dopo l’edizione del 1943, e invece poi 1

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dopo lunghi anni di oblio intervallati da pochi e volenterosi saggi che di tanto in tanto riaccendevano l’attenzione sulla sua filosofia. In qualche misura si deve concordare con lui, quando provocatoriamente afferma, in un momento nel quale è già in disgrazia presso il regime fascista e, da molto più tempo, ai ferri corti con l’establishment intellettual-filosofico italiano (segnatamente Croce e Gentile5): «Sono la coscienza (forse la cattiva coscienza? la coscienza del male segreto? e perciò rinnegata) della mia epoca; quello che la mia epoca è e non vuole essere; l’espressione delle sue contraddizioni mortali, dell’antitesi dei suoi elementi diventata a poco a poco inconciliabile, dei suoi inestricabili conflitti la cui insolubilità è venuta ora a piena maturazione»6. E perché questa “cattiva coscienza”, questa coscienza eternamente inquieta, arriva ad attraversare, e persino ad equiparare, socialismo e fascismo? Per amore di paradosso, per gusto della boutade? Forse anche per questo, ma senz’altro non solo per questo. Se si fa attenzione, il paragone fra socialismo e fascismo, in un articolo dei primi anni Venti del Novecento, viene compiuto da Rensi non sotto il profilo ideologico e filosofico (il che avrebbe reso la sua tesi surreale), ma sotto il profilo esistenziale7. Un giovane intellettuale borghese, egli afferma, poteva aderire, in una certa fase storica, accolte con interesse dal pubblico nel 1987. 5 Il giudizio di Croce sull’autore della Filosofia dell’assurdo fu costantemente sprezzante e talora al limite della parodia denigratoria (cfr. sul punto A. Montano, op. cit., pp. 13-15); altalenante si può invece definire l’atteggiamento di Gentile. È nota fra gli studiosi l’irridente stroncatura gentiliana della filosofia di Rensi: cfr. G. Gentile, Il Congresso filosofico di Milano, pubbl. ne «Il Popolo d’Italia» del 14/4/1926, poi in Id., Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928, p. 109. Il rapporto fra Rensi e Gentile è però più complesso di quanto non appaia da quel giudizio negativo, come si può constatare nella ricostruzione fattane da N. Emery, Introduzione a Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, SEAM, Milano 2001, pp. 67-75. Come viene specificato in queste documentate pagine, infatti, Gentile chiese a Rensi – col quale intratteneva già da tempo un cordiale rapporto epistolare – di pubblicare su «Coenobium» la sua prolusione Il concetto della storia della filosofia, anche se poi il filosofo siciliano ne inviò solo una parte alla rivista rensiana (che la pubblicò nel febbraio 1907, col titolo Scienza antica e scienza moderna), per non dispiacere Croce (cfr. N. Emery, op. cit., pp. 71-73). Importante, per completare il quadro del rapporto critico tra i due filosofi, anche il giudizio di Emery, secondo il quale Rensi «non fu soltanto uno dei primi editori di Gentile: fu soprattutto, nonostante la sua assenza dall’importante libro di Ugo Spirito, uno dei suoi primi interpreti e critici, e forse da intendere come tale non solo in un senso cronologico» (Ivi, p. 75). A ciò si aggiunga che Gentile non solo invitò nel ’25 Rensi a collaborare all’Enciclopedia italiana (un anno prima della stroncatura), ma «intervenne personalmente nel 1927, senza successo [...], per impedire il primo allontanamento di Rensi stesso dall’insegnamento» (cfr. Ivi, pp. 55-56). 6 ILA (prefazione), p. XXVII. 7 G. Rensi, Fascismo e socialismo, pubbl. ne «L’Azione» del 1°/7/1921, poi in TPRP. Secondo Rensi, la giovane borghesia intellettuale, nell’Italia umbertina, aderiva al socialismo per marcare il suo distacco dalla «borghesia minuta», dagli «homines novi» e dai «faccendieri» che si stavano allora appropriando del potere: «Non già [...] l’adesione al socialismo significava collettivizzare (per dir così) il proprio spirito, coordinarlo alla massa, renderlo “massa”, attingere dalla massa i contenuti e gli atteggiamenti fondamentali di esso. Ma tutto il contrario. [...] Il socialismo era allora la vera aristocrazia dello spirito» (TPRP, pp. 92-93). III


al socialismo per le stesse ragioni esistenziali e sociali per le quali, in un’altra fase, decideva di aderire invece al fascismo: ovvero per sentirsi parte dell’aristocrazia del Paese, per incarnare il movimento che combatteva l’immobilismo della massa. Quando la massa era ancora da conquistare, il socialismo era l’ideologia dell’intellettuale dinamico che si candidava a incarnare il governo della ragione; una volta che la massa si era trasferita però nelle fila del socialismo, inquinandone la “purezza aristocratica”, e rendendo quindi l’adesione alla sua ideologia una scelta banale e scontata (un puro atto di conformismo, insomma), era diventato necessario cercare una nuova sponda per la “minoranza colta” che desiderava distanziarsi dalla massa conformista per potere, attraverso una ritrovata estraneità e alterità, riproporsi come élite “naturale” e morale del Paese. Non c’è forse “autobiografia politica” della borghesia intellettuale italiana più sincera di questa (sincera fino alla sfrontatezza), in tutta la letteratura politica dell’ultimo secolo8. E soprattutto è anche di impressionante attualità. In ogni caso, Rensi si allontanerà, coerentemente con la sua impostazione filosoficopolitica, anche dal fascismo, proprio quando questo diverrà, grazie al suo crescente potere, polo di attrazione dell’adesione conformistica di massa. Finalmente però, grazie alle disillusioni prodotte in lui dal fascismo, Rensi rifletterà più profondamente sulla divergenza insanabile tra ragione e potere, tra verità e pura forza. Si deve comunque osservare che sul rapporto tra Rensi e il fascismo vi sono opinioni molto contrastanti fra gli studiosi. Da un lato, De Mas ritiene ingiusta e ingenerosa la frettolosa classificazione del filosofo nel novero degli “autori di regime” (della quale si rese responsabile in primis, anche per la sua autorevolezza di studioso, Garin9), facendo opportunamente notare che «Dopo il 1925 le posizioni politiche di Rensi sono consolidate e fatte stabili nella strenua difesa della libertà di pensiero contro l’oppressione fascista»10 e che la sua fase anti-democratica, interpretata sbrigativamente nella sua complessa articolazione come mera adesione al regime, «continuò a pesare sull’autore come un marchio, nonostante l’interpretazione autentica ch’egli ne aveva data fosse in senso nettamente antifascista e contro le molte testimonianze da lui offerte non solo con gli scritti ma con l’azione diretta e le persecuzioni subìte fino alla morte»11. Dall’altro, invece, Dino Cofrancesco sostiene: «[...] va detto, senza mezzi termini, che Rensi fu fascista e lo fu, in un certo senso ancor prima del “duce” [...]»12, anche Significativo il giudizio espresso da Enrico De Mas: «Il destino di Giuseppe Rensi s’inquadra perfettamente nelle oscillazioni e nei vacillamenti di cui è piena la vita politica italiana del nostro secolo; e così le aporie del filosofo s’identificano in buona parte con la aporie della classe dirigente» (E. De Mas, “Rensi e il fascismo”, cap. II di Id., Giuseppe Rensi tra democrazia e antidemocrazia, Bulzoni, Roma 1978, p. 47: corsivo mio). 9 Si veda E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Laterza, Bari 1966, vol. II, pp. 394 e 399: pagine peraltro molto note agli studiosi dell’opera rensiana. 10 E. De Mas, op. cit., p. 41. 11 Ivi, p. 47: corsivo nell’originale. 12 D. Cofrancesco, Rensi dinanzi al fascismo, in Aa.Vv., L’inquieto esistere. Atti del Convegno su Giuseppe Rensi nel cinquantenario della morte (1941-1991), a cura di R. Chiarenza, N. Emery, M. Novaro e S. Verdino, Ed. EffeEmmeEnne, Genova 1993, p. 97: corsivo nell’originale. 8

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se poi lo studioso aggiunge che Rensi fu «un fascista atipico»13 soprattutto a causa del suo individualismo, di matrice liberale, e dell’assenza, nella sua dottrina politica, di riferimenti alla “nazionalizzazione delle masse” cara al fascismo. Rendendo testimonianza, in fondo, della complessità del pensiero di Rensi (nonché del tortuoso rapporto fra intellettuali italiani – Rensi incluso sì, ma in numerosa e talora “insospettata” compagnia – e politica), Cofrancesco puntualizza poi che a suo giudizio il filosofo fu anomalo anche nel suo peculiare “antifascismo”, tanto da poterlo definire «antifascista nel fascismo e (un po’) fascista nell’antifascismo»14, dato che, pur avendo riscoperto, sotto i colpi del manganello fascista, il valore della libertà e dello Stato di diritto, pensò di contrapporre idealmente alla tirannide contemporanea lo Stato organico, sul modello del Rechsstaat dell’età guglielmina15. Altrettanto articolata, ma di segno diverso (se non opposto) l’interpretazione di Cacciari, secondo il quale Rensi critica il fascismo perché non rappresenta l’autentica decisione che fonda una nuova auctoritas, ma diventa invece elemento protagonista della “rivoluzione permanente” che scuote l’Europa portando alla dissoluzione di ogni (possibilità di) auctoritas16. La “decisione” fascista è insomma tutta interna al processo di crisi della politica contemporanea, che sposta la grande politica (come, ricorda Cacciari, profetizzava Donoso Cortés) sull’asse Stati Uniti – Russia17. Secondo Cacciari, l’interpretazione rensiana del fascismo è in definitiva più efficace di quella crociana, da un lato perché, in accordo con gli studi più recenti, mette bene in luce il carattere «occasionalistico-decisionistico, e dunque relativistico» del fascismo medesimo, e dall’altro perché evidenzia «il carattere problematico, contraddittorio dell’Auctoritas del regime», che dimostra come il fascismo rappresenti, malgrado le sue declamazioni e apparenti intenzioni, la continuità della crisi dello Stato moderno, l’acutizzarsi del suo “male cronico”, e non invece una “parentesi” o un corpo estraneo, come al contrario sosteneva Croce18. Va ricordata anche l’opinione di Marcello Veneziani (perfettamente concorde con quella del “primo” Garin19), secondo il quale Rensi, nel periodo tra il ’19 e l’adesione di Ivi, p. 98: corsivo nell’originale. Ivi, p. 101: corsivo nell’originale. 15 Ibidem. Uno dei limiti maggiori della filosofia politica di Rensi risiede forse proprio nella sua propensione alla ricerca di soluzioni “classiche” a problemi inediti e moderni (come la società di massa, il parlamentarismo o il suffragio universale), il che derivava – per lui come per gran parte della cultura italiana dell’epoca, in realtà – dalla sua formazione culturale, ancora permeata dal mito del “primato civile” dell’Italia e della tradizione classica. Forse quindi, a proposito dell’ultimo ideale politico rensiano, più che di Stato “guglielmino” si può parlare di “repubblica dei sapienti”, certamente non parlamentare, ma neppure monopartitica, totalitaria o comunque autoritaria in senso “moderno”. 16 M. Cacciari, Il disincanto di Giuseppe Rensi, in Aa. Vv., L’inquieto esistere, cit., pp. 21-22. Peraltro questo saggio, pur nella sua brevità, è uno dei migliori di cui si disponga attualmente per inquadrare le complesse e apparentemente divergenti linee del pensiero di Rensi. 17 Ivi, p. 22. 18 Ibidem. 19 Sui ripensamenti e “ravvedimenti” di Garin in merito alla filosofia di Rensi, si veda P. Serra, Giuseppe Rensi. La rivolta contro il reale, cit., pp. 22-23 (in nota). Rensi, più “mussoliniano” (per antica amicizia personale con l’ex rivoluzionario socialista) che fascista, viene indicato da Garin come 13 14

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Gentile al regime, «è stato probabilmente il teorico del fascismo», poiché «precedette quasi sempre le evoluzioni di Mussolini e ne offrì una parallela sponda teorica»20. E se a Veneziani, dati questi precedenti, appare «curioso» che Rensi, da un certo momento in poi (già dal ’21, in verità, poi con sempre maggiore forza), inviti il fascismo a rispettare la legalità, facendosi “socratico”21, Montano gli obietta che tale esortazione del filosofo può sembrare strana «soltanto se già si ha in mente il pregiudizio critico secondo il quale la vicinanza di Rensi al fascismo nella critica e nella ferma opposizione al “sovversivismo” del socialismo diventato leninista, nella rivendicazione della “filosofia dell’autorità” contro il razionalismo politico dell’idealismo, debba essere interpretata come assoluta identità di vedute, trascurando così le diverse impostazioni e le differenti prospettive delle due posizioni»22. Del resto, è fuor di discussione che «Quando il fascismo, giunto al potere anche sulla spinta di alcune delle idee del filosofo veronese, preciserà i tratti del suo programma politico e culturale, il “sincero e onesto” Rensi, riottoso ad ogni autorità esigente una supina acquiescenza, lo accuserà di degradare l’idea di un’istituzione stabile e di distruggere le garanzie costituzionali, tipiche degli Stati liberali, e invocherà il suo scetticismo come modello teorico capace di ispirare forme di governo animate dal principio della tolleranza e più attente all’equilibrio tra le parti sociali»23. Questa varietà di interpretazioni (con la sua impossibilità di stabilire una definizione soddisfacente una volta per tutte e specialmente per tutti) dimostra in sostanza che l’«anima multipla» vagheggiata da Rensi negli anni giovanili è stata anche, nel suo vissuto, una caratteristica del suo modo d’intendere il rapporto tra il pensiero e la realtà e ha fatto sì che non gli fosse possibile aderire realmente a un’ideologia, per la natura “ferocemente” unilaterale e semplificatrice che in genere hanno le ideologie politiche, le quali si pongono il compito di ridurre a decaloghi (o a “ordini del giorno”, o addirittura a slogan) le più complesse teorie e di renderle impermeabili alle obiezioni della ragione, anche a costo di numerose e “strategiche” omissioni e falsificazioni. Ma in un mondo che è innanzitutto retto e modificato quotidianamente dal misurarsi delle idee con la prassi della politica, un atteggiamento apparentemente “rinunciatario” e asceticoaristocratico come quello rensiano rischia continuamente di generare ambiguità. Rensi avvertiva in effetti questo dilemma, e il tentativo di superarlo, pur senza dover tradire l’ispiratore di alcune formule politiche e ideologiche del primo fascismo, in quanto in un primo momento il suo ascendente su Mussolini sarebbe stato molto forte (cfr. E. Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, in Aa. Vv., Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, a cura di O. Pompeo Faracovi, cit.). Un’analisi attenta dei rapporti fra la filosofia di Rensi e la prima ideologia fascista è peraltro già presente in C. Barbagallo, Un filosofo politico dei nostri tempi: Giuseppe Rensi, in Id., Passato e presente, Unitas, Milano 1924. 20 M. Veneziani, Rensi, l’inattualismo e il fascismo, in Aa.Vv., L’inquieto esistere, cit., p. 102. 21 Ivi, p. 103. La nota e variamente citata affermazione di Rensi, secondo la quale al fascismo mancava «lo spirito socratico del Critone», è nell’articolo Il Critone (Critiche al fascismo), pubbl. ne «La Sera» del 23/11/1921 e del 5/1/1922, poi in TPRP. 22 A. Montano, op. cit., p. 46 (in nota). 23 Ivi, pp. 48-49. A definire «sincero e onesto» Rensi è (inaspettatamente) Eugenio Garin, come ricorda Montano: cfr. E. Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, cit., p. 30. VI


le proprie convinzioni, ha costituito l’assillo degli ultimi anni della sua riflessione. Nel suo progressismo, nella sua difesa della libertà, permane dunque il nòcciolo dell’aristocraticismo24: un aristocraticismo pessimistico, che non flirta con il potere o col “governo forte” di turno e che, pur ritenendo la ragione e la verità una conquista riservata a pochi, e pensando quindi che l’élite colta abbia il dovere di custodirle, le sottrae decisamente all’abbraccio mortale del Leviatano. Ed è proprio quest’ultimo – il Leviatano – il volto stesso della realtà, che sconfigge ed esilia la ragione. La verità, conclude Rensi nell’ultima fase della sua riflessione, è con gli sconfitti dalla realtà-Leviatano; e, viceversa, la sconfitta, sul terreno politico (ossia del reale), è segno di prossimità alla ragione e al vero. Con queste riflessioni, il filosofo ribalta totalmente le ideologie del dominio, del successo pratico e della forza, riconciliandosi in definitiva (da ateo) col primitivo messaggio cristiano. Tutto però in lui si gioca sul terreno della presenza e dell’immanenza: un’immanenza che è inquietudine e insoddisfazione di sé, che cerca di conoscere ed eludere il proprio limite per non consegnarsi interamente al Leviatano-realtà. Cfr. N. Emery, Lo sguardo di Sisifo. Giuseppe Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi, Marzorati, Settimo Milanese (MI) 1997, in particolare il cap. III, intitolato: “La democrazia e la sua palinodia. L’aristocraticismo e lo sguardo di Sisifo”. 24

VII


Ivan Scarcelli Ragione e non-ragione. La maturità politica di Giuseppe Rensi Indice Introduzione

p. II

Cap. 1: La filosofia come riscatto delle ragioni sconfitte 1. Pluriverso e scetticismo 2. La storia fuori della ragione

p. 1 p. 1 p. 9

Cap. 2: La contraddizione sociale del lavoro

p. 17

Cap. 3: L’autorità e la libertà, princìpi da attenuare 1. La prima filosofia dell’autorità: un equivoco? 2. Prima rettifica alla filosofia dell’autorità 3. Autorità senza autoritarismo e libertà come tirannide 4. La politica come luogo dell’equilibrio necessario: il modello di Spinoza 5. La pluralità irriducibile, dilemma del “Politico”

p. 35 p. 43 p. 47 p. 53 p. 77 p. 90

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