DANTE EBOOK

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I. S. A.NIFO DS Prof. Giovanni Battista Abbate

A cura di G. Perrotta -E. Sasso M.F. Di Palo

LICEO SCIENTIFICO "E.MAJORANA"


Quel Medioevo tanto calunniato e complesso che ci ha dato l’architettura gotica, le saghe islandesi e la filosofia scolastica, nella quale si discute di tutto. Quel Medioevo che ci ha dato, soprattutto, la Commedia che continuiamo a leggere e che continua a sorprenderci, che durerà oltre la nostra vita, ben oltre le nostre veglie e sarà resa più ricca da ogni generazione di lettori.

“Dante non può essere ripetuto… Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, ad una società soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli ad un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale. E. Montale, Atti del Congresso internazionale di Studi danteschi-2027 aprile 1965, Firenze, Sansoni 1966

J. L. Borges



GERIONE canto XVII Autore : Fabio Sullo IV D

"Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!"...

Inferno - canto XVII


...e ‘l dolce duca incominciava «Mantua...», e l’ombra, tutta in sé romita, surse ver’ lui del loco ove pria stava, dicendo: «O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Purgatorio canto VI


In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l’altra, che volando vede e canta la gloria di colui che la ‘nnamora e la bontà che la fece cotanta, sì come schiera d’ape, che s’infiora una fiata e una si ritorna là dove suo laboro s’insapora, nel gran fior discendeva che s’addorna di tante foglie, e quindi risaliva là dove ‘l suo amor sempre soggiorna.

Paradiso canto XXXI


Dante che non ti aspetti...

S.Dalì Dubbio di Dante Paradiso: canto VII v.10-51


Dante nelle arti figurative Il nome di Dante Alighieri evoca in tutto il mondo quel percorso interiore di ascesa al Paradiso di cui egli stesso è protagonista e che percorre “nel mezzo del cammin di nostra vita” (all’età di 35 anni), durante la settimana santa dell’anno1300.Noi posteri possiamo intraprendere insieme un viaggio temporale e spaziale, seppur limitato, nelle grafiche dantesche attraverso le visioni di vari artisti.

Baskin

Dell’Alighieri tutti abbiamo presente il proverbiale naso adunco, il mento puntuto e il vestito rosso e la corona d’ alloro di cui è cinto il capo, ma forse non lo riconosceremmo nell’acquerello d’apertura al II volume di The Divine Comedy, dell’artista Leonard Baskin, opera edita nel 1969 da Grossman Publishers di New York e tradotta da Thomas G. Bergin . L’ illustratore americano (anche scultore, incisore, scrittore e insegnante), rimase sempre legato all’arte figurativa – nonostante il periodo fosse dettato dall’astrazione – e alla mortalità umana. Il suo Dante non ha nulla di aulico e pare abbozzato e, da ebreo, ha probabilmente traslato il proprio “ritorno a Gerusalemme” nel pellegrinaggio allegorico sognato dal Sommo Vate. Baskin creò 120 dipinti per l’edizione newyorkese.


Anichini Ezio Anichini, fiorentino, illustratore del primo Novecento per diverse riviste, ce lo propone in maniera classica coi piedi ancora piantati nei cerchi infernali, con alle spalle la montagna del Purgatorio e i cieli del Paradiso. Il rosso è per l’Inferno e per i vestiti di Dante, l’azzurro per i Regni superiori, i tratti del viso, il libro tenuto in mano e la corona d’alloro. Il sommo poeta si spoglia dell’Inferno per ascendere e lasciare traccia di sé attraverso l’Arte.

Ezio Anichini Inferno dantesco


M. Bruttomesso

Dante di Michele Bruttomesso per Danteplus

Michele Bruttomesso, giovane illustratore, fumettista e creatore di gif, partecipa, nel 2018, alla mostra collettiva del progetto Danteplus con un poster, Selva Oscura: Dante è all’inizio della discesa, nella selva oscura del suo sé.

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Dante testimonial per l’Olivetti

La prima pubblicità della macchina da scrivere Olivetti fu opera del pittore Teodoro Wolf Ferrari. Camillo Olivetti, fondatore della società nel 1908, lanciò nel 1911 la prima macchina per scrivere italiana, la M1, che però venne accolta freddamente, perché i prodotti esteri già erano presenti e affermati sul mercato. Allora decise di far conoscere la sua macchina da scrivere attraverso un primo manifesto pubblicitario, e chi meglio di Dante poteva far da “testimonial”? Ferrari disegnò il poeta che indicava la M1 quasi a comandarne l’acquisto, e la sua italianità e autorevolezza si trasferivano al nuovo prodotto creando fiducia nelle sue qualità. 2


Dante e Beatrice Quanto è fondamentale l’angelica donna nella vita del poeta? Tanto da farne la sua guida nel Paradiso. Cesare Saccaggi, pittore piemontese, nel 1903 con un olio su tela, ce li propone in giardino, per l’Incipit, ispirato dalle liriche giovanili della Vita Nova. Dante è ritratto diversamente da come lo conosciamo: è un ragazzo come tanti accompagnato alla sua amata, dalla quale sogna d’essere amato.

Un sogno, infranto, che s’idealizzerà e sacralizzerà dopo la morte di Bice, momento di consapevolezza di una vita nuova che voterà alla purificazione (preannuncio del viaggio infernale) attraverso l’Amore.

Cesare Saccaggi Dante e Bea che passeggiano in un giardino di fiori

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La Commedia Dorè L’illustratore, caricaturista, incisore francese dell’800, Gustave Dorè, fu legato alle più disparate opere letterarie, classiche e sue contemporanee: quelle di Lord Byron, i racconti di Gautier, Don Chisciotte, le favole di Lafontaine, le poesie di Poe, Gargantua e Pantagruele, la Bibbia, etc.

Ma furono quelle dedicate alla Divina Commedia, in special modo all’Inferno – presso i torchi di Hachette – che lo consacrarono illustratore. Inoltre Dorè interpretò i versi della cantica del Paradiso con tratti evanescenti e indefiniti, al fine di rendere l’astrazione e l’incorporeità che, cristianamente, ci aspettiamo nell’unione con Dio.

Paradiso Dante illustrato da Dorè

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Blake

William Blake, inglese, è un altro artista che, negli ultimi anni della sua vita, si è lasciato ispirare e ha rivisitato “romanticamente” il poema (un progetto di 102 tavole rimasto incompiuto), utilizzando varie tecniche, dallo schizzo a matita all’acquerello. Vi è un’edizione del 2015 (in occasione dei 750 anni dalla nascita dello scrittore) di Taschen, che è un catalogo (non contiene il poema): un libro d’arte con solo alcuni passi emblematici dell’opera a completare le stampe e due saggi circa il binomio Scrittore-Artisti.

Inferno di Dante illustrato da Blake

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Martini Alberto Martini nel 1901 rispose alla chiamata dei Fratelli Alinari, rappresentanti della più antica azienda fotografica conosciuta, che intendevano pubblicare una nuova edizione illustrata dell’opera; purtroppo l’artista non fu scelto tra gli accorsi alla gara (furono scelti altri artisti per l’edizione in questione, tra cui Cambellotti, Balestrieri, Sartorio, Fattori, etc.). Da quel momento però produsse quasi 300 tavole, in tanti stili, ma tenendo fede al suo amore per il macabro e il grottesco. Visto come precursore del Surrealismo, fu il disegnatore preferito, non a caso, del poeta André Breton.

Caronte di A.Martini 6


La prospettiva fascista Fin dagli inizi, infatti, pensò a una destinazione editoriale. I grandi e sontuosi volumi, stampati dalla Casa Editrice Dante (fondata da lui stesso) in mille esemplari numerati, furono realizzati con carte di puro straccio provenienti da Fabriano; i caratteri di stampa, ideati dallo stesso Nattini, trassero ispirazione dai “tipi latini primitivi” e, per ognuna delle tre cantiche, erano previste delle coperte in pelle di vitello sbalzate a mano.

Amos Nattini iniziò la sua carriera pittorica nel 1911, come illustratore delle Liriche d’oltremare di D’Annunzio e fu proprio questi a spingerlo nella monumentale opera d’illustrazione del poema dantesco: diede vita a cento Immagini. Sopraffino esegeta conoscitore del poeta fiorentino, abilissimo interprete della difficile tecnica dell’acquarello (solo il canto I del Purgatorio è a olio), si rivelò anche un esperto artigiano quando meditò di dare alle stampe la lussuosa edizione della sua Commedia curandone ogni minimo dettaglio e particolare.

L’edizione terminò nel 1939. Una copia venne donata, come esempio dello spirito italiano, dal Duce a Hitler in visita alla Mostra italiana dell’Ottocento. Il comun denominatore della sua grafica è il grande amore per la ricerca anatomica di stampo michelangiolesco e per il movimento di maniera: i corpi vengono ripresi in posture sempre diverse e talvolta arditamente scorciati all’interno di mutevoli prospettive (da centrale a obliqua e poi aerea).

Amos Nattini Purgatorio canto XXVI

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Gli occhi surrealisti di Dalì per Dante In occasione dei 700 anni dalla nascita del poeta, il governo italiano commissionò l’illustrazione dell’opera italiana più celebre al surreale spagnolo Salvador Dalì, con la sua paranoia ed “estetica del molle”, ottenendo un risultato eclettico e ostentatamente sublime.

S.Dalì Minosse Inferno canto V

S.Dalì Inferno

S.Dalì I simoniaci Inferno canto XIX

I 100 acquerelli occuparono 9 anni della vita dell’artista, poi trasposti in xilografia dal maestro Raymond Jacquet, che incise 3000 lastre di legno per poter imprimere in progressiva i 35 colori di ogni singola tavola. La commissione poi cadde a cause delle molteplici critiche circa la non italianità dell’ artista scelto.

S.Dalì S.Bernardo

Paradiso canto XXXIII

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La Commedia nei Manga Il lavoro a fumetti sulla Divina Commedia del disegnatore giapponese Gō Nagai è uscito a puntate sulla rivista Weekly Shōnen Magazine nel 1994, ispirato alle incisioni dell’ottocentesco Gustave Dorè. La lettura del testo procede da destra verso sinistra com’è tipico dei manga (e quindi la rilegatura è a destra) e all’interno vi è la litografia in bianco e nero dell’incontro di Paolo e Francesca .

Gō Nagai Dante

Gō Nagai Inferno canto V Paolo e Francesca

Maria Francesca Di Palo 9


LA PERENNE ATTUALITA' DI DANTE

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Dante e i fumetti L’importante e significativa figura di Dante Alighieri, poeta, letterato e politico italiano, ha, da sempre, interessato diversi ambiti culturali. Il Sommo Poeta è stato protagonista anche del mondo dei fumetti, che si è ispirato in molte occasioni alle opere dantesche, in particolar modo all’opera “sacra”, la Divina Commedia, che continua ad essere un’inesauribile fonte d’ispirazione in tutto il mondo. Anche all’estero, infatti, dove Dante è sicuramente meno conosciuto, fumetti e manga presentano numerose immagini dantesche. Si tratta di interpretazioni semplificate della più celebre opera della letteratura italiana: i concetti filosofici e teologici che la caratterizzano sono presentati sotto forma di immagini e piccole frasi, che catturano più facilmente l’attenzione del lettore, interessando anche i più giovani. Tra i fumetti che si ispirano alla Divina Commedia vi è “L’inferno di Topolino”, una delle storie più amate della Disney italiana, in cui Topolino e Paperino, personaggi da tutti conosciuti, interpretano, rispettivamente, Dante e Virgilio. La storia è narrata da didascalie in versi che la rendono simile ad un poema in terzine come quello dantesco.

Famoso è anche “Dante” di Marcello Toninelli, che trasforma il poema in un fumetto comico e rappresenta la più completa tra le versioni a fumetti della Divina Commedia, in quanto percorre tutte le cantiche e raffigura quasi tutti i personaggi incontrati dal Poeta durante il suo viaggio. “Dante” di Toninelli è molto amato anche perché l’autore spiega, tramite il fumetto, i concetti complessi della teologia dantesca, riuscendo a raccontare in modo semplice e piacevole le vicende storiche e politiche del 1300. Anche il mondo dei manga, vasto ed interessante come quello dei fumetti, ha tratto ispirazione dall’opera di Dante. Il famoso Go Nagai ha pubblicato, tra il 1994 e il 1995, un adattamento a fumetti della Divina Commedia, creandone una versione cupa e maestosa, i cui disegni sono ispirati al pittore francese Gustave Doré, che nell’Ottocento propose una particolare interpretazione del poema. Il segreto del successo della grandiosa opera di Dante si rispecchia anche nell’attualità dei temi trattati: la condizione dell’uomo, la debolezza, la beltà dell’animo umano. La Divina Commedia è un’opera senza tempo e questo fa sì che non resti contestualizzata nel presente dantesco, ma rappresenti situazioni proiettabili nel futuro e capaci di suscitare l’interesse di intere generazioni senza limiti di tempo e di età.

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Alice Imparato – 2^D


PaperDante: l'infanzia di Dante raccontata da Paperino/Dante

A 700 anni di distanza dalla morte del Sommo Poeta, le iniziative in Italia per festeggiarne l’anniversario spuntano come funghi, e la Disney non poteva mancare all’appello. Non è la prima volta che il fortunato giornale di fumetti omaggia il padre della letteratura italiana, infatti già nel 1949, nei primissimi numeri di Topolino, era stata proposta una parodia: L’Inferno di Topolino. In essa Topolino e Pippo vengono stregati dal mago Abdul e si convincono di essere Dante e Virgilio, percorrendo un lungo pellegrinaggio in una caricatura dell’Inferno dantesco. Stavolta, però, invece di riproporre un’altra parodia a fumetti o una mera ristampa di quelle preesistenti, la Disney ha deciso di fare un salto di qualità. Paperdante è infatti un racconto illustrato in cui viene narrata l’immaginaria infanzia di Dante, da cui si sarebbe ispirato per comporre il suo capolavoro. Ovviamente non si tratta del vero poeta, ma della sua versione in penne e piume: Paperdante, per gli amici semplicemente Dante (o addirittura Durante, come viene chiamato dallo zio Alighiero) è un giovane paperotto che si perde in una grottama viene salvato da Beatrice (detta Bice), che lo guida indicandogli la luce da seguire. Nel volume, oltre alla storia inedita, vengono anche allegate due ristampe del succitato L’Inferno di Topolino e anche de L’Inferno di Paperino, i cui protagonisti sono Paperino e Archimede alle prese con un Inferno abitato dai peccatori dell’età moderna.

Paperdante però prende le distanze dalle summenzionate opere. Se le prime sono delle parodie burlesche, Paperdante è invece una storia poetica, corredata da eleganti illustrazioni e terzine in rima che ricordano la parlata toscana. È dal confronto fra le tre storie che si può cogliere il lento percorso di settant’anni di storia, sia di Topolino che dell’Italia stessa: le prime due parodie infatti sono permeate dal sentimento politico dell’epoca. Ne L’Inferno di Topolino infatti il celebre topo prende a pugni in faccia un Vigile della Circolazione Infernale che voleva multarlo ingiustamente, scena inusuale per i lettori odierni, ma che ci si aspetterebbe disegnata in un periodo in cui l’Italia era uscente dalla guerra e l’autorità doveva guadagnarsi il rispetto dei cittadini. Ne L’Inferno di Paperino, dell’87, vengono denunciati i mali dell’inquinamento e della società moderna, condannando inquinatori e burocrati. Del resto, sia la Divina Commedia che il mondo Disney sono storie che attraversano le età e le generazioni e non smettono mai di affascinare lettori di ogni tipo. Per avere un’idea del loro impatto culturale, si può menzionare la recente gaffe del sottosegretario di Stato Rossano Sasso, che crede di citare un verso della Divina Commedia ma in realtà era L’Inferno di Topolino. Leggere Paperdante è sicuramente un ottimo modo per celebrare quest’anniversario dantesco, perdendosi nel mondo ingenuo, poetico e ironico dei personaggi Disney. 12

Carlo La Vecchia 4^D


Dante e il teatro

Il rapporto tra il Sommo Poeta e il teatro ha due strabilianti sfaccettature : “ Dante in teatro” e “ Il teatro in Dante” ed entrambe,da sempre, affascinano chi sul proprio cammino incontra il Padre della lingua italiana. La presenza dantesca nel mondo del palcoscenico dà , ormai da secoli, l’opportunità di far prendere vita ai canti della “Divina Commedia” davanti agli occhi degli spettatori e far vivere emozioni uniche. Questa opera incomparabile è, infatti, oggetto di letture in teatro e di produzioni di carattere drammatico e brillante. In Italia il teatro dantesco è strettamente collegato all’attore, comico, regista e sceneggiatore fiorentino Roberto Benigni , che tempo fa disse : “ Ho un sogno : fare tutta la Divina Commedia, commentarla e leggerla in pubblico , come mai è stato fatto “. Il suo sogno può ora definirsi realizzato e concretizzato : sin dagli inizi del nuovo secolo Benigni ha conquistato gli animi degli spettatori in tutto il mondo “leggendo”, anzi interpretando, le parole del Sommo Poeta nella Divina Commedia e creandone un vero e proprio spettacolo teatrale : “Tutto Dante” , dove l’opera dantesca per eccellenza è accompagnata dalla satira del mondo contemporaneo.

Il termine “commedia”,dato alla sua grandiosa opera da Dante, ci porta ad analizzare la seconda sfaccettatura del rapporto tra Alighieri e il teatro : “ il teatro in Dante” . Ciò che sembrerebbe essere una figura retorica potrebbe invece sottilineare e rappresentare i caratteri teatrali della Divina Commedia: ogni scelta fatta dal Poeta nella stesura della sua opera è di straordinaria e meravigliosa teatralità; la tripartizione delle cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), i gironi, le cornici , i cieli , i personaggi che nel suo viaggio incontra … tutto potrebbe essere sinonimo di arte in palcoscenico, arte nella commedia . É di particolare interesse riconoscere nell’opera dantesca l’attenzione alle ambientazioni e alle figure, così come alle drammatiche interazioni tra i personaggi che popolano i gironi dell’Inferno . Il Sommo Poeta ha lasciato un’inestimabile eredità al mondo della cultura e del palcoscenico che mai potrà essere uguagliata o dimenticata.

Giulia Verrengia 2^D 13


DANTE NEL CINEMA: ALLA SCOPERTA DEI FILM CHE SI ISPIRANO ALL’OPERA DEL SOMMO POETA

La Divina Commedia è stata fonte d’ispirazione per tantissimi film o spettacoli teatrali, come anche per videogiochi, canzoni e tanto altro. Tanti attori famosi e registi di alto calibro si sono lasciati ispirare dall’opera più importante della letteratura mondiale. Ricordiamo Totò, che, nel 1955, recitò nel film Totò all’inferno, dove interpreta Antonio Marchi, un disoccupato depresso, che tenta più volte il suicidio, finché non annega accidentalmente in un fiume e si ritrova all’inferno, dove viene riconosciuto come la reincarnazione di Marco Antonio e viene spinto nelle braccia di Cleopatra da Belfagor; Satana, però, geloso della donna, si infuria e allora Totò, per scappare, ritorna sulla terra. Film ancora meno recente, del 1911, è L’inferno, primo film italiano a 5 bobine, rivoluzionario nelle tecniche usate per gli effetti speciali, come la sovrapposizione o i voli di personaggi fatti con corde e macchinari, ma anche per l’uso coerente delle didascalie. Film muto e in bianco e nero, è considerato uno dei capolavori del genere in costume.

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Altro film ispirato ad uno dei personaggi realmente esistiti della Divina commedia è Il conte Ugolino, che racconta di Ugolino della Gherardesca, personaggio toscano del XIII secolo che disobbedì agli ordini di Papa Bonifacio VIII e Dante Alighieri lo colloca nella Divina Commedia nell’Antenora, la seconda zona del nono cerchio dell’Inferno, dove vengono puniti i traditori della patria (canti XXXII e XXXIII). Ugolino, immerso nelle acque gelate di Cocito, appare come un dannato vendicatore, che divora brutalmente la testa dell’arcivescovo Ruggieri. Il film parla del complotto che il cardinal Ruggieri organizza ai danni di Ugolino, ritenendolo responsabile della disfatta della Meloria contro la Repubblica di Genova. Così Ugolino e i suoi figli maschi vengono murati vivi. E’ del 1995 il film Seven di David Fincher in cui un pazzo , interpretato da Kevin Spacey, uccide ispirandosi ai sette peccati capitali descritti da Dante nell’Inferno. Un poliziotto, Morgan Freeman e il giovane Brad Pitt gli danno la caccia.


Un film abbastanza recente, che ha dei rimandi alla Divina Commedia, è Al di là dei sogni, che annovera anche partecipazioni importanti come quella del rinomato attore Robin Williams; il film parla dell’amore indissolubile di Chris e Annie, che non viene spezzato né dalla morte dei due figli in un incidente, né dalla loro morte. Infatti Chris muore e va in Paradiso, dove apprende che anche Annie è morta, ma si trova nell’inferno perché si è suicidata. Il loro amore però supera anche la distanza nell’aldilà e vince anche sulla morte e sul dolore. Un lavoro recentissimo, per celebrare il 700simo anno dalla morte di Dante, è il cortometraggio Dante per nostra fortuna di Massimiliano Finazzer Flory, che mescola linguaggi diversi tra loro, come la letteratura, la musica, la danza, il teatro, ilcinema. Si tratta di un viaggio di 21 canti, scelti dallo stesso Finazzer Flory in base ai temi oggi più attuali e originali. Secondo Finazzer Flory, per capire bene Dante, bisogna capire che che quello che lo circonda è l’amore sia per Beatrice, sia per Virgilio, sia per Dio.

Il cortometraggio è stato girato su un palcoscenico in uno stabile di Sarzana, dove Dante stette il 6 ottobre 1306, a dicembre 2020 in pieno lockdown, ed è in attesa della proiezione, appena le misure anticontagio lo permetteranno. Tutti questi film e tanti altri rendono perfettamente onore alla memoria di Dante, poiché anche lui era un regista; il protagonista, ovvero lui stesso, il co-protagonista, Virgilio, e tantissimi personaggi secondari possono essere ritrovati anche negli avvenimenti storici e nella vita di Dante stesso. Dante ha articolato un viaggio nell’aldilà con una trama fittissima, con la legge del contrappasso per ogni peccato, la struttura di ogni cantica e di ogni regno, con tanti piccoli particolari ed effetti speciali che, oggi, avrebbero fatto di lui anche uno dei più grandi registi della cinematografia mondiale.

Giuseppe Pio Di Benedetto 4^D

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Dante e la matematica La Divina Commedia non contiene soltanto riferimenti storici e letterari ma anche matematici ed è basata anche sulla “mistica” dei numeri. All’interno dell’opera del Sommo Poeta si ripete molte volte il numero 3. Sono tre le guide che accompagnano Dante nell’oltretomba, tre i regni dell’oltretomba, tre le cantiche, tre i versi delle terzine, gli elementi della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo) Anche nel numero di canti per ogni cantica, cioè 33, si trova il 3. Viene ripetuto anche il numero 9. Sono nove i cerchi dell’Inferno e i cieli del Paradiso. Sono nove anche gli anni che Dante aveva quando ha visto per la prima volta Beatrice, la donna di cui era innamorato. Il linguista, critico letterario e italianista, il tedesco Manfred Hardy ha sottolineato che il lavoro poetico di Dante basato sui numeri rappresentava un settore centrale della sua creatività artistica del poeta. Dante fa un sapiente uso dell’aritmetica, utilizzando spesso regole o proprietà per fare dei paragoni o per rendere più chiaro un concetto. Ad esempio ,con vari indizi indica la proporzione per individuare la statura di Lucifero, Un riferimento diretto all’aritmetica si trova nei versi in cui Cacciaguida, trisavolo del poeta, si rivolge a Dante Tu credi che a me tuo pensier mei Da quel che è primo, così come raia Da l’un, se si conosce, il cinque e’l sei Par.XV 55-57 Dante mostrava un particolare interesse anche per la geometria, infatti nella Divina Commedia sono presenti paragoni, parafrasi ed esempi che si riferiscono proprio a questa disciplina. Dante aveva studiato la geometria durante i tre anni passati sui testi del matematico e filosofo greco Euclide.

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Credo che il fatto che Dante mostri interesse per la matematica testimonia quanto egli fosse attento alla cultura scientifica dell’epoca in cui viveva. Un passo famoso si trova nell’ultimo canto del Paradiso XXXIII, (vv. 133-38.) Qual è il geométra che tutto s’affige Per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige, Tal era io a quella vista nuova; veder voleva come si convenne l’imago al cerchio come vi s’indova.

Nel Paradiso ci sono molti altri riferimenti alla geometria (Par XVII, 13-18) Dante si rivolge a Cacciaguida così “… O cara piota mia che sì t’insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi, così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti …” (Par XIII, 95-102) Parlando della sapienza di Salomone San Tommaso dice: ben veder ch’el fu re, che chiese senno acciò che re sufficiente fosse; non per sapere il numero in che enno li motor di qua sù, o se necesse con contingente mai necesse fenno; non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si pote trïangol sì ch’ un retto non avesse.Lo storico Ignazio Baldelli afferma che la cultura scientifica e quella letterariafilosofica convivevano in Dante arricchendosi a vicenda.

Francesco Maria Gentile 2^D


Dante e le monete Saranno passati 700 anni dalla sua morte, ma Dante continua a far parte della nostra realtà quotidiana giorno dopo giorno. Nei bar, nei negozi, nelle nostre tasche, è ovunque: ovviamente non stiamo parlando del poeta ma della sua trasposizione numismatica. Il volto di Dante copre le monete da 2 euro sin dal 2002, anno in cui fu introdotta la nuova valuta. Esso fu scelto nel 1998 tramite un televoto, ma non era la prima volta che l’effigie di Dante illuminava il mercato italiano. Già dal 1948, infatti, il Sommo Poeta venne raffigurato nelle primissime banconote da 10000 lire, rimaste in circolazione fino al 1962. Numerose sono anche le volte che è stato omaggiato da tagli commemorativi (in edizione limitata, solo per collezionisti). Un esempio è la moneta da 500 lire del 1965, in occasione dei 700 anni dalla nascita. Più recenti sono i 2 euro commemorativi

del 2015 (a 750 anni dalla nascita), che presentano un’immagine diversa da quelli regolari. Per quest’anno non sono state programmate monete da 2 euro commemorative a tema Dante (esse saranno infatti dedicate al 150° anniversario dall’istituzione di Roma capitale e agli operatori sanitari in prima linea nella lotta contro la COVID-19). Nonostante ciò, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha annunciato una moneta da collezione recante l’immagine del Sommo Poeta, disponibile in oro e in argento, rispettivamente da 20 e da 5 euro. Entrambe le versioni sono destinate unicamente ai collezionisti, siccome i due tagli non sono usati negli scambi regolari (a differenza dei 2 euro commemorativi del 2015, che sarà raro ma non impossibile trovare anche dal resto della spesa).

Carlo La Vecchia 4^D 17


Dante e la pubblicità Dante e le sue opere non solo destano, a distanza di tanti secoli, un grandissimo interesse, ma figurano molto spesso negli spot pubblicitari. Chiaramente l’attenzione e l’interesse per i testi danteschi sono relativi e completamente rovesciati in una sorta di “contrappasso pubblicitario” per analogia o per contrasto, così come afferma De Martino. Anche l’aspetto fisico e i tratti marcati del volto hanno contribuito a determinare il riconoscimento della figura del poeta, come il naso aquilino, il copricapo rosso e la corona d’alloro, grazie ai quali si riesce facilmente a riconoscere il poeta. Dante è il protagonista di un fumetto già dal secolo scorso (l’Inferno di Topolino), poi, dal 2010 è diventato un videogioco horror-gotico.

Da più di cent’anni il poeta fiorentino pubblicizza anche un olio, l’olio Dante, “l’olio che parla italiano”, come è dichiarato sul sito dell’azienda. Anche in Spagna è stato dato un nome dantesco all’olio “l’olio di Beatrice”. Dante ha dato il nome anche a diversi vini. Nella pubblicità della Tim, invece, Dante e Virgilio si trovano in una bolgia infernale trasformata in una rumorosissima discoteca. Possiamo ancora ricordare un manifesto di Regione Toscana per il risparmio delle risorse idriche, con un Dante che minaccia “Chi spreca L’acqua lo metto all’inferno” e in seguito, con un manifesto gemello, esclama “Bona l’acqua del rubinetto! Sembra d’essere in Paradiso”.

Silvia Pauroso 4^D

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“CIAO DANTE, TI RICORDI DI ME?” Dante e la Divina Commedia hanno conquistato anche la musica rap: Dante una rapstar Filippo Argenti è la personificazione dell’arroganza e della prepotenza e il suo bersaglio polemico è Dante Alighieri, che rappresenta l’intellettuale, il poeta, e che, come tale, viene sbeffeggiato. Argenti si presenta come “il vicino di casa che nella Commedia ponesti tra questi violenti”. Molte sono le figure retoriche utilizzate da Caparezza, soprattutto di suono, che caratterizzano peraltro il genere Rap: Possiamo notare la paronomasia (“Cos’è vuoi provocarmi, sommo? /Puoi solo provocarmi sonno!/ Alighieri, vedi, tremi, mi temi come gli eritemi”), la consonanza (“Così impari a rimare male di me, / io non ti maledirei, ti farei male”), l’omoteleuto (“è inutile che decanti l’amante, Dante”). Nell’ultima frase della strofa (“Il mondo non è dei poeti, il mondo è di noi prepotenti! / Vai rimando alla genti che mi getti nel fango, / ma io rimango l’Argenti! “) si notano anafora e parallelismo, rima alternata e rima al mezzo, consonanze e allitterazioni. Il ritornello invece è una strofa di quattro versi che viene ripetuta due volte. Questi si concludono con l’esclamazione (A Filippo Argenti!). Attraverso il personaggio di Filippo Argenti, Caparezza ci mostra come la poesia e la retorica siano impotenti di fronte alla prepotenza. Il lavoro compiuto da Caparezza è stato quello di ispirarsi a due personaggi del poema più importante della letteratura italiana, per operare una riflessione sulla contrapposizione tra arroganza e intelletto nella contemporaneità. Con Argenti Vive ( https://www.youtube.com/watch? v=0TX_FP7QNEk) Caparezza ci ha dimostrato ancora una volta come anche nella nostra società, ben diversa da quella del ‘300, la Divina Commedia non sia affatto “passata di moda” e sia anche una miniera di possibili percorsi e, anzi, si riveli essere ancora utile e attuale per comprendere i comportamenti e le emozioni umane che certamente sono vere oggi come allora.

Dante ha davvero molto in comune con il rap e con la cultura hip hop. Al Dantedì hanno partecipato alcuni rapper Tedua, Murubutu e Clementino. Clementino, in collegamento con l’istituto italiano di cultura di San Pietroburgo, ha interpretato alcuni dei versi più noti di Dante, accompagnato dalle musiche del maestro Maurizio Filardo. Il rapper campano ha dichiarato:”Quando mi hanno chiesto come adattare la poetica di Dante al rap, ho risposto semplicemente che non c’è nulla da sistemare, perché Dante ha già messo tutto in rima. La connessione tra la sua poetica e il rap è appunto la rima.” Già nel 2014 nell’album Museica, il rapper Michele Salvemini (in arte Caparezza), con la canzone “Argenti vive”, prendendo le parti dell’anima dannata, riscrive l’episodio dell’incontro di Filippo Argenti con Dante nel Canto VIII dell’Inferno. Il rapper raccoglie canzoni ispirate ad opere d’arte: si tratta di un procedimento noto come ékfrasis. In particolare per il pezzo Argenti Vive, l’ispirazione è stata fornita dall’illustrazione di Gustave Dorè per l’ottavo canto dell’Inferno. Il testo di Caparezza appare come una moderna riscrittura del canto dantesco. Infatti la canzone si apre con un recitativo, così come la conclusione “Lo lasciammo là, nella palude, e non racconto altro“. Ovviamente per rendere più comprensibile il lessico dantesco, il rapper ha cambiato le parole utilizzate da Dante con dei sinonimi: ad esempio “corravam la morta gora” diventa “solcavamo l’immobile palude”, “vago” diventa “desideroso”, “attuffare” diventa “immergere”. Nella seconda parte della canzone l’Argenti si rivolge a Dante non più con quelle parole che Alighieri stesso gli fece pronunciare nella Commedia: 19

Lorenzo Mancini 4^D


Dante nella musica contemporanea La Divina Commedia è una rappresentazione di ogni vizio, virtù, sentimento, reazione e peccato dell’animo umano. Chiunque può ritrovare se stesso nei personaggi descritti e rivivere sensazioni comuni ed è per questo che artisti di ogni genere prendono spunto dalle parole dell’autore per le proprie canzoni, trovando nei versi del poeta ispirazione per descrivere situazioni sempre nuove a seconda del periodo storico. La canzone “Argenti vive” di Caparezza è un esempio di come l’opera dantesca stimoli nuove composizioni anche a distanza di secoli. Il cantante reinterpreta l’ottavo canto dell’inferno dal punto di vista di Filippo Argenti posto da Dante nel 5 girone infernale, quello degli iracondi. Caparezza basa la sua canzone sulla curiosa scelta di Dante di posizionare all’inferno personaggi storici ancora vivi con i quali non era in buoni rapporti e il personaggio di Filippo Argenti è furioso per essere stato posizionato in una viscida palude dal suo “nemico”. Anche brani rock come “Charon” di King Diamond prendono spunto dalla Divina Commedia,

in questo caso si fa riferimento al famosissimo traghettatore di anime per simulare l’atmosfera “infernale” del singolo. Nell’ambito rock oltre a “Charon” ricordiamo: “Medusa” degli Anthrax, “Dante’s inferno” degli Iced Heart e “Underworld” dei Simphony X. Franco Battiato nel brano “Testamento” tra le “cose” che lascia in eredità ai viventi pone anche un concetto per lui essenziale, quello della conoscenza come mezzo per l’elevazione dello spirito e per spiegarlo utilizza i versi del sommo poeta “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e canoscenza“ Jovanotti invece utilizza il celeberrimo verso del canto 5 dell’inferno “amor ch’a nullo amato amar perdona” nella sua canzone “Serenata rap” con un tono ben più allegro della storia di Paolo e Francesca a cui si riferisce. Lo stesso verso è stato utilizzato anche da Antonello Venditti in uno dei suoi brani più conosciuti: “Ci vorrebbe un amico”. Infine i Radiohead omaggiano Dante in uno dei titoli contenuti nell’album “Hail to the Thief”. La band ha scelto infatti di inserire sottotitoli o titoli alternativi per ogni traccia trasformando così la traccia “2 + 2 = 5” in “The Lukewarm” in riferimento agli ignavi del terzo canto dell’Inferno. L’opera dantesca a distanza di così tanto tempo continua a stimolare artisti in tutto il mondo con i suoi versi, riconfermandosi continuamente come una pietra miliare della letteratura italiana e un patrimonio da custodire con cura e di cui andare fieri.

Giulia Borrelli 2^D

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La lettera apostolica ‘Candor lucis aeternae’ di Papa Francesco, dedicata alla memoria di Dante Alighieri

La Divina Commedia è un grande viaggio che comincia il 25 Marzo del 1302 e il 25 Marzo 2021. Papa Francesco promulga la lettera apostolica «Candor lucis aeternae» dedicata a Dante Alighieri nel 700° anniversario della sua morte. Il papa considera Dante Alighieri «un profeta della speranza». «Dante ci invita a ritrovare il senso del nostro percorso umano. Per lui l’esilio è stato talmente significativo da diventare una chiave di interpretazione non solo della sua vita ma del viaggio di ogni uomo e donna nella storia e oltre la storia». Bergoglio spera che le celebrazioni nel VII centenario della morte del sommo poeta «stimolino a rivisitare la sua “Commedia” così che, ci lasciamo provocare a quel cammino di conversione dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’Inferno a quella beatificante del Paradiso.» Potrebbe sembrare che questi sette secoli abbiano scavato una distanza incolmabile tra noi, ragazzi dell’epoca postmoderna, e il suo pensiero e i sui scritti. Non è così. Gli adolescenti, dice Papa Francesco, se hanno la possibilità di accostarsi alla poesia di Dante, riscontrano la lontananza dell’autore e del suo mondo ma avvertono un sorprendente riscontro. Potremo prendere ispirazione dall’ esperienza di Dante per attraversare le tante selve oscure della nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia “finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle'”. 21

Francesco ha benedetto il crocifisso che nel 1965, in occasione del settimo centenario dalla nascita di Dante, Paolo VI donò alla città di Ravenna affinché fosse posto sulla tomba del sommo poeta. Papa Francesco è il terzo Pontefice a dedicare un documento ufficiale a Dante Alighieri. Il primo era stato papa Benedetto XV nel 1921 con l’enciclica In praeclara summorum, seguito nel 1965 da papa Paolo VI con la lettera apostolica Altissimi cantus. Benedetto XV (1914-1922) onora Dante con la breve enciclica «In praeclara summorum» (30 aprile 1921); nel sesto centenario della morte lo elogia per la fede incrollabile e il pensiero cattolico, per le idee sul governo divino del mondo, per la perenne validità del messaggio cristiano trasmesso dalla «Divina Commedia», per la perfetta ortodossia. Paolo VI unisce il culto della poesia al riconoscimento del valore dottrinale per la Chiesa e l’umanesimo cristiano. Il Pontefice fa di Dante l’artista che ancora parla alla Chiesa della modernità. Egli dona «La Divina Commedia» ai padri conciliari: «Alcuni critici hanno sostenuto che non fosse poetica quando e dove è impregnata di teologia. Altri ritengono che splenda e brilli di una luce meridiana, tutta sua. In un’autentica poesia è racchiusa un’aspirazione verso l’infinito della suprema bellezza e bontà».

4^D Chiara Gallinaro e Giovanni Capezzuto


Dante in Inghilterra e negli Stati Uniti

L’interesse per la poetica di Dante nella cultura americana risale all’anno 1867. Infatti in quel periodo il poeta Longfellow terminò la prima traduzione americana della Divina Commedia, l’opera maestra del Sommo Poeta. Già nel 1865 il poeta americano aveva dato vita a un circolo, che si occupava proprio della traduzione di Dante, nella sua casa a Cambridge. Questo gruppo, formato da noti intellettuali di quel tempo era chiamato “Dante Club” e poi, nel 1881, divenne ufficialmente “The Dante Society of America”. Prima della traduzione di Longfellow Dante era conosciuto da poche persone nella cultura popolare americana, poiché gli americani non studiavano l’italiano , di conseguenza non lo parlavano e viaggiavano poco al di fuori del continente. Per arrivare in America Dante si servì dell’Inghilterra, dove ai tempi del Rinascimento c’era tantissimo interesse nei confronti della letteratura italiana. Questo interesse svanì o almeno diminuì con la fine dell’età elisabettiana, ma tornò ancora più forte negli anni a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Questo interesse era concentrato soprattutto nello studio della poetica dantesca. Infatti, per poter arrivare alla traduzione americana,

la Divina Commedia fu tradotta per la prima volta in assoluto in lingua inglese-britannica e da lì attraversò l’oceano per poi influenzare radicalmente la cultura americana.Con la fine del Romanticismo si ebbero grandi cambiamenti nella letteratura e nelle arti sia in Inghilterra che negli Usa; la nuova tendenza era il Realismo e Dante sembrava dover certamente perdere l’influenza ottenuta negli anni precedenti. Invece lo studio del Divin Poeta addirittura si velocizzò e divenne più profondo in tutta la Britannia, ma soprattutto nel continente americano. Dante, nonostante i cambiamenti epocali nei gusti artistici e letterari, rimase su quel trono sul quale lo avevano posto i tre grandi di Cambridge ed i loro successori. Riguardo il periodo contemporaneo, nella giornata dedicata a Dante, ci sono state manifestazioni, maratone di videoletture, conferenze online tra studenti e discussioni tra intellettuali. E’ importante sottolineare che esse sono avvenute in tutte le parti del mondo. Questo ci fa capire non solo la bellezza, la genialità del Sommo Poeta ma anche che, in un modo o nell’altro, la sua inimitabile poetica non verrà mai dimenticata.

Christian Simoniello 2^D

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Dante in Giappone

La fortuna di Dante in Giappone ha inizio con l’avvento dell’era Meiji (1868-1912), quando gli studiosi giapponesi cominciarono a interessarsi alla letteratura italiana. Mori Ogai fu il primo giapponese che nel suo Diario della Germania racconta che, mentre si trovava a Lipsia come studente, lesse la Commedia nella versione tedesca. Tornato in patria, pubblicò la traduzione del romanzo di Andersen “L’improvvisatore “ che contiene numerosi riferimenti a Dante e alla sua opera. Questa traduzione contribuì a creare in Giappone una prima immagine di Dante d’ispirazione romantica. La Commedia divenne così un libro alla moda tra la gioventù studiosa del tempo. Ueda Bin pubblicò nel 1896 sulla rivista “Mondo letterario” un primo articolo intitolato Dante Alighieri. Nell’opera “ Dante il divino poeta” egli esaltò non solo la bellezza dei versi della Commedia, della Bibbia e della tragedia di Shakespeare ma anche la profondità del pensiero politico di Dante. Anche uno dei più attivi intellettuali cristiani dell’epoca Meiji, Uchimura Kanzo, parlò di Dante nel corso di una serie di conferenze che tenne presso l’Associazione giovanile cristiana di Kanda a Tokyo. Uchimura considera Dante, insieme con Shakespeare e con Goethe, uno dei tre maggiori poeti europei. L’ amore che portava a Dante lo indusse a iniziare lo studio dell’italiano per poter leggere la Commedia nel testo originale. Fra i traduttori più importanti vi sono Heisaburo Yamakawa e Shoyu Nakayama. Il primo tradusse le tre cantiche della Commedia, pubblicandole rispettivamente negli anni 1914, 1916 e 1922.

A sua volta Nakayama tradusse tutte le opere di Dante pubblicandole in dieci volumi negli anni 1924-26. Da allora le traduzioni della Commedia si sono moltiplicate. Una conferma della notevole diffusione dell’opera di Dante in Giappone viene infine data dai frequenti riferimenti a essa che è possibile rinvenire negli scritti dei maggiori esponenti della letteratura moderna giapponese. Ricordiamo Natsume Soseki che nella novella “La torre di Londra” del 1905 citò i noti versi con i quali comincia il canto III dell’Inferno . In una sua lettera del 20 gennaio 1905, egli criticò i versi di Dante come troppo lunghi e involuti, aggiungendo che Dante avrebbe fatto meglio a limitare le parole di colore oscuro ai primi tre versi soltanto. Numerosi saggi sono stati dedicati a Dante dal filosofo Abe Jiro. Anch’egli ha visto in Dante soprattutto il pensatore e nella Commedia un monumento della filosofia e della scienza medievale. L’ignoranza della lingua gli ha limitato la possibilità di apprezzare la parte più valida rappresentata dalla bellezza dei versi. Abe scrisse un saggio intitolato “La D.C. di Dante e lo Zarathustra di Nietzsche”. In esso egli esaminò la diversa concezione del peccato e della sua punizione secondo Dante e secondo il pensatore tedesco. Tutto questo è la prova che l’opera immensa e infinita di Dante non è solo italiana ma è un patrimonio universale.

4^D Miriam D’Onofrio e Martina Di Spirito

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Il fascino della Divina Commedia ha conquistato anche la Cina. La fortuna di Dante in Cina crebbe grazie a un concreto interessamento da parte degli intellettuali cinesi all’ inizio del 1900. Egli in Catai (Cina) divenne uno dei personaggi del dramma musicale Hsin Lo-ma di Liang Ch’i-ch’ao, critico, giornalista e uomo politico. Questo dramma doveva contenere i più importanti avvenimenti del Risorgimento italiano, dal congresso di Vienna fino alla presa di Porta Pia, ma dei 40 atti progettati ne scrisse solo 6 e un prologo. Nel prologo Dante si trovava a cavallo di una gru e,dopo aver dichiarato di essere tornato in patria dopo mille anni per vedere i nuovi progressi e dopo aver raccontato ciò che aveva condotto all’unità d’Italia, uscì di scena per recarsi in Cina con Shakespeare e Voltaire. Nel 1916 ci fu un movimento per la Rivoluzione letteraria e il principale iniziatore fu Hu Shih che scrisse un articolo per invitare gli scrittori a seguire l’esempio di Dante. Nel 1921 si iniziò a conoscere meglio l’opera di Dante proprio in occasione del suo centenario.

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Nonostante ciò la presenza di Dante negli scritti cinesi è poco frequente nella prima metà del Novecento. Dopo il 1949 ( anno di fondazione della Repubblica Popolare Cinese) la Divina commedia arrivò a scrittori e studiosi che tradussero i canti e trovarono dei parallelismi tra la cultura italiana ai tempi di Dante e quella della propria nazione. Dante viene considerato una sorta di profeta nella letteratura cinese; inoltre la sua figura è ammirata per il suo amore verso la propria patria. Oltre al patriottismo la sua immagine è apprezzata anche per l’amore puro che tanto elogiava nei suoi testi, infatti frequenti sono i riferimenti a Beatrice in varie poesie orientali. Anche la pittura iniziò a compiere degli accenni alla Divina Commedia, tant’è che nel 2006 tre artisti cinesi realizzarono il dipinto Discutendo la Divina Commedia con Dante che rappresenta un girone dove sono presenti sia personaggi occidentali che orientali, con vari riferimenti metaforici.

4^D Francesca Galdiero e Martina D'Itri


Traduzioni della Divina Commedia

La Divina Commedia è un poema allegoricodidascalico, scritto da Dante Alighieri, tra il 1304/7 e il 1321. Le traduzioni integrali della Commedia ammontano a una cifra che si aggira attorno al numero 58, in lingue europee, asiatiche, africane e sudamericane. Dal 1° febbraio 1416 e il 16 febbraio 1417 il francescano Giovanni Bertoli da Serravalle, vescovo di Fermo, realizzò una traduzione in latino delle tre cantiche del poema. Le traduzioni dell’opera rallentarono tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo a causa dell’affermarsi della visione rinascimentale che considerava il Medioevo come un periodo oscuro caratterizzato da ignoranza e barbarie. Il petrarchismo, caratterizzato dal monostilismo e monolinguismo, fu preferito al modello dantesco. Ricordiamo Balthasar Grangier, religioso, traduttore e critico letterario francese, noto per aver tradotto la Divina Commedia di Dante Alighieri in francese nel 1597. La traduzione di Grangier è stata successivamente criticata per la sua scarsa comprensione del significato dell’opera, tuttavia rimase l’unica versione della Commedia in francese per quasi due secoli. Inizialmente la Divina Commedia non è stata tradotta in inglese a causa delle opinioni cattoliche di Dante, che erano poco conformi alle idee del pubblico inglese protestante, che considerava questa teologia cattolica, unita con riferimenti ai miti classici, eretica. A partire dal 1802 l’idea dei protestanti inglesi cambiò e la Divina Commedia iniziò ad essere tradotta in inglese tanto da diventare l’opera con più traduzioni in Inghilterra. Nel 1782 Charles Rogers pubblicò una prima traduzione inglese dell’Inferno, in blank verse, mentre la prima traduzione integrale dell’opera fu realizzata da Henry Boyd e pubblicata tra il 1785 e il 1802. L’opera di Dante cominciò a diffondersi anche in Germania grazie alla prima traduzione di Lebrecht Bachenschwanz che, tra il 1767 e il 1769, tradusse e pubblicò le tre cantiche in prosa. La prima traduzione in versi è di Karl Ludwig Kannegiesser, che pubblicò la Commedia in tedesco tra il 1809 e il 1821. Alla traduzione di Kannegiesser seguì quella di Adolf Friedrich Karl Streckfuss pubblicata tra il 1824 e il 1826.

Un’altra nota traduzione in tedesco è quella realizzata e commentata dal pastore protestante Giovanni Andrea Scartazzini in Svizzera tra il 1874 e il 1890. Dmitrij Min pubblicò la prima traduzione in russo dell’intera cantica (Inferno) nel 1855. La prima traduzione danese dell’opera fu realizzata in terza rima da Christian Knud Frederik Molbech. Successivamente ci fu una versione in polacco, una in ebraico e una in ungherese. Bartolomé Mitre politico, militare e autore argentino, Presidente dell’Argentina dal 12 aprile 1862 al 12 ottobre 1868, ha tradotto la Divina Commedia in lingua spagnola. Il successo dell’opera in Armenia è legato ai monaci mechitaristi, che introdussero il poema già nella seconda metà del diciottesimo secolo. Ricordiamo le traduzioni in giapponese, cinese, olandese, rumeno ed ebraico. Dario Xhoàn Cabana noto poeta, romanziere ha tradotto l’opera in lingua gallega. Le sue traduzioni hanno interessato in particolar modo la poesia. Il galiziano è una lingua romanza proveniente dal latino e dall’antico gallaico-portoghese, nata nella parte ovest della provincia romana della Gallaecia, che comprendeva il territorio della Galizia attuale, il nord del Portogallo e i territori limitrofi ad est. A settecento anni dalla morte di Dante l’audiolibro in trentatré lingue dal titolo “Dalla selva oscura al Paradiso” offre un percorso guidato attraverso le tre cantiche dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. Questo strumento ricorda il celebre poema che continua a suscitare l’interesse dei lettori di ogni Paese. Ideato e progettato dalla Direzione Generale Sistema Paese del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, l’audiolibro è stato realizzato grazie alla collaborazione di trentadue Istituti Italiani di Cultura. Marco Martinelli e Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, che da anni svolgono un lavoro di ricerca sul poema di Dante, si sono occupati della versione italiana. Oltre alle traduzioni in lingue classiche, europee ed extraeuropee, La Divina Commedia presenta un elevato numero di traduzioni in diversi dialetti italiani. Tra queste ricordiamo la traduzione in napoletano, svolta dal professore Nazario Napoli Bruno.

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Antonio Castaldo e Giuseppe Izzo 4^D


Dante nel mondo

Se si dovesse fare un elenco dei nomi di cui nessuno non può mai non aver sentito parlare, sicuramente si troverebbe ai primi posti anche quello di Dante Alighieri. Un uomo noto come il Sommo Poeta, il fiorentino per eccellenza dalle irrefrenabili passioni, ha partecipato attivamente alla storia del suo Paese, divenendo il padre della lingua italiana. Dante ha lasciato un segno notevole come nella letteratura, così nella politica ed anche nella filosofia. Con la sua fede, la sua immaginazione e il suo stile di scrittura ha lasciato un’eredità ai posteri dal valore inestimabile e incommensurabile, le sue opere e tra queste uno dei testi più consultati al mondo, La Divina Commedia. Con questa opera letteraria il Sommo Poeta “si è come tolto qualche sassolino dalle scarpe e qualche insetto ronzante dalle orecchie” e ha colpito i suoi nemici con i suoi versi. La Divina Commedia racchiude tutte le sfumature del pensiero dantesco, è una narrazione del viaggio nei meandri della sua mente che, per irreale che fosse, è riuscita a giungere alla vista o all’udito di tutta la popolazione, dal primo esemplare, ai duplicati nei primi libri in commercio, ai primi annunci sui giornali e sui primi schermi delle tv, fino ai siti web e ad essere oggetto di studio nelle istituzioni scolastiche di moltissimi Paesi. 26

Insomma, Alighieri è riuscito a instaurare un filo di comunicazione che gira nella collettività mondiale grazie ai suoi scritti ed alla sua poetica che ancora oggi appassionano migliaia di occhi. Se il nome di Dante Alighieri e la sua eredità culturale sono conosciuti in ogni dove, è sicuramente anche merito di tutte le associazioni, le organizzazioni e i responsabili di piattaforme digitali che si occupano di preservare, custodire e far conoscere i grandi poeti della storia e divulgarne le opere, la vita ed il pensiero. Tra i forum più importanti e incentrati su Dante Alighieri ricordiamo “700 DanteFirenze”, “Dante On Line”, il “Dante Society America”, vero e proprio repository della vita, delle opere, delle interviste di letterati, della bibliografia, raccolte vastissime di informazioni reperibili da chiunque. Per il Dantedì in Italia, nonostante le restrizioni imposte per la pandemia, numerose sono state le iniziative e gli eventi per celebrare il divino poeta, ma anche all’estero le celebrazioni per il Dantedì non sono state da meno: il Centro per il libro e la lettura (Cepell) con il ministero degli Affari esteri, il Corriere della Sera e della Cooperazione internazionale e il ministero della Cultura hanno infatti organizzato la maratona online Dante nel mondo che impegna studiosi e attori di diversi Paesi nel declamare i versi danteschi in tutte le lingue. Queste iniziative hanno dato la possibilità di condividere questi momenti con l’intera popolazione mondiale. Dunque, si può dire che il Sommo Poeta è divenuto un mezzo di comunicazione per tutta la popolazione… Dante è un simbolo riconosciuto in tutto il mondo.

Giorgia Rocco 2^D


Dante e le cronache di famiglia Il Sommo Poeta, a circa 20 anni, sposò Gemma Di Manetto Donati. La donna, appartenente a un ramo della stessa famiglia di cui erano membri Corso, Forese e Piccarda, fu dal padre, secondo l’uso del tempo, promessa in sposa al giovane Alighieri fin dal 1277 , anno a cui risale l’atto dotale, rogato il 9 febbraio presso il notaio ser Oberto Baldovini, con una dote di 200 fiorini. S’ignora l’anno del matrimonio, avvenuto probabilmente dopo il 1290 e prima dell’inizio dell’attività pubblica di Dante ( 1295 circa). Da Gemma Donati Dante ebbe quattro figli: Pietro, Iacopo, Antonio e Giovanni. Iacopo e Pietro furono i primi commentatori della Divina Commedia. Secondo Giovanni Boccaccio, Iacopo avrebbe ritrovato gli ultimi canti del Paradiso in un luogo segreto della camera da letto, che il padre gli aveva indicato in sogno. Pietro fu giudice a Verona, mentre Iacopo intraprese la carriera ecclesiastica. Antonia, invece, diventò monaca nel monastero di S. Stefano degli Ulivi a Ravenna, e assunse il nome di suor Beatrice. Mentre degli altri figli si sono avute notizie fin da subito, si è venuti a conoscenza di un quarto figlio, Giovanni, soltanto nei primi anni venti del Novecento, quando Francesco Paolo Luiso pubblicò un contratto di cambio stipulato a Lucca tra la società fiorentina dei Macci e quella lucchese dei Moriconi, al quale aveva assistito come testimone un tale Giovanni, figlio di Dante Alighieri da Firenze. L’esistenza «certa» di Giovanni di Dante, primogenito del Sommo Poeta, figlio legittimo nato da Gemma Donati, è stata attestata in maniera incontrovertibile da un documento di un notaio fiorentino, che reca la data del 20 maggio 1314 e che è conservato nell’Archivio di Stato di Firenze, dove fu scoperto da Renato Piattoli nel 1972, il quale, però, morendo nel 1974, non riuscì a pubblicarlo. ll documento che cita il terzo figlio (in realtà fu il primo nato dal matrimonio con Gemma) è contenuto nel registro di imbreviature di ser Bernardo Cassi: qui infatti compare Giovanni figlio di Dante di Alighiero, in veste di testimone a un atto rogato il 20 maggio 1314 nella chiesa di Pagnolle , una località oggi nel comune di Pontassieve (Firenze), in occasione dell’assemblea annuale dei capifamiglia di quel popolo.

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A Renato Piattoli , curatore del primo Codice Diplomatico Dantesco pubblicato nel 1940, spetta «l’indiscusso merito nell’aver recuperato una fonte di estrema rilevanza per la biografia dantesca», sottolinea Laura Regnicoli in un saggio pubblicato nel volume «Dante tra il settecentocinquantenario della nascita (2015) e il settecentenario della morte (2021)», pubblicato da Salerno Editrice, in cui illustra i due documenti sul figlio Giovanni . I figli di Dante furono accomunati al padre nella condanna all’esilio del 1315; per quanto riguarda la moglie Gemma, non si sa se abbia raggiunto il marito in esilio. Nei documenti d’archivio successivi alla morte di Dante, ci sono diverse istanze, a nome di Gemma, indirizzate al giudice sui beni dei ribelli, in cui la consorte del poeta chiede lo storno della somma corrispondente alla propria dote dal patrimonio del marito, che il comune aveva confiscato dopo la condanna. Sembra che Gemma Donati abbia riottenuto la dote che era stata incamerata con i beni del marito.

Leonardo Ricciardi 4^D


La Divina Commedia come metamorfosi Nonostante nella schiera dei Grandi Poeti (presentata nel IV canto dell’Inferno) egli sia posizionato da Dante solo al terzo posto per importanza, Ovidio viene molto considerato dal poeta fiorentino, tanto che la stessa Commedia può essere vista come un’opera ispirata al capolavoro del poeta latino, Le Metamorfosi. Quest’opera riprende una tesi espressa nel Timeo di Platone, relativa alle anime che devono compiere un processo di purificazione dalle passioni, prima di poter tornare alla sfera celeste alla quale appartengono. Nel suo poema, Ovidio canta l’intera storia del mondo, fin dalle sue origini come una storia di trasformazioni: tutti gli episodi della mitologia greco-romana sono riscritti, mettendo in primo piano il cambiamento. Nella Divina Commedia, invece, il cambiamento non è descritto dal punto di vista fisico, ma da quello spirituale, è la metamorfosi dell’io, è l’allontanamento dal peccato, è una tensione e, contemporaneamente, un avvicinamento alla redenzione. Nei canti dell’Inferno le anime dei dannati sono descritte non più come esseri umani, bensì come bestie (Vanni Fucci, nella bolgia dei ladri, descrive la sua come una “bestial vita”). Nel regno del Purgatorio, invece, si ha il recupero da parte delle anime della propria umanità.

Nonostante esse siano comunque sottoposte a varie sofferenze, Dante si riferisce a loro non più come bestie, bensì come esseri umani (viene utilizzata, infatti, la parola “omo”) che stanno completando il loro percorso di purificazione. Nel Purgatorio, inoltre, Dante anticipa il suo percorso di divinizzazione che avverrà nella terza cantica. Nel IX canto, infatti, il poeta sogna di essere rapito da un’aquila così come accadde a Ganimede, il quale secondo la mitologia fu divinizzato. La metamorfosi più alta è “l’ineffabil trasumanar”. “Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi. // Trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperïenza grazia serba” (Paradiso, I, 67-72). Mentre nell’opera di Ovidio Glauco diventa una divinità marina mangiando un’erba magica, il poeta fiorentino, nel Paradiso, completa la sua ascesa verso Dio tramite Beatrice, luce deificante che permette al Sommo Poeta di tornare ad essere un “uomo di luce”. Fasciato di luce viva Dante può finalmente vedere il volto abbagliante di Dio. Se si guardano questi esempi, si può capire che la linea metamorfica seguita da Dante è quella che parte dal non uomo infernale, bestia, pianta, all’uomo finalmente uomo del Purgatorio, per culminare all’uomo Dio del beato regno. Questo è il viaggio metamorfico di Dante e di tutti noi.

Luigi Ficociello 4^D

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Dante e i Papi

I rapporti tra Dante e la chiesa del suo tempo non furono mai tanto idilliaci; tuttavia questo non ha impedito alla chiesa di riconoscere la grandezza e la profondità teologica del Poeta fiorentino. Dalla lettura di alcuni documenti che gli ultimi pontefici hanno scritto in occasione dei precedenti centenari della morte e della nascita del Poeta si evince limpidamente il filo conduttore che lega l’interesse per Dante alla Santa Sede, e quindi alla Chiesa. Il papato di Leone XIII, all’interno di un contesto storico, politico e culturale molto particolare, ha dato l’avvio al dantismo papale contemporaneo. Il dantismo di Leone XIII da una parte coincide con la fine del potere temporale dei Papi, dall’altra si “traduce” nella dottrina sociale della Chiesa, espressa a chiare lettere nella “Rerum novarum”. Col suo progetto politico, culturale e pastorale, Leone XIII dimostra che la dottrina politica dantesca è un formidabile strumento di rinnovamento della chiesa nel suo incontro con la modernità. Non manca in seguito la voce del dantismo di Pio X, il primo dei Papi santi del XX secolo, che permette di risalire ed arrivare alla sorgente della sua prospettiva riformatrice, costruita sul motto

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“Instaurare omnia in Christo”.Il documento che meglio esprime la ricezione di Dante durante il papato di Pio X viene pubblicato dopo la sua morte ed esprime un umanesimo cristiano che, in quanto tale, si allontana dalle alte ed aristocratiche sfere della filologia in nome di una “teologia popolare” quale può essere considerato “il libretto del Catechismo”. Nel 1921, in occasione del VI centenario della morte del Poeta, Benedetto XV, raccogliendo gli spunti emersi nei precedenti Pontificati, particolarmente quello di Leone XIII e di San Pio X, commemora l’anniversario dantesco sia con una lettera enciclica “In Preclara Summorum”, sia con il restauro del tempio dove è la tomba di Dante a Ravenna. In questa enciclica, il Papa rivendica l’appartenenza del poeta fiorentino alla Chiesa, tanto da definirlo “nostro Dante”, poiché la sua opera trae “poderoso slancio d’ispirazione” dalla fede cristiana. Nel 1965, per la ricorrenza del VII Centenario della nascita di Dante, Paolo VI, con la Lettera Apostolica “Altissimi cantus”, evidenzia il profondo interesse della Chiesa per la figura di Dante.


Il Papa sottolinea quanto la “Commedia” sia “universale”, perché “abbraccia cielo e terra, eternità e tempo” ed ha un fine “trasformante”, ovvero “in grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal peccato alla santità”. Papa Montini rileva anche “l’ideale della pace” espresso nell’opera dantesca, insieme alla “conquista della libertà” che, affrancando l’uomo dal male, lo conduce verso Dio. Vent’anni dopo, nel 1985, San Giovanni Paolo II richiama un altro termine-chiave della “Divina Commedia”: il verbo “transumanare” che permette all’uomo e al divino di non annullarsi a vicenda. La prima Enciclica di Benedetto XVI, poi, la “Deus caritas est”, nel 2005, mette in luce l’originalità del poema di Dante, cioè “la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto ed un cuore umano”. Oggi, a 700 anni dalla morte di Dante, avvenuta nel 1321, nella Lettera apostolica “Candor lucis aeternae”, Papa Francesco ricorda il VII centenario della morte di Dante Alighieri, sottolineando l’attualità, la perennità e la profondità di fede della “Divina Commedia”.

Il cammino indicato da Dante – spiega Papa Francesco – è “realistico e possibile” per tutti, perché “la misericordia di Dio offre sempre la possibilità di cambiare e di convertirsi”. In questo senso, l’Alighieri è “poeta della misericordia di Dio” ed è anche cantore “della libertà umana”, della quale si fa “paladino”, perché essa rappresenta “la condizione fondamentale delle scelte di vita e della stessa fede”. La libertà di chi crede in Dio quale Padre misericordioso, aggiunge, è “il maggior dono” che il Signore fa all’uomo perché “possa raggiungere la meta ultima”. La Lettera apostolica dà, inoltre, la rilevanza a tre figure femminili tratteggiate nella “Divina Commedia”: Maria, Madre di Dio, emblema della carità; Beatrice, simbolo della speranza, e Santa Lucia, immagine della fede. Queste tre donne, che richiamano le tre virtù teologali, accompagnano Dante in diverse fasi del suo peregrinare, a dimostrazione del fatto che “non ci si salva da soli”, ma che è necessario l’aiuto di chi “può sostenerci e guidarci con saggezza e prudenza”.

Giulia Sessa 2^D

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I Papi nella Divina Commedia

Tra i tanti personaggi che Dante “incontra” nel suo viaggio ci sono anche alcuni Papi, che colloca esclusivamente nell’Inferno e nel Purgatorio, e non nel Paradiso, per affermare la sua dura condanna dell’operato del Papato. Il primo Papa che Dante incontra è Celestino VVidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto (Inf III, 59-60) Celestino V viene collocato tra gli ignavi, una delle categorie dal poeta particolarmente disprezzate, perché Dante è condizionato dal rancore personale; infatti se Celestino V non avesse rinunciato all’incarico di Papa, non sarebbe asceso al soglio pontificio Benedetto Caetani, cioè Papa Bonifacio VIII, che fu artefice dell’esilio politico del poeta. Successivamente incontra Niccolò III, tra i Papi simoniaci, colpevoli di aver fatto mercato delle cose sacre e destinati a essere infilati a testa in giù in una delle buche della terza bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove emergono solo le gambe fino alle cosce mentre fiammelle bruciano i loro piedi. Dante si accorge che uno dei peccatori si lamenta più degli altri e che le fiammelle con cui è punito sono di un colore più acceso. Avvicinandosi, il poeta viene scambiato dal peccatore con Bonifacio VIII (Ed el gridò: Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?), accusato di atti empi nei confronti della Chiesa. Dopo che Virgilio chiarisce il fraintendimento, il dannato si presenta. e veramente fui figliuol de l’orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l’avere e qui me misi in borsa (Inf XIX, 70-72) Si tratta di Papa Niccolò III, della famiglia Orsini, che si arricchì per tutto il corso della sua vita, esercitando continue azioni di nepotismo, e per questo fu condannato. Facendo parlare il dannato, Dante colpisce anche Bonifacio VIII, artefice del suo esilio.

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Tra il poeta fiorentino e il pontefice non ci furono buoni rapporti; questo Papa viene ricordato come colui che nel 1300 proclamò il primo Giubileo della storia, ma Dante lo menziona come colui che fece decadere le speranze di una riforma all’interno della Chiesa e come il fautore delle nuove divisioni fra le fazioni politiche dell’epoca. Nel canto dei simoniaci Dante lo cita ma non lo inserisce direttamente come dannato infernale; nel 1300 (anno in cui è ambientato il cammino di Dante) Bonifacio VIII è ancora vivo e muore nel 1303. Anche nel XXVII Canto dell’ Inferno, nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti, Dante fa riferimento a Bonifacio VIII quando incontra Guido da Montefeltro che gli racconta come è caduto in peccato accusando proprio Bonifacio VIII.Lo principe d’i nuovi farisei (Inf. XXVII, 85) Sempre nel suo colloquio con Dante, Niccolò III esprime anche la sua premonizione: egli sarà, infatti, seguito da due Papi che prenderanno il suo posto : Niccolò III sarebbe stato collocato in un punto sempre più basso delle pareti rocciose della Bolgia. Bonifacio VIII e Clemente V lo avrebbero seguito nello stesso Cerchio, in quanto entrambi simoniaci. Clemente V, in particolare, è stato il responsabile del trasferimento della sede papale ad Avignone e del fallimento dell’impresa di Arrigo VII, in cui Dante aveva riposto le proprie speranze di restaurazione imperiale. Divenne Papa con il sostegno di Filippo il Bello, re di Francia, e fu un pontefice avido e lussurioso.


In Par.,XVII,, 82 l’avo Cacciaguida parla di Clemente V come il guasco che ingannerà l’alto Arrigo, proprio facendo esplicito riferimento alla sua opposizione all’imperatore del Lussemburgo. Nel XXX , 142-148, Beatrice dice di lui palese e coverto / non anderà con lui (Arrigo VII) per un cammino, cioè tradirà l’imperatore il cui seggio è già pronto nella rosa dei beati, profetizzando che il papa sarà sprofondato nella stessa buca della III Bolgia dove sarà prima confitto Bonifacio VIII. … verrà di più laida di ver’ ponente,un pastor sanza legge (Inf. XIX, 82-83) Clemente IV , invece, è ricordato da Dante nel Purgatorio, come ispiratore dello scempio del cadavere di Manfredi operato, di fatto, dal vescovo di Cosenza. Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora. (Purg. III, 124-129) Continuando il suo viaggio, Dante incontra Adriano V fra gli avari e i prodighi nella V cornice del Purgatorio; la loro pena consiste nell’ essere rivolti a terra come in vita furono attaccati ai beni materiali, volgendo le spalle al cielo, perché in vita avevano trascurato i beni spirituali. Martino IV è collocato nel Purgatorio in quanto famoso per essere ingordo di cibi e bevande, soprattutto di anguille e vernaccia. Dal Torso fu, e purga pe l’anguille di Bolsena e la vernaccia (Purg. XXIV, 23-24) Importante è anche il XXVII Canto del Paradiso dove San Pietro accusa: “Non fu nostra intenzion ch’a destra mano d’i nostri successor parte sedesse, parte da l’altra del popol cristiano; né che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo che contra battezzati combattesse”. Il passo è uno dei momenti più alti della polemica di Dante contro la corruzione della Chiesa, qui affidata non a caso a S. Pietro che disprezza i suoi successori corrotti. S. Pietro individua come bersaglio della sua polemica soprattutto Bonifacio VIII, che secondo lui “usurpa” il soglio pontificio. Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, 32

il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso che cadde di qua sù, là giù si placa (Paradiso XXVII, 22-27) Pietro usa parole durissime contro di lui e lo accusa di aver trasformato il suo “cimitero” (il Vaticano) in una fogna sordida della sua corruzione, al punto che Lucifero gode di ciò nell’Inferno; più avanti aggiunge che il simbolo delle chiavi è apposto su vessilli che vengono usati per combattere “contra battezzati”, con riferimento alla guerra con cui Bonifacio espugnò la rocca di Palestrinadove erano asserragliati i Colonna, mentre l’effigie di Pietro viene usata per sigillare documenti che assegnano “privilegi venduti e mendaci”, ovvero la vendita delle indulgenze a scopo di lucro, infatti proprio Bonifacio aveva indetto il primo Giubileo nell’anno 1300, essenzialmente per trarne un vantaggio economico. Tutto il discorso di Pietro rappresenta la critica visione di Dante verso la Chiesa e il Papato, ed è incentrato sul confronto polemico tra la Chiesa delle origini, povera e perseguitata dagli imperatori pagani, e quella del Trecento che vive nella corruzione. S. Pietro dichiara che la Chiesa è stata nutrita col sangue dei primi papi martirizzati, tra cui lui stesso, Lino, Anacleto, Sisto I, Pio I, Calisto I e Urbano I, mentre ora i papi corrotti si arrogano il potere di decidere la sorte dei cristiani attraverso la vendita delle indulgenze. Nel XVIII canto del Paradiso Dante fa riferimento anche a Giovanni XXII senza nominarlo; si rammarica che il malo essemplo dei Papi corrotti induca gli uomini a comportarsi in modo scorretto e che la Chiesa sia danneggiata dal commercio di cose sacre che i pontefici simoniaci praticano per arricchirsi; fra questi ultimi c’è Giovanni XXII, definito da Dante colui che scrive solo per cancellare, con allusione alla revoca dei benefici ecclesiastici al fine di incamerarne i proventi. Dante accusa indirettamente Giovanni di usare l’arma della scomunica per colpire i nemici politici, mentre un tempo si faceva guerra con le spade per difendere la fede;


il poeta pensa quasi certamente alla scomunica contro Cangrande; invita quindi il Papa a pensare a Pietro e Paolo che hanno affrontato il martirio per la vigna che ora il pontefice guasta, ovvero la Chiesa che poco prima è stata definita il templo / che si murò di segni e di martìri. Se Dante avesse conosciuto Papa Karol Wojtyla, un Papa senza paura che si è chinato sulla “sofferenza” e sulle “piaghe “ dell’uomo per dare testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio e della sua misericordia, sicuramente gli avrebbe concesso un posto in Paradiso. San Giovanni Paolo II disse di Dante :”Trasumanare. Fu questo lo sforzo supremo di Dante: fare in modo che il peso dell’umano non distruggesse il divino che è in noi, né la grandezza del divino annullasse il valore dell’umano. Per questo il Poeta lesse giustamente la propria vicenda personale e quella dell’intera umanità in chiave teologica…”,”…Dante lottò per la giustizia, non l’ottenne dagli uomini, la chiese a Dio; la sua fede lo sostenne nel suo viaggio terreno, nonostante l’esilio e le condanne…”.

Simone Mallozzi 2^D

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DANTE, LA GUIDA VERSO IL BENE

La Commedia, soprannominata Divina successivamente da Boccaccio per le tematiche teologiche in essa contenuta, è una delle più importanti opere di Dante che segna il passaggio dalla giovinezza all’età adulta ed è incentrata su come ritrovare la via del bene dopo averla smarrita. Secondo il racconto di Giovanni Boccaccio, sarebbero stati i figli di Dante ad aver trovato gli ultimi canti del Paradiso dopo la sua morte. Il bene e il male sono un argomento centrale anche nella tradizione biblica dove l’Albero della Conoscenza, è l’albero dell’Eden, menzionato nella Genesi assieme all’Albero della Vita, da cui scaturì il peccato originale a seguito dell’infrazione del divieto posto da Dio ad Adamo ed Eva di mangiare frutti. Alighieri impronta tutta la Divina Commedia sui sentimenti e le passioni per la nazione e sull’amore verso la sua patria. Fu tra i primi ad esprimere le proprie idee riguardo l’indipendenza dei rapporti tra Stato e Chiesa. Forse è anche grazie a lui se oggi nella nostra Costituzione troviamo gli articoli 7-8, improntati proprio su questa tematica. Nonostante siano passati svariati secoli dalla sua epoca, è ricca di analogie con la vita moderna, la sua modernità intellettuale è molto vicina alla nostra e questo può farci solo capire che non ci sono barriere tra la nostra epoca e la sua. E’ impressionante come un uomo del XIV secolo riuscisse ad interessarsi alla poesia così come alle faccende politiche che interessavano il suo Paese. Dante è dunque l’esempio da seguire per gli uomini e i poeti successivi, l’autore che più di tutti riesce a rispecchiarsi nella società di oggi. Non c’è tempo che separi i nostri secoli, la vera arte è ciò che sussiste nel tempo. Alighieri ci spiega nella sua Commedia che ogni azione che compiamo in vita avrà ripercussioni 35

nell’aldilà e quindi bisogna dare amore, donare amore e perdonare anche chi non merita. Il poema è scritto in forma allegorica e racconta fatti reali, utilizzando spesso significati simbolici; Dante vuole insegnarci la strada giusta affinché l’umanità abbandoni il peccato e torni sulla retta via, proprio come l’esperienza che ha vissuto in prima persona. E’ questo, difatti, il tema da noi scelto: la ricerca del bene. Incominciamo dall’Inferno, poiché solo partendo dal male potranno essere riconosciuti il vero bene e la beatitudine, è questa la lezione che si impara dai primi canti di quest’opera.E’ proprio leggendo la Divina Commedia che capiamo di aver bisogno di intraprendere un viaggio per poter trovare quel benessere di cui ognuno di noi necessita. Ma cosa si intende per Bene? Il termine oggi ha due significati, a volte percepiti allo stesso modo, altre volte contrapposti: per un verso si intende “benessere’’, per l’altro si intende ‘’bontà’’. Il bene come ci insegna Dante non esiste o non si manifesta in una sola forma ma ogni individuo intende per bene cose diverseLa religione cristiana, concentrando in Dio tutti i valori, lo concepì come il Sommo Bene e quindi gli attribuì ambedue i significati. L’etica moderna tende a concepirlo come l’eterno sforzo di raggiungere un piacere o come quel momento in cui la moralità diviene pienezza di soddisfazione interiore, che dà valore anche all'utile. L’uomo, sapendo della sua esistenza, cerca di praticarlo così come fece Dante. Il problema, però, sussiste quando ci riferiamo a Dio, poiché lo si può conoscere ed incontrare solo tramite la ragione, non essendo una sostanza concreta. Anche il poeta, infatti, per poter incontrare Dio nell’ Empireo, applica la ragione; per questo decide di intraprendere quel viaggio che lo porta a riscoprire la verità del bene.


Il viaggio immaginario del poeta, della durata di sette giorni è una continua lotta fra il bene e il male per poter arrivare a Dio, con l’unico scopo di trovare l’eterna felicità e abbandonare la vita dell’oscurità. Verrà accompagnato da tre guide, che avranno il compito di condurlo sulla retta via. Quando Dante sarà accompagnato da San Bernardo di Chiaravalle verso la fine del suo percorso, arriveremo a capire il significato del Bene per lui. Il viaggio di Dante inizia all’alba del venerdì santo del 1300 nell’Inferno e l’ingresso si trova a Gerusalemme. Nell’Inferno il tema centrale è l’esperienza del peccato, che procurerà a Dante anche momenti di sconforto e scoraggiamento. Prima ancora di entrare nelle porte dell’Inferno, l’autore troverà la strada sbarrata da tre fiere: la lonza, simbolo della lussuria; il leone, simbolo della superbia e la lupa, simbolo dell’avarizia. Qui accorrerà in suo aiuto Virgilio, poeta latino, da sempre ammirato da Dante. ll colle che Dante vede, il quale ha il sole alle spalle, è la strada certa che porta alla luminosa salvezza in Cristo. Le tre fiere rappresentano tre dei sette peccati capitali e sono i vizi che impediscono il procedere di Dante lungo la strada della virtù. Virgilio, guida di Dante, è allegoria della ragione e della filosofia umana che possono condurre l’anima alla salvezza riesce a far affrontare le tre bestie.a Commedia è stata oggetto di studi fin dall’ antichità. Uno dei tanti studiosi ad averla esaminato è stato il tedesco Erich Auerbach. Egli ha dedicato un importante saggio al sistema allegorico medievale di interpretazione del mondo, che ha definito Concezione figurale.Così come per gli interpreti dei libri sacri i fatti raccontati nella Bibbia alludono

a verità religiose senza perdere la loro verità storica, allo stesso modo per Dante i fatti e i personaggi che sono presenti nella Commedia alludono all’ ordinamento divino dell’universo senza che venga meno la loro realtà. Seguendo l’esempio di Virgilio che soccorre Dante, non basta considerarlo solo un’allegoria della ragione umana ma bisogna prendere in considerazione l’opinione degli interpreti moderni che hanno evidenziato maggiormente il suo aspetto umano. La concezione figurale ha il compito di annullare la differenza tra valore storico e significato recondito. L’ intera opera è basata su quest’ ultima poiché Dante vi rappresenta l’universo già sottoposto al giudizio di Dio e per questo motivo le anime che incontra nell’ aldilà non sono da considerarsi unicamente solo configurazioni allegoriche di concetti astratti ma tenendo conto del loro carattere storico e umano.l viaggio nell’Oltretomba è il percorso che l'uomo intraprende nella propria conoscenza morale per apprendere cosa sono il bene e il male. Virgilio sarà, dunque, la candela in una stanza buia, il pane di chi ha fame, i fari per un guidatore nella nebbia. Inizialmente i due avranno un rapporto di maestro-alunno, che pian piano arriverà a essere sempre più confidenziale, tant’è che Dante noterà in lui una figura paterna che lo accompagnerà quasi fino alla fine del suo viaggio. Egli attraverso l’incontro con Virgilio, comprende è quasi impossibile superare le difficoltà da soli. Difatti, nella vita si ha sempre bisogno di un punto di riferimento che possa mostrarci il bene, anche quando noi non lo vediamo. L’unione del poeta con il suo maestro si scopre nei seguenti versi tratti dal canto I dell’Inferno, che ora ripercorreremo:

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Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco.

evanescenti a causa del lungo silenzio. Non appena vidi costui in quella landa desolata, gli gridai: <<Abbi pietà di me, chiunque tu sia, spirito o uomo vero!>> Mi rispose:<<Non sono più un uomo, ma lo fui,

Quando vidi costui nel gran diserto, "Miserere di me", gridai a lui, "qual che tu sii, od ombra od omo certo!". Rispuosemi: "Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui.

e i miei genitori furono dell’Italia settentrionale, tutti e due mantovani di nascita.Nacqui, sebbene troppo tardi, al tempo di Giulio Cesare, e vissi a Roma sotto l’impero del valente Augusto, al tempo degli dei falsi e bugiardi.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Fui poeta e cantai di quel giusto figlio di Anchise che venne da Troia, dopo che la superba IIio fu bruciata

Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché torni al così grande affanno di questo logo? Perché non Sali il beato monte, principio e causa di totale felicità?>>

Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?". "Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?", rispuos’io lui con vergognosa fronte. "O de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e’l grande amore che m’ ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ ha fatto onore.

<<Sei davvero il famoso Virgilio e quella fonte che spande un così grande fiume di eloquenza? >>, gli risposi con la fronte abbassata. <<O tu che sei l’onore e la guida degli altri poeti, mi giovi la costante attenzione e il grande amore che mi ha spinto a studiare a fondo la tua opera. Tu sei il mio maestro e colui che ha su di me grande autorità, da te solo io trassi quello stile alto che mi ha procurato onore Vedi la bestia per cui io mi voltai indietro;

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi".

difendimi da lei, o famoso saggio, poiché mi fa tremare le vene e le arterie. Dante Alighieri, Inferno, canto I, vv. 61-90

Mentre io precipitavo verso il basso mi apparve dinanzi agli occhi una figura di aspetto e voce .

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Grazie al compagno Virgilio, Dante capirà che, per trovare la felicità, occorre cercarla insieme ed accettare di passare attraverso il male, il dolore, la sofferenza, la morte propria e altrui. Il viaggio dei due segue un percorso in discesa, a spirale, nell’abisso infernale, mentre il cammino sulle balze della montagna del Purgatorio è ascensionale: è uno scendere per risalire. Durante il percorso Dante pone continue domande al suo compagno di viaggio condividendo ogni suo dubbio e ansioso di trovare delle risposte in lui. Attraversando i vari gironi, Dante vedrà solo dolore e peccato. Noterà che il male è sempre presente, ma il bene trionferà sempre. Essendo il male un concetto relativo, è naturale chiedersi come l’autore abbia fatto a distinguere le varie specie di peccati, a determinare la gravità delle colpe e delle pene dell'Inferno.Il poeta fiorentino seguì la filosofia di Aristotele, che distinse i peccati in ordine crescente di gravità. Il male per Dante è l'eccesso, la smoderatezza, la mancanza di senso della misura. Inoltre, si snoda in tantissime altre forme, in quanto tutto può essere male se viene eseguito o pensato come tale. Il cammino alla ricerca del bene continuerà per vari gironi dell’Inferno, fino a quando Dante, sempre accompagnato dal suo fedele compagno di viaggio, giungerà al Purgatorio, dove sono presenti caratteri differenti rispetto al regno precedente. Per quanto concerne il senso fisico, possiamo dire che alla cavità a imbuto dell’Inferno corrisponde, nell’emisfero opposto, il monte del Purgatorio come si può evincere. In senso morale poi, si può notare che nell’Inferno Dante scende verso il centro della Terra, verso i peccati peggiori mentre nel Purgatorio sale verso il cielo, pentendosi di sbagli via via più lievi.regni hanno differenze sostanziali: il primo scenario è il regno della dannazione e della disperazione dove i dannati rimarranno lì in eterno regolati dalla legge del contrappasso; il secondo è un regno transitorio dove c’è un’atmosfera serena e le anime vengono sottoposte al giudizio universale.

Infine c’è il Paradiso, un mondo etereo dove Dante sarà accompagnato da Beatrice, la quale rappresenta la Fede. La donna lo guiderà fino all’Empireo, sede di Dio. La donna amata è considerata la figura portante della Divina Commedia e la sua presenza ha ispirato e mosso la vita di Dante intellettualmente e spiritualmente. La donna rappresenta, per un verso, l’idea stilnovista che muove il cuore del poeta, la cosiddetta donna Angelo, mentre nella Commedia è la rappresentazione della teologia cristiana. Nel Paradiso, Beatrice rimprovera Dante in moltissime occasioni; legge i suoi pensieri, risponde alle domande prima che lui le ponga e ride della sua ingenuità. La sua prima apparizione si ha nel XXX Canto del Paradiso, al termine della processione simbolica. E’ qui che Dante mostrerà il concetto di felicità, concetto umano, ovvero la soddisfazione che si prova nel sentirsi al proprio posto nel mondo, realizzati e soddisfatti. Il concetto di felicità si avvera con il realizzarsi della persona e produce un sentimento che si manifesta in modo indipendente da ciò che accade all’esterno della vita. Il percorso esistenziale e poetico della Commedia non è lineare, anzi conosce alti e bassi, esaltazione e abbattimento, successi e insuccessi, potere ed esilio. L’autore arriva addirittura al punto di smarrire se stesso, di perdersi nell’oscurità di una vita priva di significato, di rassegnarsi ad un’esistenza senza speranza. In questa difficile situazione riesce ad intravedere un’alba ed una primavera, come se il quotidiano si alternasse tra luce e tenebra. Nel XXXI Canto del Paradiso, Beatrice lascia il suo posto a San Bernardo di Chiaravalle, che accompagnerà il poeta nell’ultima parte del suo viaggio e alla visione di Dio. Bernardo invita Dante a osservare la parte più alta della Candida Rosa dei beati, dove si trova Maria; a lei il santo intonerà una preghiera dal tono alto e solenne. Questi versi descrivono l’incontro avvenuto tra da Dante e Maria:

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La forma general di paradiso già tutta mïo sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso;

di tante cose quant’ i’ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute.

e volgeami con voglia rïaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa.

Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’ i modi che di ciò fare avei la potestate.

Uno intendëa, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glorïose.

La tua magnificenza in me custodi, sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi».

Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene.

Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l’etterna fontana.

E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io. Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio;

E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi perfettamente», disse, «il tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi,

e se riguardi sù nel terzo giro dal sommo grado, tu la rivedrai nel trono che suoi merti le sortiro».

quanto lì da Beatrice la mia vista; vola con li occhi per questo giardino; ché veder lui t’acconcerà lo sguardo più al montar per lo raggio divino.

Sanza risponder, li occhi sù levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da sé li etterni rai.

E la regina del cielo, ond’ ïo ardo tutto d’amor, ne farà ogne grazia, però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».

Da quella regïon che più sù tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare più giù s’abbandona,

Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l’antica fame non sen sazia,

Dante Alighieri, Purgatorio, canto XXI, vv.52-142

ma dice nel pensier, fin che si mostra: ’Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?’;

...ma nulla mi facea, ché süa effige non discendëa a me per mezzo mista.

tal era io mirando la vivace carità di colui che ’n questo mondo, contemplando, gustò di quella pace.

«O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige,

Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo», cominciò elli, «non ti sarà noto, tenendo li occhi pur qua giù al fondo;

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e a quel mezzo, con le penne sparte, vid’ io più di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d’arte.

ma guarda i cerchi infino al più remoto, tanto che veggi seder la regina cui questo regno è suddito e devoto».

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi;

Io levai li occhi; e come da mattina la parte orïental de l’orizzonte soverchia quella dove ’l sol declina, così, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l’altra fronte.

e s’io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia.

E come quivi ove s’aspetta il temo che mal guidò Fetonte, più s’infiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo,

Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei,

così quella pacifica oria fiamma nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte per igual modo allentava la fiamma;

che ’ miei di rimirar fé più ardenti. che ’ miei di rimirar fé più ardenti. Dante Alighieri, Paradiso, canto XXXI, vv.52-142 In seguito a questi versi avviene una vera e propria supplica da parte di Dante nei confronti della Vergine che accoglierà questo gesto rivolgendo il suo sguardo verso l’alto nel luogo in cui risiede Dio. Finalmente riuscirà a vedere il traguardo dopo un cammino sfiancante costituito da momenti tenebrosi e sconfortanti. La vita di ogni individuo è costituita da alti e bassi: continuamente sottoposti a tentazioni terrene e bisogna non cedere ad esse. Dante ci insegna ad essere pazienti affinché, dopo la tempesta, possa sorgere anche per noi il sole, esattamente com’è successo a lui nel suo viaggio ultraterreno. La Divina Commedia è l’opera che ci insegna maggiormente che nonostante si possa intraprendere la via del male nella propria vita non è mai troppo tardi per ricongiungersi al bene. Attraversare questo percorso con il poeta, seppur settecento anni dopo la sua morte, ci ha fatto capire che solo grazie alla lettura e allo studio delle materie umanistiche riusciamo a cogliere il perfetto significato di queste opere. Dalle sue scritture traiamo importanti insegnamenti utili nella nostra quotidianità. Da questi approfondimenti e dagli studi che svolgiamo abitualmente possiamo considerare Dante come un compagno che ci illustra la via del bene esattamente come Virgilio lo è stato per lui nella Divina Commedia.

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3B Federica Di Meo, Sofia Di Tano, Lara Gulino, Umberto Sangiorgio.


Dante, i' vorrei che tu Virgilio ed io INTRODUZIONE Da sempre noi studenti siamo affascinati dalla figura di Dante Alighieri, il divino Poeta. Studiamo e impariamo a conoscere questo autore-personaggio e la sua Commedia; lo accompagniamo con passione nel suo viaggio ultraterreno. Partecipiamo al suo smarrimento quando sente di aver abbandonato la via del bene, perché almeno una volta nella vita ognuno di noi si è sentito perso. Arretriamo con lui quando incontra la lonza, il leone e la lupa, le tre fiere infernali che interrompono il suo cammino e da cui viene intimorito. E quando scopriamo che rappresentano tre dei sette peccati capitali: lussuria, superbia e cupidigia, diventiamo ancora più solidali con lui e pronti ad affrontare il viaggio che ci attende. Più ci addentriamo nella lettura, a dispetto dell’oscurità della selva, maggiore diventa la chiarezza di essere di fronte ad un genio. Lo studio dell’opera dantesca è una continua scoperta e la cosa più sorprendente è la sua attualità. La cosa più sorprendente è la sua attualità, nonostante la Commedia esista da diversi secoli è ricca di analogie con la vita moderna ed è perciò sbagliato considerarla una realtà lontana dalla nostra. Dante narratore è artefice degli eventi, padrone della sua storia e desideroso di raccontarla; come un protagonista, sorpreso dalle circostanze in cui si trova ma rassicurato dalla presenza di Dio. E ’ eccezionale l’impresa che compie nel suo viaggio ultraterreno. Dio lo ha scelto, ma le fragilità di Dante uomo lo rendono vicino a noi, è come un uomo del nostro tempo che ha perso le sue certezze, che soffre per i suoi errori, che cerca una redenzione per essere migliore. Ma nessuno si salva da solo. Ed ecco che arriva Virgilio a soccorrerlo, allegoricamente interviene la ragione umana. Dante è da sempre un grandissimo estimatore del poeta latino, come è confermato dai tanti appellativi con cui gli si rivolge: maestro, duca, guida e addirittura padre.

Il Poeta gli attribuisce quest’ultimo nome proprio perché in un momento di difficoltà è stato il primo a confortarlo e da allora è diventato il suo punto di riferimento nei primi due regni ultraterreni. E poi c’è lei, Beatrice, la donna che sembra essere venuta dal cielo a rappresentare la grazia divina che conduce alla salvezza umana e diventa fonte di ispirazione per molti altri suoi scritti. Un’opera interamente indirizzata a lei è la “Vita Nova” scritta dopo la sua morte precoce, ed è sempre Beatrice a condurlo al cospetto di Dio al termine del viaggio. Nella Divina Commedia, nell’Inferno in particolare, un aspetto fra gli altri colpisce maggiormente. Dante prova curiosità, si interessa dei racconti delle anime dannate, chiede notizie della triste sorte e di quello che sarà, ha sete di informazioni che appaghino il suo bisogno. Dalla curiositas , legittima in un uomo così arguto e giustificata dalla sete di sapere, come recitano i versi pronunciati da Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti , ma per seguir virtute e conoscenza”[1] nasce il desiderio. Una forza motrice che spinge a raggiungere l’obiettivo, qualsiasi esso sia. Un concetto quanto mai moderno e attuale, anche se è sempre più difficile trovare qualcuno nella società odierna con dei desideri che non siano materiali, che si riducano al semplice vedere – volere – ottenere senza il minimo sforzo, dimenticando quasi cosa significhi lottare per raggiungere un obiettivo alto, un ideale. Non prendere posizione nella propria vita significherebbe vivere una vita asettica, senza desideri, senza traguardi; per Dante significherebbe essere macchiati della colpa peggiore, l’ ignavia. E’ da questa riflessione che nasce quanto segue. 41


CAPITOLO I Mi giro e rigiro nel letto, stanotte il sonno sembra non volermi fare visita. Che giornata impegnativa oggi, eppure pensandoci non ho fatto tutto ciò che dovevo. L'inverno è così triste che l'unico modo per non lasciarmi inghiottire dalla noia è illudermi di essere in un'isola tropicale lontano da ogni tipo di stress. Come vorrei una bella pausa ogni volta che ne ho bisogno, uno schiocco di dita e tutto risulta semplice e piacevole. Ritorno con i piedi per terra ed è già l'una, mi chiedo perché il tempo sia così ingiusto da andare veloce solo quando non ne ho bisogno. Quasi dimenticavo di puntare la mia sveglia, domani risveglio traumatico con la mia consegna scaduta dei compiti di matematica e un caffè sul fuoco per riprendere coscienza di me. Accendo il cellulare e imposto la sveglia, quasi mi sorprendo del mio tentativo di essere puntuale, spengo il display e tiro su il mio lenzuolo per la milionesima volta. È normale che le temperature si abbassino notevolmente in questo periodo, ma un gelo insolito sembra penetrarmi tutto d'un tratto nelle ossa in maniera inverosimile. Chiudo gli occhi appoggiandomi sul cuscino e il sonno sembra prendermi con sé. Un lamento inquietante mi giunge all'orecchio e in preda alla sonnolenza temo quasi che la mia insonnia si sia incarnata in uno spirito o nel famoso mostro sotto al letto , la mia mente fantasiosa non smette mai di sorprendermi. Decido di assecondare per assurdo quel lamento sempre più vicino che sembra lentamente fondersi con altre tonalità di suoni cupi. Mi pare quasi di diventare pazzo e di non riuscire più a distinguere la realtà dal sogno. Quei sospiri angoscianti sembrano tramutarsi in urla tormentate sempre più vicine a me, quasi ad avvolgermi e a soffocarmi. Lì, solo, immerso in quell’oscurità sento quelle grida e quei gemiti unirsi a forti percosse e imprecazioni d’ira. Inizio in quel momento ad avere la testa piena di smarrimento, di timore e non mi resta che trovare conforto nelle lacrime.

Mi torna in mente la lezione di oggi con la professoressa di italiano. La mia attenzione scarseggiava poiché ero stanco dell’infinita spiegazione ed avevo trovato una buona scusa per evadere da quell’aula. Al mio rientro avevo trovato la prof intenta a recitare i versi della Divina Commedia: è suo solito immedesimarsi nei canti fino a diventarne parte integrante. Questa scena impressa nella mia mente mi dà la strana sensazione di essere rimasto prigioniero della mia mancanza di interesse verso l’argomento. E se fossi io il protagonista di una moderna Divina Commedia? Se mi trovassi davvero nel mondo dell’eterno buio di cui tanto parlava la mia prof? E se stessi vivendo esattamente lo stesso viaggio di Dante a 700 anni dalla sua morte? Quasi non mi riconosco nel pensare tali cose, se tutto questo fosse vero avrei paura di ciò a cui andrei incontro. A passi lenti avanzo nell’oscurità finché di fronte a me scorgo un’insegna. “ Lasciate ogne speranza, voi ch’ intrate”[2] Non posso in alcun modo non riconoscere questa iscrizione, senza ombra di dubbio mi trovo all’ingresso della porta dell’ Inferno. Mi chiedo se la cosa giusta sia provare a tornare indietro o se oltrepassare quella terrificante porta. Quelle parole risuonano nella mia testa lettera per lettera come se non possa più liberarmene, il loro significato minaccioso non mi impedisce però di sfidare me stesso e proseguire. Ho bisogno di sapere, il desiderio vince la paura. CAPITOLO II Dopo un grande respiro e un pieno di coraggio mi trovo al di là della soglia. Tra quel rumore tumultuoso ormai risuonante in quel luogo e quell’eterno buio, a cui sembro aver fatto l’abitudine, noto due ombre a pochi metri da me. Stavolta non esito ad avanzare, non so bene se per il mio bisogno di aiuto o semplicemente guidato dalla mia curiosità. Uno dei due soggetti si volta verso di me facendo segno all’altra sagoma di venirmi incontro. Ora che entrambi sono girati mi accorgo di aver visto i loro volti tra le pagine del mio libro di letteratura.

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Ho quasi paura ad ammettere di interfacciarmi con due persone di cui ho sempre e solo sentito parlare o che ho visto nelle patinate pagine dei libri. Adesso sono qui, in carne ed ossa dinanzi a me. Si tratta indubbiamente di Dante e Virgilio, sono esattamente come li immaginavo. Sono talmente disorientato dal contesto in cui mi trovo che mi sembra di aver perso le parole. DANTE: Alessandro come mai ti ritrovi in questo regno? Quella voce tanto profonda quanto maestosa mi coglie di sorpresa. Come fa a conoscere il mio nome? - Dovrei essere io a farti la prima domanda su come tu sappia il mio nome. DANTE: Queste sono domande estremamente futili, dovremmo soffermarci sulla ragione della tua presenza qui. Aspetto qualche secondo prima di ribattere, neppure io ho una vera e propria motivazione per cui mi trovo qui. Arrivo quasi a sentirmi in colpa per non aver mostrato interesse in classe quando si parlava di lui, magari ora sarei preparato a questo incontro. L’intervento di Virgilio spezza il silenzio prima che possa formulare una risposta. VIRGILIO: Avremo tempo per darci risposte, ora abbiamo fretta di proseguire. CAPITOLO III Sono trascorsi pochi istanti ma sembrano già trascorsi giorni. La strada che stiamo percorrendo mi intimorisce e ho la paura di restare intrappolato in questo luogo per chissà quanto tempo. Non so se fidarmi delle persone che ho accanto, dato che fino ad oggi non avrei mai avuto nulla da condividere con loro se non le pagine da portare all’interrogazione. Per quanto la situazione sia bizzarra non ho altra scelta che fidarmi di loro. -Uno di voi saprebbe spiegarmi a cosa è dovuto questo continuo lamento? Dante accenna un sorriso, come se queste mie parole non siano per lui nuove. VIRGLIO: Giovane, ciò che tu mi chiedi mi è stato già domandato secoli prima e ti risponderò allo stesso modo.

“Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro degli angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’ellI”[3] Che cattiva sorte è toccata a questa gente! Per essere così disprezzati dovranno aver compiuto in vita delle azioni riprovevoli. Anche solo il tono con cui vengono descritti mi fanno immaginare delle persone estremamente cupe e sole. - Cosa li spinge a lamentarsi così incessantemente? Da quando ho messo piede il questo posto non hanno mai interrotto i lamenti. VIRGILIO: “Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte e la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di loro, ma guarda e passa.”[4] Queste ultime parole sembrano colpirmi in prima persona, quasi come se siano riferite a me. Dovrei scegliere tra ascoltare Virgilio e quelle sue considerazioni oppure non curarmene, fare tesoro di questa esperienza vivendola al meglio e conoscendo questi personaggi tanto odiati. - E se vi sbagliaste su di loro? Se non meritassero questa posizione nell’aldilà? O ancora, se avessero avuto dei buoni motivi? Dante, che fino ad allora era stato silenzioso si girò verso di me adirato, incredulo di aver ascoltato uscire dalla mia bocca quelle parole. DANTE: Caro ragazzo, la tua intenzione è forse quella di avere la loro uguale pena? Non dovrebbe neppure sfiorarti l’interesse verso questa gente, guarda a cosa è toccato loro! Sento dentro di me la curiosità di dover sapere di più, di non fermarmi a quelle raccomandazioni bensì di approfondirne le motivazioni.

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Senza avere il tempo di pensarci mi trovo davanti a uno scenario raccapricciante. Il mio sguardo viene catturato da un’insegna velocissima che muovendosi in cerchio sembra incapace di fermarsi. Dietro di essa segue una schiera di anime tormentate di cui non riesco a distinguere i tratti del volto. I loro corpi nudi sono punti continuamente da vespe e mosconi che non si allontanano mai da loro. Il sangue misto alle lacrime scorre lungo il corpo di questi sciagurati fino ai loro piedidove vermi repellenti lo raccolgono. Non oso immaginare cosa si provi vivendo ogni giorno in queste condizioni. - Fermatevi! Ho bisogno di risposte, qualcuno si fermi! Non so cosa mi abbia spinto a urlare contro i miei compagni di questa insolita avventura. Sto elemosinando la loro attenzione e so solo che se mai andrò via da qui voglio farlo dopo aver imparato qualcosa. Dante e Virgilio, a pochi passi da me, sembrano non volermi rivolgere la parola. Il loro silenzio mi fa pentire di non aver proseguito senza fare domande e inizio a pensare che passerò inosservato. Proprio quando scelgo di arrendermi e dare ascolto alle due mie due guide, uno dei dannati fra quelli a rincorrere l’insegna, viene verso di me. Esce dalla folla lentamente con l’intenzione di dire qualcosa. Il suo volto deformato dal peccato mi terrorizza e il suo corpo straziato mi disgusta. Il dannato avanza e mi dice: -Osservami attentamente, io sono il motivo per cui ti trovi qui. Quella voce, quel viso deturpato, un brivido percorre la mia schiena. Sono io. Ho di fronte a me l’immagine strasfigurata di me stesso. Le mie guide mi esortano a non fermarmi , ma la mia curiosità è grande. Il mio desiderio in questo posto e davanti a questo scenario sembra alimentarsi. Ho tante domande porre ma resto attonito. Mi sento un po’come Dorian Gray davanti al suo ritratto. Non voglio stare fermo a guardare ciò che potrebbe accadermi.

Quante volte sono stato distratto, apatico, impegnato in passatempi inutili invece di cercare risposte. Sono ancora in tempo a riprendere in mano la mia vita partendo da me stesso. Il mio alter ego ignavo sta per aggiungere qualcosa, ma.. Alessandro, alzati o farai tardi!!!- grida mia madre dalla cucina, mentre il profumo di caffè aleggia nell’aria. L’urlo mi fa sobbalzare. Adesso sono sveglio, ma non perché mi stia alzando dal letto nonostante la bassa temperatura, non perché la voce melodiosa di mia madre e dei miei fratelli che s’inseguono per casa mi abbiano convinto. E’ come se per la prima volta sentissi il desiderio crescere dentro di me, il bisogno di conoscere. Non avevo capito l’importanza delle piccole e delle grandi cose che ci circondano. Non lascerò più che la superficialità mi renda vuoto, ogni opportunità è un passo verso la conoscenza. L’ignoranza genera la paura, la superstizione, la chiusura. Il desiderio della conoscenza e la conoscenza stessa possono salvare gli uomini. La verità è che dopo questo sogno mi è venuta voglia di andare a scuola, di ascoltare ed imparare, di arrivare alla fine di quel viaggio insieme a Dante. Sono sveglio, davvero. Desidero essere una persona migliore.

BIBLIOGRAFIA 1:Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI, vv.119-120 2: Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto I, vv.9 3:Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, vv.34-42 4: Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto III, vv.45-51 3B

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“L’amor che move il sole e l’altre stelle”: l’amore nel viaggio di Dante. Dante appare nella sua epoca una figura radicata più di qualsiasi altra nella nostra e ciò che lo rende tale è principalmente l’amore. Il poeta si colloca, infatti, nella corrente da lui stesso chiamata “Dolce Stil Novo”, dove è presente il “mito” della sua giovinezza che è Beatrice, fonte di ispirazione per la maggior parte delle sue opere. Costei è vista da Dante non come metafora di essere angelico, come accadeva nella poesia cortese, ma come un vero e proprio angelo, degno di lode. L’amore per Beatrice conduce Dante all’amore per la cultura, che lo aiuterà ad affrontare un periodo di traviamento, causato dalla morte dell’amata nel 1290. Le novità più originali, più importanti per gli esiti che avranno poi nella Commedia, si esplicano in due gruppi di testi, posteriori alla Vita nova: le cosiddette “rime petrose”, in cui l’amore che il poeta prova è caratterizzato esclusivamente come sensazione fisica e carnale, mentre le canzoni allegoriche sono d’argomento morale e dottrinale, come quelle poi scelte nel Convivio. Tra le opere dell’autore vi è anche la Vita Nova, dedicata alla donna amata, dove Dante raccoglie delle poesie scritte in giovinezza a partire dal 1283, data in cui incontra Beatrice. I testi sono preceduti da commenti in prosa. Nella Vita Nova l’autore afferma anche la sua intenzione di scrivere per la donna amata un’opera nuova e meravigliosa: la Commedia. Nel capolavoro della Divina Commedia Dante incontrerà tante donne a partire dall’Inferno, dove nel cerchio dei lussuriosi parlerà con Francesca, la quale, attraverso la lettura di quel libro “Galeotto”, che ha tema la passione di Lancillotto e Ginevra, si lasciò trasportare dall’amore verso Paolo, suo cognato, tradendo, così, il marito il quale, scoprendo i due, li uccise. Nella Commedia Dante mette a fuoco la provocazione nata nel suo animo dopo l’incontro con Beatrice: l’amore accompagna tutta l’opera, a partire dall’iscrizione incisa sulla porta dell’Inferno. 45

È il sommo amore, infatti, che ha creato questa realtà che Dante si appresta a percorrere ed è l’amore il punto conclusivo del viaggio tramite l’incontro del poeta con Beatrice e con Dio stesso.Quale sentimento può concedere la forza di continuare a scrivere se la morte ti deruba e ti sottrae la tua più innocua e gentil Musa, se non il vero Amore? Quale sentimento permette di ricercare continuamente quale fosse la ragione della sua angelica bellezza e di capire ciò che è accaduto nell’esatto momento in cui, guardandola fissa nei suoi profondi occhi, il tempo sembra quasi congelarsi, se non l’Amore? Tutto ha inizio con la stesura della Vita Nova, un viaggio interiore volto alla scoperta del sentimento più puro verso di lei, Beatrice. Quale altro nome avrebbe potuto significare una più ampia sensazione di tranquillità e gioia? Beatrice, un miracolo gentile, una cosa smisurata tanto da essere desiderata in sommo cielo e rendere tormentata la ricerca di un suo sorriso, una sua parola, un suo sguardo. La Vita Nova ci presenta un Dante sensibile, intimo, che si smarrisce nella sua delicatezza e nella sua visione angelica della donna amata. Nel primo incontro avvenuto all’età di nove anni durante una festa organizzata dal padre di Beatrice, Dante conosce la sua amata, ancora innocua e dolce, ignara del destino e dell’amore che legherà, sino alle porte del Paradiso, per sempre entrambi; il suo fascino, agli occhi del piccolo Dante, diventa totalizzante nella sua meraviglia, sembra derivi da un altro mondo o addirittura i suoi perfetti lineamenti la facevano somigliare ad un angelo caduto dal Paradiso. Da lì a poco, la vita del poeta cambia totalmente, una rinascita delinea la sua intera esistenza,


una Vita nova era orami segnata da quell’incontro che sottomise Dante all’amore per quella fanciulla. Il suo incontro diviene una benedizione, proprio come il nome di Beatrice, che richiama come significato etimologico il concetto di beatitudine. La serata scorre, ma il poeta rimane sempre più tormentato e meravigliato da tanta bellezza, che suscita in lui sensazioni inspiegabili e inaspettate. Terminata la festa, Dante, scombussolato da ciò che era precedentemente accaduto, ritorna a casa, si ritira in camera sua e si addormenta, con l’intento di rivedere, una volta chiusi gli occhi, il viso angelico che un giorno, a distanza di anni, sarebbe stato celebrato nei suoi versi più originali e sentimentali. Dante e Beatrice, oramai cresciuta e promessa in sposa a Simone de’ Bardi, membro della famiglia Bardi, probabilmente di origine celtica, la cui casata divenne una delle più note e ricche di Firenze, si persero di vista per molti anni, sino ad una soleggiata mattina ove il saluto della giovane donna, durante una passeggiata mattutina, lo immobilizzò, il cuore gli batteva forte in gola, lo stomaco gli sembrava rivoltarsi interrottamente, portando via ogni singola forza. Succedeva sempre cosi, ogni qualvolta i loro sguardi si incrociavano, qualcosa accadeva in Dante; tali sensazioni si presentavano sempre allo stesso modo, dal tremolio delle mani che precocemente si diffondeva in tutto il suo fragile corpo, al blocco spontaneo della parola (“ch'ogne lingua devèn, tremando, muta” vv 3); erano segni di amore, del suo grande amore verso una gentil e onesta donna, un’àncora di salvezza alla quale dedicare i suoi versi più importanti, come quelli della poesia “Tanto gentil e tanto onesta pare”, un sonetto nutrito dal suo profondo sentimento legato a colei che di gentilezza e onestà ne aveva da vendere. Beatrice era la “cosa” o, per meglio dire, la “causa” del suo amore, la causa del percorso interiore che Dante compie per arrivare al tutto: Dio. Ricercare parole, rime, musicalità e metrica per compiere il sonetto

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“Tanto gentil e tanto onesta pare” e completare la “Vita Nova” diventa per il poeta fiorentino una strada per avvicinarsi a Beatrice, sradicata dalla vita e dall’esperienza della morte,che guasta la bellezza omettendo la sua eternità, distruggendola in un istante. La sua Beatrice non sarebbe mai morta con Beatrice Portinari, poiché i suoi versi e la sua poesia le rendevano onore e incanto eterno, ricordandogli ogni suo singolo sorriso e sguardo che permeavano il suo cuore di meraviglia. Soltanto colui che prova tale sentimento può comprendere “che dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la può chi no la prova; vv. 10-11”. In fondo lei era un vero angelo, ma discesa in questo mondo, proprio come un miracolo intento a colmare gli animi tormentati di tutti coloro che incrociavano i suoi occhi color smeraldo e osservavano ammaliati il suo celestiale fascino “e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare” (vv. 7-8). A questo punto, il poeta si stupisce e realizza il vero senso e gli effetti che la gentil donna causano in lui; finalmente riesce a percepire una sensazione differente, quasi come se da sempre, anche nei momenti peggiori, un qualcuno, una forza, magari divina, sia stata per lui fonte di ispirazione convincendo se stesso che Dio, lungo il sentiero era sempre al suo fianco, pronto a guidarlo da sempre, anche nell’errore e nella sofferenza. Dopotutto l’autore era soltanto un uomo innamorato, che faceva dell’amore, personificato in Beatrice, una ragione di vita e di salvezza angelica che congiunge a Dio e quindi, alla felicità eterna.Comprendere al meglio Dante come “poeta italiano per eccellenza” potrebbe sembrar difficile, ma comprendere le sue esperienze come “uomo incantato” è una possibilità, quasi un lusso, che posseggono soltanto coloro i quali nella vita possono permettersi di affermare: “Io sono innamorato”.L’amore. in Dante si riconduce in modo diretto alle sue guide. Nel suo viaggio di formazione spirituale nei regni dell’aldilà il poeta è seguito da personaggi pieni di personalità, che hanno la funzione di aiutarlo di fronte


agli ostacoli materiali e intellettuali che egli incontra. Sono molteplici le sue guide, ma un ruolo fondamentale è rappresentato da Virgilio (simbolo della ragione umana e della filosofia) e da Beatrice (simbolo della teologia). Perché costoro possono essere considerati degli esempi d’amore? Certamente perché Virgilio segue con affetto i passi del suo discepolo, il quale intraprende il viaggio senza certezza alcuna e Beatrice poiché perché rappresenta l’esperienza esistenziale del sentimento d’amore. Ed è proprio l’amata Beatrice, per la quale Dante inizia il suo viaggio ultraterreno che, quando il poeta si trova smarrito all’Inferno senza alcuna meta, scende dal Paradiso al Limbo proprio per mostrargliene una e proprio perché avere una meta darà al poeta la forza di non abbandonare mai il suo percorso. “I’ son Beatrice che ti faccio andare/vegno dal loco ove tornar disio/amor mi mosse, che mi fa parlare”: ecco l’amore di cui parla Beatrice, un amore che discende dall’alto, amore benedetto della Vergine Maria e amore di Dio, quell’amore che porta allo stato di beatitudine e di serenità umana, quell’amore che va ricercato e che da tutti vorrebbe essere provato. L’amore che Beatrice prova per il poeta è un amore puro, un amore che non ha paura degli ostacoli e non ha paura del male poiché l’unica cosa importante è la felicità dell’altro. Quanto è bello immedesimarsi nelle parole di Dante, o per meglio dire, ritrovarcisi! È sempre più difficile instaurare rapporti umani, specialmente rapporti d’amore, un amore che ti rende così felice da non voler cercar altro, voler solo stare bene con l’amato lontano da ogni male che può verificarsi o, magari, superarlo insieme aiutandosi proprio come Beatrice e Dante. Tuttavia Dante non ci parla solamente di un amore come beatitudine, ma nel suo cammino all’inferno incontra anime che procedono insieme e sono al vento più leggere: le anime di Paolo e Francesca. I due amanti si trovano all’inferno per aver peccato in vita di lussuria, allontanati dall’amore ideale che porta alla beatitudine. 47

Leggendo la storia di Ginevra e Lancillotto, i due amanti, riuniti in segreto, peccarono del ‘fole amor’, cioè dell’amore che oscura la ragione sconvolgendo l’animo, talvolta portandolo alla morte. “Amor, ch’al cor gentile ratto s’apprende/ prese costui de la bella persona/ che mi fu tolta e ‘l modo ancor m’offende./ Amor ch’a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m’abbandona./ Amor condusse noi ad una morte./ Caina attende chi a vita ci spense./ Queste parole da lor ci fuor porte.” (Inferno, V, vv. 100-108). Immortali e stupende queste terzine che il poeta ci regala: tangibili sono la sofferenza della giovane donna che non poté resistere alla forza della passione, di un amore incontrollabile che ha condotto lei e l’amato ad una morte crudele, l’ineluttabilità dell’amore che riesce sempre a far innamorare chi è gentile di cuore, come la donna ormai condannata. Successivamente Dante giunse in cima alla montagna del Purgatorio, dove trova il Paradiso Terrestre e qui avviene la “staffetta” tra Virgilio e Beatrice. Dante incontra Beatrice, ma non è un incontro idilliaco, ma emotivo poiché Beatrice è irritata. Dante in tutta la Divina Commedia dà a Beatrice un significato particolare a seconda del contesto in cui si trova. Nella realtà si innamora giovanissimo di lei, a nove anni e la rivedrà dopo molto tempo, provando per lei le stesse sensazioni che aveva sentito da bambino: un amore tenero, puro, platonico. Beatrice muore giovanissima a causa di una malattia e Dante, scioccato da questa morte, perde la fede nella verità divina e teologica e comincia a cercare la verità nei testi degli uomini e quindi nella filosofia. La Beatrice del Purgatorio rappresenta la “Verità rivelata”, cioè il verbo di Dio che attraverso Cristo diventa rivelazione della salvezza tramite lei. Beatrice non è tenera nei suoi confronti: lo rimprovera di aver ceduto alle debolezze e alle passioni terrene,


allontanandosi dalla retta via e perdendosi nella selva oscura. Si mostra così altera e sprezzante che gli Angeli, commossi, hanno compassione di lui e intervengono in suo favore, cominciando ad intonare un salmo. Dante si scioglie in un pianto dirotto così come la neve si liquefà in primavera dopo il gelido inverno. Ella allora si rivolge agli angeli e inizia ad elencare le colpe di Dante. In realtà le creature celesti sanno tutto ciò che accade nel mondo, e non hanno bisogno di spiegazioni, ma Beatrice parla soltanto perché il poeta, ascoltandola, possa pentirsi delle sue colpe. Con tono severo la donna ricorda che Dante, per l’influenza delle stelle al momento della nascita e per l’abbondanza dei doni divini, era pieno di virtù ed avrebbe potuto dare grande prova di sé e, fino a quando lei era stata in vita, grazie alla sua benefica influenza che lo teneva nella retta via della “Verità rivelata” di Dio, il poeta non aveva tradito se stesso e la sua natura. Dopo la sua morte, Dante si era dedicato ad altre “verità terrene”, inseguendo la filosofia e perdendo la fede e aveva abbandonato la diritta via, perdendosi metaforicamente nella selva oscura, lasciandosi sedurre dai piaceri e dalle ambizioni terrene.La donna aveva tentato di richiamarlo alla virtù apparendogli in sogno, ma lui si era traviato al tal punto che lei, per salvarlo, era discesa nel Limbo per implorare Virgilio di mostrargli i dannati dell'Inferno, pregandolo di soccorrere il poeta che si era perduto nella selva del peccato. Lo paragona ad un terreno fertile che in seguito ad una cattiva semenza è divenuto arido. Dante non l’aveva più riconosciuta dopo che lei aveva accresciuto la sua bellezza diventando beata, seguendo ingannevoli immagini che non mantengono alcuna promessa. Questo è il motivo del rimprovero di Beatrice che poi è lo stesso per cui Dante ha iniziato a scrivere la Divina Commedia: uscire dalla serva oscura e ritrovare la retta via. Beatrice ha vissuto il comportamento di Dante, che ha cercato un’altra strada per conoscere la verità come un tradimento “personale”: é

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che rappresenta la verità rivelata, si sente tradita dal suo “amante”, che ha cercato la verità umana allontanandosi da quella divina. All’inizio del canto Dante si trova di fronte ad una processione ed il carro antistante si è fermato davanti a lui con il candelabro che rappresenta le sette stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore. Tutto il Creato dell’Empireo segue queste sette luci e, così come l’Orsa Minore, è di aiuto ai marinai durante la navigazione, cosicché il candelabro è guida per tutte le Creature del Paradiso terrestre. Uno dei ventiquattro vecchi, che si trovano tra il candelabro ed il carro, comincia ad intonare un canto riferendosi a Beatrice come “sposa del Libano”. Tutti cominciano a cantare questo inno e, mentre si innalza il canto, appaiono alle spalle del carro schiere di angeli come i beati nel giorno del Giudizio, che lasciano cadere dei petali di giglio. Dante scorge dietro questa nuvola di petali di fiori, così come all’alba il sole è avvolto da una nebbia rosata perché si possa sostenerne la vista, una donna con il capo coperto da un velo candido ed incoronato di fronde di ulivo, con un mantello verde ed una veste rossa. Dante riconosce in lei Beatrice poiché le sensazioni che prova sono le stesse di quando la vedeva in vita ed il sangue quasi ribolliva per “l’ardore dell’antica fiamma”. Profondamente turbato, come un bambino che cerca la madre, si volta verso Virgilio, ma lui non c’è più e, nonostante la gioia di rivedere la donna che ama, il poeta piange per averlo perduto. Interviene Beatrice e, per la prima ed unica volta nella Divina Commedia, Dante viene chiamato direttamente con il suo nome. Beatrice appare sul lato sinistro del Carro come un ammiraglio che controlla la flotta con la sua presenza austera ed imponente. Dante scorge, attraverso il velo, gli occhi di Beatrice che lo fissano, prova vergogna ed abbassa lo sguardo ma, rivedendo la sua immagine riflessa nell’acqua del Lete, si volge timidamente a guardare l’erba.


Il poeta, inoltre, scrive nell’Epistula a Cangrande Della Scala che il motivo per cui scrive la Commedia è “removere viventes a statu miseriae ad statum felicitatis”. E’ necessario allora che Dante si penta e pianga per ciò che ha fatto; infatti la suprema volontà divina sarebbe infranta se Dante bevesse l’acqua del Lete senza un pentimento sincero. Il canto XXXIII, canto della visione di Dio, è l’ultimo del Paradiso e quindi di tutta la Divina Commedia. Beatrice ha condotto Dante fino all’Empireo, decimo cielo, sede di Dio, degli angeli e dei beati, dove sua guida fino a Dio sarà San Bernardo di Chiaravalle, grande mistico del XII secolo e sostenitore appassionato del culto di Maria Vergine. San Bernardo rivolge alla Vergine Maria un’intensa preghiera, che può dividersi in due momenti. Dal verso 1 al verso 21 la lode e l’elogio della Vergine Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo figlio,/ umile alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio,/ tu sei colei che l’umana natura/ nobilitasti si, che ‘l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura.”, la cui intercessione è così importante, “che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disianza vuol volar sanz’ali” e la cui carità soccorre chi le chiede aiuto, ma previene anche la richiesta, poiché in lei vi sono pietà, misericordia e infinita bontà. Dal verso 22 iniziano l’invocazione e la richiesta d’aiuto. San Bernardo chiede alla Madonna che Dante, dopo aver visto tutte le condizioni delle anime dall’Inferno fino al decimo cielo del Paradiso, possa ottenere la grazia di contemplare Dio, somma beatitudine e infinito amore e conservare puri i suoi sentimenti dopo una visione così grande. A questa preghiera si uniscono anche Beatrice e gli altri beati giungendo le mani; lo sguardo della Vergine mostra quanto le siano gradite le preghiere. Il desiderio di Dante di contemplare Dio si fa sempre più grande e la sua vista sempre più intensa, così da penetrare nel raggio della luce divina.

L’intensità di quella luce è talmente grande da non poter essere fedelmente espressa a parole, né da poter restare perfettamente impressa nella memoria, come avviene in un sogno, di cui rimane impressa solo la sensazione. Così il poeta si rivolge alla luce divina, chiedendo che possa restare nella sua memoria anche solo una scintilla di quella gloria, affinché egli possa trasmetterla ai posteri.Nella contemplazione di quella luce, Dante vede tutto ciò che è sparso nell’Universo unito insieme dall’amore di Dio, sentendo in sé una profonda beatitudine. Non è possibile distogliere lo sguardo dalla luce divina per guardare altro poiché essa contiene tutto il bene. La vista di Dante si rafforza sempre di più tanto da permettergli di vedere la Trinità di Dio, che gli appare come tre cerchi (simbolo della perfezione) di tre colori diversi e della stessa dimensione. Il primo cerchio, il Figlio, sembra riflesso dal secondo, Dio, ed il terzo, lo Spirito Santo, è come un fuoco che emana dai primi due con la stessa intensità. Nell'ultimo verso, il 145, Dante descrive Dio come “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Si conclude così anche l’ultima cantica dell’opera, il Paradiso, come l’Inferno e il Purgatorio, con la parola “stelle”, che ancora una volta sottolinea come l’amore sia il meccanismo del mondo e dell’intera vita.

4^B Maria Anna Ceci Alex Ficociello Maria Izzo Alessia Sarao

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“ E INFINE USCIMMO A RIVEDER LE STELLE…”

In principio, l’angelo Lucifero fu bandito dal Paradiso e condannato a governare l’Inferno in eterno, finché non decise di prendersi una vacanza… È questo l’incipit di una delle serie più famose ed apprezzate del 2020: Lucifer, la quale ci descrive, in maniera totalmente diversa, l’immagine del male per antonomasia: il Diavolo. Lucifer Morningstar, Signore degli Inferi, annoiato dalla vita di castigatore delle anime infernali, decide di prendersi una vacanza nella città degli angeli, Los Angeles, dilettandosi tra divertimento, feste ed altri passatempi. Impressionate non sono dalla grande bellezza del protagonista, bensì dalla travolgente storia del suo personaggio, abbiamo deciso di fare alcune ricerche su questa fantomatica figura. Siamo partite da delle domande: “Cosa può esserci di così affascinante e sensuale nel Diavolo, l’incarnazione del maligno per eccellenza? E chi è davvero questo Lucifero?” ORIGINE DEL NOME Derivante dal termine latino Lucifer, composto da lux (luce) e ferre (portare), la parola significa letteralmente/portatore di luce/. In ambito mitologico ed astrologico, indicherebbe la Stella del Mattino, ovvero il pianeta Venere visibile all’aurora, personificato nella figura del dio greco Phosphoros e nel dio latino Lucifer, figlio di Eos (dea dell’aurora) e del titano Astreo. Nelle culture orientali la stella del mattino andrebbe ad indicare la divinità Tioumoutici per gli Egizi; Ishtar per i Babilonesi; Astarte per i Fenici; Inanna per i Sumeri. Nelle culture occulte ed esoteriche, Lucifero rappresenterebbe un detentore di sapienza e conoscenza inaccessibile all’uomo mortale.LUCIFERO NELL’ANTICHITA’ Fin dall’antichità, varie popolazioni hanno cercato di personificare l’essere incorporeo, di natura esclusivamente maligna, che era in contrapposizione con il bene, rappresentato da Dio.Già all’interno della tradizione giudaica extra biblica, ci sono pervenute delle pubblicazioni inerenti all’enigmatica figura di Azazel, dio di Edessa, il quale avrebbe guidato un gruppo di angeli precipitati, poi, nel deserto di Dudael e conficcati sotto ad un cumulo di pietre. Nella tradizione ebraica, il diavolo non viene visto più come un portatore di luce, ma come un essere maligno e molto pericoloso, che assume un nuovo nome: Satana. Secondo uno dei tre libri di Enoch, Satanael o Samael, è un angelo di Dio, il cui compito è quello di porsi come avversario di Balaam, porgendosi davanti al suo cammino con la spada sguainata nella mano. In quanto inviato di Dio, Samael deve evitare che Balaam percorra la strada errata, la strada sbagliata, la strada che lo allontanerà sempre di più dalla Fede. Egli ha, difatti, il compito di verificare il livello di pietas dell’uomo,

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ovvero far mostrare all’uomo, attraverso provocazioni e tentazioni, l’amore e la dedizione verso Dio e la sua fede.Oltre a Samael, era presente anche la figura di una misteriosa donna, madre di tutti i demoni.In antitesi alla Bibbia, secondo la quale la prima donna del Creato, nata dalla costola dell’uomo, fu Eva, la tradizione ebraica afferma che la figura misteriosa, madre di tutti i demoni, vera prima donna del creato, fu Lilith, prima moglie di Adamo.Ella voleva godere degli stessi privilegi del marito, essendo nata dalla stessa polvere del suolo dal quale fu creato Adamo e, di fronte al rifiuto di piegarsi al suo volere, scappò dall’Eden e si rifugiò nel Mar Rosso. Qui Dio cercò, più volte, di riportarla nel Giardino del Paradiso come sposa e servitrice del consorte ma, davanti al categorico rifiuto della donna, la scaraventò in una landa deserta, l’Inferno, dove sarà poi gettato anche Lucifero. Nella tradizione cristiana, nella Sacra Bibbia, Satana è, iconograficamente, designato come Arcangelo del male.Nell’Antico Testamento, prima della creazione dell’uomo, Dio aveva creato degli esseri intelligenti, puri, spirituali: gli Angeli, il cui compito era quello di operare, in nome di Dio, su tutti coloro che avrebbero ereditato la salvezza eterna. Lucifero era uno di loro, un cherubino per l’esattezza, il più bello di tutti e sedeva alla destra di Dio come “Sigillo di perfezione”. Ma un giorno decise di distogliere lo sguardo dal suo creatore e di concentrarsi sulla creazione che egli aveva fatto: sé stesso. Colmo di orgoglio, nasceva in lui, sempre di più, un desiderio di comandare, di sostituirsi al Creatore sia per merito, sia per capacità. Così, con un terzo delle schiere angeliche dalla sua parte, iniziò una rivolta nell’Eden. Intervennero molti angeli pronti a difendere la posizione del proprio Dio, tra cui l’Arcangelo Michele, che riuscirono a sconfiggere Lucifero e il suo “esercito” ed a bandirli dal Paradiso. Costui, da Lucifero portatore di luce, si trasformò in Satana, principe delle tenebre. Nel Nuovo Testamento il termine Lucifer compare, esclusivamente, per indicare la stella del mattino, ovvero Cristo, il quale nella futura seconda venuta in terra segnalerà l’inizio di un mondo di nuova luce. LUCIFERO E SATANA NELLA LETTERATURA Come ben sappiamo, la figura di Lucifero ha affascinato i più grandi autori della letteratura, tanto da portarli a scrivere alcune delle più importanti opere culturali del mondo. Vi sono, per esempio,alcuni grandi nomi di autori che spiccano: Oscar Wilde con il Ritratto di Dorian Gray, Charles Beaudelaire con Le fleurs du mal, Christopher Marlowe con Dr Faustus, John Milton con The Paradise Lost.


LUCIFERO IN CHRISTOPHER MARLOWE Come primo autore che andiamo ad affrontare, troviamo Christopher Marlowe con il suo Dr. Faust.Dante Alighieri con l’Inferno, prima cantica della Commedia. “Damn the parents who made me! “Maledetti i genitori che mi fecero! No Faust, curse yourself, No Faust, maledici te stesso, curse Lucifer who deprived maledici Lucifero che ti ha privato you of Heaven” del cielo.” Il dramma narra la storia di Faustus, uno studioso inglese che, avido di conoscenza, decide di avventurarsi nel campo della magia nera. Siccome la ricerca autonoma ed indipendente della verità era, a quel tempo, in contrasto con la teologia dogmatica, Faustus compie un esorcismo, invocando il diavolo e il suo servitore Mefistofele, con i quali stipula un patto. Faustus avrà la conoscenza, che tanto brama, e il servizio del seguace di Lucifero per ventiquattro anni. Al termine dei ventiquattro anni, Lucifero avrà la sua anima. Faustus si vede così combattuto tra il seguire la giusta via, rappresentata dall’angelo buono e la via della tentazione, rappresentata dall’angelo maligno, allegorie dei due lati della natura umana.Sebbene l’angelo buono riesca più volte ad insinuare in Faustus il dubbio sulla sua scelta per salvare l’anima, le minacce di Mefistofele e le apparizioni di Lucifero lo convincono ad accettare il patto concordato. Alla fine dell’opera, assistiamo alle ultime tragiche ore di Faustus, il quale non invocherà mai Dio, pregandolo di risparmiargli la dannazione eterna. Nell’immaginario collettivo legato a Lucifero, il contratto con quest’ultimo gioca un ruolo simbolico fondamentale: la persona che vende l’anima al maligno vuole andare oltre la propria portata consentita. Essa è insoddisfatta della vita che Dio gli ha donato e commette il vero peccato, quello di orgoglio. Possiamo notare, dunque, quanto, in realtà, si somiglino Lucifero e Marlowe. È’ lo stesso Faustus a racchiudere in sé delle innegabili connotazioni diaboliche. Egli è indefinibile come eroe, come peccatore o come vittima. Possiamo solo rilevare la sua incapacità di pentirsi, la sua perseveranza fino al momento della dannazione, che ci spinge a inquadrarlo, non più come vittima del demonio tentatore, bensì come incarnazione del demonio stesso.

Satana è il protagonista indiscusso del poema. Egli è ben diverso, come vedremo dopo, dal Satana di Dante. Egli è l’oggetto di ammirazione della storia, da imitare e celebrare come un vero eroe. Può, tranquillamente, paragonarsi all’eroe greco Achille, ad Ulisse e persino ad Enea. Combattivo, lotta per vincere i suoi stessi dubbi e le sue debolezze e porta a compimento il suo obiettivo, quello di corrompere la specie umana. Assume varie forme nel corso della storia, da angelo caduto diventa un cherubino e da rospo diventa un serpente. Il poema si conclude con un grande capolavoro, il Discorso di Satana (Satan’s Speech), dove Satana si rivolge agli altri angeli ribelli appena arrivati all’Inferno, un luogo buio, macabro e terrificante. Dopo un’iniziale fase di smarrimento e confusione, Satana ritrova il suo amato orgoglio ed afferma di sentirsi finalmente libero dall’autorità opprimente di Dio. Infatti, anche se si trovano in un luogo spaventoso, ne possono trarre il meglio, trasformandolo nel loro Cielo. La grandiosa opera di Milton affronta importanti temi come il libero arbitrio, il fato e la provvidenza. Ci viene presentato un Dio irascibile e dispotico ed un Satana ribelle, desideroso di affermare la propria libertà. Milton gli dona qualità come il coraggio e l’iniziativa, il non cedere alla sconfitta e la volontà di ribellarsi dinanzi all’ingiustizia divina. Satana non è altro che lo specchio di Milton, il quale più volte si ribella contro l’autorità politica del re e della Chiesa. La caduta del diavolo non è altro che una metafora: la vera caduta è quella del secolo, il Seicento, ormai spacciato di fronte alla circolazione di nuove idee illuministiche.

LUCIFERO IN MILTON “ Better to reign in Hell, “Meglio regnare all’Inferno, than serve in Heaven” che servire in Paradiso.” Un altro grande autore della letteratura inglese che ci racconta la sua visione del demonio è John Milton in The Paradise Lost. All’interno del poema epico si narrano le vicende bibliche della caduta dell’uomo: la tentazione di Adamo ed Eva ad opera di Satana e la loro cacciata dal Giardino dell’Eden. Il protagonista principale è Satana, l’Angelo caduto, il quale, nel Pandemonio, deve impiegare le sue abilità retoriche per far ordine tra i suoi seguaci, tra cui i fedelissimi Mammona, che rappresenta il vizio dell’avarizia, e Belzebù, che è a capo di tutte le idolatrie ed attività oscure. Satana si offre volontario per avvelenare la Terra e l’ultima creazione di suo Padre, l’umanità. Sotto forma di serpente, di cui tratterà la seconda parte del poema, inizia il suo piano tentando Eva, spingendola a mangiare una mela, il frutto proibito, ed a persuadere Adamo a compiere lo stesso gesto. I due umani, diventati due peccatori, verranno poi cacciati dal giardino dell’Eden.

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LUCIFERO NELLA COMMEDIA «Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni». 3 Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, 6 veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ché non lì era altra grotta. 9 Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. 12 Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' piè rinverte. 15 Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, 18 d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi». 21 Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco. 24 Io non mori' e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. 27 Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, 30 che i giganti non fan con le sue braccia; vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia. 33 S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto. 36 Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; 39 l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta; 42 e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. 45 Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali. 48 Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: 51 quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. 54 Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. 57 A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che tal volta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. 60 «Quell'anima là sù c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; 66 e l'altro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto». 69 Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste

e quando l'ali fuoro aperte assai, 72 appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. 7 Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, 78 volse la testa ov'elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com'om che sale, sì che 'n inferno i' credea tornar anche. 81 «Attienti ben, ché per cotali scale», disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male». 84 Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo.87 Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; 90 e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato.93 «Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede». 96 Non era camminata di palagio là 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. 99 «Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss'io quando fui dritto, «a trarmi d'erro un poco mi favella:102 ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». 105 Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. 108 Di là fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi. 111 E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto 114 fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca. 117 Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim'era. 120 Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo, 123 e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e sù ricorse». 126 Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto 129 d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. 132 Lo duca e io per quel cammino ascoso, intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, 135 salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. 138 E quindi uscimmo a riveder le stelle (Dante, Inferno, c. XXXIV, vv 1-139)

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E siamo arrivati, dunque, a Dante, vero protagonista della nostra tesina. Il XXXIV canto dell’Inferno, primo dei tre regni dell’Oltretomba visitati dal poeta, inizia con l’unica frase della Commedia, scritta interamente in latino: Vixilia regis prodeont inferni. È una citazione dell’inno di Venanzio Fortunato, dove Alighieri aggiungi “Inferni” per introdurre la visione di Lucifero. Lucifero è collocato nel IX cerchio, quello dei traditori. Il fondo dell’Inferno è un lago ghiacciato, alimentato dal fiume Cocito e diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca. Egli è un traditore in quanto osò ribellarsi al il suo Creatore, tradendolo. Lucifero è gigantesco, le sue dimensioni, infatti, gli conferiscono una natura materiale, priva di qualsiasi spiritualità. Egli appare a Dante in lontananza, simile ad una macchina a mulino a vento, generando del vento dalle sue ali enormi. È confitto dalla cintola in giù nel ghiaccio del Cocito ed emerge solo il suo lato superiore. Il poeta lo descrive come un’enorme e orrida creatura, pelosa, dotata di tre facce su una sola testa, tre bocche, tre menti e tre paia d’ali di pipistrello. Le tre facce sono di diverso colore: quella al centro è vermiglia, quella a destra è biancastra e giallognola, quella a sinistra è nera, simile al colore della pelle degli Etiopi. Il terzetto non è altro che la rappresentazione dei peccatori, del demonio e del male, in analogia con le tre fiere. Con le tre bocche è intento a graffiare la schiena di Giuda con il capo nel ghiaccio e a maciullare due dei più grandi traditori della storia, Bruto e Cassio, uccisori di Giulio Cesare. Prossimi all’arrivo della notte, giunge l’ora di ripartire. Per oltrepassare quella zona, Dante e Virgilio scelgono il momento più favorevole e il luogo più adatto. Si aggrappano alle costole pelose, accanto alle anche del demonio, nel momento in cui Lucifero apre le sue ali. Qui Dante immagina vi sia il centro della Terra e di gravità dell’Universo; per questo resta lì sospeso, costretto dai pesi del mondo. Ansimando, Virgilio riesce attraverso la fessura tra Lucifero e la roccia a giungere in una grotta, dove depone il poeta sulla soglia dell’apertura. Dante, ripresosi, leva gli occhi e si accorge che dalla bocca inferiore del pozzo escono le gambe di Lucifero. Ha raggiunto l’emisfero opposto, ma non se ne rende conto e s’inganna. La mente di Dante, però, è ricolma di dubbi: dov’è il ghiaccio? Perché Lucifero è capovolto? Come mai è stato così repentino il passaggio dalla sera alla mattina? Virgilio gli spiega che hanno oltrepassato il centro della Terra; sono arrivati, infatti, nella parte opposta di Gerusalemme, presso il nono cerchio di Giudecca. Virgilio gli spiega che se lì è mattino, dalla parte opposta sarà notte e Lucifero è sempre confitto nello stesso punto. Una spiegazione più accurata va ricercato all’inizio della storia, quando Lucifero fu scagliato negli Inferi, e la Terra, ripugnata dalla presenza del ribelle, si ritrasse, generando il luogo oscuro e disagevole appena attraversato; la terra che si ritrasse andò a formare la montagna del Purgatorio, prossimo regno da visitare, nel quale scorre un fiume, il Lete, che si sente ma non è visibile. Attraverso la grotta naturale, Dante e Virgilio percorrono un sentiero nascosto che, finalmente, porterà i due a riveder le fantomatiche stelle.

LUCIFERO IN BEAUDELAIRE “Le plus belle des ruses due diable est de vous persuader qu’il n’existe pas”.

“Il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste.”

Riportiamo, qui di seguito, tre dei versi più importanti delle Litanie di Satana, poesia inserita nella sezione Rivolta de Les Fleurs du Mal, di Charles Beaudelaire. In questa vera e propria liturgia satanica, Beaudelaire insiste sull’ingiustizia della condizione di Satana: il diavolo, ingiustamente punito, diventa il protettore di tutti coloro che subiscono ingiustizie. Ciò che ha impressionato l’autore francese non è stato solo il fascino dell’angelo caduto, bensì la sua voglia di un riscatto, di una vendetta. Nelle sue poesie egli riscatta, dandogli maggiore importanza, tutto ciò che viene considerato orribile e raccapricciante, come i miseri, gli abietti e Satana stesso. Come avvenne per Milton, anche Beaudelaire, misero e bistrattato, si indentifica nella figura del demonio, principe degli esiliati.

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Lucifero, secondo Dante e diversamente dal pensiero di Marlowe, non è un uomo dannato, ma un angelo sconfitto.La particolarità della sua rappresentazione consiste nella totale esclusione di qualsiasi componente grottesca. Distinguendosi dall’arte medievale, che amava rappresentare i demoni ed il loro re in una maniera quasi ridicola, Dante descrive tali esseri eliminando tutti gli elementi grotteschi, come le corna, le code di serpente, gli zoccoli ecc… La sua descrizione rappresenta una trinità negativa diversa da quella perfetta che, invece, fa di Dio. Il Lucifero dantesco non è un uomo costretto alla dannazione eterna, bensì un angelo caduto ed impotente. Insomma, possiamo averne orrore, ma non possiamo prendercene gioco. LUCIFERO IN OSCAR WILDE “Hell and Heaven are both within us”

“l’Inferno e il Paradiso sono tutti e due dentro di noi.”

Seppur minimamente, anche Oscar Wilde ci dà un contributo importante sulla visione del diavolo nella sua opera Il Ritratto di Dorian Gray. Dorian Gray è un giovane affascinante e tenebroso. Un giorno un suo amico, il pittore Basil Hallward, gli mostra il ritratto che gli ha fatto. Dapprima Dorian è affascinato e orgoglioso della sua bellezza, ma poco dopo ne resta turbato. Arriva, così, a stipulare un patto con il diavolo: la sua vita e le sue vicende non lasceranno mai alcuna impronta sul suo volto, ma solo su quello del ritratto. Attraverso la conoscenza di Lord Henry Wotton, incarnazione del demonio, che gli rivela il senso della bellezza come bene straordinario, ma transitorio, Dorian inizia una vita alla ricerca dei più sfrenati piaceri, arrivando a disprezzare l’amore di Sibilla Vane, che morirà suicida. Dorian, in preda a dei dubbi che lo turbano particolarmente, vede come il suo ritratto si stia deturpando ed invecchiando ogni volta che compie un’azione sbagliata. In preda al panico, si dirige dall’amico pittore Hallward, che gli rimprovera la sua orribile condotta e Dorian lo uccide. Assalito maggiormente dai sensi di colpa e di disorientamento, il ritratto gli mostra la sua vera natura: un essere orribile, sul quale sono impressi i segni della dissolutezza e del male. Sopraffatto dall’angoscia, Dorian colpisce con un pugnale il ritratto, ponendo, così, fine anche alla sua esistenza. Storia profondamente allegorica, viene vista come una rivisitazione del mito di Faustus, di cui abbiamo parlato prima. Così come Faustus, anche Dorian vende la sua anima al diavolo, in modo che tutti i suoi desideri possano essere soddisfatti. Quest’anima è un’immagine che conserva in sé i segni dell’esperienza, della corruzione, dei peccati nascosti sotto la maschera di bellezza ed eterna giovinezza di Dorian. L’immagine, appunto, non è autonoma. Da un lato vi è il lato oscuro e malvagio di Dorian, dall’altro il suo doppio, che lui cerca di dimenticare bloccandone il ritratto in una stanza. E così come toccò a Faust, anche Dorian fu costretto ad una vita da dannato eterno.

CONCLUSIONE Che dire? Siamo arrivate, così, tanto agognata conclusione della nostra tesina. Come già spiegato in precedenza, abbiamo scelto di presentare questo argomento e nello specifico questa figura, per il grande amore che ci lega alla serie tv Lucifer. Attraverso di essa, ci siamo appassionate all’affascinante Lucifero e, attraverso ricerche e consultazioni di vari libri, abbiamo voluto saperne di più su come era visto nell’antichità e nella letteratura. Con lo studio di Marlowe, di Wilde, di Beaudelaire ma, soprattutto, di Dante e Milton, siamo giunte alla conclusione che il male è sempre presente tra di noi. Ognuno di noi, dentro di sé, riconosce la propria natura ed i propri limiti. Guardando il mondo d’oggi, il mondo che noi distruggiamo, che usurpiamo con le guerre e che inquiniamo, ci accorgiamo che tutto è governato dal male. Siamo come Satana, siamo dei tentatori dotati di grande forza e della necessità di scoprire, esplorare qualunque cosa, anche a costo di seminare fuoco e fiamme nel nostro cammino. E se i veri demoni siamo noi, dovremmo iniziare a combattere una battaglia, quotidianamente, contro noi stessi, per riuscire a rivedere un giorno le stelle.

4B Minerva Freda, Francesca Fusco , Giovanna Lambiase , Chiara Marotta , Alessandra Panaro


L’INFLUENZA DANTESCA NELLA RICERCA DEL BENE

Prima di trattare il tema da noi scelto, vorremmo chiarire l’importanza dello studio del pensiero letterario dantesco e della sua attualità. Il 77° Congresso della Società ‘’Dante Alighieri’’, tenutosi a Malta nel settembre del 2005, ha trattato l’attualità del poeta e la sua universale importanza. In quell’occasione, l’ex Presidente della Repubblica Ciampi rimase particolarmente colpito dall’interesse del popolo italiano nei confronti di Dante. “Partecipo con gioia — egli disse — alla sua riscoperta, anche da parte dei giovani, nelle piazze d’Italia e nei teatri. Spero che questo successo si affermi anche in televisione”. Dobbiamo considerare Dante come un vanto per il nostro Paese poiché è grazie a lui che ebbe inizio la nascita della nostra lingua. Ugo Foscolo, nel suo poderoso discorso sulla Commedia di Dante, così scrisse: “Dante vide che le lingue fanno nazioni; e che molte province, ove non compongano una nazione, non possono ottenere mai una lingua. Fors’anche presentiva che le animosità provinciali cresciute sino dall’età barbare, ed inferocite anche a suoi danni, avrebbero negato all’Italia di possedere una lingua comune a tutte le sue città.” Come Italiani dobbiamo portare in alto il nome della nostra patria, identificandoci nelle sue opere, felici o cupe che esse siano. L’Alighieri impronta tutta la Divina Commedia sui sentimenti e le passioni per la nazione e sull’amore verso la sua patria. Fu tra i primi ad esprimere le proprie idee riguardo l’indipendenza dei rapporti tra Stato e Chiesa. Forse è anche grazie a lui se oggi nella nostra Costituzione troviamo gli articoli 7-8, improntati proprio su questa tematica. Giuseppe Mazzini, nello scritto Dell’amor patrio di Dante, così dice di lui: “O Italiani! Studiate Dante; non sui commenti, non sulle glosse, ma nella storia del secolo in cui egli visse, nella sua vita, nelle sue opere. — Da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. Apprendete da lui come si serva alla terra natia, finché l’oprare non è vietato, come si viva nella sciagura.”. Proprio leggendo quest’ultima citazione, abbiamo percepito l’importanza dello studio di Dante. Nonostante siano passati svariati secoli dalla sua epoca, la sua modernità intellettuale fa quasi paura poiché è molto vicina alla nostra e questo può farci solo capire che non ci sono barriere tra la nostra epoca e la sua. E’ impressionante come un uomo del XIV secolo riuscisse ad interessarsi alla poesia così come alle faccende politiche che interessavano il suo Paese. Dante è dunque l’esempio da seguire, l’autore che più di tutti riesce a rispecchiarsi nella società di oggi. Non c’è tempo che separi i nostri secoli, la vera arte è ciò che sussiste nel tempo. Per questo noi siamo qui a parlare di quella ricerca che il poeta fece, nello scoprire il vero significato di felicità e misericordia. Esatto: Misericordia, così diceva Dante, “miserere di me”,”abbi misericordia di me”, parte integrante dell’essere stesso e del Mistero infinito. Dare amore, donare amore e perdonare anche chi non merita, è questo ciò che l’illustre Alighieri ci spiega nella sua Commedia. Composta presumibilmente tra il 1304-07, l’opera è uno degli scritti più importanti di Dante Alighieri. Boccaccio la denominò Divina solo nella metà del XIV secolo, per le tematiche teologiche in essa contenutaSecondo il racconto dello stesso autore (Boccaccio),

sarebbero stati i figli dell’ Alighieri ad aver trovato gli ultimi canti del Paradiso poco prima della sua morte; ciò conferma indirettamente la voce di un poeta impegnato nella scrittura del poema stesso fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Il poema è scritto in forma allegorica e didascalica: racconta fatti reali, ma spesso con significato simbolico; Dante vuole insegnarci la ritrovata strada giusta purché l’umanità abbandoni il peccato e torni sulla retta via. E’questo, difatti, il tema da noi scelto: la ricerca del bene. Incominciamo dall’Inferno, poiché solo partendo dal male si potranno riconoscere il vero bene e la beatitudine. Così come dice l’artista Mina Mazzini nella canzone La mente torna , anche il poeta vuole invitarci a realizzare il desiderio che è in tutti noi: poter vivere bene. I riferimenti all’autore possono essere individuati nei seguenti versi del brano: <<lo voglio vivere anche per me/scoprire quel che c’è>>. E’ proprio leggendo la Divina Commedia che capiamo di aver bisogno di intraprendere un viaggio per poter trovare quel benessere di cui ognuno di noi necessita. Ma cosa si intende per Bene? Il termine oggi ha due significati, a volte percepiti allo stesso modo, altre volte contrapposti: per un verso si intende ‘’benessere’’, per l’altro si intende ‘’bontà’’. La religione cristiana, concentrando in Dio tutti i valori, lo concepì come il Sommo Bene e quindi gli attribuì ambedue i significati. L’etica moderna tende a concepirlo come l’eterno sforzo di raggiungere un piacere o, se inteso in campo economico, come quel momento in cui la moralità diviene pienezza di soddisfazione interiore, che dà valore anche all'utile. Quando noi parliamo del bene, non ci riferiamo a quello relativo, ma bensì a un bene vero, reale e assoluto. Che esso esista è indiscutibile, per questo la società cerca di praticarlo, proprio come fece Dante. Il problema perciò sussiste quando ci riferiamo a Dio, al quale possiamo arrivare solo per mezzo della ragione. Il poeta fiorentino descrive nella Divina Commedia il suo viaggio immaginario della durata di 7 giorni. Egli intraprende questo cammino all’interno della lotta tra il bene e il male per poter arrivare a Dio, con l’unico scopo di trovare l’eterna felicità. Verrà accompagnato da tre guide, che avranno il compito di condurlo sulla retta via. Quando noi parliamo del bene, non ci riferiamo a quello relativo, ma bensì a un bene vero, reale e assoluto. Che esso esista è indiscutibile, per questo la società cerca di praticarlo, proprio come fece Dante. Il problema perciò sussiste quando ci riferiamo a Dio, al quale possiamo arrivare solo per mezzo della ragione. Il poeta fiorentino descrive nella Divina Commedia il suo viaggio immaginario della durata di 7 giorni. Egli intraprende questo cammino all’interno della lotta tra il bene e il male per poter arrivare a Dio, con l’unico scopo di trovare l’eterna felicità.

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Verrà accompagnato da tre guide, che avranno il compito di condurlo sulla retta via. . Quando Dante sarà accompagnato da San Bernardo di Chiaravalle verso la fine del suo percorso, arriveremo a capire il significato del Bene per lui. Il viaggio di Dante inizia all’alba del venerdì santo del 1300 nell’Inferno. La cosmologia dantesca è basata sulle conoscenze della teoria Tolemaica, in cui la Terra è al centro dell’universo ed intorno ad essa ruotano il Sole e i pianeti. L’ingresso dell’Inferno si trova a Gerusalemme. Esso è collocato a uguale distanza tra le colonne d’Ercole e la foce del fiume Gange. Una fedele rappresentazione dell’Inferno dantesco, anche se differente per alcuni tratti, è la Voragine infernale (oggi conservata a Roma nella Biblioteca Apostolica Vaticana) realizzata nel 1490-1500 circa, da Sandro Botticelli. L’Inferno è il momento iniziale dell’ itinerarium mentis in Deum (viaggio della mente verso Dio) e avrà come tema centrale l’esperienza del peccato, che procurerà a Dante anche momenti di sconforto e scoraggiamento. Prima ancora di entrare nelle porte dell’Inferno, l’autore troverà la strada sbarrata da tre fiere. Qui accorrerà in suo aiuto Virgilio, poeta latino che venne mandato dalle tre donne benedette: Beatrice, Maria e Lucia. La selva è la rappresentazione del peccato. Il colle che Dante vede, il quale ha il sole alle spalle, è la strada erta che porta alla luminosa salvezza in Cristo. Le tre fiere sono i vizi che impediscono il procedere di Dante lungo la strada della virtù (la lonza, simbolo della lussuria; il leone, simbolo della superbia; la lupa, simbolo dell’avarizia); Virgilio, guida di Dante, è simbolo della conoscenza edella filosofia umanache possono condurre l’anima alla salvezza. Il viaggio nell’Oltretomba è il percorso che l'uomo intraprende nella propria conoscenza morale per apprendere cosa sono il bene e il male. Virgilio sarà, dunque, la candela in una stanza buia, il pane di chi ha fame, i fari per un guidatore nella nebbia. Inizialmente i due avranno un rapporto di maestro-alunno, che pian piano arriverà a essere sempre più confidenziale, tant’è che Dante noterà in lui una figura paterna che lo accompagnerà quasi fino alla fine del suo viaggio. L’Alighieri, sospeso tra la disperazione e la speranza, riesce, come detto precedentemente, a continuare il suo cammino grazie alla guida: egli, attraverso l’incontro con Virgilio, comprende che non ci si salva da soli. Difatti, nella vita si ha sempre bisogno di un punto di riferimento che possa mostrarci il bene, anche quando noi non lo vediamo. L’unione del poeta con il suo maestro si scopre nei seguenti versi tratti dal canto I dell’Inferno, che ora ripercorreremo :

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Mentre ch'i' rovinava in basso loco dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco . Quando vidi costui nel gran diserto, "Miserere di me", gridai a lui, "qual che tu sii, od ombra od omo certo!" Rispuosemi: "Non omo, omo già fui , e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui. Nacqui sub Iulio , ancor che fosse tardi , e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi .

Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilïón fu combusto. Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia ?" "Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?", rispuos'io lui con vergognosa fronte . "O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore. Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi" Dante Alighieri, Inferno,canto I, vv. 61-90


Grazie al compagno Virgilio, Dante capirà che, per trovare la felicità, occorre cercarla insieme ed accettare di passare attraverso il male, il dolore, la sofferenza, la morte propria e altrui. Il viaggio dei due segue un percorso in discesa, a spirale, da destra verso sinistra, nell’abisso infernale, mentre il cammino sulle balze della montagna del Purgatorio è ascensionale, da sinistra verso destra: è uno scendere per risalire. Lo scopo di Dante nell’Inferno è quello di sottolineare l’errore commesso nel Dolce Stil Novo: non è vero che tutto ciò che facciamo per amore è buono. Proprio qui la sua strada per arrivare al Bene comincerà a farsi sempre più dura. Attraversando i vari gironi, Dante vedrà solo dolore e peccato. Andando avanti, noterà che il male è sempre presente, ma il bene gli è superiore e più potente. Essendo il male un concetto relativo, è naturale chiedersi come l’autore abbia fatto a distinguere le varie specie di peccati, a determinare la gravità delle colpe e delle pene dell'Inferno. Il poeta fiorentino seguì la filosofia di Aristotele, che distinse i peccati in ordine crescente di gravità. Il male per Dante è l'eccesso, la smoderatezza, la mancanza di senso della misura. Inoltre si snoda in tantissime altre forme, in quanto tutto può essere male se viene eseguito o pensato come tale. Le tematiche affrontate nell’Inferno sono state per molti scrittori un motivo d’ ispirazione. Il cantante Jovanotti scrisse, infatti, nel 1994 il brano dal titolo Serenata rap, inserendo il verso 103 del V canto dell’Inferno, ovvero Amor, ch’a nullo amato amar perdona. Il cammino alla ricerca del bene continuerà per vari gironi dell’Inferno, fino a quando Dante, sempre accompagnato dal suo fedele compagno di viaggio, Virgilio giungerà al Purgatorio, dove numerose sono le differenze rispetto al paesaggio visitato precedentemente. Per quanto concerne il senso fisico, possiamo dire che alla cavità a imbuto dell’Inferno corrisponde, nell’emisfero opposto, il monte del Purgatorio; si può evincere quindi che il secondo regno è un calco esatto del primo. In senso morale poi, si può notare che nell’Inferno Dante scende verso il centro della Terra, verso i peccati peggiori mentre nel Purgatorio sale verso il cielo, pentendosi di peccati via via più lievi. Il primo scenario è il regno della dannazione e della disperazione. L’atmosfera del secondo paesaggio è serena, essendo il regno della salvezza. Il Paradiso è un mondo etereo a cui Virgilio non può accedere, pertanto Dante sarà accompagnato da Beatrice, la quale rappresenta la Fede. La donna lo guiderà fino all’Empireo, sede di Dio. Beatrice è considerata la figura portante della Divina Commedia. La sua storia ha ispirato e mosso tutta la vita di Dante. La donna rappresenta per un verso l’idea stilnovista che muove il cuore del poeta, la cosiddetta donna Angelo, mentre nella Commedia è la rappresentazione della teologia cristiana. Nel Paradiso, Beatrice rimprovera Dante in moltissime occasioni; legge i suoi pensieri, risponde alle domande prima che lui le ponga e ride della sua ingenuità. La sua prima apparizione si ha nel XXX Canto del Paradiso, al termine della processione simbolica nel Paradiso Terrestre. E’ qui che Dante esporrà il concetto di felicità, concetto umano, ovvero la soddisfazione che si prova nel sentirsi al proprio posto nel mondo, realizzati e soddisfatti. È evidente che il concetto di felicità si avvera con il realizzarsi della persona e produce un sentimento che si manifesta in modo indipendente da ciò che accade all’esterno; con gli altri si può condividere per raggiungere il bene. Questo è un aspetto della gioia che per realizzarsi ha bisogno degli altri. oltanto i contemplanti raggiungono la felicità con la letizia intellettuale: essi hanno trasceso completamente i limiti terreni per gustare altro. E’ quel sentimento che Dante riconosce nel Paradiso alle anime beate: Luce intellettual, piena d’amore; / amore di vero ben, pien di letizia; letizia / che trascende ogni dolzore (Par. XXX vv. 40-42). Il percorso esistenziale e poetico della Commedia non è lineare, anzi conosce alti e bassi, esaltazione e abbattimento, successi e insuccessi, potere ed esilio.

L’autore arriva addirittura al punto di smarrire se stesso, di perdersi nell’oscurità di una vita squallida priva di significato, di rassegnarsi ad un’ esistenza senza speranza. In questa difficile situazione riesce ad intravedere un’alba ed una primavera, come se il quotidiano si alternasse tra luce e tenebra. Nel Canto XXXI, sempre del Paradiso, Beatrice lascia il suo posto a San Bernardo di Chiaravalle, che accompagnerà il poeta nell’ultima parte del suo viaggio e alla visione di Dio. Bernardo invita Dante a osservare la parte più alta della Candida Rosa dei beati, dove si trova Maria; a lei il santo intonerà una preghiera dal tono alto e solenne. Il loro incontro lo presentiamo nei seguenti versi tratti dalla stessa Commedia: La forma general di paradiso già tutta mïo sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso; e volgeami con voglia rïaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intendëa, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glorïose. Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene. E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io. Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio; e se riguardi sù nel terzo giro dal sommo grado, tu la rivedrai nel trono che suoi merti le sortiro». Sanza risponder, li occhi sù levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da sé li etterni rai. Da quella regïon che più sù tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare più giù s’abbandona, quanto lì da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, ché süa effige non discendëa a me per mezzo mista. «O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant’ i’ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’ i modi che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi». Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l’etterna fontana. E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi perfettamente», disse, «il tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi,

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vola con li occhi per questo giardino; ché veder lui t’acconcerà lo sguardo più al montar per lo raggio divino.

I versi descritti spiegano come gli uomini non riescano a comprendere l’incarnazione. Seguirà, poi, una vera e propria supplica, che la Vergine accoglierà con lo sguardo verso l’alto, lì dove si trova Dio. Bernardo inviterà Dante a guardare, ma egli stava contemplando la luce eterna, l’amor che move il sole e l’altre stelle. Finalmente riuscirà a vedere il traguardo dopo una corsa estenuante costituita da momenti tenebrosi e sconfortanti. La nostra vita è proprio così: fatta di alti e bassi; riusciamo sempre a trovarci nell’Inferno e non sappiamo come rialzarci per raggiungere il Paradiso. Dante ci insegna ad essere pazienti affinché, dopo la tempesta, possa sorgere anche per noi il sole, esattamente com’è successo a lui nel suo viaggio ultraterreno. La Divina Commedia è spettacolare sia dal punto di vista letterario che esperienziale. Attraversare questo percorso con il poeta, seppur secoli dopo, ci ha fatto capire che solo grazie alla lettura e allo studio delle materie umanistiche riusciamo a cogliere il perfetto significato di queste meravigliose opere. Grazie a ciò riusciamo anche a toglierci i dubbi che ci poniamo costantemente, trovando la risposta a quasi tutte le nostre domande. Dante ci accompagna durante un percorso didattico innovativo per un approccio emozionale ed esistenziale legato alle sue opere.

E la regina del cielo, ond’ ïo ardo tutto d’amor, ne farà ogne grazia, però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo». Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l’antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: ’Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?’; tal era io mirando la vivace carità di colui che ’n questo mondo, contemplando, gustò di quella pace. «Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo», cominciò elli, «non ti sarà noto, tenendo li occhi pur qua giù al fondo; ma guarda i cerchi infino al più remoto, tanto che veggi seder la regina cui questo regno è suddito e devoto». Io levai li occhi; e come da mattina la parte orïental de l’orizzonte soverchia quella dove ’l sol declina, così, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l’altra fronte. E come quivi ove s’aspetta il temo che mal guidò Fetonte, più s’infiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo,

4B ANDREA ANDREOLI

così quella pacifica oria fiamma nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte per igual modo allentava la fiamma;

PAOLA AULICINO RICCARDO LANNA

e a quel mezzo, con le penne sparte, vid’ io più di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d’arte.

ALESSANDRA PALMESE VALERIA PERFETTA

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi; e s’io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia. Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei, che ’ miei di rimirar fé più ardenti.

Dante Alighieri, Purgatorio, Canto XXI, vv.52-142

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Virgilio, guida, padre e maestro Introduzione La nostra volontà tende al bene, ma è soggetta alla debolezza delle passioni e non sempre è guidata dalla ragione: cade frequentemente nel peccato. Il nostro intelletto tende al vero ma, qualora non sia illuminato dalla fede, incorre nell’errore. L’Inferno rappresenta la presa di coscienza del male e la sua rimozione da parte dell’uomo attraverso l’osservazione, la riflessione dei peccati: l’uomo giunge in tal modo alla vita virtuosa. A volte capita di perdere di vista la ragione, di smarrire la strada che stiamo percorrendo poco a poco; Dante individua in Virgilio, in fondo alla strada buia, quel “lume” che si tramuta nel mezzo necessario per ritrovare la via maestra. Il poeta latino rappresenta propriamente la ragione (e la conoscenza secondo ragione: la filosofia), risorsa necessaria e sufficiente per riconoscere il male anche quando non ci accorgiamo di esso. L’azione intelligente non può procedere senza conoscenza, in assenza della quale non saremmo più capaci di eseguire quegli atti che offrono le migliori prospettive di risultati. Questo non vuol dire che Dante sarebbe incapace di proseguire senza le guide, perché dipende esclusivamente da noi il valore che vogliamo dare alle nostre percezioni. A volte però ciò non basta, motivo per il quale, giunti nel Purgatorio, la guida è sempre Virgilio-ragione, ma è guida imperfetta, necessaria ma non più sufficiente: a Dante occorre l’aiuto delle anime espianti, il cui insieme raffigura la comunità della Chiesa, fino a raggiungere il Paradiso, che rappresenta la liberazione dell’intelletto dall’errore, dai rischi di devianza dottrinale a cui la mente umana, nella sua manchevolezza, è continuamente soggetta. Tuttavia è riduttivo considerare Virgilio unicamente come l’allegoria della Ragione umana. Erich Auerbach (1892-1957), studioso tedesco di Dante, ha dedicato un importante saggio al sistema allegorico medievale sull’interpretazione del mondo, che ha definito concezione figurale. Virgilio, l’autore dell’Eneide vissuto nel I secolo a.C., è considerato, nel Medioevo, modello di perfezione umana: queste sue caratteristiche terrene si inverano nell’eternità, ed egli diventa maestro e guida di Dante. Il Virgilio storico è dunque “figura”, del Virgilio eterno. Pertanto il Virgilio che guida Dante non è meno vero dell’uomo vissuto nel I secolo a.C. ed è per questo che, oggi, viene definita limitativa la riduzione del poeta latino a un concetto astratto, poiché le anime di cui Dante ci parla sono per l’eternità ciò che hanno scelto di essere nel tempo provvisorio della vita. D’altronde bisogna riflettere sul fatto che Dante incontri Virgilio quando è spaventato dalle tre belve e in particolare dall’ultima apparsa, la lupa: retrocede verso la selva, quando scorge una figura umana, ma non distingue se si tratta di un’ombra, cioè un’anima trapassata o di un uomo reale, ma le si rivolge chiedendo aiuto: Mentre ch’i rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco.

Dante, innamorato di questo poeta, lo presenta come un personaggio e un simbolo di gran lunga più nobile e più grande di quello che risultava nell’immaginario collettivo medievale. In primo luogo Virgilio era l’autore prediletto di Dante che lo considerò come suo maestro in fatto di stile poetico. Con entusiasmo egli ammirò in lui il cantore della grande gloria d’Italia, come si può comprendere dalle terzine: <<Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?>>, rispuos’io lui con vergognosa fronte. <<O de li altri poeti onore e lume, vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore. FIGURA DI VIRGILIO NEL CANTO III Nel Canto III Dante e Virgilio sono davanti alla porta dell’Inferno che reca sulla sommità una scritta minacciosa. Dante esita e Virgilio lo prende per mano e lo conduce al di là della porta. All’ingresso dell’antro infernale Virgilio impone a Dante di accantonare ogni viltà: occorre coraggio morale e intellettuale per affrontare le esperienze che lo attendono. Questo suo richiamo è anticipazione dell’episodio degli ignavi, coloro che in vita, per pusillanimità, non hanno agito. Queste parole di colore oscuro vid’io scritte al sommo d’una porta; per ch’io :<<Maestro, il senso lor m’è duro>>. Ed elli a me, come persona accorta: <<Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto che tu vedrai le genti dolorose c’hanno perduto il ben de l’intelletto>>.

Quando vidi costui nel gran diserto, <<Miserere di me>>, gridai a lui, <<qual che tu sii, od ombra od omo certo!>> Nacqui sub Iulio, ancorche fosse tardi, e vissi a Roma sotto’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

E poi che la sua mano a la mia puose Con lieto volto, ond’io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose.

Poeta fui, e cantai di quel giusto Figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ‘l superbo Iliòn fu combusto.

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In un ambiente così oscuro (l’aria è sanza stelle, quindi manca la luce), in cui si odono sospiri, pianti e alti guai, (un tumulto caotico e vorticoso di suoni), dove mancano la luce, il tempo, la Grazia divina ed è amplificato ciò che, in questa esperienza, c’è di più tragico, l’autore prova una terribile angoscia alla visione delle parole riportate sulla porta d’accesso all’Inferno. Tuttavia egli ha sempre un punto di riferimento, un’àncora a cui aggrapparsi e tale sostegno è il suo Maestro, l’uomo saggio su cui può sempre fare affidamento, anche quando sembra essere totalmente circondato dal dolore. Virgilio, infatti, è sempre pronto a prevenire le azioni dello scrittore, a prepararlo a quelle che saranno le sfide successive, in modo del tutto razionale, allo stesso modo in cui tutti noi siamo tenuti ad usare la testa nel momento in cui riscontriamo delle difficoltà. Infatti, propone a Dante di abbandonare qualsiasi forma di timore o sospetto e di abituarsi alla sofferenza, che è l’emblema del luogo che stanno per visitare, luogo in cui le anime appaiono stremate. Virgilio lo prende per mano, rasserenando il suo volto e introducendolo nella realtà inaccessibile ai vivi. È importantissima l’immagine del poeta latino in tale vicenda e soprattutto il modo in cui egli fa sentire a Dante che non è solo e che, per affrontare un luogo così tetro, basta mettere da parte sospetti e bassezza d’animo, come per ricordarci che la nostra ragione è l’unico movente di cui abbiamo bisogno per vagare in qualsiasi girone dell’Inferno, anche quando questi gironi giacciono semplicemente nei luoghi nascosti della nostra anima. Durante il viaggio Dante, ancora una volta, si rivolge a Virgilio, colpito da un vorticoso mescolarsi di pianti, voci e suoni e il poeta, come sempre, sa dargli una risposta: quella è la condizione degli ignavi, respinti sia dal cielo sia dall’Inferno e lo invita a limitarsi a guardare e passare oltre: Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di loro, ma guarda e passa>>. È questo un celebre passo della Divina Commedia. Ignorali, non dar loro più importanza di quanto meritano: con questo verso, Virgilio sottolinea la necessità di non mostrarsi preoccupato di fronte a quelle anime che appaiono così sopraffatte, poiché il mondo non consente che rimanga alcuna fama di loro. Una sentenza proverbiale che sancisce il disprezzo di Dante e che ci fa comprendere sempre più l’esperienza della guida: le calunnie e la malvagità operate da altri individui non sono da considerarsi rilevanti in quello che è il percorso della nostra vita, proprio come la figura dei dannati nel viaggio infernale intrapreso da Dante. Infine, in questo canto, emerge la figura di Caronte. Il Caronte di Virgilio è un vecchio vigoroso, che offre alcuni spunti al personaggio dantesco: figlio di Erebo e della Notte, è il traghettatore dell’Ade e, in qualità di psicopompo, trasporta i nuovi morti da una riva all’altra del fiume Acheronte. La risposta di Virgilio a Caronte, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare (vv.94-96), fu trascritta sulla “copertina” in pergamena di un registro giudiziario bolognese. Si tratta della più antica citazione tratta dalla Commedia, tanto più significativa se si pensa che Dante era ancora vivo. Con queste parole nelle famose terzine dantesche, Virgilio placa la collera di Caronte, che non voleva lasciar passare Dante dall’altra sponda del fiume, invitandolo a cessare di dimenarsi, sperando di cambiare il corso delle cose: così è voluto da Dio (dal destino, dal cielo, dall’inevitabilità), là dove basta desiderare (volere con determinazione) e si avvera. Il canto III è il più “virgiliano” dei canti della Commedia. Per Dante, infatti, Virgilio è poeta sommo, costantemente presente nelle sue opere.

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Nei confronti di Virgilio il rapporto di dipendenza confessato da Dante è assoluto ed esclusivo. Dante vanta un’eccezionale conoscenza e competenza delle opere virgiliane, che egli ha lungamente studiato e amato: da qui ha tratto lo bello stilo, lo stile tragico o illustre impiegato nelle canzoni dottrinali che gli hanno dato fama, le formule sapienziali rivestite di allegoria, l’esaltazione dell’impero di Roma come impero universale. Virgilio è il famoso saggio (Inf. I 89), il mar di tutto il senno (Inf. VIII 7), cioè il massimo depositario della sapienza antica. L’Inferno è una voragine e il percorso di Dante si dispone sull’asse spaziale alto-basso, coppia oppositiva tipica della Commedia e della concezione cristiana: l’alto è la salvezza, il basso è la dannazione. Quindi il peccato è una “discesa”, anche nel senso di abbassamento di umanità dato che esso è una degradazione di quelle facoltà umane che Dio ci ha donato per il bene. Il compito di Virgilio è dunque quello di accompagnare Dante attraverso tutti i livelli del male (i cerchi) per arrivare a poterlo osservare, comprendere e superare. È come se Dante guardasse gli ambigui paesaggi dell’Inferno riflessi negli occhi di Virgilio, quindi gli “occhi della ragione”, maturando, crescendo in consapevolezza e, di conseguenza, il poeta lo educa lungo tutto il suo viaggio, attraverso gli incontri e le esperienze che vivono, come un’ombra che lo guida e lo segue ovunque, in ogni luogo e momento, pronta a chiarire qualsiasi dubbio, qualora sorgesse nel protagonista. Anche noi dobbiamo avere il coraggio di affrontare l’avventura del viaggio di Dante e di seguire il poeta fiorentino. Tutti noi nella vita, come Dante all’inizio della cantica dell’Inferno, abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro, vorremmo contare solo sulle nostre forze e sulle nostre energie e salire da soli quel <<colle luminoso>> che vediamo davanti a noi, che rappresenta la via buona, la verità. Ciascuno di noi ha una ragione che gli permette di distinguere il bene dal male (<<lume v’è dato a bene e a malizia>> dirà Dante nel canto XVI del Purgatorio) e, allo stesso tempo, ha quel peccato originale che lo porta a voler essere autonomo. Dante inizia, così, a salire da solo. <<Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,/ una lonza leggiera e presta molto,/ che di per macolato era coverta>> Ecco, però, che gli si presenta davanti il primo grande ostacolo. Un imprevisto è la sola speranza, l’incontro gratuito e inaspettato che ci salva la vita. Dante scrive: <<Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, / dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi per lungo silenzio parea fioco>>. Quel verbo <<offerto>> indica che, in quella situazione di crisi e di difficoltà, viene donato al Dante viator un incontro imprevisto, immeritato, gratuito. Quindi non sono tanto i suoi meriti, le sue capacità a salvarlo, quanto la sua bravura nel domandare aiuto, la sua mendicanza che subentra all’iniziale desiderio di totale autonomia tanto che grida: <<Miserere di me […] /qual che tu sii, od ombra od omo certo!>>. Come chi si trovasse in un labirinto cercherebbe all’inizio di uscire da solo poi, con il trascorrere del tempo e il calare delle tenebre, si metterebbe a gridare, altrettanto fa Dante.


Ogni giorno, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo prendere coscienza che da soli non ce la possiamo fare. Dobbiamo, cioè, riconoscere il bisogno di un aiuto e di una compagnia. Dante, però, non sceglie da solo il maestro. Egli riconoscerà l’autorevolezza di Virgilio soltanto in un secondo momento e lo chiamerà <<duce, autore, maestro>>. Anche noi percepiamo l’autorità di qualcuno quando avvertiamo che costui ha la capacità di dire qualcosa d’importante sulla nostra vita e sa valorizzare il nostro “io” e i nostri talenti. Ci fidiamo dei suoi giudizi e dei suoi consigli, continuando, ovviamente, a sentirci liberi. Il maestro, dunque, sollecita la libertà dell’allievo, non la mortifica. Il lungo percorso di accompagnamento di Virgilio attraverso l’Inferno e il Purgatorio avrà termine nel Paradiso terrestre. Il poeta latino, infatti, ha adempiuto al suo compito, una volta condotto Dante all’incontro con Beatrice. A questo punto il maestro si fa da parte. Non ha voluto legare a sé il discepolo, al contrario, gli ha indicato il bene per la sua vita, lo ha accompagnato per un tratto del suo percorso e poi ha saputo farsi da parte e gli ha dunque fatto strada verso il compimento del suo desiderio. Il vero maestro conduce al bene, non ferma il discepolo su sé stesso in maniera idolatrica. L’idolo non indirizza mai alla verità, ma presenta sé come risposta al desiderio di felicità del cuore dell’uomo. Antoine de Saint Exupery nella Cittadella descrive bene tale atteggiamento quando scrive: <<Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito>>. Ovviamente, per Dante, così come per noi, il peso delle scelte è tutto nostro, motivo per il quale la vita non è altro che una guerra contro sé, contro il proprio peccato, le proprie paure e tentazioni. La proposta che Virgilio fa a Dante è di stare in sua compagnia. Così, dopo che Dante è ancora preso dalla paura, anche nel secondo canto quando è convinto di non essere all’altezza, o nel terzo canto quando deve varcare la porta sulla quale compare l’epigrafe spaventosa (<<Per me si va nella città dolente>>), Virgilio lo prende per mano <<con lieto volto>> e lo introduce alle <<secrete cose>> VIRGILIO NEL XXVII DEL PURGATORIO Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre, questo è Virgilio, ed è nel XXVII canto in Purgatorio che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima. Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi.È mezzogiorno e viene incontro a lui Stazio, l’angelo della castità che li avverte della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre», nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro: «Figliuol mio, qui può esser tormento, ma non morte» Lo invita ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza», e se ne adombra «un poco» anche Virgilio.

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Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta avvicinando sempre di più al Paradiso terrestre, dove incontrerà Matelda. Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfrancaall’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma:

«Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro» Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: ei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride dopo che Dante, al nome della donna, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più nel XXVII canto non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto. È soprattutto nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata dall’uso del pronome allocutorio di prima persona plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino. Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita. Dante ha dunque superato questa grande prova, e ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio. Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta impresso nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera sembrano preparare l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio: «Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de’ mortali, oggi porrà in pace le tue fami». Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spingerlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro». Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante: «se’ venuto in parte dov’io per me più oltre non discerno». Inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità.


CONCLUSIONE Dal primo Canto dell’Inferno fino al trentesimo del Purgatorio, quindi, Virgilio è stato guida portante e padre amorevole, amico e protettore nei momenti più duri. Se si parla di Dante e del suo viaggio nel mondo dell’oltretomba è normale accompagnare il suo nome a quello di Virgilio come a quello di Beatrice. L’Eneide, opera cardine della cultura latina e testamento poetico di Virgilio, è stata, nella formazione di Dante, un elemento chiave: per il poeta quel testo deve essere presente nell’istruzione di qualsiasi uomo di lettere dal momento che, data la sua portata, divide la vita del letterato da un “prima di averlo letto” a un “dopo averlo letto”. Nel loro percorso, soprattutto durante il primo regno, i due poeti sono posti davanti a numerose difficoltà, che fanno emergere l’insicurezza di Dante, colmata dalla forte autorevolezza dell’ufficio di Virgilio. Se si parla del poeta dell’Eneide come personaggio della ragione non bisogna però dimenticare, dunque, che Virgilio nella Commedia è anche sentimento. È l’uomo che sospira pensando alla sua eterna privazione di Dio, è lo smarrimento di fronte al monte del Purgatorio, è l’amico che tende il braccio o stringe la mano di un Dante spaventato.

BIBLIOGRAFIA -Gianluigi Tornotti, Lo dolce lume, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Trebaseleghe (Pd), Grafica Veneta, 2018/2019. -Erich Auerbach, Studi su Dante, M.L. De Pieri Bonino, D. Della Terza, Edizione 7, Feltrinelli, 2017. -Alessandra Terrile, Paola Biglia, Cristina Terrile, Una grande esperienza di sé 1-NUOVO ESAME DI STATO, Paravia (1 gennaio 2018) -https://www.google.it/amp/s/caffeletterario2.wordpress.com/2015/06/24/il-dolcissimopadre/amp/ -https://www.skuola.net/dante/divina-commedia/figura-di-Virgilio-in-dante.html -https://vivalascuola.studenti.it/la-figura-di-virgilio-nella-divina-commedia-456606.html -https://www.studentville.it/appunti/il-rapporto-dante-virgilio/

Mattia Marciano 3^B

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L'amore, linfa vitale PREMESSA Fulcro dell’opera di Dante è l’amore. Soprattutto nel 1300 l’amore veniva considerato il bene più grande che un uomo potesse provare: era il senso della vita e dal modo di amare dipendeva il destino di ognuno. Era il sentimento che guidava l’uomo e che, anche nei momenti più bui e tristi, riusciva a dare uno spiraglio di speranza ed era l’ancora, spesso l’unica, a cui aggrapparsi. Per Dante si trattava di un principio vitale naturale presente in ogni creatura, di cui tutti si nutrivano. «Né creator né creatura mai», cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, o naturale o d'animo; e tu 'l sai.» Inoltre, l’amore veniva descritto come un’estasi mistica: la donna era il tramite tra l’uomo e Dio e, attraverso la lode, l’innamorato poteva elevarsi a uno stato di beatitudine. Per queste ragioni alla figura femminile veniva attribuita una funzione angelica: la donna angelo. La donna angelo di Dante, alla quale non smetterà mai di pensare, è Beatrice.

La risposta più soddisfacente sembra essere quella di Cavalcanti, che interpreta il sogno come un presagio di morte, Dante, così, si avvicina al Dolce Stil Novo il quale sostiene la teoria dell’amor gentile. “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l’un senza l’altro osa com’alma razional sanza ragione.”

“Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch'ella mira;

I due ragazzi, essendo di rango sociale diverso, lei un’aristocratica e lui il figlio di un mercante, non avevano molte occasioni per incontrarsi. Nasce così il loro amore platonico, il quale non riuscirà mai a sfociare in un amore reale. Dante, pur di non sacrificare la purezza di Beatrice, rovinando così la sua reputazione, decide di rivolgere tutte le sue attenzioni ad altre donne. Nell’incontro successivo, lei, decisa a muovere un severo rimprovero al comportamento di Dante che ha giudicato licenzioso, gli nega il saluto (gesto che aveva un significato ben più pregnante ai tempi di Dante di quanto ne abbia ai giorni nostri) e lo sbeffeggia con un gruppo di amiche. La privazione di questa benefica confidenza getterà Dante in uno stato di paranoica sofferenza. L’anno successivo Beatrice sposa un ricco banchiere fiorentino, Simone de’ Bardi, ma a Dante basta solo vederla per sentirsi nuovamente vivo. Con il tempo l’amore cambia, anche per Dante. Il poeta si ritrova a pensar che il suo amore ormai è connesso all’idea di donna-angelo che ha attribuito a Beatrice. Ella, infatti, si fa mezzo di collegamento tra l’uomo e Dio, assumendo così un aspetto mistico. “ella si va, sentendosi laudare,benignamente e d’umiltà vestuta, e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare.”

ov'ella passa, ogn'om ver' lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, sì che, bassando il viso, tutto smore e d'ogni suo difecto allor sospira: fugge dinanzi a lei Superbia e Ira. ” L’AMORE TRA DANTE E BEATRICE È una mattina di primavera, alcune rondini volteggiano basse attirando l’attenzione di un bambino, di nome Dante, che passeggia a fianco della mamma. Nella direzione opposta una bambina, di nome Beatrice, è impegnata in un ragionamento concitato con suo padre, forse un capriccio. Con il broncio tipico dei bambini che non l’hanno spuntata volge lo sguardo dalla parte opposta: in quel momento i suoi occhi incrociano quelli del bambino, che ha lasciato le rondini ai loro giochi ed è stato attirato dal visino delicato della coetanea. “Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare.” È così che avviene il primo incontro tra Dante e Beatrice. All’epoca avevano entrambi nove anni. Tra i due è amore immediato, una “tirannia d’amore”, come da lui fu definita, che avrà tanta voce in capitolo nelle scelte future. Il secondo incontro avviene dopo il compimento della maggiore età e conferma l’affinità dei due cuori. Sin dall’inizio il poeta rimane folgorato dalla bellezza, ma soprattutto dalla purezza che ella emana mentre passeggia per le vie di Firenze. Eccitato da questa visione, l’impulso di Dante accoglie un sogno altamente allegorico e il poeta lo descrive agli amici come una specie di battibecco. Ci sono dubbi se si considera il sogno come idea formulata dalla sua mente o piuttosto un artificio letterario; certo è che il luogo comune del cuore mangiato non è un’invenzione dantesca ma ricorre in gran parte della letteratura amorosa.

La morte prematura della dolce amata, a soli ventiquattro anni, conduce il poeta ad uno stato di sofferenza allo stato puro. In seguito, un’altra donna si fa strada nel cuore di Dante, ma viene subito allontanata a seguito di una visione di Beatrice, la quale obbliga il povero poeta a non amare nessun’altra donna al di fuori di lei. Dante scrive La Vita Nova, opera giovanile e segretamente autobiografica, dopo la morte di Beatrice. La perdita e dunque la mancanza spingono il poeta a idealizzare Beatrice fino al parossismo. L’amore diventa ultraterreno, viatico per l’elevazione verso la purezza. Beatrice è il faro che indica la via alla conoscenza e alla vita eterna. Nella Vita Nova, Dante identifica nel numero nove l’amore divino in quanto ha come radice perfetta il numero tre, il quale è associato alla Trinità. Al numero nove identifica anche Beatrice, come simbolo divino, che gli appare per la

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prima volta all’età di nove anni. Beatrice ha avuto un ruolo importante in tutta la vita di Dante, che può essere petrarchescamente suddivisa in due grossi blocchi tematici: in vita e in morte di Beatrice. La perdita dell’amata annienta lo spirito del Sommo Poeta, prosciugandogli ogni certezza e gioia e in una dimensione di grigio torpore dal quale si risveglia a fatica. In un primo tempo Dante cerca sollievo nella dottrina filosofica e nel sapere offerto dalla Scolastica, metaforicamente rappresentata dalla donna gentile. L’AMORE TRA PAOLO E FRANCESCA Paolo Malatesta e Francesca Da Polenta, protagonisti del V canto dell'Inferno di Dante, sono persone realmente esistite. L'amore vissuto da questi due ragazzi e raccontato da Dante come anima del canto, è completamente diverso dalle altre storie scritte e cantate da autori dell' epoca, è origine di tristezza e dolore, tanto da culminare con la morte di entrambi. “Amor, ch’ al cor gentil ratto s’ apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’ offende.” L' amore tra Francesca e il suo amante divampa in maniera fulminea, e alla stessa velocità viene distrutto, con una brutalità e una freddezza talmente grandi che il solo ricordo ne offende la dignità. Paolo e Francesca vengono colti in flagrante, mentre si baciano, da Gianciotto, il quale, ferito nell'orgoglio, li uccide entrambi.Il fulcro della storia, non è solo il peccato, di cui si tinge l’amore tra i due, ma anche la sua fugacità. Il sentimento ha il tempo di nascere e di morire, ma non di vivere. L'amore per Dante è questo, un sentimento che non ha età, è eterno, ma non è tangibile. “Amor, ch’ a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’ abbandona.” Per Dante l'amore è la regina delle emozioni, è la spinta dell' animo umano verso Dio, impossibile da non riconoscere e ricambiare. E' così, con questa forza, che lui lo descrive, dipingendo in pochissimi versi, l'intensità di un sentimento al quale nessun essere umano può resistere. Dante attraverso le parole di Francesca trasmette la potenza dell'amore con un'efficacia incomparabile. “Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense. Queste parole da lor ci fuor porte.” Quest'amore veemente, che infiamma le anime dei due personaggi, si evolve in una fatale conseguenza. La morte dei due amanti è l’epilogo peggiore, che uno spettatore possa immaginare, di una storia così travolgente. E non può che esserci fine altrettanto terribile per l'artefice di tanta crudeltà. Così Francesca augura all'infelice marito, autore dell'estremo gesto, il cerchio più crudele e buio dell'inferno, la Caina. La cosa più incredibile che Dante riesce a trasmettere in queste terzine è la sua completa devozione per un sentimento oltremodo bello e completo, al di là della circostanza in cui viene vissuto: l’ adulterio che come tale viene punito.

I due amanti scontano la pena severissima di essere "menati" senza sosta dalla bufera infernale, per l' eternità. Nonostante ciò, qualsiasi lettore è mosso da pietà e compassione per i due innamorati, anche se peccatori, e prova una sorta di disprezzo per chi a questa storia ha messo fine. E' come se Dante, pur inserendolo in un girone infernale, riuscisse a mettere in una sfera questo amore, conservandone il candore e senza toccarne l'integrità e la bellezza. Quest'operazione gli riesce in modo straordinario e completamente naturale, proprio perché è lo specchio della sua visione: l’amore, bello in assoluto, a prescindere da tutto. CONCLUSIONE Dante con la sua opera ha tracciato un segno indelebile e di grande valore nella letteratura italiana. La “Divina Commedia” è considerata la più grande opera della nostra letteratura, grazie alla sua bellezza e raffinatezza e l’amore nella Divina Commedia è ovunque. Dante ha tracciato una visione filosofica del destino eterno dell’uomo: l’uomo ha la capacità di amare per scelta e dunque ha la libertà di decidere il proprio destino orientando verso il bene o verso il male questa forza innata. “L`amore -come afferma Jacqueline Risset- è un`emozione così forte, così essenziale, che merita che ognuno gli consacri un lavoro interno, che arrivi a fare una sorta di fiore di parole, che è la poesia, per Dante.” BIBLIOGRAFIA Alighieri Dante, Divina Commedia, 1321 Alighieri Dante, Vita Nova, 1292-1295

Maria Padolino 3^B 63


In un periodo così cupo, in cui padroneggia l’oscurità, il prof. Picano, nella lezione “Parola sorvolata da stelle”, accende in noi studenti una piccola luce, mediante l’astro dantesco. Egli è riuscito a suscitare un notevole interesse, permettendoci di capire appieno ciò che abitualmente si legge sui libri scolastici, approfondendo molti aspetti interessanti, i quali vengono spesso tralasciati da noi adolescenti. Tutti vediamo la straordinaria opera composta da Dante come una finzione, come qualcosa di non reale e, automaticamente, ciò ci induce a pensare che sia qualcosa di artificioso, quando, invero, questa viene usata dal nostro grande autore per poter raccontare una verità che solo lui, in un preciso momento, è riuscito a scorgere. Tramite questa traduzione della verità in linguaggio, Dante vuole insegnare a tutti noi che esiste un luogo, ultraterreno, in cui dimorare per essere felici, ed è proprio quello che lui ha incontrato e in cui desidera ritornare. Infatti, per il sommo poeta, il bene esiste e tutto, nella sua opera, parte proprio da quest’ultimo. Non è un caso, perciò, che inizi a narrare questo straordinario viaggio partendo dall’inferno. Egli compie questa scelta credendo che il male sia soltanto un allontanamento dal bene ed è infatti tramite Lucifero, figurazione del male, che possiamo capire la vera essenza del bene e la retta via che conduce ad esso. La “Divina Commedia” è un proclama d’amore, scritta per il bene dell’uomo, affinché egli possa trovare la luce che illumini il suo cammino, perché, nonostante egli sia destinato alla felicità, non riesce a raggiungerla in quanto è alla ricerca di un bene fugace in grado solo di soddisfarlo al momento, . 64

dando importanza alle cose effimere ed ignorando quello vero, che stordisce l’animo, che fa venir voglia di riviverlo ancora e ancoraIncontrando il bene non si può restare impassibili ma in quell’esatto momento le parole vengono a mancare e tutto, d’un tratto, sembra avere più senso. E così che dovrebbe succedere quando incontriamo il vero amore, quello capace di farci vibrare il cuore, di stimolarci a fare sempre meglio, ad essere migliori e, così, capace di farci sentire davvero vivi. Egli sperimenta quest’esperienza alla vista di Beatrice, tant’è che se il loro incontro non fosse mai avvenuto, questa grande opera non sarebbe mai esistita. Ella, essendo per lui il vero bene, gli fa conoscere la propria identità e quindi può essere definita come specchio dell’anima. Probabilmente Dante definirebbe questo periodo in cui ci troviamo “selva oscura”, ma ognuno di noi è libero di scegliere cosa cogliere di queste tenebre che, per quanto abominevoli siano, sono in grado di regalarci anche qualcosa di bello, basta riuscire a scovarlo. Proprio per questo decide di scrivere questo “manuale di vita”, per far sì che ognuno di noi possa individuare la via per raggiungere la salvezza, per riuscire “a riveder le stelle”, anche in tutto questo buio infernale.

Patrizia Maria Sparagna 4^C


Ma per trattar del ben ch'i' vi trovai " Ma per trattar del ben chi' vi trovai... ". Il titolo di apertura del Convegno dei Colloqui Fiorentini, dedicati quest’anno a Dante Alighieri, è un verso tratto dal I Canto dell’Inferno, prima opera racchiusa all’interno di quello che può definirsi il capolavoro, per eccellenza, dell’autore: la Commedia.Per chi non ne fosse a conoscenza, i Colloqui Fiorentini sono una manifestazione a carattere nazionale, positivamente affermata nel panorama scolastico e culturale italiano, proposta dall’associazione Diesse Firenze e Toscana.Da grande appassionata di letteratura quale sono, appena la mia professoressa di Italiano ci ha proposto di partecipare a questo Convegno, entusiasta, ho subito aderito.Nonostante il periodo di pandemia che stiamo vivendo, che, come ben sappiamo, ha reso impossibile ogni sorta di attività in presenza, il direttore Pietro Baroni e altri insegnanti non si sono persi d’animo e hanno dato luogo ad una delle più belle edizioni dei Colloqui Fiorentini.In occasione dei 700 anni dalla morte di Dante, nelle giornate del 18-19 e 20 marzo, siamo stati coinvolti in una serie di eventi online in diretta streaming, con lezioni, che hanno visto avvicendarsi esperti, scrittori, poeti, letterati e giornalisti tra i quali Pietro Baroni, Gilberto Baroni, Diego Picano, Alessandro D’Avenia, Davide Rondoni.Iniziamo per gradi.Il primo ad intervenire è stato il prof Diego Picano, docente di Lettere nella scuola secondaria di II grado, il quale, in modo molto esaustivo e coinvolgente, ci ha spiegato cosa Dante trovasse di bene nel male per eccellenza: l’Inferno.Egli ci ha messo di fronte ad un quesito: “Perché Dante è così convinto di aver trovato il bene, se si trova all’interno di ciò che richiama il dolore, la sofferenza, il peccato? Il peccato cos’è?”.Il peccato, ci dice, non è altro che uno spreco della bellezza. Questa bellezza è diversa da persona a persona. Per me può essere bella una giornata di sole, il profumo di una rosa, il sapore del mio piatto preferito e così via.La bellezza è qualcosa che suscita in noi un desiderio. Dante prova un desiderio, quando nei versi della Vita Nova: “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta” ci fa comprendere come egli sia sereno, tranquillo e beato nel vedere Beatrice. Le guarda i capelli, gli occhi, il viso e vorrebbe non smetter mai di rimirarla.Ma le cose belle finiscono e Beatrice viene strappata al mondo dalla morte. Così Dante, in preda a sentimenti negativi, intraprende questo viaggio durante la notte tra il 7 e l’8 Aprile del 1300, riuscendo, poi, a ricongiungersi a lei dinanzi alle porte del Paradiso.Il secondo intervento, invece, è stato quello di Alessandro D’Avenia, scrittore, insegnante e sceneggiatore il quale, fin da piccolo, è stato un grande appassionato della letteratura.Inizia col dire che i due libri più odiati dagli studenti sono i Promessi Sposi e, ironia della sorte, la Divina Commedia.Al secondo anno, infatti, viene inflitta agli studenti questa “tortura” di dover studiare il capolavoro manzoniano, mentre al triennio Dante e la sua Commedia accompagnano i pomeriggi di studio matto e disperatissimo. Poi la bellezza di queste opere ci conquisterà senza abbandonarci mai più, perché ciascuno di noi sperimenterà nella propria vita le emozioni che gli autori ci offrono.Il canto che D’Avenia tratta, in modo particolare, è il V Canto dell’Inferno, sotto la guida del fedele libro dell’Inferno commentato da Franco Nembrini, dove entrano in scena due figure sì misteriose, ma molto affascinanti.“Amor ch’a nullo amato amar perdona…”Verso che, ognuno di noi ha sentito almeno una volta nella propria vita.A pronunciarla è Francesca da Rimini, coniugata Malatesta.Ella era figlia di Guido il Vecchio da Polenta, signore di Ravenna, che dopo il 1275 era stata costretta a sposare Gianciotto Malatesta, che, insomma, non era proprio un divo di Hollywood.

Minerva Freda 4^B 65

Paolo, invece, altro grande protagonista di questo canto, è il fratello di Gianciotto e, a quanto narra Dante, ebbe una relazione adulterina con la cognata Francesca, che li portò alla morte.“Amor condusse noi ad una morte.”Francesca era una donna colta, esperta di letteratura amorosa e ci dice che il loro peccato fu quello di leggere la travagliata storia di Lancillotto e Ginevra e che lei e Paolo, come loro, intrapresero una relazione clandestina.Dante, spiega D’Avenia, si sente coinvolto nella vicenda, dal momento che il padre di Francesca è stato uno dei Signori che lo accolse alla propria corte, riconoscendone il valore e la grandezza poetica.Il poeta vuole esaltare questo sentimento d’amore gentile, poiché non è peccato amare una persona, finché questo amore resti una cosa astratta e resti sentimento.Il peccato, invece, quello che portò alla morte i due amanti, consiste nell’aver dato seguito a questo amore e essersi comportati di conseguenza.Il terzo intervento, personalmente quello che più mi ha colpito, è stato quello di Davide Rondoni, poeta, scrittore e drammaturgo.Egli ha iniziato presentandoci il personaggio del poliedrico Ulisse.Ulisse è fiamma che brucia tra i consiglieri di frode, insieme a Diomede.Ma perché Dante condanna uno che vuole conoscere?L’Ulisse del poeta fiorentino è diverso rispetto a quello di Omero nel poema l’Odissea.Dante si basa su una pagina de Le Confessiones di S. Agostino, dove dice che noi uomini cerchiamo con il desiderio di trovare e troviamo con il desiderio di trovare ancora.Sia Dante che Agostino vogliono considerare l’uomo che va alla ricerca del bene, della felicità, che vuole il meglio per la propria vita, ma si sente confuso. impedito dalla presenza del male dentro e fuori di lui.Confonde il desiderio di conoscere con la brama del potere.Da questo nasce l’attenzione particolare di Dante nei confronti di Ulisse. Dobbiamo ricordarci che egli non conosceva affatto l’Odissea, essendo essa scritta in greco, ma si basa su ciò che è scritto da Cicerone nel De Finibus.

Questo Ulisse dantesco è un uomo che non ha mai spento il suo ardore conoscitivo, che brucia dentro di lui. È talmente forte che va oltre l’amata patria Itaca, la moglie Penelope, il figlio Telemaco, il padre Laerte e il cane Argo. È un ardore che niente e nessuno è capace di frenare.Egli non parlerà mai dei suoi peccati legati alla frode, bensì tratterà del suo inconsapevole errore di aver oltrepassato le colonne d’Ercole, il limite del mondo, allora, conosciuto.E ci racconta dell’indovino Tiresia, il quale nell’Ade profetizza ad Ulisse una navigazione lunga, turbata dall’ira di Poseidone per aver accecato il figlio Polifemo.Tiresia non gli parlerà mai del destino come una via da seguire, ma ammette un cambiamento in esso da parte dell’operato dell’uomo. Infatti, anche se i compagni di Ulisse non avessero mangiato i buoi sacri ad Apollo e non fossero morti, era già stata decisa la vendetta sui Proci, per esempio.Ma è inoltre deciso che Odisseo non tornerà mai più a casa e compirà il suo ultimo viaggio in mare, dove sopraggiungerà la morte.Quindi, è come se Dante si paragonasse ad Ulisse ma, diversamente da quest’ultimo, il suo viaggio non finirà con la morte, bensì sarà un cammino verso il bene.Dante, con i suoi versi, ci rende tutto il fascino della letteratura e ci mostra un cammino che ha come meta la scoperta della nostra vocazione di esseri umani.I Colloqui fiorentini, come ci dice il prof. Gilberto Baroni, non hanno intenzione di accrescere il nostro numero di nozioni che possediamo, tantomeno su Dante,bensì ci aiutano a custodire il nostro sapere, il nostro ardore conoscitivo, al fine di diventare dei piccoli Ulisse che non si stancheranno mai di apprendere sempre di più.Riusciremo anche noi ad intraprendere un viaggio che, ci porterà, finalmente …a riveder le nostre stelle


Dante e... la parola sorvolata di stelle Il 4 dicembre 2020 gli studenti dell’I.S.”A.Nifo” hanno partecipato, insieme ai loro docenti di Lettere, alla videoconferenza del prof. Diego Picano che ha tenuto una lezione introduttiva ai Colloqui Fiorentini, del prossimo mese di marzo, dal titolo “Parola sorvolata da stelle”. Il professore ha catturato l’interesse di tutti parlando di Dante, padre della Lingua e della Letteratura Italiana, ideatore di versi di una bellezza immensa, che inducono alla scoperta del senso della vita nei lettori che vi si immergono felici. Insita nell’animo umano la coesistenza del bene e del male, il continuo oscillare tra luce ed ombra, tra esperienze di grazia ed esperienze di perdizione, ma eterno è il cercare dell’uomo, un cercare un luogo, una sensazione di quiete, di benessere, di miglioramento, di completezza, un cercare il Bene. Tanti si sono cimentati in questa impresa che definirei ontologica e tanti l’hanno espressa nelle loro opere indentificando il Bene supremo in vario modo: chi come ricerca edonistica, chi come ricerca religiosa, chi come ricerca del Bello, dell’Astratto, della perfezione in genere. Dante, dopo ben sette secoli di storia e letteratura, ancora oggi influenza l’immaginario collettivo con la sua grande opera che, come sostiene il prof. Picano, è una continua tendenza verso la Verità, per il poeta una realtà ultraterrena nella quale l’uomo, attraverso una catarsi, trova prima pace e poi continuo ardore. Si è parlato nel corso della conferenza di finzione; la letteratura è generalmente una finzione, l’arte è finzione, ma esse sono tuttavia degli espedienti per raccontare la verità attraverso la finzione e Dante è maestro nell’utilizzare e forgiare la parola come veicolo di assolute verità.La parola parla all’immaginario, traccia sentieri di sensazioni, regala emozioni: è un simulacro dell’identità stessa della persona e, nell’Alighieri, dell’intera cultura medioevale.

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Di questa lontana epoca, spesso definita “buia”, egli rappresenta, però, la luce, luce di parola, di immagini, di esperienze personali e sociali, che accompagna intere generazioni ed ogni volta è sempre una scoperta. Dante non è mai fuori moda: le sue rappresentazioni allegoriche risultano quanto mai attuali e fruibili anche dalle giovani menti. Si è parlato del canto corale dell’Agnus Dei nel Purgatorio e subito lo si è associato al nostro stato d’animo durante la pandemia, al nostro chiedere aiuto al Divino, al desiderio generale di ricevere Misericordia in un momento così devastante…ma il mio è solo un piccolo esempio. Tante sono le immagini che riaffiorano nella nostra mente all’ascolto delle ferventi parole del relatore, nostro ospite. Tutto, però, ci porta al percorso di purificazione del Poeta che è anche il percorso dell’umanità, una continua fuga dal Male, inteso come privazione di Bellezza e, in un certo senso, come privazione dell’essere stesso che è stato creato per il Bene ed aspira al Bene, come riporta la filosofia agostiniana. Bellissima l’immagine finale dataci dall’espressione “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, quelle stelle che emozionano il poeta, reduce dalle esperienze infernali, e che attendono l’intera umanità alla fine del travagliato percorso esistenziale.

Giulio Armando Palmieri 4^C


Il bene nel male? Ma l’uomo, preso da un istinto di rabbia, butta a terra questo mazzo, calpestandolo. Cosa risponde la donna? “Che peccato, erano bellissimi!”. Adesso, chiunque stia leggendo questo articolo, si chiederà: “Beh, che c’entra con Dante?” Ed è proprio qui che sbagliamo. Attraverso questo esempio ho inteso cosa il profvolesse insegnarci: il peccato è uno spreco della bellezza. Quanto sono stati sprecati quei fiori così belli, così profumati! E’ così sprecato averli gettati a terra! Ma per trattare di questo spreco avvenuto, devo capire cosa sia realmente la bellezza per me. La bellezza può essere il sole che tramonta dopo una lunga giornata, l’odore di una bella torta appena sfornata, l’abbraccio di una persona amata… è qualcosa di soggettivo, diverso da persona a persona, che ha sede nel profondo della nostra anima. Capire ciò che per me è bello mi riempie il cuore. Mi fa capire chi sia io e cosa desideri. Sto bene con me stessa. È un qualcosa di così forte, che accende in me un desiderio. Ed è lo stesso che compie Dante. Nella Vita Nova egli ci fa comprendere la tranquillità, la serenità, la quiete che lui prova quando vede la donna amata che “altrui saluta”: Beatrice. Guardando gli occhi, i capelli, il sorriso, lui si sente felice e non vorrebbe privarsi di questa beatitudine. Tuttavia tutte le cose belle finiscono prima o poi. Così, un giorno, la morte porta via con sé Beatrice e Dante si getta nello sconforto.

In preda a questi sentimenti negativi, ormai padroni del suo corpo, Dante intraprende questo viaggio. Comprende, infatti, di dover trovare l’oggetto del suo desiderio, riuscendo, poi, a ricongiungersi con la donna amata alle porte del Paradiso. Ad aiutarlo a ritrovare il suo amore c’è una figura non messa a caso: Virgilio. Virgilio è, forse, la figura più importante della Commedia. Arriva in un momento in cui Dante riconosce la necessità di un aiuto e di una compagnia. Ma non è il poeta a scegliere il suo maestro. La guida appare all’improvviso, come un imprevisto, e in un modo così repentino che il poeta se ne accorge quasi per caso. Dante riconosce l’autorità di Virgilio, fidandosi dei suoi giudizi e consigli. Capisce che il poeta, attraverso l’Inferno ed il Purgatorio, lo ha portato verso le stelle, verso la realizzazione del suo desiderio. E questo è un po’ il ruolo che, oggigiorno, hanno i nostri insegnanti nei nostri confronti. Quante volte ci hanno sgridato, ci hanno dato brutti voti, non perché essi siano delle personificazioni delle tre fiere, bensì per spronarci a fare del nostro meglio? Perché non potremmo paragonarli alla figura di Virgilio? Non cercano ogni giorno di indirizzarci verso la strada del bene? Quindi, come dice Oscar Wilde e come termina il prof. Picano, “le cose importanti della vita non si apprendono, ma si incontrano”.

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“Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Dante, Inferno, I, vv. 8, 9 Quante volte abbiamo sentito sia a scuola, sia sui libri e, magari, anche in televisione, questi famosissimi versi? Come ben sappiamo, sono versi tratti dal I canto dell’Inferno, prima opera racchiusa all’interno della Commedia, il poema più famoso del globo terrestre, nato dalla penna del fiorentino Dante Alighieri. Ma ci siamo mai fermati ad analizzarli ed a capire, sul serio, il loro significato? Qui troviamo un Dante smarrito, confuso, impaurito il quale, all’improvviso, viene raggiunto da tre grandi bestie, le quali non sono proprio molto adorabili: la lupa, il leone e la lonza. Ad arrivare in suo soccorso vi è Virgilio, poeta vissuto in età romana e creatore del poema epico l’Eneide, il quale ha il compito di guidare il nostro protagonista verso quei luoghidell’Oltretomba, che solo alcuni mortali avevano avuto il piacere di visitare: i fantomatici Inferno, Purgatorio e Paradiso. Dante, quindi, la notte tra il 7 e l’8 aprile del 1300, si ritrova nella selva oscura, “chè la diritta via era smarrita”. Dante, Inferno, I, v. 3

Egli è arrivato al punto più basso della sua vita. Un punto dove la tua anima è immersa nel peccato, nell’errore e tu, uomo, non sai come ritrovare la via per uscirne. Eppure, ti ostini a voler ricercare il bene, anche in ciò che è governato dal buio, dal male. All’inizio non riuscivo proprio a capire cosa di buono ci fosse nel male; ma, fortunatamente, è venuto in mio soccorso il prof. Diego Picano, il quale, attraverso una conferenza organizzata dalla mia scuola dal titolo “Parola sorvolata da stelle”, ha chiarito ogni mio dubbio. La prima domanda a cui il prof ci ha sottoposto è stata: “Perché Dante è così convinto di aver trovato il bene in un luogo dove, per eccellenza, regna il male assoluto di Lucifero? L’Inferno, formatosi dopo la cacciata di Lucifero dal Paradiso, è il luogo dove vengono puniti i peccatori e tutto all’interno di esso richiama il dolore, il peccato, la dannazione eterna. E allora come facciamo a trovare qui il bene? Prima di tutto dobbiamo chiederci cosa sia, esattamente, il peccato. Il prof. ci pone difronte un esempio, che cito testualmente: “Immaginatevi di essere un uomo, il quale, innamorato della propria donna, decide di portarle un mazzo di rose rosse. Arrivato a casa, la donna è entusiasta di quel gesto e decide di accettare i fiori.

Minerva Freda 4^B

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Un appuntamento dantesco

Nella conferenza sul poeta Dante Alighieri , tenutasi per via telematica con il prof. Diego Picano il 4 dicembre 2020 si è parlato dei vari aspetti delle opere e della vita di Dante, confrontandoli con temi d’attualità. L’argomento più affascinante e coinvolgente è stato quello dell’amore per Beatrice, la sua “donna angelo”, che lui descrive come una grande bellezza che fa bene al cuore.E’ stato piacevole trattare questo argomento, perché rispecchia un po’ la vita di noi tutti adolescenti innamorati. Quando ci innamoriamo siamo come Dante, ossia troviamo la bellezza e la verità in quella persona che ci cambia in modo positivo. Il professore ci ha fatto ascoltare anche vari brani come l’”Agnus Dei” di Mozart, il quale viene cantato dalle anime del Purgatorio nella “Divina Commedia”.Successivamente abbiamo ascoltato la canzone di Master KG, “Jerusalema”, che parla di un luogo di ritrovamento del significato delle nostre vite e di felicità come quello che cerca Dante e che cerchiamo anche noi per via del Covid-19. Connesso al tema è stato l’ascolto di una canzone di Mina, che parla di una storia d’amore come quella di Dante e Beatrice.

Personalmente mi ha colpito molto, perché anch’ io mi sono ritrovata in quelle parole e infine è stata apprezzata dagli studenti la canzone di Giorgio Gaber, “La vita di un uomo”.Una frase di Victor Hugo, che ha citato il professore durante la conferenza, mi è rimasta molto impressa: “C’è chi si fissa a vedere solo il buio. Io preferisco contemplare le stelle. Ciascuno ha il suo modo di guardare la notte.” Egli ci invita a soffermarci sul fatto che ognuno di noi può decidere come vivere l’oscurità: guardando il buio oppure osservando le stelle. Questa riflessione è davvero attuale, può essere di stimolo a reagire in maniera positiva rispetto al periodo che stiamo affrontando e quindi può aiutarci ad abbandonare la tristezza e cambiare le nostre esistenze, per ritornare ad essere più forti di prima.Infine c’è stato un bellissimo dibattito tra noi ragazzi e il professore e da lì si è capito che noi tutti eravamo interessati agli argomenti trattati. Speriamo che ci sarà un secondo incontro per approfondirli maggiormente.

Francesca Rita Corbo 3^E

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Dante Alighieri: parole ed espressioni dantesche nell’italiano di oggi

Leggendo la Commedia ci accorgiamo subito del forte grado d’identificazione della lingua che parliamo oggi con la lingua usata da Dante, pur tenendo conto delle inevitabili modificazioni lessicali, sintattiche e fonetiche, dovute al trascorrere dei secoli. La Divina Commedia è stata tradotta in molte lingue in tutto il mondo. E, traduzioni a parte, le sue citazioni sono presenti non solo in molti adattamenti cinematografici, ma anche in film e serie TV, come L’Era Glaciale, Hannibal, Ghostbusters II, How I Met Your Mother e Law Order. INFERNO: “Bella persona”: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona che mi fu tolta; / e ‘l modo ancor m’offende»: nei versi 100-102 del V canto dell’Inferno, Francesca da Rimini sta parlando del modo in cui Paolo Malatesta si era innamorato della “bella persona” di lei, poi brutalmente e prematuramente uccisa. “Bella persona” si usa oggi soprattutto in riferimento a caratteristiche interiori, più che esteriori. “Galeotto fu”: «la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante». Siamo nel V canto dell’Inferno, versi 136-138; Francesca sta raccontando a Dante della passione bruciante vissuta con Paolo. In particolare, Francesca spiega che i due si erano baciati per la prima volta durante la lettura di un romanzo cavalleresco in cui Ginevra, sposa di Artù, viene baciata da Lancillotto: la passione descritta nel brano, insomma, li spinse a baciarsi. Il libro fece da galeotto tra loro, come Galeotto (Galehaut), siniscalco della regina Ginevra, aveva fatto da tramite tra la regina e il suo amato nei romanzi del ciclo bretone. Originariamente, galeotto era un nome proprio, solo successivamente è diventato un nome comune, seguendo il processo di antonomasia. “Il Bel Paese”: è una espressione poetica per definire l’Italia (bella per il clima, per la cultura, per il paesaggio), usata da Dante nel canto XXXIII dell’Inferno, al verso 80: «del bel paese là dove ‘l sì suona». La stessa espressione ricorre anche in Petrarca, in particolare nel Canzoniere, CXLVI, vv. 13-14: «il bel paese / ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe». Ancora oggi, ci si riferisce spesso all’Italia con questa espressione. “Senza infamia e senza lode“: l’espressione si impiega per riferirsi a una cosa, a un lavoro o a una persona mediocri, senza particolari qualità. È stata usata da Dante nel III canto dell’Inferno, versi 35-36, per indicare le persone che si rifiutano di prendere una posizione per pigrizia, per indifferenza o per quieto vivere (successivamente definite “ignavi” dalla critica dantesca): «coloro / che visser sanza‘nfamia e sanza lodo». Anche Antonio Gramsci ce l’aveva con gli indifferenti, che richiamano, nella definizione del pensatore, proprio gli ignavi di Dante: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. “Stai fresco / stiamo freschi”: usato ironicamente, come si fa con “tutto a posto”, con significato antifrastico, cioè per dire, al contrario, che andrà tutto male, il modo di dire deriva dal verso 117 del canto XXXII dell’Inferno, «là dove i peccatori stanno freschi»..

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Il riferimento è al lago Cocito, «un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante», come descrive Dante nei primi versi del canto, nel quale i peccatori stanno immersi in maniera proporzionale alla gravità del peccato da loro commesso. “Non mi tange “: non mi interessa, non mi tocca, non mi riguarda. «Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, / Che la vostra miseria non mi tange», leggiamo ai versi 91-92 del Canto II dell’Inferno. È Beatrice a parlare; e lo fa per rassicurare Virgilio del fatto che nulla di ciò che dovesse accadere all’Inferno potrà in alcun modo ferirla, perché lei è “fatta da Dio” e per questo le miserie umane, per l’appunto, non la tangono, non la toccano. Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”: ancora una volta, siamo nel Canto III dell’Inferno, versi 6-9: «Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». È la scritta incisa sulla porta dell’Inferno, che incute terrore in Dante. Virgilio, a quel punto, lo prende per mano per condurlo nel regno delle tenebre.Il verso, ovviamente, allude al fatto che le anime dannate devono, entrando nell’Inferno, abbandonare qualsiasi speranza: la loro pena è per sempre. Oggi la frase si usa perlopiù in modo scherzoso davanti a una prova ardua o a un compito percepito come particolarmente difficile da affrontare. “Non ti curàr di lór, ma guarda e passa”: anche stavolta il detto si rifà al Canto III dell’Inferno, versi 4951, seppure con qualche differenza: «Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Virgilio sta indicando a Dante i vili, gli ignavi , di cui non è rimasta nessuna traccia nel mondo; per questo, vanno semplicemente ignorati, senza perdere neanche un attimo in più a ragionare sul loro conto. La versione popolare del verso, usatissima sui social, viene usata per esortare una persona a non far caso ai detrattori o a coloro che la stanno insultando, andando, appunto, oltre, senza curarsene. Ma il verso dantesco, in realtà, è “non ragioniam di lor”! PURGATORIO: “Libertà va cercando, ch’è sì cara”: sono le parole rivolte da Virgilio a Catone Uticense (custode dell’accesso al monte del Purgatorio) per presentargli Dante in quanto “cercatore di libertà”; le successive (come sa chi per lei vita rifiuta, v. 72), sono invece riferite al suicidio di Catone.


Il giudizio dantesco sul suicidio, esplicitamente condannato nel canto infernale di Pier della Vigna, è qui capovolto come eccezione, in virtù dello scopo eroico di libertà “politica” di quel gesto di Catone (come accennato nel De Monarchia, II 5, 15); la libertà ricercata da Dante è invece quella dal male, intrinseco nella condizione umana “Oh vana gloria de l’umane posse!”: Oh vana gloria de l’umane posse! /com’ poco verde in su la cima dura, /se non è giunta da l’etati grosse! (vv. 91-93 del canto XI del Purgatorio); è la condanna della gloria terrena rispetto all’eterno. “Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento”: (v 100 Canto XI Purgatorio) Non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, /e muta nome perché muta lato. La fama che vige nel mondo dei mortali non è altro che un alito di vento, che soffia ora da una parte e ora dall’altra, e cambia nome poiché cambia direzione. “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”: il verso dantesco (v. 97 canto XVI Purgatorio ) è diventato un proverbio, citato da chi deve amaramente constatare che la vera colpa del male non sta nelle leggi sbagliate o assenti, bensì nel fatto che quanti dovrebbero farle rispettare sono distolti da tutt’altri interessi che non il bene pubblico. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?/Nullo, però che ’l pastor che procede,/rugumar può, ma non ha l’unghie fesse; (Le leggi ci sono, ma chi le fa rispettare? Nessuno, dal momento che/ il pastore (il papa) che guida il gregge può ruminare, ma non ha le / unghie fesse;) “ancora freno a tutti orgogli umani”: La frase di condanna al folle gesto di Serse deciso a invadere la Grecia (v. 72) vale ancora oggi per quanti da un atto di prepotenza e di inutile orgoglio devono imparare a moderare l’insensata presunzione di onnipotenza. Ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse / per mareggiare intra Sesto e Abido, / che quel da me perch’allor non s’aperse. Tre passi ci facea il fiume lontani; /ma Elesponto, là ‘ve passò Serse, /ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse /per mareggiare intra Sesto e Abido, /che quel da me perch’allor non s’aperse. (Il fiume ci separava di non più di tre passi; ma l’Ellesponto, là dove passò Serse,il cui esempio è ancora ammonimento per ogni orgoglio umano, non fu più odiato da Leandro a causa delle sue mareggiate tra le città di Sesto e Abido, rispetto a quel fiume perché non mi fece passare.) PARADISO: “Molte fïate già pianser li figli per la colpa del padre”: La massima pronunciata da Giustiniano

ai vv. 109-110 del canto VI (con matrici bibliche, in particolare dalle Lamentazioni v, 7) ribadisce proverbialmente come spesso i figli debbano pagare per le colpe dei genitori. “com’ esser può , di dolce seme, amaro”:L’espressione (v. 93 canto VIII) sottolinea la perplessità di chi non riesce a spiegarsi come da buone intenzioni possano sortire risultati pessimi, dal momento che da un semi buono ci si aspetta analoghi frutti. L’incisività della frase sta anche nella contrapposizione tra dolce e amaro. “O insensata cura de’ mortali quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali”: L’apostrofe iniziale del canto XI (vv.1-3) è una drastica condanna di tutte quelle preoccupazioni, soprattutto materiali, che occupano la mente e il cuore dell’uomo e lo costringono in tal modo a “volare basso“. “Benigno a’ suoi e a’ nemici crudo” : L’espressione al v. 57 del canto XII (che Dante riprende da altri autori cristiani) può essere riferita a quanti sono caritatevoli verso chi ha una condotta corretta e sono, invece, inflessibili con quanti tradiscono le leggi. “Come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”: Amare parole ( vv.58-60 canto XVII) per rimarcare la condizione di coloro che sono costretti ad affidarsi alla generosità degli altri, a contare sull’ospitalità del prossimo e, per questo, devono sottoporsi all’umiliazione di chiedere. “or tu chi se’ , che vuo’ sedere a scranna (…) con la veduta corta d’una spanna?” : L’imperioso richiamo dell’aquila a Dante per il suo dubbio sulla giustizia divina ( v. 79-81 canto XIX) diventa nel registro alto della lingua italiana l’autorevole rimprovero nei confronti di chi intende giudicare i principi e valori assoluti senza averne l’autorità e le conoscenze. “Non li avria loco ingegno di sofista” : la frase (v. 81 canto XXIV) vuol significare ironicamente che per la soluzione di un certo quesito non è necessario far ricorso a chissà quali cavillosi ragionamenti o a sottili argomentazioni. Si vogliono condannare i sofismi, spesso strumento di mistificazione della verità. “Mira quanto è ‘l convento de le bianche stole” : L’ espressione con cui Beatrice mostra a Dante la gloriosa rosa dei beati (vv 128-129)ricorre oggi nel presentare con enfasi un qualche oggetto o panorama degno di eccezionale meraviglia.

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Alice Grazia Mazzucco Alessia Passaretti 4^D

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Il 14 settembre 1321 moriva il Sommo poeta Moriva il 14 settembre 1321, in esilio, a Ravenna, lontano dalla sua amata Firenze, un genio della letteratura, il padre della lingua italiana, Dante Alighieri. La Tomba di Dante Alighieri, monumento nazionale, che si trova presso la Basilica di San Francesco nel centro di Ravenna, fu costruita nel ‘ 700 dall’architetto Camillo Morigia,su commissione del Cardinale Luigi Valenti Gonzaga. La tomba ha una pianta quadrata; sulla facciata domina lo stemma del Cardinal Gonzaga e la scritta “Dantis poetae sepulcrum”. Sul sarcofago di età romana è scolpito l’epitaffio di Bernardo Canaccio in lingua latina. “Iura monarchiae superos Phlegetonta lacusque lustrando cecini volverunt fata quousque sed quia pars cessit melioribus hospita castris actoremque suum petiit felicior astris hic claudor Dantes patriis extorris ab oris quem genuit parvi Florentia mater amoris” “I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli Inferi) / visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. / poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori / e ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, / qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla terra patria, / che generò Firenze, madre di poco amore” Sul soffitto arde perennemente una lampada votiva alimentata da olio d’oliva donato da Firenze ogni anno il 14 settembre (anniversario della morte del poeta).

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Un libro è un oggetto fisico in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva il buon lettore e le parole – o, meglio, la poesia che sta dietro le parole, perché le parole in sé sono semplici simboli- tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola. (Jorge Luis Borges, L’invenzione della poesia.)

Ormai possiamo leggere la Commedia come il cielo stellato in cui proiettiamo i nostri sogni. Fatichiamo a decrittare i disegni che noi stessi vi abbiamo riconosciuto e deposto, ma come bambini a bocca aperta leggiamo questo libro pieno di stelle, che al modo dei sogni si manifestano chiedendo comprensione, invitandoci a capirli al nostro risveglio. Quei sogni, quelle stelle, quel libro, sono stati creati per risvegliarci. Corrado Bologna Professore Ordinario di Letterature romanze medioevali e moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.


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