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Proprietà Riservata all’Autore 2
Cosimo Luccarelli
Ard贸ri ti nna v贸ta (Odori di una volta)
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«Quant’ardóri si sintévunu nna vóta, intr’a ll’ária pi lli stráti t’lu paísu, sobbratúttu lu ggiúrnu ti fésta véra, mégghiu ancóra quann’éra primavéra; si sintéva ti matína llucisciúta, l’ardóru ti gersimínu ndilicátu, ca mmiscátu cu ll’ardóru t’li fresíe, ssimigghiáva a nna tilizzía t’lu criátu......» (Quanti odori si sentivano una volta, nell'aria per le strade del paese, soprattutto il giorno di festa vera, meglio ancora quando era primavera; si sentiva la mattina all'alba, l'odore di gelsomino delicato, che insieme all'odore delle fresie, si somigliava a una delizia del creato.....). Desidero aprire con questi versi di “Ardóri ti nna vóta”, una delle tante poesie del mio florilegio “Pinziéri, rricuérdi e vóci” in corso di pubblicazione, una finestra sul passato, sicuro di condividere con i miei coetanei il desiderio di ricordare le nostre radici e trasferirle alle nuove generazioni. Attraverso questo viaggio nella memoria, cerco di respirare l'aria pura d'un tempo, ricordare tanta gente, le nostre tradizioni, gli usi e costumi, la vita quotidiana nelle “nchiòsci” e nelle strette stradine del centro storico, per riappropriarci di quel microcosmo composto dalla comune matrice e dalla comune storia popolare e consuetudinaria. Raccontare alcune scene di vita popolare, comportamenti familiari e sociali, i mestieri più comuni del passato è un omaggio riconoscente al borgo natìo, ma vuole essere più di tutto, motivo di riflessione per soffermarci su come siano cambiati i modi vivere in pochissimi decenni. Questo stravolgimento procura un senso di vuoto e di rimpianto, in chi come me ha vissuto gli anni più belli dell'infanzia e della giovinezza tra i vicoli e le piazzette di Grottaglie. Fino a cinquant'anni fa, la nostra città come tutti i paesi del sud, era popolata in maggior parte da contadini e artigiani, tanto che gli stessi formavano le due grandi categorie sociali “quéra tli villani” e “quéra tl'artieri”. Regnava tanta dignitosa povertà, tanto pudore e rispetto tra le due classi, in quanto fortemente legati da valori e ideali profondi che mantenevano salda la morale sociale e cristiana. Il lavoro dei nostri nonni, in campagna o nelle botteghe artigiane, era sempre svolto con passione e consapevolezza, anche se a fine settimana la paga non era sempre puntuale e costringeva la famiglia a sopportare ulteriori sacrifici. Nonostante tutto, ogni giorno e prima di andare al lavoro, uomini e donne al mattino presto, cioè “a lli tòcchi”, andavano in chiesa per partecipare alla messa giornaliera. C'era nell'aria a quell'ora uno strano olezzo proveniente da escrementi di cavalli e muli accastatati negli angoli delle strade da “lu 5
scopastráti” e rimossi nella giornata dopo averli caricati su un carretto trainato da un mulo, e da quelli organici delle case che erano contenuti dentro "lu nicissariu" (vaso da notte di creta), scaricati a quell'ora nella “carrizza” (una grande botte) posta sopra un traino e subito portati nelle adiacenti campagne. Il ricambio dell'aria era veloce perchè l'odore di legna bruciata dei forni che iniziavano a riscaldarsi, il profumo dei fiori dei balconi e la forte essenza di liquori e caffè di qualche “caffittarìa” (bar) regalavano nuovi profumi nelle strade. Sempre in quello spazio di tempo mattutino si era soliti incontrare il capraio che vendeva il latte mungendolo dalle tre o quattro capre che portava con sè. L’odore del latte fresco appena munto si sentiva in ogni strada, perchè erano tanti “li crapàri” (caprai) a girare e ognuno aveva il suo percorso stabilito come da regolamento comunale. Nel silenzio mattutino, le mamme, udito il suono del campanaccio che una sola capra portava al collo, aspettavano davanti alla porta di casa l’arrivo del capraio. Era quasi sempre anziano, vestito con abiti da lavoro e con un vecchio cappello in testa. Portava il bastone e un secchio di rame dove c’erano i due misurini da un quarto e da mezzo litro per pesare il latte che vendeva. Ad ogni capra dava un nome e prima di mungerla la chiamava con tono scherzoso e in maniera diversa da un giorno all’altro. La mia si chiamava “Ninninélla”. Quando il capraio la prendeva per mungerla diceva “Viéni Ninninélla méa, viè!” (Vieni Ninninella mia, vieni!) e senza farle male tirava il latte dalle sue mammelle spruzzandolo nel misurino. Da lì a poco le strade, i vicoli e “li nchjòsci” si riempivano di tanta gente per assolvere ognuno le proprie incombenze quotidiane: attività domestiche, lavori e servizi vari. Un via vai continuo di uomini, donne e bambini che si muovevano nel rispetto degli altri senza essere chiassosi o invadenti, perchè conoscevano bene la tanto ricercata privacy di oggi. Si chiamava allora “educazione”. Artigiani e ambulanti per tutta la giornata occupavano gli angoli delle strade e i vicoli ciechi, spazi e luoghi liberi per svolgere la loro attività. Quando qualcuno di loro non si vedeva puntualmente al proprio posto, l'assenza era percepita immediatamente. I più coloriti, per caratteristica di mestiere, erano “li cconzacrášti, li marcánti, li pisciáluri, li ricattiéri, li mbrellári, li pulizzaciminéri, li siggiári” che annunciavano la loro presenza nella strada con frasi tipiche e inconfondibili. Sento ancora nelle orecchie il grido squillante di un venditore di stoffe che diceva “Tela…! Tela…! Mussulínu tela…!” e che da giovane ho 6
scoperto il vero significato «Tela…! Tela…! Tela di mussola e di lino…! ». Veniva da Taranto e girava per le strade con un carrettino spinto a mano portando sopra dei rotoli di semplici tessuti: tela bianca, mussola, cretonne, batista, lino e percalle. Erano tessuti che servivano per confezionare camicie, biancheria intima e abiti da donna, per cui spesso erano le sarte che suggerivano alle clienti qualità, tipo e colore del tessuto da acquistare. All’inizio di ogni strada richiamava l’attenzione della gente con frasi fiorite o scherzose del tipo: “A cci vóli la muss’la!” (Chi vuole la mussola!) – “Tela! Tela! Mussulínu tela!” (Tela!, Tela! Tela di mussola e lino) – “Játa a cci téni sórdi! – Mmalitétti sórdi!” (Beato a chi ha i soldi! – Maledetti soldi!). Le donne riconoscendolo da queste frasi decidevano se uscire di casa per vedere cosa portasse quel giorno “quiru marcánti” (quel venditore di stoffe). Il suddetto aspettava sempre che si avvicinasse qualcuno per iniziare l’esibizione folcloristica, fatta di gesti ed espressioni dialettali d’origine, per piazzare la sua mercanzia; se insieme alle mamme c’erano delle belle ragazze in procinto di sposarsi, allora la recita era di alto livello perché si potevano piazzare diverse quantità e qualità di tessuti. Non esitava ad aprire il tessuto, svolgendolo dal rotolo, per mostrare qualità, morbidezza e purezza dello stesso; a volte lo metteva sulle spalle dell’acquirente affinché potesse convincersi del colore o della fantasia in funzione di quello che si doveva cucire: “nna vunnédda” (una gonna), “nnu sunáli” (un grembiule), “nnu sciúppu” (un corpetto), “nna cammísa” (una camicia), “nna suttána” (una sottana), “nnu cauzunéttu” (mutande), “nnu fazz’littóni” (uno scialle grande). Prima del taglio, si poteva assistere alla contrattazione del prezzo del tessuto per metro lineare. Lui partiva sempre da un prezzo altissimo, la cliente lo guardava in faccia con l’aspetto irritato e lo riduceva a un terzo. A questo punto iniziava il teatrino: lei faceva finta di non essere interessata, prendeva sotto braccio la figlia e se ne andava; lui la chiamava cercando di spiegare che il prezzo era giusto per quel tessuto e che poteva fare solo qualche piccolo sconto; lei, sempre molto sostenuta, confermava la proposta fatta: il mercante cominciava a ritoccare il prezzo. La signora, allora, faceva finta di ritornare; lui nuovamente ripeteva ……… e così via, fino a quando non si raggiungeva l’accordo. Solo a questo punto “lu marcánti”, dopo aver preso le forbici, tagliava la quantità di tessuto richiesto, prendendo come riferimento il proprio braccio (in passato “nnu rázzu” equivaleva a 60 cm.), tra varie imprecazioni, sostenendo che la cliente aveva fatto l’affare. Entrambi sapevano che l’affare fatto era a favore “tlu marcánti”, 7
altrimenti il tessuto non l’avrebbe venduto. Un'altra figura che affascinava i bambini, me compreso, era “lu cconzacrášti”, un mestierante ormai scomparso che girava per le strade e per i vicoli invitando donne e uomini a portargli oggetti di creta rustica o smaltata da riparare. Era il chirurgo dei “capasóni, bbucali, lémmri, crášti, crášti ti cófunu, etc.” (capasoni, brocche, catini, vasi per piante e contenitori di grandi dimensioni per bucato, etc.) crepati o addirittura rotti. Venivano affidati alle sue mani come dei pazienti per essere curati con amore e abilità. Gli attrezzi che occorrevano per risanare questi oggetti erano pochi: un trapano a mano fatto di legno, del filo di ferro non molto grosso, una tenaglia, una pinza, un martello e dello stucco bianco in polvere. Prima di iniziare il lavoro, con lo sguardo serio e preoccupato, prendeva i pezzi e li esaminava attentamente cercando la soluzione ottimale. Si sedeva quasi sempre sui gradini esterni delle case o sulla cassetta di lavoro in legno e aiutandosi con le gambe accostava i vari pezzi facendoli combaciare tra loro prima di iniziare a praticare da ambo le parti dei piccoli fori in prossimità della frattura; successivamente infilava dei fili di ferro nei fori passanti praticati e li intrecciava delicatamente con la pinza. Questo lavoro di cucitura veniva eseguito per tutte le crepe presenti sul manufatto e dopo avere stretto per bene i legamenti di ferro inseriti nei fori, spalmava su di essi una leggera mano di stucco, impastato in un vecchio coccio. Nell’attesa che lo stucco si asciugasse, si dissetava con dell’acqua offerta dalla gente vicina e prima di ricevere la somma pattuita dal cliente procedeva a “a far suonare” l’oggetto riparato (un sistema valido ancora oggi per verificare se un oggetto di creta è sano). Con grande professionalità cercava di isolare il manufatto tenendolo sospeso il più possibile da terra e con le dita della mano destra batteva in diversi punti per verificare l’integrità della riparazione. Se il suono era simile ad una campana squillante, il lavoro svolto era buono, quindi “il malato” era guarito. Era consuetudine de “lu cconzacrášti” raccontare delle storielle ai bambini che lo attorniavano durante detti lavori. Fatterelli a volte inventati, che traevano moniti e saggezza popolare, raccolti dalla vita quotidiana di quel tempo. Erano intessuti dei valori della semplicità, della volontà, del senso del dovere e della responsabilità. L'intelligenza, il buon senso e l'amore di cui era fatto il cuore di ciascuno avevano come scopo il bene di tutti. Si avvicinava così mezzogiorno e nell'aria si percepivano i primi profumi genuini di cucina e del pane fatto in casa, che i fornai 8
cominciavano a consegnare dopo la famosa “prima cotta” (prima infornata della giornata). Tra tanti forni a legna (20 circa) disseminati nei quartieri grottagliesi e tutti ben identificati dal nome e dal nomignolo “tlu furnáru” (il fornaio) che lo conduceva, ricordo quello “ti rrét’a lli mónichi, quiru di Totòri” (forno nel vicolo “dietro il monastero delle clarisse”, quello di Salvatore), dove andavo spesso per conto di mia nonna. Fino a quarant'anni fa tutte le famiglie facevano il pane in casa e lo portavano al forno a legna per cuocerlo insieme a teglie di sformati, biscotti salati e dolcetti vari. Quello del fornaio era un mestiere faticoso che lasciava soltanto poche ore libere nella giornata per mangiare e dormire; ma durante le feste anche quelle poche ore libere venivano occupate da un’altra “cotta” (cottura) di pane. Per il fornaio tutti dovevano essere accontentati e serviti: ricordo come in quel forno a legna il via vai era continuo; le donne si rivolgevano a lui per conoscere qual’era la condizione del forno, oppure per avere un occhio di riguardo per ciò che portavano a cuocere. Sono ancore vive le espressioni: “Ccé sté cciénni?” (Stai accendendo la legna?), “Ccé scupátu bbuénu lu furnu?” (Hai ben pulito il piano interno del forno?), “Ccé sté ccácci?” (Stai togliendo il pane dal forno?), “Li paniétti nó lli fa ncuddà!” ( I panetti non metterli troppo vicino, altrimenti si attaccano!), “Ci mi véni ácimu lu pani póvru a te!” (Se il pane mi viene salcigno, povero te!), “Nò tti manisci?” (Ti sbrighi?). E lui, tutto sudato, dava le risposte con sofferenza fino a quando non perdeva la pazienza dicendo “Mó mi tu stufátu cu sta préssa! Lassatimi scé, ca ci nóni mi vótu lu ggiacca a lla smérsa, gghiutu lu furnu e mi nni vò!” (Ora mi avete stufato con questa fretta! Lasciatemi in pace, altrimenti perdo la pazienza, chiudo il forno e vado via!). Cosa che non succedeva mai, ovviamente! L’attesa della fine cottura era motivo di chiacchiericcio e pettegolezzo fra donne, mentre il fornaio, seduto su un lato del forno con un grande fazzoletto al collo, si alzava ogni tanto per guardare o per girare i panetti, in modo da uniformarne la cottura. Ovviamente a mezzogiorno iniziava anche a cuocere le varie pietanze che le famiglie preparavano per la giornata. Per le strade e per i vicoli arieggiavano a quell'ora profumi appetitosi e inconfondibili. Antichi profumi che nonostante gli anni trascorsi, riescono a rievocare quel desiderio di assaporare “quíru pani cótu cótu” (pane fresco caldo), “quéra puddic’a ccénniri“ (focaccia con olio e sale cotta mentre arde il fuoco) e quelle pietanze semplici e gustose come “li maranciani chjíni intr'a llu tiéstu” (melenzane ripiene nel tegame di creta rustica). Il merito di tutto 9
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questo? Di certo delle brave massaie, ma in particolar modo del fornaio, che aveva saputo cuocere nei tempi e modi giusti ciò che gli veniva affidato. In quasi tutte le famiglie grottagliesi il pranzo principale della giornata era quello serale quando i papà tornavano dal lavoro e pertanto, a mezzogiorno, si mangiava solo qualcosa per accontentare lo stomaco; in genere erano gli avanzi del giorno prima ben riscaldati o “nna frisédda cu ppummitòru, uégghju, sali e ariénu”. Dopo questo pasto frugale, mentre le mamme continuavano le faccende domestiche che non finivano mai, gli anziani si concedevano la pennichella. Un piacevole sollievo che aiutava a recuperare quel sonno perso la mattina per essersi alzati troppo presto. La pennichella, quasi sempre, durava una mezz'ora e si consumava stando seduti sulla sedia; d’inverno il posto più indicato, in quanto più caldo, era vicino “a lla fracéra” (braciere) mentre d’estate era “rétu la ggiuncáta” (dietro alla tenda di giunco posta sulla porta della strada). Anche sui vari posti di lavoro la pennichella era d’obbligo: in campagna, nelle fabbriche di ceramica, nei lavori in strada, nelle botteghe artigiane, le persone, sedute per terra o su dei rialzi, dormivano con il volto appoggiato sul palmo della mano. Era una pausa efficace e salutare per quei tempi, quando il lavoro durava non meno di 12 ore al giorno, con la consapevolezza di trovare per cena sempre lo stesso piatto, tanto che si diceva: “Fatía e ffatía, e a lla sera sò ssémpri fái e ccipóddi!” (Lavoro e lavoro, e alla sera sempre fave con le cipolle). Nel primo pomeriggio le famiglie più agiate avevano l'abitudine di scambiarsi la «tazzulella 'e cafè», come dicono a Napoli. Faceva, e fa parte ancora, degli irrinunciabili riti di noi meridionali perchè crea una pausa del lavoro, un complemento del pranzo, il buon risveglio del mattino....! Il caffè, nelle famiglie tradizionali, si faceva con la caffettiera napoletana (ricordate le commedie di Eduardo de Filippo??) perché solo così mantiene tutto il suo aroma. Era frequente, tra le persone del vicinato, scambiarsi la visita pomeridiana, per fare due chiacchiere e gustare il caffè “intr’a nna chíccra di creta” (dentro una tazzina di creta smaltata). L’essere poveri non frenava questa abitudine e per mantenere attivo e cordiale il rapporto con il vicinato, si cercava qualsiasi stratagèmma per risparmiare la miscela di caffè; uno di questi era quello di mettere nel filtro prima della polvere nuova, quella usata il giorno prima, così si risparmiava in quantità, tanto la qualità “forse” era la stessa. Una espressione tipica, rimasta ancora in uso, circa la bontà del caffè fatto in casa era questa: “A…..ccquant’è 11
bbuénu stu caféu!” (A....cquanto è buono questo caffé!). Questa pausa pomeridiana del caffè era l’occasione per parlare di tutto, dagli avvenimenti quotidiani alle informazioni e pettegolezzi su parenti e conoscenti. Una forma di comunicazione sicuramente diversa da quella di oggi, che tende sempre più all’isolamento e non alla conoscenza degli altri. Accadeva spesso che nei primi pomeriggi infrasettimanali, ci fosse un via vai di “acqualúri” (acquaioli) dalle fontane pubbliche per trasportare acqua alle famiglie più agiate; “l'óra morta” come si usava dire, consentiva il poco affollamento di gente alla fontana. La disponibilità d’acqua potabile nelle nostre case è qualcosa di recente, avvenuta il 27 luglio del 1916 con l’inaugurazione del primo tronco dell’acquedotto del Sele che alimentò la prima fontana pubblica sull’ex Piazza Maddalena. Da quella data ad oggi il progresso ha portato l’acqua in tutti gli edifici e in tutte le case grottagliesi. Prima di allora c’erano pozzi d’acqua piovana nelle case e vari pozzi d’acqua liberi nel circondario del paese. La maggior parte della gente andava personalmente a riempirla, mentre le famiglie benestanti pagavano gli “acqualúri” (i portatori d’acqua) per farla trasportare a casa. Questo non era un mestiere, ma un lavoro di fatica, come quello “tli vastási” (i facchini), che molte persone svolgevano per un magro compenso. Da mattina a sera, con una “minzána” (brocca di creta con due manici) sulle spalle e una più piccola nella mano destra, gli acquaioli percorrevano a piedi tanta strada per attingere l’acqua. Da dove? Dai diversi pozzi d’acqua siti sull'attuale Viale Matteotti, dal pozzo dei Padri Minimi e da alcune cisterne nei pressi della stazione ferroviaria. Durante il tragitto non si fermavano mai a parlare con nessuno, per non perdere tempo utile e per il peso molto consistente. A fine giornata era solito vedere queste persone raddrizzarsi la schiena e massaggiarsi le spalle doloranti per il carico sopportato, nonostante avessero indossato una specie di cuscinetto di stoffa sotto la brocca piena per ammortizzarlo. In tutte le case c’erano “li pitáli t’acqua” (grossi vasi di creta a forma ovoidale, capaci di contenere da 20 a 150 litri cad.) per l’uso quotidiano della famiglia; chi aveva il pozzo dove si raccoglieva l’acqua piovana era fortunato, perché non aveva il problema del rifornimento, ma si riempiva lo stesso “nnu pitáli” per far decantare l’acqua del pozzo dai residui trasportati durante le piogge invernali. La giornata era sempre piena di attività e fermarsi poteva procurare ritardi ad altri lavori successivi. Le ragazze e i ragazzi, invece, nel pomeriggio, dopo aver preparato i compiti per il giorno dopo, dovevano 12
andare nelle botteghe per imparare un mestiere. Le giovinette andavano alla “méscia” (maestra di ricamo o di cucito), i maschietti “a lla putéa” (alla bottega artigiana). Grottaglie è sempre stata fucina di tanti mestieri per la presenza di bravi artigiani; nel centro storico e nella periferia c'erano in ogni strada botteghe collocate in posti chiave per il tipo di attività svolta. Le famiglie più agiate non obbligavano i propri figli a frequentare le botteghe e questo suscitava in loro curiosità, per quello che si faceva “intr'a lli putéi” (dentro le botteghe) e per come “li méstri” (i maestri) eseguivano i lavori. Purtroppo molti di questi mestieri sono scomparsi dalla memoria collettiva, ricordiamo: “lu siggiàru (il seggiolaio), “lu scarpàru” (il calzolaio), lu uarnaméntaru” (chi costruiva i finimenti per cavalli, muli e asini), “lu bbarbiéri (il barbiere), “lu ferracavàddu” (il maniscalco), “lu cunzatòri” (il pellaio), “lu falignami t'arti crossa” (il falegname che cotruiva traini e calessi), “lu falignami t'arti suttili” (il falegname che costruiva mobili d'arredo), “lu cusitòri” (il sarto), “la tissitrici” (la tessitrice), “lu frabbricatòri” (il muratore), “lu fiscularu” (colui che costruiva fiscoli), “lu panaràru” (colui che costruiva i cesti di canna), “lu caminàru” (il ceramista), “lu pasturaru” (colui che costruiva i pastori), “lu firraru” (il fabbro) e tanti altri ancora. Nelle strade, in prossimità delle botteghe, aleggiavano gli odori dei materiali che venivano impiegati dalle maestranze. Per i mestieri più rumorosi i maestri cercavano soluzioni più idonee per non dare fastidio ai vicini di bottega. Senza nulla togliere ad altri mestieri vorrei descrivere brevemente qualcuno di essi in quanto più vivo nel ricordo personale. «La méscia ti tuláru» (La maestra di telaio) - Le famiglie si rivolgevano a lei per tessere il corredo ai figli. Dopo aver deciso cosa andava fatto, quali disegni eseguire e le quantità necessarie, la tessitrice comprava il cotone sufficiente e lo riponeva nella propria casa in attesa di finire il lavoro precedente. Lo strumento principale di questo mestiere era il telaio in legno, indispensabile per l'economia rurale. Tutto il nucleo familiare concorreva alla produzione del magro reddito, che praticamente, coincideva con il consumo. I tessuti di lana o di cotone indossati venivano realizzati al telaio, e la creatività della donna rendeva nobile questa attività per raffinatezza e qualità delle composizioni. Dal telaio “tuláru” venivano fuori “tóccri” (rotoli) di tessuti di varie lunghezze e larghezze per realizzare: “cauzunétti” (mutande di tela ruvida per uomini), “fazz’littúni” (scialli di grandi dimensioni), “gghiasciúni” (lenzuola), “matarazzi” (materassi), “pezzi” (stoffe per strofinacci), “sacchettóddri” (sacchetti 13
per bambini), “sarviétti” (tovaglioli), “sprájini” (panni di tela per avvolgere i neonati), “tuágghji” (tovaglie), “tuagghjúli” (fazzoletti), “visazzi” (bisacce), e altro ancora. Un mestiere che si svolgeva in casa, dove tutti gli attrezzi di lavoro si univano ai pochi mobili della stanza che, a volte, comprendeva quelli occorrenti al monolocale cucina-pranzo-letto. Il ciclo del lavoro iniziava con la preparazione dell’ordito, composto da filato di cotone misto a canapa, più raramente di lino; veniva poi inserito nel telaio e si predisponeva il tutto per iniziare a tessere. La “méscia” (tessitrice) era impegnata nel lavoro con tutto il corpo. Piegava il busto in avanti, con i piedi pigiava i pedali che decidevano gl'intrecci e con il braccio destro spingeva il pettine avanti e indietro, mentre il sinistro correva da una parte all'altra per infilare la “tiscétt’la” (navetta) tra i fili. Man mano che la tela cresceva, si arrotolava intorno ad un rullo anteriore sottostante il telaio, srotolando contemporaneamente il cotone dal cilindro posteriore. Mentre la “méscia” tesseva, le ragazze preparavano “li cannulícchji” (cannelli di canna corti) sui quali arrotolavano il cotone per la navetta. Per questa preparazione si utilizzavano diversi attrezzi: “la macénn’la” (arcolaio, arnese fatto di bacchette di legno intorno a cui si collocava la matassa, che girando sullo stile dove era imperniata, la dipanava), “la cóppa” (coppa, pezzo di legno rettangolare incavato in cui si faceva girare l’incannatoio), “lu ‘ntrign’latúru” (incannatoio, arnese di ferro che girando su se stesso avvolgeva il filo sul cannello corto, procurando del vento freddo come un ventilatore). «Lu méstru frabbricatóri» (Il maestro di un gruppo di muratori) Era in passato il titolare, nonché il maestro principale che racchiudeva tutte le competenze tecniche, organizzative ed esecutive per ideare e costruire di sana pianta una casa avvalendosi di collaboratori qualificati quali: “lu zzuccatóri, lu frabbicanti, lu squadratóri, lu carpentieri, lu manuali, lu vagnóni tla cóci e lu vagnóni” (lo scavatore, il fabbricante per la muratura, lo squadratore dei tufi, il carpentiere in legno, il manovale, l’operaio che preparava la calce, il garzone per lavori leggeri). Un mestiere che oggi è solo di natura esecutiva, in quanto molti di quei compiti sono ormai di responsabilità dell’ingegnere, del geometra, del direttore lavori, del responsabile per la sicurezza e così via. Fino a qualche decennio fa si costruiva con blocchi di tufo, utilizzando tecniche ed accorgimenti che variavano da maestro a maestro e nel centro storico, possiamo ammirare le volte interne delle ampie stanze realizzate a “vótti” (botte), a “stella” (crociera), a “squátru” (stella doppia), a “gauto” (padiglione), poggiate 14
sui quattro muri doppi con riempimento dell’intercapedine. La tecnica delle volte a botte, a stella o a padiglione richiedeva grande maestria nella preparazione dei tufi, e le misure venivano date dal maestro allo squadratore di volta in volta. La chiusura della stanza era la fase più critica perché doveva incernierare e bloccare la cupola sui quattro muri laterali. Le case costruite erano comunque molto semplici e in genere formate da una o due stanze, a volte si scavava il vano interrato “lu suttirraniu” per adibirlo a cantina o deposito lasciandolo allo stato naturale. Per recuperare spazio, riservatezza e servizi, si realizzavano all’interno delle stanze dei “tramiénzi e minzanili” (muri divisori con altezza di mezza stanza e vani sotto la volta della stanza), con “cucina munacali” (cucina e fracassè) e “cummúni” (pozzo nero); con l’avvento delle fogne, dietro la porta principale, venne realizzata “la scittalóra o piscina” (pozzetto per evacuare acqua sporca). Terminata la casa, il proprietario offriva a tutta la squadra un lauto pranzo detto “lu capucanali” per festeggiare in allegria. «Lu cusitóri» (Il sarto) - Per tante generazioni farsi fare l’abito su misura è stato un sogno, che molti realizzavano solo per il proprio matrimonio. Gli uomini lo indossavano in occasione delle feste principali mentre le donne lo riciclavano alle proprie figlie per la prima comunione. Tanta gente semplice, quindi, poteva dire di avere l’abito su misura, mentre oggi solo i facoltosi possono permettersi di andare dal sarto o dalla sarta. Il consumismo dei nostri giorni ci ha tolto il desiderio di andare “a lla putéa tlu cusitóri” o “ddò la méscia cusitríci” a scegliere la stoffa, a farsi prendere le misure, a fare le innumerevoli prove del vestito e ricevere le belle lusinghe “tlu méstru” o “tla méscia” quando si faceva l’ultima prova. Che simpatiche quelle affermazioni “Ma cómu ti sté bbóna sta ggiácca, pari nn’ótru!” (Come ti sta bene questa giacca, sembri un altro) oppure “Cummà! pari nna signura cu st’ábbutu!” (Commare! Sembri una nobildonna con quest’abito), che sottinteso volevano dire: “Ccé ste vvíti cc’è ábbutu t’agghiu fattu? arménu cáliti ‘npóta e fammi nnu rricálu! (Vedi quanto sono stato bravo a farti l’abito? Ora mi aspetto un regalo). Nelle botteghe dei sarti e delle sarte erano presenti, oltre al titolare, altri collaboratori o collaboratrici esperti, e molti apprendisti che venivano istruiti al mestiere eseguendo per lunghi periodi le stesse operazioni di lavoro e per consegnare gli abiti al cliente. “A lli cusitúri” c’erano anche donne, impiegate prevalentemente a cucire a mano e a macchina (la famosa Singer). Si occupavano dei particolari degli abiti, specialmente dei pantaloni. “A lla méscia” (termine che indicava anche la sarta, seguita dal 15
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nome) c’erano soltanto donne, collaboratrici esperte e ragazze che imparavano il mestiere. In entrambe le botteghe il silenzio era di casa, interrotto quasi sempre dalla voce “tlu méstru” o “tla méscia” che dava indicazioni e istruzioni agli apprendisti. A Grottaglie la categoria dei sarti e delle sarte era una tra quelle con alto senso religioso. Dalle sarte, nel tardo pomeriggio, si recitava il rosario e “la méscia” era colei che formava la coscienza delle ragazze preparandole alla vita. I sarti non erano da meno. La categoria “tli cusitúri” era quella più ammirata dai grottagliesi, in quanto partecipavano attivamente a tutte le manifestazioni del Santuario di S. Francesco de Geronimo dove i Padri Gesuiti erano i sarti delle anime a loro affidate. Sono ancora vivi nella memoria i volti e gli sguardi di tanti “cusitúri” nelle botteghe nel centro storico; erano sempre in camicia e cravatta con il metro sul collo, sorridenti e cordiali, con una giacca tra le mani mentre eseguivano “la nfiamatúra ti nna patta, ti nna póscia o ti nna purtósa” (la cucitura di un risvolto, di una tasca o di un occhiello). Tanti mestieri non avevano bisogno della bottega perchè erano facilmente eseguibili in strada come “lu cconzacrasti” (il riparatore di oggetti di creta), “lu mbrellaru” (l'ombrellaio), “lu mmolafòrbici” (l'arrotino), “lu siggiàru” (il riparatore di sedie) e così gli ambulanti che giravano da mattina a sera come “lu marcànti” (il mercante di stoffe), “lu piscialùru” (il pescivendolo), “lu craunàru” (il carbonaio). Tutti creavano animazione, curiosità e interesse nella gente, sia per necessità che per divertimento. Quello “tlu mmolafórbici” (l'arrotino) attirava molto bambini e ragazzi. Attorno a questa mitica figura, le strade, i vicoli e le piazze si riempivano di donne, uomini e bambini curiosi per vedere all’opera l'arrotino. In genere era un uomo dall’aspetto vecchio, silenzioso e scuro in faccia come se il sole lo avesse bruciato nel tempo. Prima dell’avvento della bicicletta girava con una specie di trabiccolo a ruota, molto pesante e ingombrante, sul quale era stata montata un’impalcatura in legno con la ruota abrasiva. Per la molatura sollevava il trabiccolo su un cavalletto di legno, collegava le due ruote con una cinghia di cuoio e tramite un pedale girava lentamente la mola in funzione dell’utensile da affilare. Man mano che l’Italia cresceva, l’arrotino si organizzava e così la bicicletta fu il suo nuovo mezzo di lavoro e di trasporto da una strada all’altra, da un paese all’altro. Aveva montato sul manubrio del biciclo la mola rotante con un piccolo rubinetto che sgocciolava quando affilava e, ai lati dei pedali, una grande ruota di ferro; tramite una cinghia collegata alle due ruote, girando i pedali della bicicletta, faceva ruotare la mola abrasiva. 17
Prima di iniziare il lavoro, sistemava la bicicletta sul cavalletto robusto e, seduto sulla sella del biciclo, pedalava e molava. Ancora oggi, ma con tecnologie moderne, gli arrotini vanno in giro per città e paesi, annunciando sempre il loro arrivo, oggi attraverso un megafono, con lo stesso ritornello “È rrivátu lu mmolafórbici” (E’ arrivato l’arrotino). In passato si facevano affilare i coltelli di casa, le forbici per cucire e ricamare, i coltelli dei macellai, dei calzolai, dei pellai e dei falegnami, le forbici dei sarti e dei barbieri secondo l’utilizzo e consumo quotidiano; il compenso era modesto e qualche artigiano si disobbligava in natura. Il rituale usato alla fine di ogni affilatura era la prova, specialmente quella delle forbici che consisteva nel tagliare uno straccio vecchio e sporco che portava sempre con sé, appeso ad un gancio. Ricordo ancora ciò che mi disse uno di loro quando ero piccolo: «Ragazzo mio, l’abilità consiste nel posizionare la mano nel verso giusto, retto, senza tremolio, seguendo un ritmo dettato dal suono della mola. Il coltello si affila dritto e per non sbagliare si ascolta il suono della mola, come un maestro di musica quando compone una melodia al pianoforte». Fu spontanea la mia domanda: «Qual’è allora il tuo segreto?» E lui: «Quando il suono è cupo, monotono, duro, non si sta affilando niente, anzi, forse si sta danneggiando la lama. Al contrario se il suono è acuto, stridente è sintomo di una mano ben adagiata e ferma, perfetta per affilare». A distanza di anni posso dire “ca quiru mmolafórbici éra nnu méstru” (che quell’arrotino era un maestro) e aveva svelato il suo segreto ad un ragazzo curioso. Con l'avvicinarsi della sera le strade erano invase dai profumi della cucina e per noi ragazzi non era difficile indovinare il tipo di minestra che le famiglie preparavano. Quella più comune era le fave cotte “intr’ a lla pignata” (dentro alla pignatta) accompagnate occasionalmente da verdura di stagione raccolta nelle campagne “cicuréddi, zzangúni, sprúcini, ciócci, etc.” (cicorielle, cicerite sonco selvatica, cicoria amarognola, crocifera selvatica) e qualche “piparúlu salátu” (peperone salato). Un piatto che nella settimana si mangiava sette giorni su sette, cioè sempre, nonostante i mugugni dei figli, e qualche volta per variare, venivano aggiunti dei pezzetti di pane abbrustolito sui carboni. La cottura era un rito perché dovevano cuocersi lentamente con poco fuoco e non dovevano attaccare al fondo. Infatti si diceva “Quanta cchjù ti pérsa vè, cchjù la fáa no ssi cóci!” (Quanto più vai di fretta, più la fava non si cuoce). L’operazione più importante avveniva quando la cottura era finita perché dovevano diventare semisolide, come purè. La buona massaia con “la cucchiára tli 18
fài immersa intr’a lla pignata” girava, girava, girava fino a che non diventavano morbide e senza grumi; un po’ d’olio, se c’era, facilitava il lavoro e rendeva più gustoso questo alimento. Gli uomini al ritorno dalla campagna apprezzavano molto questo piatto dicendo “Fái, fógghji e mmiéru, lu villanu vola nciélu!” (Fave, verdure e vino, il contadino vola in cielo), mentre nei ragazzi suscitava brontolio e desiderio per altre cose. Il rientro dei contadini dalle campagne era emozionante e singolare per l'enorme quantità di gente che arrivava a quell'ora. Il posto ideale per guardare questa scena era “fuori porta” l’ex Porta S.Angelo, oggi Piazza IV Novembre dove c’è il Monumento ai Caduti. Un incrocio di strade provenienti dalle campagne più importanti nel territorio. Si vedevano contadini con la zappa sulle spalle che tornavano a piedi, traini con cavalli e muli che portavano i vari attrezzi agricoli “fórca cu lla strascína, aratínu, ruézzulu, zzáppi, etc”, (aratro in legno con il supporto a v, aratro di ferro, rastrello senza denti, zappe di varie misure), donne con fardelli di legna o sacchi di verdura sulle spalle, “sciarabballi” (calessi) trainati da cavalli condotti da fattori o proprietari terrieri. Un via vai serale, che era anche occasione per trovare una persona che si cercava da tempo. Sui volti di tutti c’era la stanchezza del duro lavoro ma nello stesso tempo la gioia di tornare a casa dalla moglie, dai propri figli e dai genitori anziani che aspettavano questo momento per potersi riunire e cenare. Consumare quell'unico pasto giornaliero con tutta la famiglia era una consuetudine quasi sacra, fortemente sentita dalle vecchie generazioni che non consentiva ai figli o parenti che vivevano in casa, di svolgere altre attività o prendere impegni esterni; non esistevano motivazioni valide per assentarsi, tutto doveva essere rinviato. Il più anziano in famiglia recitava la preghiera di ringraziamento e solo dopo si poteva cominciare a mangiare, senza parlare. Qualcuno ricordava che due cose insieme non si potevano fare: quando si mangia si lotta contro la morte, cioè il cibo può andare di traverso causando soffocamento. Tra le famiglie contadine e quelle artigiane c’erano modi diversi di consumare il pasto: in quelle contadine al centro della tavola era usuale trovare un solo piatto “lu piattu riáli o strariáli” (il piatto regale o piatto oltre il regale) che conteneva il pasto per tutti; in quelle artigiane, invece, si utilizzavano “piattiéddi e sarziéri” (piatti medi e piccoli) per ogni singolo commensale. Alla fine del pasto, il papà si rivolgeva ai figli per sapere com’erano andati a scuola, cosa avevano fatto durante il giorno e se avevano reso difficile la giornata alla madre. Durante questo “interrogatorio”, la genitrice si era posta in 19
piedi, dietro di loro, per proteggerli e anche per guardare il marito con sguardi consenziènti e dissenziènti. Dopo cena gli uomini si recavano “mmiénzu a lla chiazza” (piazza Regina Margherita) per incontrare amici e compari oppure per trovare lavoro per il giorno dopo. Era anche il momento dello svago serale e tanti si recavano “a lla cantína” per bere un bicchiere di buon vino o fare una partita a carte con gli amici. In passato “la cantína” (osteria) era il luogo dove si vendeva il vino al dettaglio, ma anche il tipico ritrovo serale popolare degli uomini. Insieme al bicchiere di vino, si andava per gustare “nna ménza razzióni ti trippa” (una mezza porzione di trippa in bianco) o “nna razzióni ti purpiétti ti cavaddu” (una porzione intera di polpette di cavallo al sugo) e nei giorni di festa, dietro prenotazione, “lu mmarréttu a llu furnu” (manicaretto al forno). All’interno di essa, quando si entrava, c’era sempre una cappa di fumo sprigionato da sigari e sigarette. Erano interessanti e divertenti le scene dei giocatori che giocavano “a patrunu e mmórti” (gioco del padrone e morte) dove vinti e vincitori si divertivano a decidere a chi dare il vino e a chi doveva restare “all’úrmu” (a bocca asciutta). Per tutta la serata il cantiniere portava ai tavoli dei giocatori “lu miéru intr’a nnu srúlu” (il vino in una brocca di creta) con degli stuzzicchini, se richiesti, che in genere erano fritture fredde di pescetti o polpette di carne. Era solito vedere uscire dalla “cantína”, nel corso della serata, persone ubriache, tanto che nella strada si sentiva “nna tánfa ti miéru” (un cattivo odore di vino). “Lu cantiniéri” o “la cantinéra” erano i veri depositari dei segreti di tanta gente, forse più dei confessori. I nostri padri latini dicevano «in vino veritas» e quindi bastava qualche bicchiere di vino in più per liberare confidenze e maldicenze. Avevano per tutti una parola di conforto e raramente esprimevano opinioni personali; le domande fatte richiedevano risposte condivise e loro confermavano ed annuivano con la tipica espressione “È rascióni, è rascióni! mó vabbánn’a ccasa ca mugghiérita ti stè spétta” (Hai ragione, hai ragione! Ora vattene a casa che tua moglie ti aspetta). Durante le feste patronali “la cantína” era frequentata anche dai musicanti delle varie bande e da forestieri che per devozione verso il santo o per amore verso la musica “colta” venivano nella nostra città. Per queste occasioni si preparavano altri piatti tipici a base di carne e da mezzogiorno a sera i tavoli erano sempre pieni di gente che consumava “una tantum” la pietanza preferita e desiderata a volte per un anno intero. Erano comunque molti, data la povertà del tempo, a chiedere solo “nna ‘ncartata di purpiétti fritti” (un cono di carta ruvida 20
con polpette fritte) insieme a un buon bicchiere di vino primitivo o negramaro, così potevano dire anche loro “è festa anche per me”. Chi invece restava in casa dopo cena partecipava alla recita del Santo Rosario, appuntamento quotidiano a cui non si poteva mancare. Spesso si assisteva a spostamenti di persone da una casa ad un’altra, dove c’era qualcuno che conosceva a memoria le preghiere e le tante storie di santi. Una piccola comunità riunita che pregava in silenzio e con devozione la Madonna, recitando e meditando i Misteri della vita di Cristo e di Maria. I presenti erano tutti muniti di corona che si differenziava per lunghezza, grossezza dei grani e crocifisso; alcune erano con grani di mogano, altre fatte da noccioli di olive che i Padri Missionari o Passionisti avevano lasciato nelle case nei vari giri di questua, dicendo che erano noccioli di olivi del Giardino del Getsemani. Durante l’inverno il rosario si recitava attorno al braciere, al calore della “cinisa” (cinigia) accesa, che ogni tanto qualcuno “scarnisciáva cu llu palittínu” (rimuovere il fuoco dalla cenere con il palettino). In estate era frequente vedere nelle strade e nelle “nchiósci“ (largo di strada senza uscita) questi gruppi di persone sedute davanti all’uscio di casa. Era d’obbligo non salutare e non rivolgere la parola a qualcuno durante questa pia devozione, bastava solo un cenno del capo per porgere il saluto o dare la buonasera. La serata ancora lunga permetteva alle donne di continuare i lavoretti di casa, mentre gli uomini anziani potevano finalmente fumare la pipa o il sigaro. I fumatori di un tempo raccontano come sia molto appagante il sapore e l’odore del tabacco, a seconda delle miscele e della varietà. Il fumo era abbastanza tollerato in casa dalle donne (ai quei tempi disonorevole per il genere femminile) e così mentre la moglie, la figlia, la nuora stiravano i panni o cucivano gli orli a tuagghjúli, sarviétti e sprájini (fazzoletti, tovaglioli e panni), oppure rammendavano visázzi, caziétti e cauzunétti (bisacce, calze e mutandoni), gli uomini godevano di quei momenti di relax. La stiratura era tanto faticosa e molto dipendeva dal ferro usato. Ne esistevano solo due: quello a braciere, in acciaio con manico in legno e quello a piastra sempre con manico in legno. Il ferro da stiro a braciere, decorato da una testa femminile che serviva ad aprire il coperchio per inserire i carboni accesi, era quello più diffuso; alla base presentava dei fori per dare ossigeno alla brace; era molto versatile per tutti gli indumenti e panni. Quello a piastra invece era quello senza carboni. Aveva una piastra principale in ferro molto ampia, che veniva
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riscaldata appoggiando la stessa sopra i fornelli della cucina, con figure a rilievo ricavate durante la fusione; era meno usato per la mancanza di cucine “a banchina” nelle nostre case. Per questo lavoro, occorrevano quasi sempre due persone, per piegare con delicatezza “gghjasciúni e tuágghji” , (lenzuola e tovaglie) prima di passare il ferro da stiro. La presenza in casa degli anziani suoceri o dei genitori rendeva questo compito più semplice e più piacevole, non solo per la compagnia, ma anche per i consigli che potevano dare. Fumare la pipa era una scena composta da gesti simbolici e rituali tanto da dare ai presenti l’immagine di persona calma, paziente, meticolosa, riflessiva, perfino saggia. In realtà i fumatori prendevano tempo per dare delle risposte ponderate ai discorsi che a volte diventavano compromettenti. I modelli delle pipe usate erano dritte o ricurve con corpi robusti in radica o terracotta e bocchini in ebanite oppure osso. Fumo passivo a parte per le persone che respiravano tabacco bruciato, in casa, si creava comunque un'atmosfera rilassante e di vero calore familiare. La sera volgeva al termine e andare a letto troppo tardi non era consentito perchè al mattino bisognava alzarsi presto. L'assenza di rumore nelle strade favoriva il silenzio, la meditazione e primi assaggi di sonno sulla sedia; qualche volta in quei silenzi assordanti la musica e canti delle serenate rendevano la serata piacevole e andare a letto dopo l'ascolto induceva gli sposi a scambiarsi tenerezze d'amore. Ancora oggi sono molti ad essere convinti che “la sirinàta” (la serenata) era utilizzata solo per corteggiare una ragazza e per convincerla dei sentimenti nutriti per lei. Invece, no! Veniva utilizzata anche quando nasceva un bambino, quando il fidanzamento era stato approvato dai genitori, oppure durante il matrimonio per confermare l’amore e la passione. Le serenate della nostra tradizione popolare, ancora vive nei ricordi di tante generazioni, erano un insieme di espressioni e musica finalizzate per quelle occasioni, dei tipici stornelli improvvisati al momento, che solo qualcuno si è preoccupato di trascrivere. Ma chi erano questi bravi suonatori? Dei ragazzi che lavoravano prevalentemente nelle barberie dove c’era l’usanza di imparare a suonare il mandolino, la chitarra o l’organetto a bocca. Chi proponeva la serenata avvisava il gruppo dei suonatori con notevole anticipo, spiegando il motivo e dettaglio sul destinatario. C’era anche un codice interpretativo della serenata legato al numero dei brani eseguiti: “Un solo brano, significava una dedica, un omaggio alla persona cara e si eseguiva camminando per non insospettire chi poteva fare brutti pensieri; due brani 23
esprimevano uno spregio, una risposta negativa, un addio con disprezzo; tre brani consecutivi testimoniavano un concreto interesse verso la persona amata”. Se durante l’esecuzione del terzo brano i familiari e la ragazza erano d’accordo, si notavano dei movimenti insoliti e una certa agitazione dovuta alla sorpresa. Si percepiva subito perché in casa si accendeva qualche altro lume ad olio o a petrolio e si intravedeva dietro la finestra la ragazza designata fortemente emozionata. Alla fine dell’esecuzione, il padre o un altro membro della famiglia, invitava i musicisti ad entrare in casa. I suonatori accettavano l’invito ed entravano dopo l’inizio del quarto brano. La serata continuava offrendo ai suonatori qualche dolcetto o tarallo con il pepe accompagnato da un bicchierino di rosolio o di vino. Ma non sempre la serenata era gradita e, a volte, veniva considerata come una molestia. In questo caso colui che l’aveva ordinata insieme ai suonatori rischiavano di ricevere un secchio d’acqua in testa che metteva fine alla serenata spegnendo ogni aspettativa. In altre circostanze le serenate andavano sempre a buon fine e pertanto i suonatori si lasciavano andare nelle espressioni e nella musica fino a mezzanotte. Era un modo raffinato di tenere compagnia alle persone del vicinato e se c’era una buona voce nel gruppetto, lo si invitava a cantare dei brani melodici che qualcuno aveva ascoltato da un grammofono. In passato erano molti i gruppetti che “tenevano le serenate” e ognuno si caratterizzava per la diversità degli strumenti usati. Qualche volta si mescolavano, ma non perdevano di vista la composizione d’origine. Per questo l’intesa era garantita anche perché veniva alimentata dalla grande passione per la musica che li accomunava. Accadeva spesso che molte serenate erano un omaggio o una dedica a qualcuno che nessuno riusciva a identificare. Così la mattina nel vicinato il commento tra le donne era di questo tipo: “Cummà! Cc’è sintúto la sirinata stanótti? Và vviti a cci éra?” (Commare! Hai sentito la serenata questa notte? Chissà a chi era rivolta?). E l’altra “Síni, síni, cummà! Mmi rricórdu puru li palóri «Viníu la primavéra - li ménn’li so ccacciáti – a mmé intr’a llu córi – s’è ppicciátu nnu fuécu t’amóri » (Si! Si! Commare! Mi ricordo pure le parole «E’ arrivata la primavera - i mandorli sono fioriti - a me dentro al cuore – s’è acceso un fuoco d’amore»). Il sonno iniziava ad avere il sopravvento e così prima di andare a letto, nelle famiglie più religiose, bisognava recitare le preghiere della sera. Particolare devozione era rivolta al Cuore di Gesù, alla Madonna, alle Anime Sante Purganti ed a tutti i Santi, che quasi sempre in ogni famiglia erano diversi per tradizione e/o per grazia ricevuta. In tutte le stanze erano 24
presenti immagini, statuette in ceramica con e senza campane di vetro e piatti da muro, raffiguranti volti e corpi sacri anche di notevole valore artistico. La presenza della “lámpa” (lumicino ad olio) accesa notte e giorno sul comò davanti ad una di queste, era sintomo di grande devozione che la famiglia aveva nei suoi confronti. Davanti a queste statuette sacre gli anziani si inginocchiavano e recitavano le preghiere. Ne cito una fra le tante della nostra tradizione popolare: “Mi córcu a lliéttu, e mmi córcu in sibbirtura, cce mózu via? E cci m’lassicura? Préu Ddíu, lu Patriternu, cu mmi libbra ta lu ‘nfiérnu! Sa Franciscu, cunfissóri ti Cristu, libbra l’anima méa, mo ci ddurmésciu; iu la tò a tte e tu talla a Cristu! E cci lu nimicu mi ven’a ttantà, Sa Ffranciscu viénimi a llibrà!” (Mi corico a letto, e mi pongo in sepoltura, mi alzerò viva? Chi me lo assicura? Prego Dio, il Padre Eterno, che mi liberi dall’inferno! San Francesco, confessore di Cristo, liberi l’anima mia, ora che mi addormento, io la dono a te e tu donala a Cristo! E se il demonio mi viene a tentare, San Francesco vienimi a liberare!” La notte è già alta, la gente dorme e il viaggio termina qui con questa danza popolare di ricordi, vivi e presenti nel cuore e nella mente. Credo che questo spaccato di vita del passato possa degnamente terminare con i versi di un'altra mia poesia dal titolo “Pinziéri, rricuérdi e vóci” - Quánna si rríva a llu mmiénzu t’la camináta, stè bbisuégnu cu ti fiérmi nnu pícca pi lla stráta, pinzánnu e rriflitténnu a cómu pássunu l’ánni, frabbicáti ti muménti chjíni t’amóri e affánni; ccùssí scuprímu ca la vita è fátta ti muménti, bbèddi e bbrútti ma rrimanúnu tutti a lla mènti, si ssimegghiúnu a nnu mazzu ti fiúri ti sciardínu, fáttu ti rosi mpassiunáti, chiarófli e ciclamínu; stu mazzu armuniúsu, culurátu e prufumátu, chiánu chiánu lu rdurámu cu priésciu sfrinátu, e nni rrubbámu cu ll’ánima li mégghiu ardóri, pi lli scónniri intr’a lla ménti e intr’a llu córi; sti pinziéri, sti rricuérdi e sti rraggiunámenti, só la tóta ca tutti nni purtámu nzígn’a ppónta, li llisciámu comu si llisciúnu nu zitu e na zita, piccè nni fáciunu scuprè l’accizzióni ti la vita. (Quando arrivi dopo i cinquant'anni, c'è la necessità di fermarsi un po', per pensare e riflettere a come passano gli anni, costruiti da momenti pieni d'amore e d'affanni; così scopriamo che la vita è fatta di momenti, belli e brutti che rimangono tutti alla mente, si rassomigliano ad un fascio di fiori di giardino, fatto di rosi rosse, garofani e ciclamini; questo fascio di fiori ricco d'armonia, colorato e profumato, piano piano lo odoriamo con gioia sfrenata, e ci rubiamo con tutta l'anima i migliori odori, per 25
nasconderli dentro la mente e dentro al cuore; questi pensieri, questi ricordi e questi ragionamenti, sono la dote che tutti ci portiamo fino alla morte, li accarezziamo come si accarezzano due innamorati, perchè ci fanno scoprire il lato piÚ bello della vita).
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Cosimo LUCCARELLI è nato a Grottaglie (TA) nel 1947, coniugato con due figli, risiede nella stessa città d’origine dalla nascita. Si è formato nell’Azione Cattolica dove è stato militante e dirigente giovanile parrocchiale e diocesano. Laureato in Scienze Industriali nel ramo energetico e nei servizi tecnici per l’industria siderurgica ha esercitato per circa 40 anni la professione presso importanti società nazionali ed europee di produzione energia elettrica e servizi tecnici collaterali per l’industria. Per l’ampia competenza tecnica acquisita e per l’ingente attività formativa sociale e professionale, il 1 Maggio 2001 gli viene conferita dal Presidente della Repubblica Italiana la decorazione della Stella al Merito del Lavoro con il titolo di “Maestro del Lavoro”. Autore di molti componimenti poetici dialettali ed opere di vario genere su usi e costumi della sua città, partecipa alle diverse manifestazioni e concorsi di poesia e narrativa, riscuotendo significativi riconoscimenti. Nel 2007 su incarico delle Ceramiche Nicola FASANO di Grottaglie scrive i testi (racconti e poesie) per la collezione pittorica di Gaspare Mastro sugli aspetti di vita grottagliesi di una volta, pubblicati nel volume “Grottaglie, profili di vita e poesia del passato”, dove sono riportati, oltre i dipinti, molti oggetti tipici della ceramica locale con didascalie dialettali. Nel 2009 scrive i testi per la collezione pittorica di Gaspare Mastro sui mestieri di una volta pubblicata nel volume “L’arte del fare nel ricordo degli antici mestieri”. Nel 2011 pubblica il volume di poesie dialettali dal titolo “Pinziéri, Rricuérdi e Vòci”. Nel 2012 in collaborazione con G. Mastro pubblica il volume “C’era una volta…! Racconti, ricordi e suggestioni …nella memoria del cuore” e nel 2013 su sponsorizzazione dell’ANTEAS pubblica il volume “Simboli e Suoni del Sacro! La devozione popolare nelle processioni a Grottaglie”. Collabora attivamente con altri scrittori di storia locale, per la valorizzazione, ricerca, studio ed approfondimenti della terra natia con pubblicazione di testi e collane varie. A Novembre 2007 apre il Blog “Grottagliesità: Lingua e Cultura Popolare Tradizionale” e nel 2010 viene creato il collegamento al sito Grottagliesità Enciclopedica per visionare le News, il Vocabolario Dialettale Multimediale, Documenti, Notizie e Curiosità a completamento del blog. Oltre all’intensa attività culturale, data la vasta esperienza tecnica industriale, insegna gratuitamente presso le associazioni di volontariato su vari temi e argomenti: Personal Computer, Sicurezza Industriale, Formazione e avviamento al lavoro, Prevenzione infortuni domestici. 27
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