Una riforma della scuola in tre mosse

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Una riforma della scuola in tre mosse, dal saggio Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

Ugo Libardo

Una riforma della scuola in 3 mosse 1 Â

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Stupor Mundi

Una riforma della scuola in tre mosse Copyright Š 2015 by Ugo Libardo website: www.parlaconugo.it Questo opuscolo, e qualsiasi parte di esso, possono essere riprodotti da chiunque, a piacere, senza autorizzazione, 2 Â

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purché non sia fatto a scopo di lucro. Book Design by Gianmarco Violante Disegno in copertina di Fabrizio De Tommaso 2015 Editrice Stupor Mundi® e-mail: ugo.libardo@gmail.com

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Ringraziamenti e riconoscimenti Devo ringraziare le seguenti persone, colleghi, amici, dirigenti scolastici, sindacalisti, che con le loro critiche, le loro riserve, le loro osservazioni mi hanno inevitabilmente indotto a scrivere questo opuscolo, che dedico soprattutto agli studenti e ai loro genitori, non sempre al corrente di ciò che accade alla scuola italiana. Daniela Curcio

Angelo Ricci

Giuseppe Piccoli

Massimo Feltrin

Marzia Majorano

Gabriella Scarpone

Rosa Armiento

Tiziana Ragni

Marinella Gautiero

Elvira D’alò

Anna Consales

Ausilia Granata

Claudio La China

Carmelina Liguori

Catia Eusepi

Elena Di Bartolomeo

Gianluca Giudice

Sonia Gabrielli

Enio Caliolo

Gianfranco D’abbicco

Pina Malagnino

Valentina Molfetta

Denise Greco

Paola Vigorito

Pino Nesta

Loredana La Verde

Maria Canino

Daniela Tudisco

Raffaele Palasciano

Rachele Mandaliti

Rosanna Cammarota

Adriano Cisternino

Maurizio Rosanna

Linceo Bellanova

Ernesto Diana

Simona Nista

Filomena Bellomo

Lucia Fantauzzi

Lucia Porciello

Alessandra Di Genio

Salvatore Morelli

Luisa Artiaco

Anna D’Addurno

Gianmarco Violante

Maria Antonietta Cuomo

Gildo Salerno

Alessandra Normanno

Iole Capriotti

Anna Consales

Simona Schembri

Pina Genduso

Francesca Coco

Patrizia Visintin

Rosalba Grieco

Marcello Martena

Barbara Bigozzi

Maria Assunta Grifasi

Luciano Mondello

Rossella Tedeschi

Teresa Albano

Lilli D’Amicis

Davide Capobianco

Pasqualina Ardolino

Marcello Martena

Vincenzo Libardo

Carmen Tomasini

Giovanna Garzini

Michelangelo Liccese

Angelo Palma

Alessandra Di Genio

Ivana Campanella

Angela Rasoli

Rossella Sion

Mario Carolla

Franco Curcio 4

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Al popolo della scuola Vorrei attirare l’attenzione su un vizio originale della nostra scuola che, nel migliore dei casi, costituisce un ostacolo per qualsiasi azione didattica. Mi rendo conto di rivolgermi a una fetta consistente della popolazione – in primo luogo a studenti, genitori, docenti –, ma difficilmente troveremo un cittadino che si possa considerare estraneo al contenuto di questo opuscolo. È necessaria una breve premessa: nei paesi mittel- e nordeuropei, nei paesi scandinavi, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, Australia, e molti altri fra i più avanzati, non si boccia e non si blocca il percorso formativo di uno studente, se non in casi davvero straordinari. Tutti gli studenti, bravi e meno bravi, passano all’anno di corso successivo – con una peculiarità: un 4 in matematica o in inglese rimane 4, e viene registrato nel portfolio dell’interessato. L’unico – si fa per dire – effetto collaterale per lo studente debole, per es., in materie scientifiche, sta nel fatto che non potrà accedere a facoltà scientifiche. Nei paesi che ho citato e che conosco per diretta esperienza, si considera normale quanto segue: solo 2/10 degli studenti sono bravi in tutte le materie; solo 2/10 degli studenti falliscono nella maggior parte delle materie (e tali soggetti vengono presto orientati verso i più disparati percorsi professionali); i restanti sei possono risultare carenti in una o più materie, ma ciò viene 5

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considerato nella norma, come una qualsiasi altra caratteristica personale (altezza, colore dei capelli, personalità, ecc.). Il nostro apparato di istruzione non prevede che uno studente possa avere una insufficienza, ancorché una sola, pena la non ammissione all’anno successivo. Ma è ragionevole una tale aspettativa? Ne consegue che la stessa scuola è costretta ad attuare un recupero in appello dello studente – sebbene ciò richieda un coup de théatre: chiamasi tecnicamente Giudizio sospeso… la lodevole manovra riparatrice dettata dal buon senso, atta a riavviare agli studi i normalissimi studenti che presentano, sì, delle carenze in alcune discipline, ma che per questo motivo verrebbero altrimenti esclusi da qualsiasi percorso. Il giudizio finale viene rimandato a settembre, allorché lo studente, dopo aver studiato durante l’estate, ha la possibilità di riparare nelle materie in cui si era mostrato insufficiente, sostenendo prove scritte e orali. E via a verbalizzazioni, giudizi sintetici inattaccabili, notifiche alle famiglie, convocazioni, la predisposizione delle verifiche, le operazioni di scrutinio. Poi i dibattiti – a malapena necessari – fra docenti favorevoli barra contrari alla promozione, la prevedibile promozione, ancora verbalizzazioni, le notifiche… ” La storia non finisce qui. Se alle prove di riparazione lo studente dovesse ancora risultare insufficiente, gli si accorda un aiutino, il cosiddetto Voto di consiglio, grazie al quale un 5, un 4, un 3, vengono passati a 6, per decisione del consiglio di classe. “Un Falso in ufficio!”, mi ha fatto notare un collega svedese. Tutto questo – che un esterno al sistema definirebbe una folie collective – trova la sua logica in apparati più dediti alla forma che alla sostanza.

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Il recupero fittizio di uno studente, pur con tali modalità, sarebbe più che ragionevole, se questa pratica non creasse problemi di credibilità per l’intero sistema scuola, nonché di rispetto per i docenti – subito sfiduciati dagli alunni. – “Prof! Ha messo 6 a Riccardo, e a me… solo 7?” Come dargli torto? Perché impegnarsi, se tutti vengono promossi e tutti possono proseguire gli studi in modo indifferenziato? Il segnale che si invia è devastante, eppure, nonostante certe serissime implicazioni, si preferisce procedere in tal senso. Certo, non si tratta di amore per il teatro. Sotto sotto, deve esserci qualcos’altro che giustifichi la messa in scena. Il rituale è troppo dettagliato e non mostra alcunché di casuale. È un fatto che il voto di consiglio certifica competenze inesistenti, e che lo sfortunato beneficiario di tale equivoco credito è destinato a pagare un prezzo molto alto: illegittime aspettative, una svalutazione del suo titolo di studio… e le conseguenti disconferme nel mondo del lavoro. Per induzione, subiscono un’inflazione anche i diplomi degli studenti più bravi. Avendo dato un 6 a Riccardo, perché tutti i 6 non possono passare a 7, e l’8 di Chiara a 9? Non appena Chiara accetta il 9, il cerchio si chiude e, dal ministro, al sottosegretario, ai funzionari ministeriali, passando per i dirigenti regionali, quelli scolastici, i docenti, fino all’alunno, il patto di complicità è siglato e perfezionato. Una prassi apparentemente insignificante si trasforma in uno strumento di educazione al garbuglio. Nel frattempo, i giovani osservano e registrano tutto. Risultato: gli studenti italiani occupano gli ultimi posti nelle graduatorie mondiali per competenze in materie matematiche, 7

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scientifiche e linguistiche. La dispersione scolastica tocca da alcuni anni livelli preoccupanti e non accenna a flessione alcuna. E chi sono i principali indiziati?... Gli insegnanti! È un pensiero che, forse, farei anch’io, se non fossi nella scuola. La cosa cambia aspetto, però, se a pensarlo o ad affermarlo è un dirigente scolastico. Nessuno si domanda: - “Ma che cosa rende tanti altri paesi più efficaci e più efficienti in materia di istruzione? Cos’hanno quelle culture che a noi manca?” In qualche modo, l’equivoco scaturisce da una certa fede, da parte di molti, nelle trasfusioni di conoscenza, in un meccanico travaso di sapere dal docente al discente. Si rimuove il principio che la scuola, fondamentalmente, fornisce risorse umane e strumenti per procurarsi il sapere, non, in automatico, il sapere. Ogni studente deve entrare a scuola armato di spirito di sacrificio e consapevolezza su ciò che vuole fare e conquistare da grande. E non è mai abbastanza presto per iniziare. Il maestro arriva quando l’allievo è pronto a ricevere, e tale felice predisposizione deve essere generata in famiglia. È questo il primo e più congeniale ambiente in cui i ragazzi devono imparare ad affrontare le responsabilità e ad apprezzare il valore del proprio percorso formativo. Allora, solo allora, la scuola può inserirsi produttivamente nella formazione di uomini e donne che, di lì a qualche anno, sosterranno l’economia del paese. Quello della scuola non può che essere un lavoro di fino: creare opportunità, favorire il confronto intellettuale e relazionale, ed elevare la qualità della vita. La scuola e gli insegnanti non creano prodotti di qualità dal nulla. Naturalmente, sono molti i soggetti e le dinamiche chiamati in causa per il fallimento scolastico, ma raramente lo si attribuisce al dilagante vuoto educativo genitoriale, all’impossibilità di 8

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esprimere la propria reale attitudine personale; all’incapacità di concentrarsi, impegnarsi e sacrificarsi da parte di molti studenti; alle turbe tipiche di ogni adolescente; a una logistica inadeguata; a strumenti e tecnologie insufficienti o inaccessibili; ad una amministrazione ferruginosa; a protocolli che sottraggono sempre più tempo ed energie ai docenti. Se dopo 50 anni di riforme in rapida successione la situazione nella scuola è precipitata, allora occorre resettare il sistema. Si impone una svolta radicale nell’approccio al problema. Per ottenere qualcosa che non abbiamo mai avuto, dovremo pur iniziare a fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Il tempo per le toppe a misura e le inconcludenti polemiche è scaduto. Partiamo da una questione che è centrale e, per antonomasia, discriminante fra buone e cattive scuole. Una società che non ponga solide basi sulla meritocrazia disegna una parabola fatalmente discendente e crea, a cascata, mediocrità, incompetenza, corruzione, fragilità democratica, instabilità economica, criminalità spicciola e organizzata – tutti elementi distintivi della nostra giovane repubblica. Ma, la meritocrazia, laddove sia riscontrabile, non arriva dallo spazio, né attecchisce fortuitamente. Si pianta con sistema e si coltiva a partire dalla scuola. È uno stile di vita, una abitudine, come spazzolarsi i denti. Oscurare questo principio porta una società alla rovina, immancabilmente, poiché si attiva uno strumento di selezione al contrario: conduce in posizioni di responsabilità e di comando persone non sufficientemente competenti, provocando inefficienza. “Comincia a delinearsi il motivo principe della vittoria della corruzione sulla Costituzione.” (Gherardo Colombo in conferenza a Brindisi, giugno 2015).

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Ma non voglio dipingere scenari drammatici senza tentare una spiegazione. Quasi dappertutto in Italia, pur facendo le cose giuste, si prova la sensazione di stare a sbagliare tutto. I risultati arrivano a fatica. È come iniziare ad abbottonarsi la camicia partendo dall’asola sbagliata. L’abbottonare, in sé, è corretto, ma il risultato finale è che si deve ricominciare tutto daccapo. Insegnando all’estero, ho provato la sensazione di iniziare ad abbottonarmi a partire dall’asola giusta e, come per magia, tutto comincia a quadrare, i conti tornano, la fatica spesa, finalmente, porta risultati e soddisfazione. Le aspettative si trasformano in progetti reali, realizzabili in un tempo ben definito. Osservando gli apparati scolastici di successo, è subito possibile intravedere le tre mosse fondamentali che produrrebbero miglioramenti apprezzabili nell’arco di pochi anni. Dunque, liquidando dettagli come il giudizio sospeso o l’accomodante Voto di consiglio, strettamente connessi al principio di meritocrazia, si generano presto una serie di effetti collaterali virtuosi. Tutto quanto segue, tengo a precisare, non è una mia utopistica visione. Accetto il merito di aver raccolto le idee per descrivere modelli osservati fuori che, da quarant’anni a questa parte, hanno consentito a paesi del terzo mondo, come Ghana e Camerun, di superarci in quanto a conoscenze e competenze Prima di procedere, vorrei chiedere al paziente lettore ancora un piccolo sforzo, una prova di coraggio e di finzione: facciamo insieme, solo per dieci minuti, un bagno di umiltà, come se nulla sapessimo di scuola, per incuriosirci e cercare di scoprire se è possibile evitare quell’estenuante procedere per tentativi ed errori sulla pelle dei nostri giovani. 10

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Prima mossa Ammissione all’anno di corso successivo, senza debiti, di tutti gli studenti, assegnando loro i voti realmente maturati. Al termine del corso di studi, come già anticipato, chi non presenti, per esempio, buone valutazioni in discipline umanistiche e sociali, non può concorrere per l’ammissione a facoltà come Lettere, Storia, Filosofia, Diritto, Scienze della formazione, ecc.. Benefici a) Tale scrematura, operata dall’istituto di provenienza, rende poco significativo un Esame di Stato, che può placidamente essere abolito (in Europa, oltre all’Italia, solo la Francia conserva il Baccalaureat, titolo equipollente). L’esame di stato costa ogni anno 200 milioni di Euro (solo un candidato su cento viene bocciato), che si potrebbero usare diversamente. Tuttavia, mi sforzerò di non parlare di soldi, ma solo di meccanismi, principi e valori fondanti dell’istituto scuola. Quando un principio viene adottato perché fa anche risparmiare o guadagnare, si può essere sospettosi sulla sua effettiva validità. Si intuisce subito che l’idea di scuola intesa come azienda è sbagliata alle fondamenta, poiché il termine scuola è sinonimo di investimento, non risparmio o guadagno – se non a medio o lungo termine. b) Si accede all’università direttamente per titoli e meriti di vario tipo, senza ricorrere ai molto chiacchierati test d’ingresso, da noi fonte di polemiche, oltre che dall’incerto valore discriminante e distinguente. c) La selezione dell’università tiene anche conto della tipologia dei crediti lavorativi accumulati durante i congedi estivi, le 11

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vacanze invernali o i fine settimana. Il valore educativo di questo aspetto extrascolastico della vita di uno studente è inestimabile. Nei paesi a cui mi riferisco è considerata una equazione matematica: un adolescente che non sia impegnato regolarmente in attività extrascolastiche costruttive (sport, lavoretto, associazioni benemerite, ecc.), intraprende attività – anche distruttive – che minano o rallentano la strutturazione della sua personalità. Non vi sono dubbi sull’affidabilità di un ragazzo o di una ragazza che lavorano – se al chioschetto, in fabbrica, da un artigiano, in un magazzino o in un pub, poco importa. È naturale per quei ragazzi estendere il senso di responsabilità a tutti gli altri momenti della loro vita sociale. Si capisce subito, inoltre, che la scuola non è onnipotente e che il concetto di formazione si sviluppa anche al di fuori di essa. La selezione per titoli e competenze maturate sul campo viene giudicata più affidabile, quella che meno si presta a clamorose sviste o manipolazioni. In tale contesto, test di ingresso e concorsoni non potrebbero neanche essere concepiti. Seconda mossa A partire dal terzo anno di liceo, offrire una scelta nelle varie discipline, fra corsi A (specializzanti) e corsi B (nozioni generali), a seconda delle ambizioni e dei progetti del singolo studente. Il corso A privilegia l’analisi, e richiede approfondimenti a casa, compiti e relazioni da consegnare e dibattere in classe. In un corso B si pone l’accento sulle nozioni, ed è sufficiente essere partecipi e attenti a scuola. Verifiche frequenti del tipo a scelta multipla rappresentano sia un mezzo per ripetere e apprendere, sia uno strumento di valutazione.

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Chiunque aspiri a diventare ingegnere, seguirà il corso A (specializzante) in matematica, informatica, fisica e chimica, e – se lo vorrà – potrà ridurre l’impegno in diritto, storia, filosofia, ecc., optando per il corso B. Alcuni paesi introducono anche un livello C, ma non vi sono insegnanti di serie A, B o C. Ogni insegnante si occupa di tutte le tipologie di corsi, i quali richiedono, naturalmente, una diversa gestione del quadro orario settimanale, secondo il quale gli studenti si separano e si ricongiungono come da corso prescelto (riesco a immaginare lo sgomento dei colleghi che si occupano dello schema orario). In molti paesi, tutti gli iscritti allo stesso anno di corso sono un’unica classe allargata. In questo opuscolo descrivo caratteristiche e aspetti generali, trasversali fra i sistemi di istruzione in nord Europa, i quali hanno però, ciascuno, caratteristiche e aspetti singolari. Nei paesi anglosassoni non esistono differenti scuole superiori, come da noi, a indirizzo liceale, tecnico o professionale, a loro volta suddivise per tipologie più specifiche. Vi è una sola ed unica scuola secondaria superiore. Come già accennato, materie fondamentali come Matematica e fisica, chimica, madrelingua, ecc. vengono insegnate a due o più livelli di difficoltà, (per es. Advanced, Normal, Basic), e gli studenti fluttuano attraverso i vari livelli in base al loro rendimento. Ne consegue che la matematica, la chimica, la filosofia, la madrelingua, ecc., non risultano più facili o più difficili in una scuola piuttosto che in un’altra (mentre da noi, non offrendo scelta fra corsi A o B, si sviluppa, quasi in automatico, una matematica del liceo scientifico, una del liceo artistico, una del professionale, ecc. – per non parlare delle differenze che possono venire a crearsi fra liceo e liceo, sia nello stesso territorio, sia nel confronto nazionale. 13

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Una omogeneità di valutazione viene garantita da prove e verifiche standard (INVALSI) nelle principali materie degli assi matematico, scientifico e linguistico – in quei paesi piuttosto vincolanti per un docente ai fini della sua valutazione. Negli ultimi 3 anni, le materie vengono gradualmente ridotte fino ad arrivare all’ultimo anno, in cui gli studenti si concentrano sulle sole materie richieste per uno specifico percorso universitario. Ogni scuola introduce nella sua offerta formativa una miriade di corsi complementari, che attraggono una gran quantità di giovani, anche quelli meno avvezzi allo studio – attività che generano un sensibile incremento dei posti di lavoro (fotografia, falegnameria, lingue europee e orientali, tessitura, economia domestica, cucina e pasticceria, tornitura, saldatura, meccanica applicata, ecc.). A Sebastian, del tutto refrattario ai libri e allo studio, fu proposto di seguire un corso di liutaio a Modena. Attualmente è un affermato artigiano che produce costosi strumenti ad arco richiestissimi in tutto il mondo. Mi è parso di osservare che i coetanei europei dei nostri ragazzi, a 15/16 anni, non sono affatto più brillanti, ma sono sicuramente più sostenuti, più guidati nell’orientamento in uscita e più consapevoli dell’ambito professionale in cui andranno ad operare – nessuno cerca di convincerli che sono troppo giovani per certe decisioni. In fondo, se possono star fuori fino a tardi, godere delle innumerevoli libertà di cui godono e usare le più potenti tecnologie, possono anche assumersi certe responsabilità. In ogni caso, nessuna strada è preclusa ad alcuno. Chiunque sia in possesso del solo livello B in una materia divenuta decisiva per un nuovo percorso, può integrare il livello mancante successivamente, seguendo corsi ad hoc e superando i singoli esami, tenuti ciclicamente in istituti accreditati. 14

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Benefici a) Ogni studente può concentrarsi nelle materie che ritiene più aderenti al suo progetto personale. b) Differenziando e allargando l’offerta, si ottiene un’azione didattica di maggiore qualità. I paesi leader di oggi hanno capito da tempo che la qualità dell’offerta formativa non è mai un costo, e che la non qualità, invece, lo è sempre. L’intera società è chiamata a pagare un conto salatissimo in termini di crescita e benessere. Le società anglosassoni hanno, per lunga tradizione, considerato prioritaria la spesa destinata all’istruzione. In piena crisi bellica, quando la Germania stava per dilagare in Europa, accingendosi a invadere anche l’Inghilterra, il consiglio dei ministri inglese propose a Winston Churchill di tagliare le voci di spesa destinate all’istruzione, per dirottarle sugli armamenti. Il Premier diede una risposta lapidaria: “Togliere i soldi ai nostri ragazzi e alle scuole? E per cosa stiamo combattendo, allora? c) Non si organizzano corsi di recupero, poiché ogni studente si è già ritagliato il livello del suo impegno. d) Il voto è unico per tutte le materie. La verifica orale, tuttavia, è raramente utilizzata, poiché considerata troppo carica di suggestioni emotive e soggettive che ne inficiano l’attendibilità. e) La dispersione scolastica è quasi uguale a zero: i più brillanti possono alimentare le loro ambizioni; i meno predisposti allo studio provano la sensazione di farcela, di non venire esclusi e di poter sempre migliorare. Nessuno si scoraggia al punto di credere che la scuola – e la società – siano entità ostili. Vengono meno anche le premesse di devianze potenzialmente pericolose. f) I docenti non devono più fare acrobazie inverosimili per adattare il corso ad un amalgama di studenti molto differenziato per capacità, ambizioni e motivazioni: come proporre a tutta la 15

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classe l’inglese di Chaucer, Shakespeare e Milton, sapendo che solo un paio di studenti in una classe riescono appena a capirli? È evidente che il resto del gruppo ha fame di General English – in cui i nostri ragazzi sono notoriamente carenti. g) Cresce il rispetto per l’istituto; gli studenti si sentono più legati alla loro scuola; i docenti, più investiti di responsabilità. h) La valutazione del singolo docente è l’unica attendibile. i) I ragazzi divengono consapevoli del percorso più congeniale e perseguono obiettivi realistici. j) Non si riscontrano problemi disciplinari di rilievo. Il registro di classe non contempla la voce Note disciplinari. k) Marinare la scuola è uno stratagemma goliardico poco diffuso. Docenti e studenti marcano il cartellino all’ingresso e all’uscita, e non è richiesta una giustifica. l) I genitori sono chiamati in causa e valutano periodicamente sia l’andamento didattico, sia le attività extrascolastiche dei figli. Dunque, l’insolvenza di un percorso didattico può dipendere, semplicemente, da mala organizzazione, da idee confuse su essenziali principi fondanti e procedure, da risorse spese male; da ambizioni sproporzionate e poco realistiche sui contenuti. Terza mossa Semplificare, apprezzare e incentivare il lavoro del docente. È questa, forse, la più ardua delle sfide e, certo, non può attuarsi con un decreto ministeriale. Un insegnante, in Italia, subisce quotidianamente atteggiamenti allusivi di sottovalutazione, talvolta di aperto disprezzo, ma pochi sono al corrente delle proibitive condizioni in cui si trova ad esprimere la sua professionalità. Questa terza mossa, che sprona naturalmente ogni insegnante a dare il meglio di sé, trova attuazione automatica in conseguenza delle due mosse precedenti. 16

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Nell’immaginario collettivo, grazie al cinema o a ricordi scolastici di chissà quali tempi passati, prevale la figura del prof che assegna compiti e legge il giornale in classe, che se la spassa in spiaggia da luglio a settembre, che terrorizza i giovani con indicibili sevizie psicologiche. Coesiste e ricorre anche l’immagine di studenti seduti composti, privi di turbe, che pendono dalle labbra del professore, intenti a cogliere il massimo da quella fonte di sapere così imperturbabile, alienata da qualsivoglia contaminazione esterna. Come spiegare ai non addetti ai lavori che nella realtà non esiste nulla di tutto ciò? Il docente, oggi, ha il compito di aiutare giovani molto confusi sia sulla loro identità, sia sulle sfide che li aspettano, ragazzi la cui principale certezza è l’assoluta incertezza sul proprio futuro, più propensi ad appassionarsi ai sogni dettati dai media che ai loro propri; giovani poco avvezzi, per educazione o abitudini familiari, alla lettura, al lavoro, alla responsabilità e alla disciplina come strumenti funzionali a trovare risposte, a risolvere problemi. Tutti gli sforzi pedagogici degli ultimi 30 anni, hanno posto l’accento su “come” educare – tipico di un impianto autoritario che si crede infallibile, e deve dunque spiegare ai sottoposti come operare – pur senza averne le competenze. Se qualcosa va storto, è perché una direttiva è stata disattesa. Un sistema piramidale riserva i perché al discernimento dei quadri dirigenti. I perché sono un’arma a doppio taglio: definiscono la messa a fuoco, aiutano a ragionare, individuano nessi e fanno giungere a conclusioni. Possono ribaltare un intero punto di vista e, soprattutto, assegnano le vere responsabilità. Ma chiunque sia veramente interessato a migliorare lo stato delle cose, è costretto a ripartire dal semplice, e ripensare il “perché”

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della sua azione, risalendo alle cause di un eventuale fallimento e di un disagio, ovunque esse si annidino. Da quando il pensiero democratico ha cominciato ad operare realmente, modificando alla radice i rapporti fra i sessi e le generazioni, le premesse su cui fondare un corresponsabile progetto educativo sono cambiate. L’autorità automatica su cui un insegnate o un dirigente potevano contare fino a 10 anni fa, proveniente dall’alto, viene ora rimpiazzata dall’autorevolezza, un riconoscimento che parte dal basso. Il rispetto dello studente non è più incondizionato, ne’ può manifestarsi a senso unico. In Italia non siamo ancora preparati a cambiamenti di tale portata, che esigono di pensare in modo diverso: è il percorso di ogni giovane apparato democratico, qual è quello italiano. Nel frattempo, espressioni di sfida aperta da parte di ragazzi e ragazze sono sempre più frequenti, e possono toccare pericolosi picchi di fisicità, mentre i genitori faticano a credere che i loro figlioli siano capaci di tali atteggiamenti. Quando infine giungessero ad accettarlo, invece di collaborare per risolvere un problema comportamentale, cercano scusanti nell’approccio sbagliato dei professori. Si arrampicano sugli specchi. Il timore di passare per cattivi genitori prevale sull’apertura mentale e sulla necessaria disponibilità al dialogo. E si delinea una nuova sfida: aiutare i genitori a essere educatori più attenti. E quale istituto avrebbe maggiori possibilità di successo in questo oneroso compito, della stessa scuola? Mai come in questi ultimi anni i docenti devono far fronte a confronti educativi considerati ardui anche dai professionisti dei disturbi dell’apprendimento. Ciononostante, mai sono stati così additati come principali responsabili di ogni tipo di fallimento. Inspiegabilmente, i successi passano inosservati: i promossi costituiscono l’80% dei frequentanti, ma non piovono elogi. 18

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Cosa può spingere tanti soggetti, anche all’interno della scuola, a ignorare questo dato straordinario? Può sorgere il dubbio che dietro a tutto questo vi sia un disegno preciso. Ma quale? Un dato di fatto: moltissimi ragazzi, semplicemente, non trovano motivazioni sufficienti per seguire le lezioni, per lasciarsi incuriosire, partecipare. Perché? L’amministrazione non se lo chiede, anzi sembra del tutto disinteressata alla questione. Anno dopo anno, i docenti si trovano costretti ad abbassare ancora un poco l’asticella, e si è ora giunti a lavorare su livelli B o C. E, ancora, si cerca testardamente fra i soli professori la causa principale di questa regressione. Tale atteggiamento, oltre a essere pesantemente offensivo, distrae da una più approfondita ricerca delle reali cause del declino. Perché indagare se il criminale è già stato inchiodato? Pochi intuiscono cosa significhi entrare in una classe, oggi, e vedere 25 paia di occhi puntati addosso: sguardi critici, scettici o, peggio, del tutto vuoti e indifferenti. Quanti percepiscono il lavoro sottile da compiere per mettere un filo di luce in quegli occhi? – pur sapendo che quella apertura non è a tempo indeterminato, che quel lampo si attiverà quel giorno, ma non si può mai darlo per acquisito. I giovani vivono in un mondo divenuto parallelo, che gli adulti, genitori inclusi, ignorano completamente. Mentre i colleghi docenti europei possono contare su un incondizionato sostegno da parte della società e delle istituzioni, in Italia, mentre si insegna la matematica, l’inglese, l’italiano, ecc., si rendono necessari interventi straordinari per instillare principi e valori fondamentali, già profondamente radicati altrove. Ci si ritrova a dover spiegare ai ragazzi perché è importante essere impegnati in una buona causa, in attività sportive, nello sviluppo di talenti e atteggiamenti che portino un contributo alla comunità. E poi, con 19

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immenso imbarazzo, cercare di infondere nuova fiducia nella società; motivarli a battersi contro corruzione e inefficienza; indurli all’onestà, alla laboriosità – mentre la disonestà di politici e amministratori è quotidianamente manifesta, impunita e ben remunerata. Purtroppo, la scuola della forma, si angustia di tenere un conteggio puntiglioso delle ore di assenza – ma rimuove il perché di quelle rigeneranti fughe; si inquieta per il calo degli iscritti e si affanna per ottenere più visibilità nel territorio, in cui l’alunno diviene il cliente da accontentare, non il cittadino che sceglie di essere all’altezza del proprio progetto, assumendosene gli impegni e le responsabilità. La scuola della forma si preoccupa della quantità dei contenuti – senza soffermarsi sull’impatto che il lavoro svolto ha sulle competenze; si domanda come terminare il programma, sebbene Popper abbia spiegato che vi sono mille strade per giungere alla meta, tutte percorribili se si diviene consapevoli del perché. Il come – e la stessa metodologia, per qualsiasi persona dotata di buon senso –, ne diviene naturale conseguenza, e giunge spesso come un’illuminazione: è nell’ambito di questa piccola magia che viene esercitata la libertà e la professionalità del docente. I ragazzi di oggi sono molto diversi da quelli di 20 anni fa. Entrando in classe, prima ancora di iniziare a fare lezione, un docente deve tener conto di una moltitudine inimmaginabile di variabili che mettono a dura prova la sua competenza e le sue più intime convinzioni personali. Solo per questo, sarebbe opportuno che il suo lavoro venisse riconosciuto, senza condizioni. Quanto sopra costituisce da circa un ventennio il pane quotidiano di ogni docente, al punto da far sorgere il dubbio che possa esistere un qualsivoglia corso teorico che insegni ad insegnare. Questo perché l’oggetto del suo lavoro non è qualcosa di statico 20

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e prevedibile come può esserlo una macchina o un organismo semplice, bensì un elemento in continuo divenire: il comportamento delle persone. Non è come puntare ad un bersaglio immobile, bensì come cercare di colpire un proiettile con un altro proiettile. Dopo aver mirato, nel momento stesso in cui si preme il grilletto, ci si rende conto che l’obiettivo non solo si è già spostato, ma è anche mutato nella sua sostanza: è diventato qualcos’altro. E diviene necessario cambiare approccio: tutto da rifare! Ogni cittadino deve sapere che oggi, più di ieri, il lavoro dell’insegnante non è una questione di quantità, calcolabile in mesi, giorni o ore; ma è più esattamente definibile in pochi, intensi minuti di alta qualità, vissuti alla ricerca del momento propizio per trovare con 20/30 ragazzi del tutto unici e particolari quell’intesa, quella complicità che rendono finalmente attuabile un piano di lavoro in team: mi riferisco al momento prodigioso in cui le loro menti riescono a ignorare i telefonini che vibrano negli zaini, e si accorgono che tu esisti, che puoi tornare utile, e che loro possono appassionarsi alla loro causa, ai loro veri sogni, al loro futuro. E all’improvviso sanno come si scrive una relazione, come va fatta una ricerca, come si svolge un determinato esercizio, che tipo di impegno profondere: hanno capito perché ne vale la pena. I docenti italiani non sono né migliori, né peggiori dei loro colleghi nel resto del mondo, ma sono certamente i meno aiutati, i meno apprezzati, i meno pagati. Come se non bastassero le difficoltà oggettive, i successi, laddove il corpo docente deve operare in un contesto che rende il suo compito volutamente più difficile, hanno del prodigioso e vengono ottenuti nonostante – non grazie al – sistema.

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I docenti fanno fatica ad applicare le consuete strategie educative, poiché esperienza e metodologia vengono vanificate anche da basilari problemi di impostazione, di organizzazione e di ruoli male interpretati, a partire da quello del dirigente scolastico, sinapsi fisica fra amministrazione e corpo docente. Se la nostra scuola non recupera i perché e i motivi per cui val la pena di investire nei giovani, diventerà il mezzo più improbabile per acquisire competenze spendibili nella società. Qualcuno potrebbe darmi del malpensante, ma mi sono fatto convinto, dopo molti anni, che gli insegnanti siano divenuti progressivamente il capro espiatorio da immolare per liberare un sistema macchinoso da ogni responsabilità. Se si trattasse anche di preservare un tornaconto, allora possiamo esser certi che quel sistema lotterà fino alla morte, non farà passi indietro, e sempre di più vorrà annientare chiunque minacci la sua conservazione. Un vecchia storia, insomma, che la maggior parte dei docenti, oramai, non è più disposto a tollerare. Chi può essere così stolto da credere che, dando addosso agli insegnanti, si possa creare una buona scuola? Tuttavia, si delineano sempre più netti i criteri con cui scegliere pubblici rappresentanti, dirigenti e funzionari; si osserva in tutti gli angoli del paese una rinnovata passione per la cosa pubblica, e si odono voci insistenti che si domandano: - Sono interessati davvero, questi signori e queste signore nei palazzi dei bottoni, a introdurre equità e meritocrazia? - Quanto stanno investendo nella scuola e nei nostri figli? - Quali controlli stanno adottando a tutela della trasparenza? È evidente che vi sono soggetti, gruppi amministrazioni, più o meno organizzati, che ubbidiscono al loro tornaconto personale, che non vogliono che i nostri ragazzi divengano cittadini accorti, 22

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competenti e responsabili. Si può ipotizzare, senza il rischio di sbagliarsi di grosso, che una buona scuola sia incompatibile con un sistema egemone corrotto, poiché istruzione, legalità e democrazia sono figlie di un’unica creatura: l’igiene mentale culturalmente vincente, fondata sulla meritocrazia. Che cos’è? Cominciamo a definire cosa non è. “Una infinità di inchieste hanno già appurato, con condanne definitive, che la funzione pubblica viene spesso interpretata da un dirigente o da un funzionario come un mezzo per ottenere privilegi per sé e per coloro che fanno parte del sistema, trascurando completamente l’interesse di tutta la comunità.” (Gherardo Colombo in conferenza a Brindisi, giugno 2015)

Senza giungere a pensare a corruzione, concussione o turbative d’asta, ciò include spessissimo l’abuso di potere e l’abuso d’ufficio. Ma è compito dei magistrati dimostrare per quali motivi e per quali interessi tutte le mafie e tutte le amministrazioni corrotte vedono questa creatura – la cultura del merito – come fumo negli occhi. “Perché la cultura fa tanta paura? Perché ti indica la strada per la libertà, della scelta, ti insegna a pensare, a non essere gregge. Uno stato dittatoriale la prima cosa che uccide è la scuola.” (Primo Levi)

La questione assume connotazioni non solo antropologiche ma anche politiche che, come le questioni economiche e finanziarie, non mi sento all’altezza di trattare in questo breve opuscolo – pur confidando che altri se ne occuperanno nelle sedi adeguate. Sono certo, tuttavia, che il lettore comprenderà i motivi che mi spingono a farvi cenno, al puro scopo di evidenziare l’ampiezza e la portata che una vera riforma dovrebbe avere. Un apparato leale che aspiri a migliorarsi, non cerca capri espiatori, non piagnucola, ma guarda avanti, ci mette la faccia, si pone domande e cerca vere soluzioni, non toppe a misura; 23

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certamente, non punta il dito su un singolo anello della catena – i docenti –, i più esposti alla critica, in quanto sempre in prima linea. Gli insegnanti, nel senso più lato, costituiscono evidentemente l’ultima delle preoccupazioni della nostra scuola. Un dispositivo democratico divergente – come vorrebbe essere la nostra scuola nelle migliori, teoriche intenzioni – non ubbidisce al motto “Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”, una parafrasi del concetto “Adeguati al sistema, se no guai a te”. Piuttosto, si spende per affermare il pensiero: “Tutti sono indispensabili e importanti, in quanto socialmente e reciprocamente utili”. Ma è impossibile avere un’immagine completa del mondo dell’istruzione senza spendere qualche parola su una figura centrale della scuola che, come i docenti, la occupa in modo altrettanto intensivo ed estensivo: il dirigente scolastico. Qualcuno avrà notato che è una figura a cui non faccio riferimento parlando del popolo della scuola, e spiego perché. L’esempio è delicato, e tocca il ruolo dei dirigenti scolastici, così come ispirato direttamente da La tecnica della scuola, in un articolo di Anna Maria Bellesia che, per motivi di spazio, mi permetto di stralciare in alcune parti, pur facendo del mio meglio per conservare lo spirito del messaggio: “Con la riforma proposta da Renzi, i dirigenti scolastici credono di poter trarre grande vantaggio dalle nuove norme per rafforzare ulteriormente il loro ruolo. Credono di poter avere esclusiva competenza sull’organizzazione del lavoro e sulle modalità di utilizzazione del personale, che prima rientravano nella contrattazione integrativa. Particolari interpretazioni – alquanto forzate – delle norme, esautorano il collegio docenti dal deliberare il piano annuale delle attività, che rientra nella competenza collegiale. Già appare chiaro che il collegio dei docenti si sta trasformando in un collegio del preside. 24

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Una buona scuola non può prescindere da buoni, anzi, eccellenti dirigenti scolastici. Ma chi valuta il loro lavoro? Loro stessi! Pur dicendo debolmente di voler essere valutati, sono sempre riusciti a guizzare via da ogni forma di valutazione, e quindi dalla responsabilità di risultato. Eppure questi dirigenti esigono che i docenti siano valutati e vogliono essere loro stessi a farlo, ad attribuire le premialità, e perfino a scegliersi i docenti migliori. Nel bel Paese del nepotismo, clientelismo, raccomandazioni e corruzione, nessuna persona assennata scommetterebbe un centesimo che questa sia la strada giusta per migliorare la scuola.”

Praticamente ogni articolo e ogni comma della nuova legge sulla scuola rivela la grande confusione, l’incoerenza, quindi, a cascata, misure e direttive prive di ogni logica, che fanno apparire tutto il disegno un raffazzonato patchwork. Toppe su toppe per trovare un equilibrio inesistente, quindi introvabile. Secondo quest’ultima riforma i docenti devono essere valutati. Giusto! Assolutamente doveroso. Ma poi si scopre che il comitato di valutazione è composto dal dirigente scolastico, da un genitore e da uno studente. Ma che senso ha? Cosa ne sa di problematiche e contingenze didattiche il più giudizioso dei ragazzi o ragazze, o qualsiasi genitore. Il lavoro di un docente è divenuto così complesso e articolato, e spazia trasversalmente fra una tale miriade di discipline – antropologia, pedagogia, metodologia, ecc. –, che lo stesso docente è incerto e perplesso sull’impatto che la sua azione sta effettivamente sortendo. Troppe le variabili, troppo differenziata l’utenza, troppo problematico trovare il baricentro su cui impostare una lezione, troppo incerte le stesse aspettative dei ragazzi: è d’obbligo per l’insegnante correggere continuamente il tiro, modificare il suo approccio. Secondo la stessa logica sconnessa, un medico dovrebbe essere valutato dai suoi pazienti; un truffatore potrebbe essere giudicato 25

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– e magari giustiziato – dalle sue vittime; un impiegato di Equitalia da una coppia di debitori; un architetto da un muratore e un carpentiere; ministro, sottosegretari e dirigenti scolastici… da due insegnanti, appunto! (Lucia Fantauzzi) In questo criterio di valutazione non si differenzia la testa dalla coda. È una tale forzatura, sostenuta da idee così confuse che non trova pari nel mondo. In nessun paese civilizzato è osservabile un simile delirio di direttive antitetiche. E immagino che tra un po’ si convertiranno in presidi anche i politici mancati... Ho percepito più volte l’ipotesi sottesa di far partecipare al concorso da dirigente chiunque, e non solo chi abbia almeno 5 anni di ruolo da docente. La Bellesia continua: “La scuola non è un’azienda e, per la sua stessa natura di comunità, necessita di una governance partecipativa e non verticistica. Persino all’epoca di Berlusconi-Gelmini-Brunetta non fu toccato l’art. 25 del D. ivo 165/2001 sui dirigenti scolastici, che devono confrontarsi con le competenze degli organi collegiali. Non solo nella scuola, ma in tutta la pubblica amministrazione, l’attuale linea di tendenza a livello dei Paesi Ocse più evoluti va verso una governance inclusiva e partecipativa, che rende accessibile e cooperativo il processo decisionale, favorendo corresponsabilità e capacità civica. Invece di puntare sulla funzione di coordinamento ed esercitare una leadership fondata su processi trasparenti, inclusivi, aperti e democratici, i dirigenti scolastici hanno scelto di concentrarsi sul monocratico, depotenziando le funzioni decisionali degli stessi organi collegiali competenti per legge. Hanno mortificato il corpo docente e tenuto ai margini le altre componenti. Famiglie e studenti hanno continuato ad essere considerati “destinatari”, e l’unica “centralità” pervicacemente perseguita è stata quella focalizzata sul capo. Non c’è da meravigliarsi se la percezione della dirigenza è stata sentita sempre più come antagonista e poco adatta alla scuola. In tal modo, il dirigente scolastico si auto-esclude dalla comunità del popolo della scuola, qualificandosi principalmente come un serio ostacolo alla realizzazione di un progetto educativo corresponsabile. 26

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Ma a chi risponde del suo operato? Chi controlla e garantisce dagli abusi? Tutto questo va contro il Testo Unico della P.A., che prevede valutazione e retribuzione di risultato come caratteristica intrinseca ed ineludibile della qualifica dirigenziale. Ma anche contro l’esito della consultazione, da cui è emerso che nella scuola deve prevalere il clima collaborativo, non la competizione e il conflitto permanenti.”

Prevedo grane, sia per la riforma appena passata in parlamento, sia per i dirigenti scolastici, che dovranno prepararsi a rispondere legalmente e personalmente di ogni minimo errore di interpretazione di norme o codicilli – come se già non bastasse il gravoso compito loro imposto di dirigere più plessi/istituti. La riforma 2015 è destinata a fallire perché troppo vulnerabile al cospetto di elementari e fondanti articoli della Costituzione, per non parlare delle note posizioni già passate in giudicato dalla Corte di Giustizia Europea di Strasburgo, che non potrebbe che respingere e, ancora, sanzionare quegli errori di interpretazione. Non sono pochi gli esperti in materia di legislazione scolastica che intravedono la possibilità di una class action. Per la prima volta nella storia della scuola i sindacati congiunti hanno portato in tribunale il testo della riforma. Secondo Anna Maria Bellesia “Non basterebbe neppure il 100% di bravi docenti… Per fare una buona scuola ci vuole un bravo dirigente. E col suo lessico da marketing lo dice pure La Buona Scuola: “il timoniere è essenziale” per cambiare rotta. (Si, ma seguendo quali rotte, per attraccare in quali porti?). Il bravo dirigente scolastico, come qualsiasi leader aziendale di successo, “coordina” e “valorizza” le risorse umane, “rispetta” le competenze degli organi collegiali, facendoli ben funzionare, punta al “benessere organizzativo”, è attento alla comunicazione, cura la qualità dei processi formativi, sapendo che deve misurarsi con diritti riconosciuti in Costituzione, tanto del personale docente quanto dell’utenza. Il bravo dirigente è capace di riconoscere e sanzionare chi non fa il suo dovere, di aiutare con la sua autorevolezza chi ha qualche difficoltà, di coinvolgere e guidare l’organizzazione verso gli obiettivi da raggiungere, di motivare i 27

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docenti mettendoli in grado di lavorare al meglio. Con l’ultima tornata concorsuale si è cercato di selezionare e formare dirigenti il più possibile all’altezza del proprio ruolo. Ma quale insegnante, dopo l’avvento dell’autonomia, non si è imbattuto in qualche dirigente che a scuola non ci dovrebbe stare? L’identikit del pessimo dirigente scolastico è presto fatto: un burocrate, non un leader. Per farsi ascoltare deve urlare, per farsi ubbidire deve minacciare, per comandare deve sanzionare. Per lui il confronto è un affronto. In collegio perde le staffe. Non lesina il sarcasmo, ma non tollera la battutina. La comunicazione è giurassica, benché arrivi online. I sindacati lo sanno bene. Mega collettori di quotidiane lamentele, riconoscono che oggi funzionano le scuole dove ci sono dirigenti scolastici autorevoli e di “buon senso”. Al contrario, regna un pessimo clima dove i dirigenti sono autoritari, con comportamenti spesso vessatori nei confronti dei docenti. Si lavora sotto stress, non ci si sente valorizzati, si fanno le cose perché si deve, si cerca la via di salvezza facendo il minimo. (Anna Maria Bellesia, La tecnica della scuola)

Occupandomi fondamentalmente dei meccanismi dell’educare (ex ducere, accompagnare, condurre all’esterno), mi rendo conto che a questo opuscolo, già estremamente riassuntivo e incompleto, mancherebbe qualcosa di essenziale se non accennassi ai criteri di selezione normalmente adottati all’estero per scegliere insegnanti e dirigenti scolastici. Per motivi di trasparenza e attendibilità, non si diventa docenti o dirigenti scolastici per concorso pubblico – nel nostro paese, spesso, fonte di scandali, equivoci e irregolarità. Oltre alle competenze e alla laurea specifica nelle materie di insegnamento, il futuro insegnante deve aver avuto esperienze lavorative consistenti in ambiti non-scolastici, aver assunto mansioni di comando e gestione delle risorse umane per almeno 3/5 anni (associazioni sportive, aziende, servizio militare, enti benemeriti, Scout, ecc.). L’asticella è posta molto in alto. 28

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La sommatoria dei vari titoli e crediti porta alla selezione dei soggetti più idonei, i quali, prima di salire in cattedra, seguono un corso teorico-pratico di un anno in pedagogia e metodologia, affiancati, ciascuno, da un tutor, un docente in servizio, che per un intero anno scolastico lo affianca nella programmazione didattica e nella conduzione di lezioni frontali, progetti, viaggi di istruzione e varie attività extrascolastiche. Periodicamente e senza preavviso, un ispettore didattico segue le lezioni tenute dai candidati e ne valuta l’impatto didattico. Nel mio anno di tirocinio teorico-pratico, in Svezia, in cui fui fortunosamente ammesso grazie a una quota parte destinata a candidati stranieri, tutti gli aspiranti alla cattedra hanno superato brillantemente il corso. Ma si possono avere dubbi in proposito, dati i pre-requisiti d’obbligo? Trenta anni fa correva voce a Goteborg che fosse più facile diventare ministro che insegnate. I dirigenti scolastici vengono selezionati fra gli insegnanti con almeno 10 anni di ruolo e seguono anche loro un corso teoricopratico in gestione delle risorse umane, amministrazione e legislazione, affiancati da un dirigente anziano e navigato. Troppi aspetti della riforma 2015 sono anacronistici, in palese controtendenza rispetto alle consolidate pratiche democratiche dei paesi più competitivi. Ne emerge una disposizione alla schizofrenia che il popolo della scuola, gli amanti della cultura non potranno mai accogliere benevolmente. Sotto questo punto di vista, allo scopo di essere più preciso, devo ricorrere a un documento di straordinaria importanza, la lettera del Giudice Ferdinando Imposimato al presidente della Repubblica, di poco precedente l’approvazione della legge sulla Buona Scuola alla Camera, con il quale il magistrato si appella a Sergio Mattarella. 29

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Illustre signor Presidente della Repubblica, so bene che le possibilità che lei non firmi la legge sulla buona scuola sono poche. E tuttavia, in un momento grave per le sorti della democrazia e della libertà, sento il dovere di rivolgermi a Lei, quale massimo garante della Costituzione, per dare un contributo di conoscenza sul problema complesso e per richiamare la Sua vigile attenzione sulla opportunità, prima di promulgare la legge, di chiedere, in base all’art. 74 della Costituzione, con messaggio motivato alle Camere, una nuova deliberazione che sia conforme alla lettera e allo spirito della Costituzione repubblicana. 1. La democrazia è un sistema di regole stabilite inderogabilmente, dalla Costituzione, ex art. 1, e vincolanti per Parlamento e Governo. Ebbene queste regole non sembrano essere state osservate al Senato con il voto di fiducia sulla legge. Infatti la fissazione di “linee guida per valutare il premio dei docenti”, che poi avrà incidenza sulla carriera dei docenti, premiati e non, è prevista, nella legge approvata al Senato con la fiducia, entro il 2018, con una delega generica al Governo su una materia fondamentale. Ciò va contro l’art. 76 della Costituzione, per il quale “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, principi e oggetti che mancano del tutto nella legge de quo agitur. Inoltre l’art. 72 della Costituzione prevede che “la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa”. 2. Dopo oltre 15 anni di assenza di regole su reclutamento e utilizzo del precariato istituzionalizzato con la l. 143/2004 e con la l. 128/2013, la Corte di Giustizia Europea con sentenza 26 novembre 2014, ha condannato l’Italia per violazione della Direttiva 1999/70/CE, avendo costretto al precariato 400 mila docenti benemeriti privati del diritto al lavoro e alla dignità. Situazione non eliminata dalla legge sulla scuola. La precarietà e gli stipendi inadeguati di docenti precari e di ruolo violano l'art 36 della Costituzione secondo cui “il lavoratore – tra cui l'insegnante – ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del 30

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lavoro svolto e comunque tale da garantire una vita libera e dignitosa”. E 600 euro al mese per i precari e 1800 euro per i docenti di ruolo dopo 30 anni non sono tali da garantire una vita libera e dignitosa. Il mancato rispetto della sentenza della corte di Giustizia da parte del Governo viola: 1) l’art. 10 della Costituzione secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, tra le quali rientra la direttiva 1999/70/CE, nonché 2) l’art. 117 della Costituzione secondo cui “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, tali essendo anche quelli derivanti dalla Sentenza della Corte di Giustizia europea relativa alla stabilizzazione dei precari. 3. Nella legge i poteri di gestione della scuola, prima affidati al solo dirigente scolastico, sono stati poi affidati a un organo collegiale. A scegliere gli insegnanti più meritevoli, sarà un “Comitato di sette membri, tra cui il preside, tre docenti insediati dal Consiglio di Istituto e per metà dal collegio dei docenti, un membro esterno, un genitore e uno studente, che individueranno i migliori e più impegnati tra i docenti da valutare”. Tutto ciò con conseguenze inaccettabili sulla armonia tra i docenti e sulla imparzialità nella gestione della scuola. Questa norma si pone in contrasto con la Costituzione. Infatti i criteri di valutazione del merito dei docenti vanno stabiliti per legge e non attribuiti a scelte discrezionali di presidi, dirigenti scolastici o comitati di cui fanno parte membri esterni, genitori e studenti, che non sono né ben informati sul rendimento, né imparziali. Infatti l’art. 97 stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Ma viene violato anche l’art. 33 della Costituzione sulla libertà di insegnamento: un docente che dovrà essere giudicato da un comitato di cui faranno parte anche i genitori degli studenti, un rappresentante degli stessi studenti e un membro esterno, non sarà più libero, ma sarà condizionato da interferenza di soggetti non imparziali. 31

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4. Un aspetto centrale del ddl sulla “Buona Scuola” riguarda il corretto finanziamento delle scuole private, paritarie e statali. Primo punto. La riforma prevede (art. 17) per i contribuenti italiani la possibilità di donare il 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche alle scuole statali o alle scuole private. Il punto in questione ha portato plurime novità negative. E ciò per l’aumento dei beneficiari privati idonei ad ottenere le donazioni. Passati da 50.000 a quasi 96.000. Questo metodo di distribuzione di risorse pubbliche premia le scuole pubbliche o private che hanno non solo più sostenitori, ma anche sostenitori più abbienti rispetto a scuole dislocate in zone povere, andando così ad accentuare diseguaglianze già esistenti tra le scuole. Ad esempio, riceverà un maggior finanziamento la scuola che si trova ai Parioli a Roma, rispetto alle scuole che si trovano a Centocelle, al Tiburtino e al Prenestino, per non parlare degli istituti scolastici di paesini poveri le cui scuole avrebbero un beneficio ancora minore. 5. Appare evidente che con l’art. 17 della legge si viola 1) l’art. 3.1 della Costituzione che afferma l’eguaglianza sociale dei cittadini: ci sarebbero cittadini e studenti di zone benestanti, avvantaggiati dal 5 per mille, rispetto a genitori e studenti, che frequentano scuole di zone con cittadini con redditi minimi o privi di reddito, che del 5 per mille non fruiranno; 2) l’art. 3 comma 2 della Costituzione, perché la Repubblica, sottraendo una parte delle imposte alla scuola pubblica, viene meno, per mancanza di risorse, al dovere di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, specie dei più poveri. Questi infatti non fruirebbero della donazione del 5 per mille a differenza dei più abbienti, e del diritto dovere dello Stato di istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi (ex art. 33.3) l’art. 34 della Costituzione sulla gratuità della scuola pubblica dell’obbligo. 6. Articolo 18. Il cosiddetto school bonus prevede benefici fiscali per chi versa denaro alle scuole. La norma contrasta con almeno tre articoli della Costituzione. Anzitutto con l’art. 53 perché i più ricchi godranno dei benefici fiscali previsti a favore di coloro che in cambio di “erogazioni liberali in favore di istituzioni scolastiche”, anche private. Invero, l’art. 53 della Costituzione, prevede che “tutti 32

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sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche – tra cui quelle per la scuola pubblica – in ragione della loro capacità contributiva”; i più abbienti fruiscono di benefici fiscali a scapito della scuola pubblica. Se tali fruitori pagassero le somme dovute a titolo di imposta, lo Stato potrebbe dare attuazione all’articolo 33 della Costituzione, secondo cui “la Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. La norma viola anche il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ex art. 3, esistendo lavoratori che vivono in zone o paesi ove queste erogazioni liberali – che tali non sono – non si verificano. Con l’ulteriore paradosso che se i cittadini benestanti pagano al fisco interamente le somme dovute, le scuole pubbliche non fruiscono di strutture, manutenzione e potenziamento, di cui godono paesi e zone ove vivono evasori fiscali. 7. Articolo 19 (Detraibilità delle spese sostenute per la frequenza scolastica). Ultima modifica in materia di agevolazioni fiscali consiste nelle detrazioni IRPEF, in favore delle famiglie che iscrivono i propri figli in scuole appartenenti al sistema nazionale di istruzione, per le spese sostenute per la frequenza delle scuole sopra indicate. La disposizione de quo riguarda di fatto solo le spese sostenute per la frequenza di scuole private e prevede una detrazione dall’IRPEF pari al 19% delle spese sostenute per la frequenza delle scuole sopra indicate. In tal caso vi è il finanziamento delle scuole private grazie alle somme versate dai contribuenti soggetti all’IRPEF, con una evidente violazione dell’art. 33 terzo comma della Costituzione secondo cui “enti e privati hanno i diritto di istituire scuole e istituiti di educazione senza oneri per lo Stato”, mentre in questo caso gli oneri per lo Stato sono rappresentati dalle detrazioni IRPEF che vanno a favore della scuola privata per le quali non si applica l’art 34 della Costituzione, essendo esse scuole non gratuite. E sarebbe violato anche l’art. 53 della Costituzione sul principio che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in proporzione della loto capacità contributiva. 8. Per contro, nessun beneficio va alle scuole pubbliche e alle famiglie non abbienti dall’art. 19. In realtà i senza reddito o quelli con reddito minimo hanno comunque il diritto-dovere di inviare i figli a scuola pubblica che è gratuita, in base all’art. 34 della Costituzione che stabilisce “l’istruzione inferiore, impartita per 33

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almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Le sole scuole che fruiranno del finanziamento sono le scuole private. Che non sono gratuite. La norma (art. 19) comporta come conseguenza che ingenti risorse pubbliche sono sottratte alla scuola pubblica, sicché la Repubblica, ancora una volta, non adempie, per mancanza di fondi, al dovere di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e privato che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 9. Individuate le principali novità introdotte in materia di agevolazioni fiscali dalla legge non ci resta che analizzare la scelta politica portata avanti dal governo: le presunte agevolazioni mostrano la volontà di riformare sensibilmente il modello di scuola italiano, non solo da un punto di vista strutturale, ma soprattutto da un punto di vista culturale, sociale ed economico. È evidente la spinta sempre più netta verso un sistema di finanziamento pubblico della scuola privata e un finanziamento privato della scuola pubblica, in netta contrapposizione con l’idea di istruzione pubblica, di qualità e accessibile a tutti così come previsto dalla Costituzione agli articoli 3, 9, 33 e 34. Nel nostro caso sarebbe violato l’art. 9 della Costituzione, secondo cui la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, poiché la destinazione delle risorse alla scuola privata non lo consentono. 10. Il nostro appello ad agire ai sindacati confederali è caduto nel vuoto: una sterile e inutile critica è l’ultimo atto di una sostanziale inerzia di fronte alla legge. Si può pensare di difendere la scuola pubblica con discorsi moralistici come “la legge non risolve il problema del precariato, mortifica la partecipazione e la collegialità, non rispetta la libertà di insegnamento, propone una idea distorta di valutazione e di merito”? Mentre nessuna iniziativa decisiva contro la legge vi è stata da parte dei sindacati? Le parole sono e restano vacui suoni, e la strada per la perdizione è stata sempre accompagnata a finte proclamazioni di devozione a un ideale: la libertà e l’eguaglianza dei diritti sociali non si attuano con quello che si dice, ma con l’applicazione e l’azione, mancate nel momento più 34

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grave dell’attacco alla Costituzione, il cui nome e le cui violazioni non compaiono nel manifesto dei sindacati. Queste osservazioni affido alla Sua attenzione, signor Presidente, segnalando i molteplici profili di incostituzionalità della legge nella speranza che Ella, in base agli artt. 54 e 74 della Costituzione, possa chiedere alle Camere una nuova deliberazione sul disegno di legge sulla Buona Scuola. Con i sensi della più alta considerazione Ferdinando Imposimato

Ma ritorniamo ora all’analisi della questione da un punto di vista educativo e antropologico. Da quando ho iniziato a mettere nero su bianco l’aspetto più strettamente inerente l’organizzazione didattica e a parlarne con colleghi, genitori e amici, l’obbiezione prevalente alle mie argomentazioni si può riassumere così: – “Qui da noi, in Italia, queste americanate non attecchiranno mai. Siamo culturalmente troppo diversi.” In effetti, il cambiamento è materia complessa da dominare. Mutare atteggiamenti e routine acquisiti nel corso di anni è cosa ardua, eppure, l’umanità non ha fatto altro che cambiare negli ultimi 10 mila anni. Ogni difficoltà è solo una nuova sfida, come mille altre già affrontate e vinte dall’uomo. L’età della pietra non si è conclusa perché sono finite le pietre. E credo che troveremo nuove fonti di energia, più pulite e più economiche del petrolio, prima che questo venga a mancare. Dunque, cambiare si può e si deve. Lo sanno bene le aziende di successo, le società sportive, il mondo della scienza, che non ubbidiscono certamente ai più disparati e singolari retaggi culturali, bensì a rigorose logiche e sistemi di governance meritocratici e efficientistici. Solo il timore di perdere certi equivoci incentivi, certi privilegi acquisiti, spinge chi ci governa a farci credere che questi modelli vincenti, che ho riassunto in modo sicuramente troppo breve e 35

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incompleto, siano americanate. È un malizioso pretesto cercare scusanti nelle nostre origini levantine, che ci impedirebbero fisiologicamente e fatalmente di fare meglio. Vi sono persone in posizioni di comando che, pur di lasciare le cose come stanno, ripetono: – “Chi lascia la strada vecchia per una nuova… ecc., ecc.”. Conosciamo fin troppo bene la litania. Altri, imperterriti, pur sapendo di aver toccato il fondo, preferiscono iniziare a scavare, pur di scongiurare qualsiasi ritocco allo status quo, in potenza capace di far perdere loro privilegi e diritti acquisiti. A mia memoria, infatti, non mi pare che alcuna riforma sia mai stata introdotta dal basso. Ma come mai gli insegnanti sono sempre stati lasciati fuori da ogni tavolo negoziale? Come mai le consultazioni e il confronto con il corpo dei docenti ha sempre avuto un carattere puramente simbolico? Una risposta, l’avrei, per quanto banale: perché gli insegnanti possono davvero cambiare le cose e fare la differenza! Qualche politico, particolarmente feroce, concepisce slogan d’effetto populisti, giungendo a definire la nostra scuola – i cui docenti sono i meno pagati d’Europa e non ricevono un adeguamento salariale dal 2008 –, uno stipendificio. Sono persuaso che dovrebbe essere posto un limite alla faccia tosta di certi nostri governanti – prima ancora che ai loro vitalizi, privilegi, rimborsi, pensioni inverosimili e indennità che non hanno paragoni nel panorama politico mondiale. Scherno e irrisione sono le principali contromosse adottate da un apparato egemone come il nostro, di ispirazione solo formalmente e pallidamente democratica, nella speranza che la minaccia si estingua da sé, che i facinorosi innovatori esauriscano la spinta per sfinimento, e abbandonino il folle progetto in silenzio, senza fare troppo rumore. I grandi alleati del sistema sono proprio l’arrendevolezza, l’indifferenza e l’apatia. 36

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È fondamentale che qualsiasi nuova scuola tuteli e incentivi ogni suo docente, che non lo penalizzi, non aumenti il suo carico di lavoro, già gravosissimo (penso alla dissennata proposta di portare il carico didattico a 24 ore di lezione settimanali; ovvero all’infinità di documenti, statistiche e questionari da riempire a esclusivo uso dell’amministrazione, di cui essa stessa dovrebbe occuparsi, poiché nulla hanno a che vedere con la didattica). Una scuola veramente riformata non distrae i prof dal loro compito fondamentale, quello educativo, per oberarli di mansioni burocratiche che esulano dalla funzione di docenza. Tali impegni logorano, tolgono lucidità all’azione educativa. Ne può solo risultare un imperdonabile spreco di intelletto. Chi chiederebbe all’allenatore di una squadra, intento a suggerire ai suoi giocatori una mossa vincente, di fare anche il raccattapalle – giacché è lì… a bordo campo…? Su questa riforma della scuola l’Italia, i nostri figli e i nostri nipoti, si stanno giocando una carta molto importante, forse l’ultima disponibile per non perdere l’appuntamento con un futuro dignitoso. È evidente che questa legge sulla scuola è considerata da docenti e costituzionalisti un balzo indietro di 80 anni, che insidia pericolosamente il futuro stesso della democrazia. Solo questo aspetto giustifica la veemente protesta che si sta sollevando in modo spontaneo e inaspettato. Il mio obiettivo, divulgando questo opuscolo, è far sì che le tre mosse descritte sopra vengano prese in considerazione da alcuni legislatori e dai più sensibili esponenti sindacali – i quali fino ad oggi hanno trascurato le questioni epistemologiche del mondo della scuola, occupandosi troppo prevalentemente di questioni tecniche e contrattuali. È una insperata sorpresa, tuttavia, veder nascere spontaneamente associazioni e movimenti politici abbastanza anticonvenzionali da lasciar finalmente sperare in un 37

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cambiamento di rotta: un crescente numero di cittadini abbastanza indipendenti, informati e coordinati da mettere in crisi l’apparato costituito. Nel frattempo, conto su una diffusione di questo opuscolo, stampato con il contributo di molti responsabili sostenitori, perché tutto il popolo della scuola comprenda l’importanza di una rinnovata solidarietà da parte di ogni soggetto privato e di ogni apparato istituzionale verso il corpo dei lavoratori docenti della scuola italiana. Cito l’assennata dichiarazione dell’ex ministro dell’istruzione, il prof. Tullio De Mauro: “200 giorni di scuola in Danimarca, Liechtenstein. Paesi Bassi e Italia; 185 in media negli altri paesi europei. Chi blatera sugli insegnati sfaccendati e privilegiati dalle troppe vacanze, non solo dice sciocchezze ma, contribuendo ad abbassarne la stima sociale, concorre alla loro demotivazione e danneggia quindi l’intero sistema dell’istruzione.”

Rendere veramente buona la nostra scuola resta un compito, a tutt’oggi, da attuare, non un confuso disegno da declamare e auto-celebrare prematuramente.

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Il lavoro di un insegnante calcolato in ore Â

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Questo opuscolo è, in realtà, una lettera aperta ai nostri giovani, ragazzi e ragazze, e a tutti i genitori. Contiene informazioni preziose per capire a quali condizioni, oggi, è ancora possibile progettare un avvenire dignitoso e ricco di opportunità, grazie anche alla scuola. Sarà una lettura che aiuterà a dissipare la nebulosa polemica sul delicato argomento della riforma. Sarà in grado la scuola di migliorare l’offerta formativa e, finalmente, essere competitiva sul piano internazionale? Giovani e meno giovani capiranno, finalmente, 1. a quali condizioni e in base a quali principi fondanti può e deve funzionare un moderno sistema di istruzione, analizzando i sistemi di istruzione più avanzati e, inevitabilmente, 2. che aspetto avrà la nostra scuola dopo l’approvazione della riforma (luglio 2015).

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