Lino Lavorgna - Visioni Europee" - Archivio 2015

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L’importanza di sentirsi “Europei” Se uno vive in un spazio angusto, con famiglia numerosa, è naturale che sogni una grande villa, con piscina e tanto verde. Non sempre ciò è possibile, naturalmente. Questo esempio serve a spiegare le immani sciocchezze perpetrate da chi, potendo agevolmente “effettuare il trasloco”, vi rinuncia. Lo spazio angusto, che tanti guasti ha prodotto nel corso dei secoli, si chiama “nazionalismo”. La villa meravigliosa, la meta “a portata di mano” e purtroppo vessata per ragioni che affronteremo dettagliatamente in questa rubrica, mese dopo mese, si chiama “Europeismo”, termine che caratterizza chi ama l’Europa e la sogna unita. Oggi, purtroppo, non è facile parlare di “Europa Unita”, a causa dei rigurgiti di nazionalismo presenti un po’ ovunque, conditi di quel qualunquismo che è il cibo preferito di chi resta prigioniero del proprio “orticello”. Iniziamo questo viaggio alla scoperta del nostro continente, pertanto, citando degli aforismi di personaggi che s’innalzano sugli altri, e non di poco, per la loro statura “etico-morale”, per la loro cultura, per la storia personale, per il lascito di civiltà e di “esempio” destinato ai posteri. Uno di loro non è nato in Europa, ma il suo “universalismo” rende ancora più pregnante l’allargamento dei confini, concettuali e reali, che s’intende proporre. Il primo personaggio è Hermann Hesse, che tra i tanti meriti vanta anche un premio Nobel per la letteratura. Un suo aforisma recita testualmente: “Nonostante il tenero amore che nutro per il mio Paese, non ho mai saputo essere un grande patriota né un nazionalista. Ben presto è nata in me una diffidenza verso i confini e un amore profondo, spesso appassionato, per quei beni umani che per loro natura stanno al di là dei confini, che creano altri rapporti oltre a quelli politici. Col passare degli anni mi sono sentito ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide”. Isabelle Allende, dal suo canto, con la sofferenza nel cuore per le sue tristi vicende, mentre pativa l’esilio, ci ammonì con questo bellissimo pensiero inserito nel romanzo “D’amore e ombra”: “L'umanità deve vivere in un mondo unito, dove si mescolino le lingue, i costumi e i sogni di tutti gli uomini. Il nazionalismo ripugna alla ragione. In nulla beneficia i popoli. Serve solo affinché in suo nome si commettano i peggiori abusi”. Luigi Einaudi, il secondo Presidente della Repubblica Italiana, come tutti gli economisti, prediligeva la sintesi anche nell’eloquio e il suo anatema contro il nazionalismo si racchiude in una semplice frase: “I nazionalisti sono il veleno delle nazioni”. Una frase che, pronunciata dopo gli anni terribili della seconda guerra mondiale, da sola vale quanto un intero libro che spieghi dettagliatamente i mali del nazionalismo. Anche l’autore di questo articolo, senza alcune pretesa di mischiarsi con i grandi nomi citati in precedenza, nel lontano 1977, coniò un aforisma più volte ribadito


nel corso degli anni, ovunque fosse possibile pronunciare parole d’amore per contrastare quelle che incitavano all’odio, al razzismo, alle divisioni: “Nessun essere umano ha colpe o meriti per il luogo in cui nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. Acquisire una coscienza “Europea” vuol dire “allargare i propri orizzonti”, uscire da quegli spazi angusti che opprimono e fanno stare male. Vuol dire scoprire un continente meraviglioso che ha dato i natali a uomini meravigliosi. Questa rubrica si prefigge di stimolare l’interesse per la “Patria comune”, che ciascuno, poi, potrà affinare con un percorso personale che di sicuro lo farà diventare più ricco interiormente. La meta è un sogno chiamato “Stati Uniti d’Europa”. L’augurio è di riuscire a vedere il sogno trasformarsi in realtà. Lino Lavorgna (ALBATROS – GENNAIO 2015)


Uno degli aforismi più celebri di Oscar Wilde recita testualmente: “L'uomo ha un'insaziabile curiosità di conoscere ogni cosa, eccetto quelle che meritano di essere conosciute”. Le “radici” sono importanti, ma non sono molti coloro che si preoccupano di approfondirle. Il termine Europa, come concetto geografico, era già noto in epoca pre-cristiana e indicava tutte le terre a ovest della Siria, l’antica Fenicia. Bisogna attendere la fine del VI secolo, però, affinché il monaco e missionario irlandese Colombano, assurto agli onori della Santità, ne parlasse con peculiarità vicine alla nostra percezione. Un altro monaco, Isidoro Pacensis, definì “Europei” i soldati di Carlo Martello che fermarono l’espansione araba a Poitiers, nella famosa battaglia del 732. Questi concetti, qui espressi sinteticamente, assumono un’importanza fondamentale alla luce di problematiche che affioreranno nei secoli a venire e che, in massima parte, persistono ancora. Il mancato riconoscimento delle radici cristiane nella moderna costituzione europea, ad esempio, reso necessario dalla banalissima constatazione che esse non sono state le sole e non necessariamente positive, è ancora oggi oggetto di aspro scontro politico. Ritorneremo in futuro su questi importanti argomenti, ivi compresi quelli che riguardano il ruolo di Carlo Magno, che molti vedono come il “padre dell’Europa”, la qualcosa è una delle mille “bufale” tramandate generazione dopo generazione sui testi di storia. Parliamo, invece, di una distonia interpretativa che ha alimentato non poca confusione. Non vi è epopea umana che non affondi le radici nel “mito”, la cui importanza, già riconosciuta dai sofisti, che in esso vedevano il rivestimento fantastico di un fatto reale, sarà conclamata nel corso dei secoli grazie al contributo di filosofi, sociologi e psicanalisti. Il “mito” ci rimanda al famoso “ratto di Europa”, perpetrato da Zeus, che si trasformò in toro per sedurre la bella principessa, figlia di Agenore, re dei Fenici. Da Zeus ed Europa nacquero tre figli. Il primogenito, Minosse, subentrò come re di Creta al padre adottivo Asterione, che aveva sposato Europa quando Zeus, capriccioso e volubile come tutti gli Dei, si dedicò ad altre fanciulle. Da quel momento, i Greci, in segno di omaggio per la moglie e madre dei due re di Creta, chiamarono “Europa” i territori a nord dell’isola. La genesi simbolica dell’Europa, pertanto, scaturirebbe da uno dei tanti capricci di Zeus e da una “violenza carnale”. Questo aspetto “del mito”, con variegate sfumature, si ripete ciclicamente anche in altri contesti, non solo


europei, quasi come se alle origini di ogni evidenza storica vi debba essere sempre una “macchia” che ponga in rilievo tanto i limiti della natura umana quanto quelli “divini”. La ricostruzione della leggenda del “ratto”, però, si presta a una diversa interpretazione sol che si analizzino correttamente le “fonti letterarie” e la ricca iconografia succedutesi nel corso dei secoli. Su tutto brilla ciò che scrisse Ovidio, nelle “Metamorfosi”: “Nulla di minaccioso ha l’aspetto, né lo sguardo incute paura; l’espressione è foriera di pace. La figlia di Agenore si stupisce ch’esso sia così prosperoso, che non minacci nessun assalto […] Ma poi gli si accosta e a quella testa così bianca offre fiori. Ne gioisce l’amante, e nell’attesa che giunga la sperata voluttà, alle mani di lei porge baci […] E ora si scapriccia e balza sull’erba verde, ora distende il niveo fianco sulla sabbia bionda; e a poco a poco, al cessar del ritegno, ora offre il petto da palpare alla fanciullesca mano, ora le corna da avvincere con nuove corone”. Le numerose rappresentazioni iconografiche non sono meno eloquenti: in nessuna di essa è percepibile “la volontà di violenza” da parte di Zeus e in tutte, “Europa”, appare serena e felice. Quale donna resisterebbe alle avances di un Dio, del resto, o al “Lancillotto” di turno? Il termine “ratto”, pertanto, può essere tranquillamente sostituito con “invito”, ponendo riparo a una fastidiosa interpretazione del mito. Anche se è solo leggenda, infatti, l’Europa è una realtà troppo grande e bella per tributarle una genesi che rimanda a una violenza carnale. Ammirando le opere dei pittori che hanno raffigurato l’unione di Zeus con Europa è facile rendersi conto di quanto sia impropria la definizione di “ratto”. Fino al prossimo mese di maggio, poi, nella ridente cittadina sannita di Sant’Agata de’ Goti, è attiva una mostra che espone il “Cratere di Assteas”, stupendo reperto archeologico realizzato nel terzo secolo A.C. Anche in esso è ben evidente la dolcezza di “Europa”, comodamente assisa sul dorso di Zeus e già presaga delle ore liete che l’aspettano tra le braccia di un Dio. (Lino Lavorgna)


IL CRATERE DI ASSTEAS


“IL RATTO DI EUROPA” – FRANCOIS BOUCHER


NESSUNO VUOLE LE GUERRE. PERCHE’ SCOPPIANO? Lino Lavorgna

Venti di guerra in Europa dopo settanta anni. Una guerra che nessuno vuole, ovviamente, a cominciare da Putin e Merkel, i cui due paesi sono legati da solide relazioni commerciali e da un vivace scambio culturale. Eppure le guerre scoppiano. Nessuno voleva la prima guerra mondiale, per esempio. Non la voleva Guglielmo II, che con la pace vedeva prosperare la potenza economica della Germania (toh: corsi e ricorsi). Non la voleva Poincaré, ben consapevole che la Francia, ancora scossa per la batosta di Sedan e per la perdita dell’Alsazia-Lorena, non era pronta per una nuova guerra contro la Germania, che tra l’altro l’aveva superata demograficamente, togliendole il primato di nazione più popolosa del continente. Non la voleva Nicola II, pacifista, mediocre, tranquillo, amante della caccia, della bella vita di corte e anch’egli ben consapevole che un esercito in grado di combattere una guerra non sarebbe stato pronto prima del 1917. Eppure… Gli attriti tra i vari stati, che coinvolgevano anche l’Inghilterra, cui premeva solo il mantenimento dell’impero coloniale, ebbero il sopravvento e la guerra scoppiò. Il nazionalismo, che induce a vedere gli altri come potenziali nemici, fu la scintilla da cui scaturì il grande incendio. Incendio alimentato dalla “volontà egemonica”, che in quell’epoca riteneva del tutto naturale “sottomettere” altri simili, anche e soprattutto in modo violento, per accrescere il proprio ruolo al cospetto del mondo, acquisire ricchezze e migliorare la qualità della vita, prescindendo da quella altrui. (Uno dei principali “attriti” riguardava proprio la “divisione” e lo sfruttamento delle colonie). Sono passati cento anni. Cosa è cambiato? Poco a quanto pare. I nazionalismi prosperano e gli interessi commerciali fungono da deterrente solo nei consigli di amministrazione delle grandi aziende. I governanti, purtroppo, pur non essendo “guerrafondai”, non riescono ad attuare quelle politiche congiunte in grado di assicurare una “vera” pace duratura. Per mancanza di coraggio? Per viltà? Per inadeguatezza al ruolo? Certamente queste componenti sono importanti, ma al primo posto vi è la paura di compromettere, con alcune scelte, il proprio “potere”, che scaturisce dal consenso elettorale di europei confusi e delusi. E pazienza se il rischio è la guerra. Ribadiamolo a mo’ di mantra, allora, affinché sia ben chiaro! Non esiste alternativa agli STATI UNITI D’EUROPA; all’Europa dei Popoli sotto un’unica bandiera, che rispetti le etnie! Non esiste alternativa a una ridefinizione dell’assetto geografico, che privilegi “le Regioni Europee”, riunite in uno Stato federato, nel quale ciascuno possa sentirsi legato agli altri, perché “finalmente” non si sente più sottomesso e dominato. (Ogni riferimento alla situazione attuale è puramente “voluto”).


Fu facile profeta, George Sorel, quando scrisse, nel 1906: “L’Europa è per eccellenza la terra delle catastrofi belliche. In America si sono potuti federare popoli in tutto simili, abitanti in Stati in tutto simili. Bell’affare! Ma come fareste a federare degli slavi, religiosi o mistici rivoluzionari; degli scandinavi giudiziosi; dei tedeschi ambiziosi; degli inglesi avidi di supremazia; dei francesi avari; degli italiani afflitti da una crisi di crescenza; dei balcanici bracconieri; degli ungheresi guerrieri? Come ristabilireste la calma in un simile cesto di granchi, intento a mordersi fra di loro tutto il santo giorno? Povera Europa! Perché nasconderle quello che l’attende? Entro dieci anni essa sprofonderà nella guerra e nell’anarchia”. E’ tempo di emanciparci e di storicizzare una profezia ancora tremendamente attuale. Non possiamo contare sulla “politica”, per le ragioni sopra esposte. La società civile, pertanto, deve trovare nel suo seno le risorse per “elevarsi”, soprattutto culturalmente. Solo in tal modo si creeranno i presupposti per delegare il potere politico a persone in grado di scrivere nuove pagine di “Grande Storia”, avviando un serio processo di unificazione. Si può partire da una frase di un “Grande Europeo”, ferito nell’animo per il troppo sangue innocente versato: “Questi meschini europei hanno preferito logorarsi in lotte intestine, invece di assumere nel mondo il grande ruolo che i Romani seppero assumersi e mantenere per secoli”. Il suo nome è Paul Valéry, Scrittore e Poeta. Forse dovremmo imparare ad ascoltare di più sia gli uni sia gli altri. (Albatros – Marzo 2015)


TURCHIA E GENOCIDIO ARMENO: UNA FERITA APERTA. di Lino Lavorgna Il 24 aprile ricorre il centesimo anniversario del genocidio armeno. Nell’impero ottomano, oramai prossimo alla dissoluzione, si era affermato un progetto che vedeva al centro le popolazioni turche, omogenee per etnia, religione lingua e cultura. Per gli armeni, minoranza cristiana nel firmamento islamico, non vi era più posto. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 iniziò lo sterminio. Prima i militari e l’élite intellettuale e imprenditoriale, poi i vecchi, le donne, i bambini, allontanati a forza dai luoghi dove vivevano da millenni, deportati nei deserti di Siria e Mesopotamia e lasciati morire di fame e di sete. Oltre 1.300.000 le vittime, cui vanno aggiunte le decine di migliaia trucidate dal 1890. Oggi l’Armenia è un pacifico stato con poco più di tre milioni di abitanti, che portano nel DNA il retaggio di una tormentata storia. Ottenuta l’indipendenza dall’URSS nel 1991, ha risolto nel 1994 il lungo conflitto con l’Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, un'enclave armena in territorio azero, assegnata al governo di Baku da Stalin. Il tasso di emigrazione è molto alto, solo in parte compensato da chi rientra dalla “diaspora”. Il genocidio armeno rappresenta una delle pagine più buie e atroci della storia dell’umanità, sulla quale ricade una scarsa attenzione mediatica e culturale. La propensione diffusa è quella di “dimenticare”, lasciando prevalere i molteplici interessi nei confronti della Turchia, che proprio non ne vuole sapere di riconoscere il genocidio, ammettendo le responsabilità dei “Giovani Turchi”. Storia analoga a quella delle “foibe”, per anni “dimenticate” onde non dispiacere a Tito, che faceva comodo all’Occidente in chiave anti URSS. Vorrei dilungarmi a parlare degli Armeni, del loro “spirito” e della profonda umanità. Questa rubrica, però, è dedicata all’Europa e quindi le loro sofferenze servono come materia da mettere sulla bilancia per valutare se sia possibile l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Il problema non è di facile soluzione, anche a causa dell’esiguo numero di stati che hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio. Il non riconoscimento, ovviamente, non scaturisce dall’ignoranza, ma dal “pragmatismo opportunistico”. E’ chiaro che tutto sarebbe più semplice se la Turchia rompesse gli indugi e facesse davvero i conti con la propria storia, togliendo dall’imbarazzo “gli stati amici”. Purtroppo così non è. In Turchia, addirittura, si rischiano fino a tre anni


di carcere se si parla di “genocidio armeno”. Bene ha fatto la Francia, pertanto, varando una legge che in galera manda i “negazionisti”. Sarebbe opportuno che anche gli altri Stati seguissero il suo esempio. Sono agghiaccianti le argomentazioni addotte dai turchi per “negare” ciò che è testimoniato da migliaia di foto, da riprese video e dai ricordi dei sopravvissuti. La morte di migliaia di persone durante le deportazioni, che loro chiamano “trasferimenti”, non può essere considerata “genocidio” perché in parte si è provveduto a eliminare i “filo-russi” (la Russia sosteneva la causa armena per l’ottenimento dell’indipendenza) e tanti sono morti di “fame e di freddo”. Commenti non servono e consiglio a tutti la visione del bellissimo film dei Fratelli Taviani, “La masseria delle allodole”, nonché dei tanti documentari reperibili in rete e un altro stupendo film, “Ararat”, diretto da Atom Egoyan, per “entrare” nel cuore del genocidio e rendesi conto di quanta ferocia sia stata riversata su una comunità pacifica e laboriosa. Tutto ciò premesso, resta il dilemma se un popolo debba pagare o no il fio per il comportamento dei propri governanti. Ho sempre sostenuto che le grandi decisioni storiche debbano prescindere dalla realtà contingente, destinata a mutare. In Turchia, però, non è ancora possibile scindere il pensiero dei governanti (tra i quali, è bene ricordarlo, vi è un vice-ministro che ritiene non sia lecito, per le donne, ridere in pubblico e utilizzare troppo il cellulare; che tutti dovrebbero votarsi alla castità; che televisione e media mostrano troppo sesso) da quello della maggioranza del popolo, che registra ancora un netto “ritardo” nell’acquisizione dei più elementari principi di democrazia. Con questi presupposti, e per altre ragioni non meno valide e non menzionate in questo articolo, acquisiscono maggiore valenza, almeno per ora, le tesi di chi è contrario all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. (ALBATROS – APRILE 2015)





Qualche anno fa ero al seguito di “Miss Motors International”, un fashion award che, dopo un tour di 15 giorni, culminava con un evento a Roma. Oltre cinquanta modelle, provenienti da tutto il mondo, ma in massima parte europee, concorrevano per l’ambito titolo, foriero di lauti contratti professionali. Nel corso di una trasferta proposi un argomento a una decina di modelle: ciascuna avrebbe dovuto indicare una lingua comune per l’Europa, da studiare sin dalle elementari, in modo che fungesse da lingua ufficiale. Avevo previsto le reazioni, ma la discussione assunse toni ancora più accesi, dilatandosi su altri aspetti. Lo scontro più “violento” avvenne tra la modella macedone (studentessa universitaria ventenne) e il titolare dell’agenzia cui faceva capo: un giornalista quarantenne di Atene, laureato. Costui, nonostante il dislivello culturale, si abbandonò a un’eccessiva vis polemica, portando alle lacrime la ragazza. Con inaudita violenza verbale, infatti, accusava i macedoni di aver “usurpato” il nome dello stato e di alimentare una confusione storica su Alessandro Magno (nato a Pella, in Grecia, nella regione che nel IV secolo A.C. si chiamava proprio Macedonia). La giovinetta cercava di replicare, non senza difficoltà, che era nata nel 1991, un mese dopo la proclamazione della Repubblica; che a scuola aveva ben studiato la storia greca; che non gliene fregava nulla di “Alessandro il Macedone” e che, soprattutto, non si sentiva responsabile del nome scelto dai suoi governanti. Si dichiarava “macedone” perché nata in “Macedonia”, proprio come chi nasce in Grecia si definisce greco e così via. Fui costretto a intervenire per sedare la discussione e riportarla nell’ambito gioioso che mi ero prefisso, evitando che sfociasse in derive sgradevoli. Dovetti faticare un po’. La modella francese, infatti, colse la palla al balzo per aggredire colei “che avrebbe dovuto rappresentare il Belgio”, secondo gli accordi intercorsi con l’agenzia che l’aveva inviata. “Avrebbe dovuto”, perché all’atto dell’accredito con un gesto sprezzante, rifiutò la fascia con la scritta “Miss Belgio”: “Mi dispiace – esclamò alla presenza di tutti – ma io non rappresento quei rozzi e lavativi Valloni. Io sono “Miss Fiandre” e rappresento solo le Fiandre”. Non volle sentire


ragioni e dovemmo preparare, a poche ore dal “Gran Gala di presentazione”, una nuova fascia raffazzonata e con lettere adesive. Circa la lingua, si sentì di tutto. Coloro che proprio non potevano “aspirare” a proporre la propria, sempre con il tono sprezzante dei nazionalisti incalliti, espressero un fermo e deciso diniego nei confronti di una lingua ufficiale. La serba e la montenegrina, che facevano coppia fissa senza legare con nessuno, erano le più determinate. La francese ebbe facile gioco nel sostenere che la sua è già la lingua ufficiale della diplomazia e quindi le sembrava la soluzione più idonea. L’inglese, supportata dalle colleghe di Irlanda, Scozia e Galles, (al fashion award partecipavano anche delegate delle regioni europee più importanti), dal suo canto, non voleva nemmeno discutere: per lei non vi era dubbio alcuno su quale dovesse essere la lingua comune. L’italiana, manco a dirlo, parlò del paese dell’arte e della cultura per eccellenza. La meta da raggiungere, Bisceglie, era prossima, e quindi decisi di chiudere il discorso, cercando di infondere alla mia voce il tono più dolce e cordiale possibile: “Care amiche e cari amici, questa interessante conversazione ha messo in luce quanta strada debba essere ancora percorsa affinché l’Europa possa davvero considerarsi una “nazione unita”. Nessuno ha fatto passi indietro. Vi invito, però, a considerare una sola cosa: tutti noi rappresentiamo una dozzina di stati europei e stiamo discutendo da oltre un’ora… in che lingua? Avremmo potuto confrontarci, così animatamente, esprimendoci nelle nostre rispettive lingue? Penso di no. E la conoscenza della lingua che abbiamo utilizzato, per voi modelle, costituiva un requisito obbligatorio ai fini dell’ammissione, qui come altrove. Riflettiamo, quindi, tanto su questo dato quanto sulle “divisioni”, in particolare su quelle sciocche e pretestuose”. Non vi è bisogno che scriva quale fosse la lingua conosciuta da tutti e non nascondo che provai un pizzico di compiacimento nel vederli silenti e sorpresi. L’idea degli Stati Uniti d’Europa, con una lingua comune, almeno in quella circostanza, guadagnò una dozzina di fans. Forse. (ALBATROS – MAGGIO 2015)




Negli ultimi quindici anni oltre trentamila profughi hanno perso la vita tentando di raggiungere le sponde dell’Italia, inseguendo un sogno di libertà. Dal 2010 si contano circa cinquecentomila profughi soccorsi e ospitati nei campi di accoglienza. Queste le cifre, destinate a incrementarsi sensibilmente, perché dall’Africa e da alcuni paesi dell’Asia la fuga è l’unico rimedio alla morte certa per fame, sevizie, torture, guerra. Tutti parlano dei profughi ma pochi sanno ciò che realmente accada durante l’esodo, che a volte dura anni. La realtà supera ogni immaginazione e vede nei soggetti più deboli, donne e bambini, le vittime principali. Non troverete “ricette per risolvere il problema”, in questo articolo. Ve ne sono già troppe in giro e nessuna mi convince. Forse perché una vera “soluzione ottimale” non esiste, almeno in tempi brevi. Lucio Caracciolo, che di “geopolitica” se ne intende, è stato molto caustico: “Questo dramma occuperà il resto delle nostre vite. Va dunque gestito con speciale urgenza e cura. Ma senza illudersi di risolverlo con la forza. Se provassimo a farlo, lo renderemmo ingestibile. Otterremmo di moltiplicare le vittime, non di ridurle. Non ci sono scorciatoie militari — blocchi navali, aerei o terrestri — a meno di rioccupare la Libia”. (La Repubblica – 23-4-2015). E’ una delle dichiarazioni più sensate che abbia letto negli ultimi tempi, a differenza di quanto traspaia nei dieci punti sanciti dal vertice congiunto dei ministri degli Esteri e dell’Interno dell’Unione Europea, tenutosi il 21 aprile 2015. Amenità diplomatiche formali e senza costrutto a parte, il punto due prevede “uno sforzo sistematico per catturare e distruggere le imbarcazioni usate dai trafficanti”. Il che equivale a dire: “Catturare e distruggere tutte le automobili in circolazione per prevenire gli incidenti stradali”. Superficialità, ignoranza dei fatti e tanta ipocrisia sono i principali ostacoli alla vera risoluzione del problema, che ha radici antiche. Se non le comprendiamo a fondo e non partiamo da esse, non ne usciremo mai. La popolazione africana ammonta oggi a un miliardo e 100 milioni d’individui e raddoppierà nei prossimi trenta anni. Le condizioni sociali ed economiche di stati già “falliti”, in mano a governanti senza scrupoli, peggioreranno a dismisura. Non è azzardato, pertanto, ipotizzare un flusso continuo di profughi. Parliamo di decine di milioni. Forse di centinaia. Al di là dei buoni propositi di coloro che sono mossi da “spirito umanitario” e a prescindere dalle rozze speculazioni dei


razzisti ipernazionalisti, un dato è inoppugnabile: non è possibile accogliere tutte queste persone, assicurando loro una vita dignitosa. L’Europa ha la terribile responsabilità storica di aver colonizzato l’Africa, sfruttando uomini e risorse, senza preoccuparsi di favorire processi di sviluppo a lungo termine. Oggi, con affanno, cerca di individuare soluzioni che, necessariamente, fanno i conti con le ritrosie dei singoli governi e quindi possono solo essere soluzioni pasticciate, inutili e dannose. Quindi delle “non soluzioni”. Come giustamente osserva Caracciolo, è da stupidi pensare di risolvere il problema in tempi brevi, ma un’attenta analisi può suggerire quanto meno la strada da “iniziare a percorrere”, per giungere a una “ragionevole soluzione”. E siamo sempre lì. Solo gli “Stati Uniti d’Europa”, uniti per davvero e non posticciamente, come avviene oggi, saranno in grado di “adottare i giusti provvedimenti”. Un vero governo Europeo, infatti, potrebbe prendere in seria considerazione quelle azioni che oggi sono precluse dalle conflittualità, palesi e recondite, e dall’ottusità di troppi politici, attenti prevalentemente agli umori dei propri elettori. Vi è da restare atterriti nel leggere i commenti che popolano i “social”, divenuti un validissimo strumento di analisi sociologica. Spaventa l’altissimo numero di persone che si compiacciono per i morti annegati e il crescente consenso tributato, a livello politico, a coloro che cavalcano l’onda del populismo più becero. Allo stesso modo, però, lasciano perplessi coloro che, demagogicamente, si approcciano al problema eludendone la gravità, esaltando il solo spirito umanitario. Incominciamo a capire le reali cause di questa immane tragedia. I demagoghi, ovunque alberghino, una volta tanto, facciano un passo indietro. Le decine di migliaia di morti che giacciono in fondo al mare dovrebbero indurre “tutti” a fermarsi. Prima che sia troppo tardi. (ALBATROS – GIUGNO 2015)


SENTIERI EUROPEI Concediamoci una pausa. La calura estiva mal si concilia con le problematiche comunitarie. L’antieuropeismo generato dall’Europa dei mercanti cresce a dismisura, penalizzando lo sviluppo di quella coscienza unitaria che è l’unica soluzione ai mille problemi che affliggono il continente. Ne riparleremo da settembre. In questo numero vogliamo suggerire un sentiero reale, non particolarmente famoso, che ci stupirà per la bellezza, consentendoci anche un viaggio nel tempo, alla scoperta delle “radici”. Distretto di Gmunden – Alta Austria. Partire da Gmunden, sul lago Traunsee, (il “lacus felix” dei romani), dopo due-tre giorni di permanenza, da dedicare alle escursioni sul lago e alle passeggiate nei sentieri agresti del monte Traunstein, alternando gli sport acquatici alla visione di panorami mozzafiato. Tre i castelli da visitare: il meraviglioso “Seeschloss Orth” (nel lago), “Cumberland” e “Weyer”. Le botteghe ceramiche sono numerose e tra le più rinomate al mondo. Costeggiando il lago, una quarantina di chilometri a sud, si arriva a Bad Ischl, incantevole cittadina termale dove si respira “retaggio asburgico” più che nella stessa Vienna. Ivi sbocciò l’amore tra la principessa “Sissi” e il futuro imperatore Francesco Giuseppe e tutto, nell’area circostante, parla di loro. La Kaiservilla, dono dell’imperatrice Sofia, ospita il museo della fotografia; nell’ex Hotel Austria, dimora fissa della coppia imperiale durante le vacanze, è invece ubicato il museo civico. Franz Lehár è sepolto lì e la sua residenza estiva è un museo da visitare senza indugio. Il viaggio prosegue verso SUD ed è consigliabile lasciare l’auto per raggiungere Hallstatt in pullman, dopo aver prenotato uno dei tanti alberghi che affacciano sull’omonimo lago per altri due o tre giorni. Siamo nel “cuore” dell’Europa. Molti di voi, in questo momento, stanno avvertendo, magari inconsapevolmente, i tipici fremiti della “pelle d’oca”. E’ il classico “retaggio ancestrale” che affiora. Le cose belle da vedere, nel “paese fatato”, sono davvero tante e la sola Hallstatt Viewing Platform vale il viaggio. In questo suggestivo e sperduto villaggio dell’Alta Austria si sviluppò la civiltà di Hallstatt, principale cultura protostorica della prima età del Ferro centro-europea, che poi si estese nel resto del continente, contribuendo, in modo incisivo, a determinare la struttura fisiologica dei futuri Europei. E’


patrimonio dell’Unesco, ovviamente, ma soprattutto “patrimonio spirituale” di ogni vero Europeo. Buone vacanze a tutti.

GMUNDEN

BAD ISCHL


HALLSTATT (ALBATROS – LUGLIO/AGOSTO 2015)


EUROPA: O UNITA O IN GUERRA Di LINO LAVORGNA

Parole chiare, nella loro estrema drammaticità, quelle del Presidente Mattarella, sintetizzate da un titolo che ho concepito volutamente “duro”. Siamo al “redde rationem” e non vi è più tempo da perdere con le ciance dei qualunquisti e le furbesche azioni dilatorie dei “potentati” cinici e spietati, intenti solo a salvaguardare il loro “agiato presente”. Quest’articolo, cari giovani, è rivolto prevalentemente a voi. Noi adulti abbiamo la terribile responsabilità di avervi lasciato in eredità un mondo in macerie e di ciò possiamo solo chiedervi scusa. Anche i “non colpevoli” sono responsabili per non aver saputo fermare i “colpevoli”. Ora è compito vostro prendere le redini in mano e ricostruirlo. In che modo? Dipenderà da come vi preparerete a raccogliere la terribile eredità, in un momento storico che prevede ancora un lungo processo di transizione, durante il quale sarà possibile di tutto. Molti di voi sono pervasi da un alto quoziente intellettivo, che consente di “capire” meglio di quanto non accada ad altri le fenomenologie sociali, i processi evolutivi, le tendenze. Queste capacità consentono di essere un passo avanti e vincenti, qualunque cosa si faccia. Saranno proprio le intelligenze più lucide che accederanno alle leve del potere politico ed economico e si


abbasserà gradualmente, come già sta avvenendo, l’età media di coloro che fungeranno da “guida”, perché il processo tecnologico, inarrestabile, sarà meglio recepito e gestito proprio da chi “cresce con esso”. Una vera rivoluzione bussa alle porte e tanti studiosi si stanno preoccupando di analizzarla in fieri, aggiungendo caos al caos, come sempre accade nei periodi di transizione, con una sola certezza condivisibile: “Le rivoluzioni non accadono quando la società adotta nuove tecnologie, bensì quando adotta nuovi comportamenti”. L’intelligenza, da sola, per cambiare in meglio la società, non basta. Di uomini “intelligenti” al potere ne abbiamo molti, ovunque. I risultati delle loro azioni, però, sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto i vostri, che siete le principali vittime della loro “inadeguatezza”. All’intelligenza va affiancata una profonda “conoscenza”, che con termine generico ma esplicito, si definisce “cultura”. Quella che manca a troppi di voi e che invece va recuperata d’imperio, perché è l’unico antidoto a derive sociali sempre più pericolose. Se oggi, infatti, gli uomini al potere si possono permettere di pronunciare frasi del tipo: “Falsare i bilanci non è reato” o “Per essere un buon politico non serve studiare i classici, basta guardare The House of Cards” (insulsa fiction statunitense che insegna come gestire il potere politico con il cinico disprezzo del bene comune e solo nel proprio interesse), cosa accadrà domani, quando si dovranno adottare soluzioni “terribili” per scongiurare davvero la terza guerra mondiale? Dietro ogni azione si cela la qualità di colui che la pone in essere. L’intelligenza, mancipia di “conoscenza”, potrà solo generare immani disastri, ben più gravi di quelli che si registrano oggi. Cambiare “i comportamenti”, pertanto, è fondamentale. Per tutti. E’ un processo pre-rivoluzionario propedeutico al vero cambiamento, che dovrà consentirci di preservare la vita. Quella vita che state rovinando nella vana ricerca di un senso “lì dove un senso non può esservi”: sballo continuo, droga, alcool, divertimento dissoluto, rifiuto dello studio “serio”. L’ignoranza che vi attanaglia è abissale, anche tra le menti “intellettivamente” più dotate. Sarete tutti chiamati a “decidere” qualcosa e la mancanza di “cultura” non potrà che suggerirvi scelte sbagliate. “L’Europa ha un compito di grande rilievo”, dice il Presidente Mattarella. E’ vero, ma per esercitarlo occorre che sia davvero unita. E non lo sarà mai fino a quando voi giovani non sarete ben attrezzati culturalmente per favorire un reale processo d’integrazione. La cultura sconfigge ogni male, a partire dai peggiori: il qualunquismo, il nazionalismo becero, il razzismo. Ritornate a studiare seriamente, partendo dai classici della letteratura, della storia e della politica, che sono sempre “attuali”, raccogliendo l’invito del Presidente: “La democrazia si esporta con la cultura e con l’esempio”. Il resto verrà da sé e


l’Europa sarà il perno per un nuovo ordine mondiale. In mancanza, anche se con strumenti tecnologici avanzati tra le mani, non sarete dissimili dai quei “lazzari” del 1799, che osannavano chi li depredava di tutto e mandarono alla forca chi si batteva anche per loro. (BLOG WWW.GALVANOR.WORDPRESS.COM – 05/09/2015 “CONFINI” – WWW.CONFINI.ORG – OTTOBRE 2015


Lino Lavorgna EUROPA SCRIVE A PAPA FRANCESCO

Carissimo Papa Francesco, sono la Principessa Europa, figlia di Agenore re di Tiro, nipote di Poseidone e moglie concubina di Zeus. Permettimi, pertanto, di rivolgermi a Te con rispettoso affetto, ma anche con l’utile confidenza che è lecita tra pari, a beneficio delle cose che ho da riferirti: Tu sei l’espressione terrena del Dio dei Cristiani; io un Dio l’ho sposato e di un altro sono nipote. In primis vorrei mettere subito in chiaro un elemento importante legato alla mia persona, per correggere una grossolana sciocchezza che gli storici perpetuano da secoli. Quando si parla del mio incontro con Zeus, si usa la parola “ratto”, quasi come se io fossi stata rapita e costretta a unirmi a lui contro la mia volontà. Niente di più falso. Ero con le mie ancelle a dilettarmi sulla spiaggia di Tiro (stupenda, allora, con un mare cristallino e dintorni verdeggianti che dipanavano verso una città meravigliosa, per nulla assomigliante a quell’agglomerato brutto e caotico dei tempi attuali) e Zeus “atterrò” dopo aver assunto le sembianze di un toro. Sorridendo, mi adagiai sul suo groppone e volai con lui tra gli applausi delle mie ancelle! E vorrei vederla, del resto, una donna mortale che facesse la schizzinosa riluttante al cospetto di un Dio! I tanti grandi Artisti che hanno dipinto quell’incontro, essendo molto più intelligenti e lungimiranti degli storici, hanno ben compreso come si fossero svolti i fatti: in nessuna opera si percepisce anche un minimo gesto men che dolce, delicato, gradevole. Non sembri questa una precisazione di poco conto: è davvero una brutta cosa pensare che il continente cui ho dato il nome affondi la sua genesi in una violenza carnale. Veniamo ora ai problemi di oggi. Tu hai dimostrato grande forza, oltre che grande saggezza, e pertanto ritengo che sia l’unica persona al mondo, in questo momento, in grado di scuotere le coscienze dei potenti e indurli a trovare il coraggio per bloccare la pericolosa deriva verso cui stiamo scivolando. Diciamoci le cose esattamente come sono,


Lino Lavorgna senza girarci troppo intorno. Fermo restando, infatti, tutto il male che si possa dire dei politici, per la loro facile propensione a gestire il potere pensando innanzitutto al loro tornaconto personale, per certi scenari “continentali” e “globali” dobbiamo necessariamente fare i conti con altri aspetti: i limiti della natura umana, che spingono a quell’atteggiamento “dilatorio”, magistralmente rappresentato nella celebre frase di Don Abbondio: “Il coraggio uno non se lo può dare”. E’ evidente, infatti, che certe scelte – certe “non” scelte – sono condizionate dalla paura. Più che legittima, tra l’altro, non solo per le possibili conseguenze cui sarebbero esposti i decisori, che ovviamente ben sanno come i migliori apparati di difesa e di sicurezza siano sempre insufficienti contro un terrorismo in crescente evoluzione, ma anche per i rischi insiti in tutti i Paesi, per i possibili attentati cui sono esposti gli inermi cittadini. E’ ben chiaro, però, ce lo insegna la matematica, che ogni problema “risolvibile” ha solo una soluzione, magari raggiungibile da due percorsi diversi, ma pur sempre confluenti in quell’unica soluzione. Ogni giorno, il contadino che vuole assicurarsi un buon raccolto, si sveglia e di buon’ora raggiunge i propri campi, non importa quanto distanti siano dalla propria abitazione. Si prende cura di loro, semina, innaffia, concima, pota, ara; più di ogni altra cosa, però, fa attenzione a che l’erba cattiva non prenda il sopravvento. La estirpa e la distrugge. Tutto ciò è possibile solo se il contadino si rechi personalmente nel campo e veda in loco cosa si renda necessario, di volta in volta, per renderlo fertile. Caro Francesco, tu sei perfettamente in grado di capire gli scricchiolii della storia e sai bene che il massiccio esodo dalle zone povere e pericolose del mondo, verso quella sorta di “Terra promessa” che porta il mio nome, è qualcosa che prescinde dalla cronaca: quando i popoli si muovono, cambiano la storia, non il quotidiano. Al di là di tutto ciò che è già avvenuto (mal gestito), si stima che nei prossimi mesi potrebbero entrare in Europa circa un milione e cinquecentomila migranti. E il fenomeno è destinato a durare ancora a lungo. Il dramma umano di chi fugge dalla miseria e dalle guerre si scontra con il dramma umano di chi teme questa onda migratoria e vede trasformarsi la propria esistenza in qualcosa di angoscioso, che condiziona scelte e abitudini, aggiungendo problemi ai problemi e male al male. In Germania ha compiuto un anno di vita il partito neonazista “PEGIDA”, in continua crescita, e ovunque “la paura” porta acqua al mulino dei populisti, che raccolgono consenso parlando alla pancia, senza avere una testa pensante. Tu puoi incidere profondamente su tutto questo se riuscirai a parlare in modo ancor più “chiaro” di quanto non abbia fatto fino ad ora, utilizzando un linguaggio che, senza tradire la tua matrice apostolica, assuma una peculiarità più “laica” e, oserei aggiungere, più “politica”, in modo da risultare “più incisivo”. La paura è anche figlia della disinformazione e la Chiesa può fare molto, sotto questo profilo, sopperendo alle lacune istituzionali e a quelle della Stampa. E molto puoi fare in prima persona, non solo parlando ai potenti del Pianeta, ma anche emulando il tuo predecessore Leone I. Certo, lui aveva un solo “Attila” da fermare e tu, tra Africa e Medio Oriente, ne dovresti incontrare parecchi. Prima


Lino Lavorgna incominci e più faciliti il compito a chi dovrà intervenire dopo. E sai bene che siete tutti, nel vostro mondo, in terribile ritardo su ciò che la Storia richiede per renderlo vivibile. (BLOG WWW.GALVANOR.WORDPRESS.COM – 14/11/2015) “CONFINI” – WWW.CONFINI.ORG – NR 39 – NOVEMBRE 2015)


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