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Territorio, Società e Mito nell’Architettura Primitiva
a cura di Lisa Manieri
Back to the A Territorio, Società e Mito nell’Architettura Primitiva
Tesi Triennale in Architettura Ambientale di : Lisa Manieri Scuola di Architettura e SocietĂ Politecnico di Milano AA 2014/2015 Relatore di Tesi: Arch. Emilio Caravatti
Indice
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Introduzione
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Capitolo Sesto Dio d’Acqua
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Parte Prima Territorio, Società, Mito e Architettura Primitiva
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Parte Terza Architettura del Territorio in Australia Centrale
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Capitolo Primo Territorio e Società
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Capitolo Settimo Aranda
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Capitolo Secondo Società e Religione
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Capitolo Ottavo Dreamtime
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Capitolo Terzo Religione e Territorio
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Conclusione
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Bibliografia e Sitografia
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Parte Seconda Architettura in Africa Occidentale
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Capitolo Quarto Dogon
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Capitolo Quinto Toguna
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Introduzione
Il tema centrale di questa tesi è il rapporto dell’Uomo con la Natura. Una Natura ampia che comprenda il mondo fisico e l’essere umano insieme; ecco perché si è parlato non solo di ambiente e territorio, ma anche di società e mitologia. Il rapporto dell’uomo con la natura umana, l’analisi della propria coscienza, delle ansie esistenziali e del bisogno intrinseco di dominanza o controllo del territorio sono parte della storia architettonica di un popolo. In questa tesi si indaga infatti, fino a che punto l’architettura tradizionale sia legata al contesto fisico-climatico e quanto invece essa sia impregnata dell’evoluzione umana avvenuta in un determinato luogo. Si è cercato di capire in che modo l’uomo si serva dell’Architettura e a quale fine, scoprendo una forte componente antropica nelle diverse declinazioni di quel processo architettonico che è l’abitare. “L’abitare ci appare in tutta la sua grandezza quando pensiamo che nell’abitare risieda l’essere dell’uomo, inteso come soggiorno momentaneo dei mortali sulla Terra[...]” [Martin Heidegger, “Costruire, Pensare e Abitare”, tratto da “Saggi e Discorsi”, 1976] L’Uomo è, in quanto abita, partendo da quest’ipotesi si prospetta una nuova dimensione del fare architettura. La manipolazione spaziale dell’Uomo, sul territorio in cui vive, è un progetto architettonico intrinsecamente con-
nesso con le attitudini e categorie, proprie dei processi astrattivi e creativi, che egli applica allo spazio nel momento stesso in cui lo vive. Da qui consegue una visione antropocentrica del procedimento creativo, intimamente connesso agli elementi con cui l’essere umano si relaziona nel suo vivere e abitare: il Tempo, lo Spazio, gli altri Esseri umani e Sé stesso. L’architettura diventa quindi un prodotto dell’uomo, un risultato diretto del suo vivere. Questi elementi sono legati alla scala dimensionale delle relazioni che l’uomo instaura al di fuori e dentro di sé: la grande scala del territorio, su cui l’uomo deve esercitare un controllo più o meno diretto, per potersi procurare le risorse necessarie alla sua sopravvivenza; la scala del nucleo insediativo, rappresentazione spaziale della società e quindi dei rapporti con gli altri uomini; la scala della relazione col sé ovvero il mondo interiore dell’auto-percezione, da cui deriva la dimensione spirituale del mito e della religione. Al variare di come questi tre elementi interagiscono, si determinano diversi contesti antropologici, dai quali scaturiscono diverse declinazioni architettoniche. Dunque un’architettura che scaturisce dal progetto di vita dell’uomo deve necessariamente relazionarsi con l’ambiente in cui si inserisce, la società e il complesso patrimonio mitologico-religioso del popolo che la produce. In questa tesi, il mio obiettivo è stato quello di indagare, con riferimento a specifici contesti, come questi tre
Introduzione
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elementi interagiscono tra loro e quanto essi siano presenti in architettura. A tal fine mi sono servita di esempi reali in cui lo svolgersi della vita umana fosse ancora strettamente connessa ai cicli naturali e avesse un riscontro diretto e semplice nell’architettura, ovvero casi di architettura primitiva. Quando si pensa all’architettura primitiva ci si scontra con una significativa ignoranza da parte del mondo occidentale, nei confronti della ricchezza di questi edifici tradizionali. Una possibile causa va ricercata nel fatto che quando i colonizzatori europei iniziarono a far conoscere queste culture in Occidente, le grandi civiltà dinastiche delle diverse colonie erano già in declino; inoltre per via dell’utilizzo di materiali deperibili, molti dei grandi edifici del passato erano ormai andati perduti. La scarsa considerazione di queste architetture entro il programma di studio offerto dalla storia dell’architettura, potrebbe anche essere dovuta anche alla singolarità di tali costruzioni, molto lontane dell’architettura così come noi la concepiamo.
Questa frase riassume efficacemente le cause sociali dell’architettura spontanea, ovvero realizzata senza l’apporto di professionisti dal sapere specialistico. Se in occidente il triangolo tradizionale alla base del costruire è architetto, costruttore e utente in molti contesti tradizionali non esiste questa suddivisione netta tra collaboratori, spesso le tre parti coincidono in un’unica figura o gruppo sociale. L’architettura tradizionale si configura dunque come strumento di vita sociale; non essendo dato un premio in denaro a chi costruisce, l’azione di edificare costituisce un atto di impegno reciproco di aiuto, apportando coesione sociale. Essa è così la risposta individuale o famigliare alle necessità abitative, che si inserisce nello spirito delle soluzioni di gruppo elaborate per generazione e generazioni sulla base dei bisogni delle credenze locali e dei materiali reperibili in loco. L’architettura primitiva in particolare è pregna di contenuti sacrali, giocando un ruolo di intermediario tra l’individuo, la società e il mondo esterno. In essa l’antropomorfismo è una caratteristica significativa, in qualche caso il riferimento agli attributi umani è espresso in modo esplicito. Ad ogni modo quali che siano le specifiche circostanze, architetti e proprietari-utenti investono chiaramente se stessi nei loro edifici, nelle forme che questi assumono e nell’uso cui sono destinati.
“Ogni uomo è un architetto adeguato alle necessità. Tutti i vicini collaborano alla costruzione e in cambio non si attendono e non ricevono altra ricompensa che una grande festa” [cit. Equino, XVIII sec.]
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Si potrebbe dire che la differenza reale tra l’architettura occidentale e quella primitiva risiede negli aspetti simbolici di quest’ultima e nella sua dimensione comunitaria. La percezione dei rapporti sociali è più significativa rispetto a clima e tecnologia, nella determinazione degli edifici. “Al di sopra di tutto vi è l’umanità di questa architettura” [Bernard Rudofsky, Architecture without architects] L’interesse verso l’architettura tradizionale si deve alla pionieristica esposizione di Bernard Rudofsky tenutasi al Museo di Arte Moderna di New York nel 1964-65 e dal catalogo che l’accompagnava, Architecture Without Architects:A Short Introduction to Non-Pedegree Architecture. Difendendo queste strutture come facenti parte di un ricco patrimonio culturale come quello africano, Rudofsky riuscì a farle apprezzare e comprendere dall’Occidente. Egli criticò aspramente la storia dell’architettura così come viene oggi insegnata, poiché interessata a poche selezionate culture. Sottolineò l’importanza di conoscere un’architettura, lontana ormai da noi, che fosse ancora il risultato di un processo comunitario, capace di integrarsi nella natura senza imporsi sgraziatamente come spesso l’architettura dei paesi civilizzati riesce a fare.
Introduzione
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Parte Prima Territorio, SocietĂ , Mito e Architettura
Esempi architettonici
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Parte Prima | Territorio, Società, Mito e Architettura
Territorio e Società
Il Territorio è il primo dei fattori con cui l’uomo si relaziona. In esso egli vive e da esso trae cibo e materiali utili alla sua sopravvivenza. Grazie alla sua alta capacità di adattamento la specie umana è riuscita a imporre la sua presenza su quasi tutta la Terra, fatta eccezione per il circolo polare antartico. Il successo di questa proliferazione è da attribuirsi in buona parte alla capacità associativa umana. L’organizzazione in gruppi e tribù, articolati secondo regole sociali e politiche variabili, permette un migliore controllo su territori diversi e uno sfruttamento efficiente delle risorse, oltre ovviamente a garantire una maggiore capacità difensiva.
Casa tradizionale della popolazione nomade !Kung.
Ne consegue che a condizioni territoriali differenti corrispondano adattamenti sociali differenti. In effetti le società umane si articolano in un notevole numero di tipologie, conseguenza di fattori interni (numero demografico) ed esterni (caratteristiche ambientali). Questi ultimi in particolare hanno anche una notevole influenza sulla demografia, là dove la tecnologia non si sia sviluppata tanto da svincolare la sopravvivenza di un dato numero di individui dallo sfruttamento diretto del territorio ( cosa che invece accade nelle società WEIRD: Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic societies ).
Capitolo Primo | Territorio e Società
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La conseguenza più diretta dell’ambiente sulla tipologia sociale è la determinazione di gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori o sedentari di coltivatori. L’agricoltura per affermarsi necessita di condizioni favorevoli che non sono sempre presenti. Se osserviamo la localizzazione di molti popoli nomadi o semi-nomadi, notiamo una corrispondenza tra grado di ostilità ambientale e modalità di acquisizione delle risorse vitali. I !Kung che abitano il Deserto del Kalahari in Namibia, come molte altre popolazioni che vivono nel deserto ( i Tuareg stanziati nel Sahara, i beduini Ruwala della penisola Arabica...etc.) non possono contare sull’affidabilità delle risorse stagionali e sono costretti a una vita nomade di caccia e raccolta. Per le popolazioni nomadi il patrimo-
nio architettonico si esprime raramente in costruzioni stabili. In effetti è il territorio stesso a costituire la base architettonica entro cui si articolano i rapporti sociali; le relazioni con le altre tribù sono fondamentali per l’acquisizione di risorse, che sarebbero inaccessibili se non per via commerciale. La proprietà privata in questi casi può non esistere o ridursi ad elementi naturali. È il caso dei Semang, una popolazione tribale in Etiopia, che vive sulla raccolta dei frutti degli alberi di Dura. L’insieme del territorio riunisce la somma degli alberi di Dura appartenenti per diritto ai capi famiglia e che verranno lasciati in eredità ai relativi discendenti. Si tratta di comunità con regole politico-sociali sviluppate in senso orizzontale, che gene-
Schema distributivo di un’abitazione !Kung.
Albero di Dura appartenente ad una famiglia Semang.
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Capitolo Primo | Territorio e Società
ralmente non seguono una stratificazione gerarchica. Diverso è il caso delle comunità semi-nomadi che seguono migrazioni sporadiche legate alle stagioni. Gli Eschimesi e gli indiani del Nord America, hanno una residenza estiva e una invernale, localizzate là dove le risorse sono maggiori nelle rispettive stagioni. In entrambi i casi esistono periodi in cui la caccia diventa collettiva, favorendo i rapporti tra individui di tribù diverse, mentre nei periodi in cui v’è abbondanza di cibo, gli sconfinamenti nei territori altrui possono costare la vita. In queste popolazioni la proprietà privata è legata ad un territorio con confini abbastanza precisi, così che comunicare all’altro dove inizia e finisce un territorio può essere molto importante per evitare incidenti spiacevoli. Inoltre, poiché le risorse di cibo sono abbondanti tanto da permettere periodi di crescita demografica, le comunità semi-nomadi sono composte da un nume-
ro di individui relativamente alto; è necessaria così una stratificazione gerarchica verticale per il mantenimento dell’ordine sociale, che vede la nascita di una distribuzione disomogenea della ricchezza e del potere. È in questi casi che l’architettura diventa uno strumento sociale. Un esempio possono essere gli imponenti Totem scolpiti dagli Indiani del Nord-Ovest Americano. Questi hanno una tradizione architettonica basata su di un accentuato sviluppo delle potenzialità artistiche della costruzione della casa. La migrazione stagionale imponeva il trasferimento dalle sedi invernali a quelle estive, sulla riva del mare aperto. L’architettura abitativa si basava così sulla costruzione di solidissime abitazioni in cedro rosso, costruite in elementi permanenti e altri trasportabili via fiume. Sono proprio gli elementi fissi a ricevere un trattamento scultoreo elaborato artistica-
Schema costruttivo di un’abitazione ad elementi permanenti e altri rimovibili.
Accampamento estivo degli Indiani del Nord-Ovest America.
Capitolo Primo | Territorio e Società
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mente, mentre le assi trasportabili avevano un valore unicamente utilitario. Questi pilastri-totem avevano un significato simbolico di identificazione genealogica e status sociale. Un altro caso esemplificativo che vede il territorio strettamente intrecciato con il sistema politco-sociale è quello polinesiano. La conoscenza del territorio oceanico da parte dei navigatori polinesiani era fondamentale per la sopravvivenza. Rotte lunghe centinai di chilometri venivano percorse con regolarità per scambi commerciali, nuovi insediamenti, allargamento delle sfere di influenza dei regni, che dominavano su vastissime zone di mare punteggiate di piccole isole. Un ambiente come
quello polinesiano risultava così dominato dai viaggi di esplorazione, che pongono la colonizzazione e la subordinazione della popolazione più debole, come modello generale di organizzazione sociale. Ciascuna isola era legata all’arcipelago di appartenenza su principi di interesse commerciale. Si creava così una concentrazione degli interessi verso le isole più grandi o più vicine, testimoniata da lastre litiche infisse di taglio sulla costa, nel punto dove avevano inizio i viaggi e indicanti la direzione esatta delle isole più vicine. È evidente come il numero di individui di una popolazione fosse vincolato dalla dimensione dell’isola e dalle risorse su di essa presenti: mentre nelle isole maggiori si
Regni polinesiani agli inizi del XX sec.
17 sviluppa l’agricoltura e una società internamente stratificata, su quelle più piccole permane una situazione tribale, subordinata ai regni istituiti dalle isole maggiori. La fecondità e ricchezza in risorse primarie di un territorio determina non solo la sedentarietà della popolazione, ma anche le relazioni spaziali tra le società limitrofe che lo abitano e l’organizzazione politica interna. Esse si articolano in un intero spettro di possibilità racchiuso tra due casi estremi: territori esclusivi e territori interamente accessibili a tutti. Nel primo caso il territorio contiene risorse preziose e in quantità sufficiente da garantire una base demografica stabile e un numero fisso di persone impegnato nella difesa del territorio.
Celebrazione Dani con torretta d’avvistamento tradizionale.
Capitolo Primo | Territorio e Società
Nel caso opposto troviamo popolazioni piccole e sparse, localizzate su territori dalle risorse inaffidabili e scarse per le quali non vale la pena rischiare la vita. La proprietà territoriale e i confini sfumano col progressivo allontanarsi dal nucleo territoriale di appartenenza. Conseguenza di queste dinamiche, in architettura, è la nascita di costruzioni da difesa, di edifici simbolici, (i palazzi di pietra della nobiltà reale polinesiana), nonché di una differenziazione delle abitazioni che permetta l’identificazione dello status sociale di chi li abita (i totem scolpiti degli Indiani del Nord-Ovest americano).
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Parte Prima | Territorio, Società, Mito e Architettura
Società e Mito
La società è il secondo termine di relazione e comprende l’organizzazione politica e i valori culturali che una popolazione si dà, per autogestirsi. “Le società possono essere suddivise in quattro gruppi sulla base del numero demografico e della tipologia di governo: banda, tribù, chiefferies, and stati.” [Elman Service, Primitive Social Organization, 1962] La classificazione ideata dall’antropologo Elman Service si basa sull’evoluzione della componente demografica, della centralizzazione politica e della stratificazione sociale. Dal punto di vista dell’organizzazione le società tradizionali presentano maggiore variabilità rispetto alle società dotate di un governo di statale. Il tipo di società più piccolo e semplice è la banda o clan, formato da poche decine di individui, molte dei quali appartenenti a una o più famiglie allargate. E’ il caso della maggioranza dei cacciatori-raccoglitori nomadi, i cui membri sono in numero tale da conoscersi bene reciprocamente. Il livello successivo, per grandezza e complessità è la tribù, composto da qualche centinaio di individui (limite dimensionale affinché tutti i componenti si conoscano di persona). Assomigliano a grandi bande: relativo
egualitarismo, scarsa specializzazione economica e leadership politica, mancanza di burocrazia. Le tribù evolvono nelle chefferies o chiefdoms, composti da migliaia di individui, numero che richiede una maggiore produttività alimentare e la capacità di generare eccedenze di cibo, destinate ai capi o al commercio neo-nascente. In queste società medio-grandi è impossibile che tutti si conoscano e partecipino in maniera diretta all’amministrazione sociale. Gli estranei devono dunque incontrarsi riconoscendosi parte della stessa chiefferie, senza scontrarsi per questioni territoriali; nascono così ideologie politiche e religiose condivise, derivate da un presunto status divino del capo. Questa figura di leader politico, spesso attraverso ipotetiche discendenze divine, rivendica il monopolio decisionale con l’obiettivo di mantenere l’ordine sociale. Nasce così una distribuzione disomogenea della ricchezza che segue le linee gerarchiche del potere politico e che spianerà la strada all’utilizzo dell’architettura monumentale dei palazzi reali, al fenomeno del mecenatismo e all’utilizzo in generale dell’arte e dell’architettura come forma espressiva di uno status sociale. Se guardiamo al caso delle Isole Ebridi, troviamo una società strutturata piuttosto rigidamente per clan nella quale, pur non esistendo una stratificazione di classe,
Casa del membro più anziano di un villaggio Dogon. Egli detiene il patrimonio cosmologico e rituale e allo stesso tempo, in quanto membro più anziano, assume il ruolo di guida politica nell’amministrazione del villaggio
Capitolo Secondo | Società e Mito
esiste un’articolazione sociale legata al prestigio personale. Nella parte settentrionale dell’isola di Ambrym, i nessi tra patrimonio architettonico collettivo e potere-prestigio personale determinano tredici diversi gradi sociali, che sanciscono una gerarchia tra coloro che hanno la facoltà di esibirli. Molti di questi emblemi di grado coinvolgono elementi architettonici essenziali, come il permesso di costruirsi una cucina staccata dall’abitazione. In tutte le isole prevale come rappresentazione finale del grado più elevato, l’erezione di una piccola Casa degli Uomini, simbolo del raggiungimento della massima partecipazione ai rituali e alla vita associativa del gruppo. Si assiste anche ad un progressivo completamento della casa degli uomini, che all’inizio è rappresentata solo da quattro pilastri lignei e da una
Casa degli Uomini Sepik, con pitture sacre.
20 fune che li collega, concludendosi con un edificio completo di porta e tetto. L’esibizione del potere politico non si limita esclusivamente all’articolazione del singolo edificio, ma anzi può riguardare anche la disposizione delle costruzioni nel villaggio. Nell’architettura delle chefferies dell’area forestale dell’Africa occidentale, l’impianto del villaggio è assiale, con le grandi case del capo e dei dignitari che dominano lo spazio cerimoniale. L’accenno all’ipotetica discendenza divina che quasi sempre il leader attribuiva a se stesso e alla sua genealogia, introduce un altro elemento sempre presente nelle società umane: la dimensione mitologica e spirituale legata alla religione. La dimensione spirituale, in gruppi di individui numerosi, ha una funzione stretta-
21 mente connessa al mantenimento dell’ordine sociale. Questa relazione è testimoniata da moltissimi edifici in cui il valore politico si intreccia a quello religioso. Un esempio, è quello dei Togu na dei Dogon (Mali), costruzione dalla simbologia fortemente spirituale, che vedono sotto si sé lo svolgersi di funzioni di carattere amministrativo e sociale. “scopo della religione consiste nel definire un particolare gruppo umano in competizione con gruppi umani di religione diversa, e la misura più immediata del relativo successo di una religione è data dal numero dei suoi aderenti” [David Sloan Wilson, Darwin’s Cathedral: Evolution, Religion, and the Nature of Society, 2002] Secondo un’ipotesi recentemente formulata da alcuni studiosi di religioni, la fede nel sovrannaturale serve a dimostrare l’impegno di ciascuno nel confronti della religione. Tutti i raggruppamenti umani durevoli, sono alle prese con il problema fondamentale di identificare correttamente i membri stabili e fidati del gruppo. Quanto
Petroglifi sui resti di un palazzo in pietra sull’Isola di Pasqua.
Capitolo Secondo | Società e Mito
più è forte la compenetrazione fra la vita dei singoli e il gruppo religioso di appartenenza, tanto più diventa essenziale identificare correttamente gli altri seguaci (per questo motivo l’affiliazione religiosa comporta tante prove di dedizione). Ecco perché una caratteristica delle società di media scala è l’attribuzione di origini divine a un capo, così da assicurargli un forte potere persuasivo sui componenti del gruppo. In Nuova Caledonia la Grande Capanna è il simbolo permanente dell’unità clanica, del potere del capo e del rapporto tra la comunità e l’insieme delle tradizioni mitiche; è anche una Casa degli Uomini, nel senso che è concepita come edificio pubblico in contrapposizione alle case delle singole unità familiari. L’intricata relazione che lega la tradizione mitologica allo sviluppo politico sociale talvolta è resa evidente anche su scala urbana, nella disposizione degli elementi architettonici che compongono il villaggio. Il patrimonio mitologico dei Dogon costituisca il principio organizzativo su cui impostare l’impianto dell’intero insediamento.
Impianto di un villaggio Dogon, secondo i principi cosmologici.
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Parte Prima | Territorio, Società, Mito e Architettura
Mito e Territorio
Veniamo ora all’ultimo termine di relazione: il patrimonio mitologico-religioso. La religione chiede agli individui e alle società enormi investimenti di tempo e di risorse. Basti pensare all’Europa medievale cristiana, la quota di risorse destinate alla costruzione e alla dotazione di personale per chiese e cattedrali...etc. Se la religione non avesse offerto benefici concreti e ragguardevoli, tali da controbilanciarne i costi, un’ipotetica società atea che fosse emersa in un dato momento della storia avrebbe senz’altro dominato sulle società religiose. Esiste un approccio secondo cui la religione non si è evoluta, né sia stata concepita appositamente per as-
Serpente mitologico della tradizione Aranda.
solvere scopi o problemi specifici. Essa sarebbe semmai il sottoprodotto di particolari facoltà dei nostri antenati umani e dei loro predecessori animali: facoltà che hanno avuto esiti imprevedibili e , nel corso del processo di sviluppo, poco alla volta hanno conquistato nuove funzioni. L’evoluzione biologica avviene in due fasi: al semplice manifestarsi di variazioni generate da mutazioni e ricombinazioni genetiche segue l’emergere, per effetto della selezione naturale e sessuale, di individui varianti che si differenziano dagli altri in base alle modalità di sopravvivenza, riproduzione e passaggio dei geni, alla generazione successiva. Si scopre cioè che alcuni indivi-
Capitolo Terzo | Mito e Territorio
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dui varianti esplicano funzioni e risolvono problemi della sopravvivenza meglio di altri. Di quali facoltà umane la religione potrebbe essere un sottoprodotto? Un’ipotesi plausibile è che possa essere un effetto collaterale del progressivo affinamento da parte del cervello delle capacità astrattive e deduttive causali. Una scimmia non è in grado di associare la scia tracciata a terra dal passaggio di un pitone, con la presenza di un pitone nelle vicinanze. La selezione natura ha perfezionato i nostri cervelli rendendoli capaci di astrarre il massimo contenuto informativo dagli indizi più banali. Se consideriamo che siamo tutti dotati di agentività (ovvero quella capacità di far accadere le cose e di intervenire sulla realtà) e che ognuno è un individuo a sé stante, che agisce per se stesso, risulta evidente la necessità di comprendere gli altri e le loro intenzioni per anticiparne le mosse. La credenza primitiva che i copri celesti siano creatu-
re viventi deriva da un’estensione logica di conclusioni fatte al riguardo di certi eventi naturali. La fede nel sovrannaturale consiste quindi nell’attribuire agentività alle piante e agli oggetti inanimati. In sintesi quella che oggi chiamiamo religione potrebbe essere stata in origine un prodotto secondario della crescente accuratezza con cui il nostro cervello imparava a formulare spiegazioni causali e a fare previsioni. Se così fosse, si spiegherebbe come mai la dimensione religiosa e l’interpretazione mitologica del territorio siano spesso un fattore preponderante nell’architettura primitiva, spesso a scapito dei limiti imposti dal clima e dalle risorse ambientali. In queste società il mito è un metodo di conoscenza del mondo e quindi anche uno strumento necessario per abitarlo. Il caso più estremo di questo atteggiamento lo si riscontra tra gli aborigeni australiani i quali, privi di qualsiasi costruzione, vivono
Simboli Australiani per la ricostruzione grafica territoriale. Questi stessi hanno anche significati complementari che
riguardano la dimensione spirituale e sacra.
25 nel deserto dell’Australia centrale attraverso itinerari sacri basati su di una conoscenza approfondita del territorio. Ecco che si comprende in che modo il patrimonio mitologico di un popolo sia fondamentale nel garantire ad esso la possibilità di interagire con il territorio e l’ambiente. In altri casi si nota un’attenzione maggiore verso i significati simbolici e mitologici nella costruzione di un edificio o nell’articolazione di un villaggio, piuttosto che verso le regole della bio-climatica. Per meglio dire queste ultime sono quasi sempre comprese entro le regole e le abitudini spirituali di un determinato popolo. I Srè
Abitazione Srè, Vietnam del Sud.
Capitolo Terzo | Mito e Territorio
nel Vietnam del Sud abitano un’area caldo umida che necessita di notevole areazione per mantenere asciutta la casa. Questa è articolata su palafitte basse che permettono all’aria di mantenere sane le travi lignee del pavimento. Tuttavia la progettazione di questo spazio aperto sotto l’abitazione è prevista in quando luogo sacro: essendo una popolazione dedita alla coltivazione, la vita è scandita da molti riti agrari, legati alla terra, complementari di altri riti domestici, legati al cielo. La localizzazione della casa sopra il deposito è coerente con l’interpretazione del cielo, dimora della spiritualità, sopra la terra produttrice delle risorse alimentari.
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Parte Seconda Architettura in Africa Occidentale
Relazioni tra Territorio, Società e Mito nel prodotto architettonico e nell’articolazione di un insediamento e il caso dei Dogon
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Parte Seconda | Architettura in Africa Occidentale
Africa Occidentale
Nel corso della storia la regione dell’Africa occidentale è stata a lungo un importante crocevia, disseminato di porti che offrivano un approdo sicuro per i commerci sia in direzione nord, attraverso il vasto mare di sabbia del Sahara verso il Maghreb, sia a sud verso le zone forestali. Quest’area è stata oggetto di grandi espansioni dinastiche, flussi migratori importanti, violenze, schiavismo e migrazioni forzate. L’insieme di questi eventi ha contribuito nel dare forma all’architettura di questa regione, alle differenze di stile e significato. La straordinaria creatività espressa dalle costruzioni deriva da una continua circolazione di culture e dal vitale intreccio degli scambi commerciali, favoriti anche dal fiume Niger. Questo fiume con i suoi affluenti procurò l’elemento essenziale per le costruzioni: l’acqua, che mescolata alla terra del luogo costituiva un materiale edilizio di semplice reperibilità e immediata utilità. Il Niger ha permesso grazie all’abbondanza di fauna acquatica la formazione di popolazioni numerose,
organizzate in chiefferies e da sempre in competizione diretta per lo sfruttamento delle risorse territoriali. Nonostante la nascita di grandi imperi come quelli del Ghana e Mali (questi nomi oggi si riferiscono a nazioni in aree geografiche differenti, mentre durante il primo millennio si riferirono a imperi che occuparono una vasta area comprendente l’attuale Mali, Burkina Faso e Niger) essi rimasero casi particolari nella gestione amministrativa del potere politico. Seppur i grandi centri furono legati al potere imperiale, il controllo territoriale rimase sempre legato a piccoli centri tribali. Si potrebbe parlare di un’organizzazione sociale per sistemi acefali: il potere centrale si sovrapponeva alla società tradizionale, senza permearla in maniera capillare; il concetto di dominio prendeva forma dal centro e non dai confini. In questo senso il potere politico in Africa fu da sempre legato alla gerontocrazia delle singole tribù o chiefdoms.
Parte Seconda | Architettura in Africa Occidentale
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Parte Seconda | Architettura in Africa occidentale
Dogon
L’etnologo Marcel Griaule, agli inizi del 1900, intraprese una ricerca antropologica presso il popolo Dogon. Egli ha ritratto una popolazione di filosofi e mistici, una popolazione dalla cultura primitiva e incontaminata dalla presenza dell’uomo occidentale. In realtà come tutte le popolazioni del Sahel, i dogon commerciano con i gruppi circostanti e vivono in un’area che conosce da lungo tempo l’islam da cui ne sono stati, in modo più o meno intenso, influenzati. Griaule ha congelato sulla pagina scritta l’immagine dei dogon così come egli li ha voluti vedere. La scelta di affrontare un approfondimento sulle strutture architettoniche dogon e il loro rapporto con le strutture sociali e l’apparato cosmologico si deve al fatto che, nonostante le nuove condizioni emergenti e modificazioni in atto che premono per sovvertirne un’organizzazione secolare, i Dogon ancora oggi in
numerosi villaggi reggano saldamente, in difesa di una loro unità etnica. La loro struttura societaria ha ancora validità piena non essendosi in effetti scardinate le unità di famiglia, quartiere e villaggio. Tra i dogon non esiste lingua scritta e dunque la conservazione del patrimonio culturale è affidata alla trasmissione orale, articolato in una serie di simboli e segni che innervano e maturano i loro significati nella ricchezza del rapporto individuale e collettivo. L’elemento che più esprime questi valori è il togu na che nei villaggi della pianura conserva appieno tutte le sue funzioni e, per mezzo di una straordinaria iconografia, assume il valore di iperbole figurativa della cultura agricola dogon. In esso i simboli e le sculture, pur non essendo decifrabili da tutti, forniscono un traslato visibile del mito che non può, fuori dai suoi luoghi originali, essere vissuto pienamente nella sua integrità.
Capitolo Quarto | Dogon
I dogon vivono sul territorio della Repubblica del Mali, nelle zone amministrative di Bandiagara e Douentza, situate a sud dell’ansa del Niger. Si tratta di un nucleo approssimativamente omogeneo di circa 220.000 abitanti.Il territorio, che ha un’estensione in senso Est-Ovest di circa 320 Km e nel senso Nord-Sud di circa 150 Km, si caratterizza in tre zone nettamente distinte: l’altopiano, la fascia rocciosa e la pianura. Nonostante non sia verificabile con prove storiche quando il popolo dogon si insediò in tale area, è comune opinione l’esistenza di un grande esodo (10001300 d.C.) che portò la tribù a stabilirsi qui dal territorio di Mandè. Quest’ultimo è probabilmente identificabile con l’impero del Mali, che in dialetto soninkè si dice appunto mandè. Per più di 600 anni i dogon si stabilirono per motivi strategici e difensivi lungo la fascia rocciosa, essendo sia l’altopiano che la pianura spazi privi di ripari dagli attacchi e scorrerie di tribù vicine. Con la colonizzazione francese ebbero fine le lotte che impedivano una reale
32 convivenza tra le varie popolazioni della zona del Séno, favorendo il ritorno dei Dogon ai più fertili terreni della pianura. Nei secoli passati le condizioni di estrema durezza di vita hanno reso indispensabile una solida struttura societaria, basata su un fondamentale rispetto dell’individuo in quanto fattore insostituibile dell’intera comunità operante. Ciò è evidente nell’analisi delle strutture abitative e urbane dei villaggi: la minima unità analizzata è la cellula abitativa, il cui disegno giustifica pienamente la disposizione funzionale delle sue componenti (funzionale implica anche annessioni determinanti dal versante della religione e del mito). Tuttavia questa, pur essendo organica in se stessa, si definisce compiutamente solo in funzione di un rapporto vitale con le altre cellule. Tutto ciò pretende di allargare lo sguardo all’intera comunità e al rapporto ergometrico con le altre istituzioni: il Ginna (grande famiglia, riconducibile al quartiere).
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Localizzazione dell’area abitata dai Dogon.
Capitolo Quarto | Dogon
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Parte Seconda | Architettura in Africa Occidentale
Toguna
“Quando i Dogon arrivarono sulle rive del Niger vi trovarono una tribù Bozo decimata da una terribile carestia. I dogon si accamparono e costruirono su di una piccola altura un riparo composto di otto pali di legno confitti in terra sopra i quali stesero una stuoia di paglia, sotto questo riparo si riunirono invitando anche il capo degli anziani Bozo per affrontare e risolvere insieme il problema della sopravvivenza della tribù...” [legenda dogon] Da questo racconto si evince il fatto che i Dogon usassero da sempre una struttura specifica per le riunioni e le decisioni collettive: il toguna. Al momento della fondazione di un villaggio il primo edificio costruito è quello del Toguna, la cui posizione sul terreno viene decisa dal capo della comunità, seguendo generalmente un disegno antropomorfo dettato dalle usanze religiose. Esso è un elemento costitutivo fondamentale del villaggio dogon non solo come edificio fisico, ma anche come punto di riferimento associativo di tutta la comunità. Al suo riparo si svolgono diverse funzioni: la giustizia civile e il costume, la definizione del calendario agricolo, gli interventi di emergenza, decisio-
Toguna ricostruito con intento turistico in un villaggio Dogon.
ni amministrative, nonché riunioni e incontri di lavoro, insegnamento, riposo e conversazione. Togu significa riparo, na significa grande o madre, per cui il toguna è il grande riparo, detto anche casa della parola o casa degli uomini (da esso le donne sono assolutamente escluse). La struttura dell’edificio si articola pressoché nello stesso modo in ogni villaggio, seguendo di caso in caso adattamenti dovuti alla disponibilità dei materiali e alle funzioni in esso svolte. La pianta è generalmente rettangolare con orientamento dell’asse maggiore Nord-Sud. La struttura portante è costituita di pilastri togu kubo; su di essi poggiano travi di legno laru formando la struttura primaria del tetto, sulla quale poggiano rami sabu a esse perpendicolari. Il manto di copertura togu è composto di strati alternati di steli di miglio keru, efficace coibente delle radiazioni solari. Le variazioni di forma e materiali utilizzati corrispondono in linea generale alle variazioni fisiche che caratterizzano le tre zone in cui geologicamente si può suddividere il territorio dogon: altopiano, fascia rocciosa, pianura.
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La scelta di prendere ad esempio in questa tesi l’edificio toguna ha le sue ragioni nella sincerità dei rapporti che questa tipologia architettonica instaura con il territorio, la società e il mito cui appartiene. Essa infatti può essere un ottimo esempio per comprendere le dinamiche che comportano la costruzione di un’architettura, prodotto e strumento umano del vivere umano. Seppur i cambiamenti nell’uso dei materiali e nell’impostazione della pianta siano evidenti al variare della morfologia del luogo, la struttura rimane pressoché identica nell’impianto a 8 pilastri, nella costruzione del tetto e nelle sue proporzioni strutturali. Questo perché le cause determinanti tali caratteristiche sono intrinsecamente legate al substrato culturale e alla tipologia amministrativa. Infatti nonostante le dimensioni dei toguna siano maggiori nella pianura, dove lo spazio libero permette un’articolazione rettangolare della pianta, la struttura non supera mai le dimensioni necessarie affinché la parola espressa in tono calmo e normale possa raggiungere chiunque si sieda sotto il grande riparo. Non va dimenticato che sotto di esso si svolgono importanti riunioni politiche, che richiedono un ambiente ideale per la parola. La stessa altezza abitabile può essere ricondotta a tale principio, così che chiunque sia coinvolto in qualsivoglia discussione sia obbligato a ri-
36 manere seduto, in una posizione che di per sé richiama alla calma. “Non è possibile litigare sotto al Toguna, se un uomo s’infuria si alza di scatto battendo la testa contro le travi del soffitto; è costretto a risedersi e gli passa la voglia di litigare”. [dichiarazione di un Dogon] Come aveva osservato anche Griaule nei suoi studi etnologici, i dogon sanno che le posizioni dei corpi influiscono sulla parola. In effetti essa segue naturalmente la posizione in cui viene pronunciata, così che la vera parola tra i dogon (così come per altre popolazioni africane) sia tradizionalmente quella pronunciata da seduto. Posizione questa che permette l’equilibrio tra le facoltà. “Colui che vuole essere ascoltato, che ha delle parole importanti da pronunciare, si siede, al contrario colui che parla seduto si alza bruscamente se viene preso dalla collera. Ci si batte in piedi, ma per riconciliarsi è necssario sedersi; non si litiga da seduti.” [Griaule in Etnologie et Language] La scelta delle proporzioni strutturali testimonia una notevole sensibilità verso i temi socio-politici che quest’edificio è destinato ad affrontare nel corso del-
37 la sua vita. Il toguna è decisamente uno strumento sociale, non solo perché svolge la funzione di luogo amministrativo, ma perché nel disegno del suo progetto è insito tale scopo. Quando parliamo, in ambito di architettura primitiva, di architettura funzionale, non dobbiamo dimenticare la relazione tra funzione e utilità religiosa. Mentre in occidente funzionale è fondamentalmente qualcosa di utile praticamente, in moltissime culture funzionale è anche ciò che è simbolicamente utile a relazionare la mitologia il mondo sovrannaturale con la realtà quotidiana. Il togu na è il luogo della parola saggia, pronunciata dagli anziani del villaggio. Nella mitologia dogon gli antenati che portarono alla creazione del mondo e all’educazione dell’uomo alla parola e ai segreti della vita furono 8 geni. Essi portarono ordine
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sulla Terra e sono incarnati negli otto pilastri che reggono la tettoia del toguna. I pilastri disposti in tre fine parallele, sono tre sui lati ad est ed ovest e due centrali. Numerandoli dall’esterno all’interno, il settimo ed ottavo pilastro risultano essere quelli centrali; non a caso il settimo ed ottavo genio sono rispettivamente il Signore della Parola e la Parola stessa. Per quanto riguarda il rapporto con il territorio, l’uso dei materiali e la forma della pianta seguono strategie adattive a seconda del caso, mentre le scelte costruttive sfruttano a pieno le possibilità climatiche del luogo. Così sorgono muri per proteggersi dai forti venti, frangisole per i casi più assolati e meno ventilati, tettoie fresche che proteggono dal sole e asciugano velocemente nella stagione delle piogge.
Otto antenati (quattro uomini e quattro donne). Schema dei pilastri nel toguna.
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ALTOPIANO TORO L’altopiano è un’estensione di arenaria ferruginosa a 500 m di altezza sul livello del mare, particolarmente arida, dove rare sono le sorgenti di acqua ed estremamente difficoltose le coltivazioni. Per questi motivi e per causa delle scarse possibilità di difesa offerte dal territorio, l’altopiano è ben poco abitato. Qui si collocano gli insediamenti più antichi (circa dal 1300) e in essi è visibile la prima forma del toguna, priva di simboli e decorazioni aggiuntive. La struttura portante di otto pilastri di pietra era assieme radice profonda nel mito (otto furono gli antenati che diedero origine e ordine al mondo) ed essenziale funzione. Sull’altopiano si identificano due diverse tipologie di toguna, a seconda che siano essi situati in villaggi isolati o lungo le piste di comunicazione. Nel primo caso il toguna aveva anche funzione di vedetta mimetizzata e dunque costruito tra i massi; come base veniva scelta una roccia Toguna del villaggio di De (Peto, la leggenda narra di un cacciatore che dopo una faticosa rincorsa si sedette nel luogo dove ora sorge il villaggio e scorreggiò) insediato nella parte più aperta dell’altopiano, battuta da venti particolarmente forti nella stagione delle piogge. La natura del territorio ha le caratteristiche della savana arbustiva con pochi alberi e rare formazioni rocciose. La mancanza di pietre e alberi determina la costruzione della muratura in banco, mentre il clima impone l’uso della muratura continua su tre lati, con aperture per la ventilazione. L’altezza del toguna è quella tradizionale che obbliga a stare seduti.
pressoché piana. Poiché queste rocce non hanno quasi mai forme regolari, anche il toguna ha difficilmente ha una pianta rettangolare, tuttavia quasi sempre viene rispettato l’orientamento N-S dell’asse maggiore del poligono. I pilastri sono realizzati con pietre sovrapposte e raggiungono l’altezza di 1,3-1,5 m. In altri villaggi i toguna sono localizzati lungo vie di comunicazione, in ampi spazi aperti battuti da piogge e venti, che quindi necessitano della protezione della muratura continua ( su tre lati). Nel lato aperto e nelle campate interne la struttura è in sottili pilastri lignei forcuti, reggenti le travi del tetto. Nella muratura in banco vengono aperte delle piccole finestre secondo la direzione dei venti predominanti, per garantire una circolazione di aria anche durante le ore più calde del giorno.
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FASCIA ROCCIOSA KOKO Si tratta di un dirupo caotico di enormi massi disgregati dall’altopiano con vaste e profonde caverne d’erosione. Per oltre seicento anni la popolazione dogon si è concentrata sulla parte esposta a sud, verso la pianura del Séno, su di una fascia lunga più di 200 Km, con un’altezza variabile tra i 200 m e i 400 m. Qui il popolo dogon ha trovato le condizioni orografiche sufficienti a garantire una buona difesa dagli attacchi delle tribù nemiche. Nella fascia rocciosa si è sviluppata la ricca cultura dogon e ha preso vita la struttura sociale tradizionale. Toguna del villaggio di Banani ( non ne posso più, sono stanco) uno degli antichi insediamenti della fascia rocciosa. L’abitato è diviso in quattro quartieri e il toguna qui riportato è uno dei quattro a capo di ciascuna frazione. A causa del consistente flusso turistico, durante la ricostruzione dei toguna, alcuni elementi delle decorazioni sono stati modificati per rientrare nell’interesse folkloristico. Il toguna del quartiere Kokoro riporta alcune decorazioni provenienti da contaminazioni sudanesi. Nonostante la contaminazione figurativa la struttura portante e la tecnologia è rimasta quella tradizionale. Nelle ricostruzioni si è infatti tenuto fede alla regola di mantenere inalterati il luogo e la struttura del toguna precedente.
Per questo motivo i toguna qui presenti hanno un ruolo simbolico e forti connotazioni mitologiche, rimanendo inseriti pienamente entro le strutture amministrative e sociali. Data la difficoltà di trovare ampie rocce sporgenti i toguna della fascia rocciosa sono di piccole dimensioni (4x5 m), dalla pianta irregolare e dalle strutture portanti diversificate a seconda delle necessità e possibilità date dal territorio.
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Toguna del villaggio di Ireban ( casa rossa, poiché è stato costruito in terra rossa) ai piedi dell’impervio picco di Bamba, importante punto visivo di riferimento nella parte desertica della pista che attraversa la pianura del Séno. Il toguna del quartiere di Dotaga è costruito come molti di questa zona su una pianta circolare. Questo ci riporta all’epoca antica in cui anche le donne erano ammesse al toguna, di fatti lo stesso impianto è utilizzato nella costruzione della casa delle donne (nella quale esse si ritirano durante il periodo mestruale). La struttura portante è composta di quattro elementi, riferimento al numero sacro 4, che si riferisce alle quattro labbra del sesso femminile e dunque alla donna stessa. Questo toguna offre un esempio di perfetta mimesi ambientale, data dalle caratteristiche dei pilastri in pietra, che si fondono con la sassaiola della fascia rocciosa.
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43 Toguna del villaggio di Neni (sei giunto qui, ti ho accompagnato) costruito nella scogliera. I Dogon in fuga dalla persecuzione islamica avevano qui utilizzato le precedenti abitazioni abbandonate dell’antico popolo Tellem, raggiungibili sono per mezzo di grosse funi calate dall’alto. In seguito il villaggio fu trasferito ai piedi della parete rocciosa, mentre il toguna rimase l’unico elemento testimone di questo passato. Ancora oggi il toguna di Neni svolge non solo una funzione di puro riferimento ambientale, ma anzi svolge un ruolo di collegamento sociale per tutti i nativi di Neni, anche se migrati in altri villaggi. In esso avvengono ancora le riunioni necessarie all’amministrazione della popolazione di Neni. Nonostante la costruzione di un tamponamento in banco per offrire ai più anziani un angolo più riparato, la struttura e l’iconografia del toguna rispecchia ancora le regole rituali originarie.
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PIANURA MANU La pianura Sèno si estende dai piedi della fascia rocciosa fino ai confini del Burkina Faso, originatasi per erosione differenziata dell’antico massiccio montuoso. Il terreno è particolarmente fertile e inondato durante la stagione delle piogge anche se nella zona ad est presenta le caratteristiche del deserto, con dune che si innalzano dai 5 m ai 30 m. L’intera regione è totalmente priva di corsi di acqua e la popolazione amministra con estrema cautela le risorse date dai rarissimi stagni permanenti o da pozzi perforati che arrivano a pescare da una falda acquifera stabile a 80 m di profondità. Questi fertili territori furono anch’essi popolati in antichità e periodicamente disabitati per causa dei continui attacchi delle popolazioni nemiche, facilitate dalla scarsa capacità difensiva dogon. Dopo il 1920 il popolo dogon, ultimo delle tribù Niger ad arrendersi ai francesi, tornò ad occupare i vecchi villaggi formandone anche di nuovi in un forte processo migratorio, che interessò soprattutto i giovani dell’altopiano. Tendenzialmente i nuovi nuclei sono composti da un gruppo di individui omogeneo proveniente dallo stesso villaggio, tuttavia in caso contrario, ogni gruppo stabilisce una propria area o quartiere a
cui da il nome del villaggio di origine e che vede come propria testa il toguna di riferimento. Nella pianura questi edifici sono situati ai margini della pista che collega i diversi villaggi, in una zona ampia abbastanza da permettere lo svolgersi di attività della comunità, nonché favorire gli scambi e le conoscenze tra i diversi Ginna. Nella pianura il terreno libero permette la realizzazione dei toguna in pianta rettangolare; i pilastri sono realizzati esclusivamente con legno di kile, albero di essenza durissima e quasi incorruttibile dalle termiti, quindi molto duraturo. Il tronco di quest’albero dopo il 1,80 m si biforca e inizia a ramificare dopo 30 cm; per ricavare i pilastri si taglia l’albero da terra fino alla forca inclusa, così che questa sia utile all’appoggio dell’orditura primaria del tetto. Il tronco viene segato in verticale nell’adeguato spessore e scolpito per ricavarne sculture in corpo unico con esso. I pilastri sono infissi a terra per 40-50 cm per cui la struttura risultante varia in altezza dai 1,60 m ai 1,70 m totali, la cui altezza abitabile non supera generalmente il 1,50m. I pilastri portanti sono solo 8 e poiché non sono in numero sufficiente per proteggere dal sole e da vento, tra di essi ne vengono intercalati molti altri più piccoli, così da fungere da frangisole e frangi-vento.
Toguna del villaggio di Anakila ( costruito e finito) tra i più vecchi della pianura, poco lontano dalla pista, situato su di una duna e attorniato da alberi di fico. E’ l’unico toguna del villaggio, costruito in una piazza all’incrocio delle vie principali. Il toguna è rimasto intatto a quello del 1905 fatta eccezione per un pilastro ora mancante. Lo reggono 104 pilastri scolpiti, di cui solo 4 sono portanti, mentre gli altri hanno la funzione di frangisole. Complesso è il significato dei simboli riportati dalle sculture, ma in generale si riporta la fertilità data dall’unione di uomo e donna. I seni femminili e gli attributi maschili
sono presenti su tutti i pilastri, i quali hanno però una sola testa; è così rappresentata la coesistenza del maschio e della femmina in un corpo solo, con una sola testa.
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Toguna del villaggio di Sedourou (un gatto selvatico). Ci sono pochi riferimenti al riguardo dei significati delle sculture incise sui pilastri. Questo edificio è spesso oggetto di interesse monetario di mercanti di oggetti africani. Nelle ultime rilevazioni è stata segnata la vendita di alcuni pilastri da parte dei membri piÚ anziani per sopperire a gravi problemi finanziari della collettività .
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Parte Seconda | Architettura in Africa Occidentale
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Dio d’Acqua
Per gli occidentali la fama degli abitanti della Falaise di Bandiagara è legata alla loro complessa cosmologia e al riflettersi di questa tradizione in ogni gesto, oggetto e momento della vita quotidiana. Un’immagine che è stata diffusa in tutto il mondo dalle pagine di Dio d’Acqua, di Marcel Griaule. Vista dal nostro pianeta, l’Uomo Dogon è la crosta stessa della terra e con lei in definitiva si confonde. Questo equilibrio tra uomo e natura è frutto di una complessa organizzazione sociale, che definendo le sue idonee strutture ha tenuto fondamentalmente conto degli equilibri naturali esistenti, adattandosi ad essi e utilizzandoli in una maglia estremamente duttile, nella quale ogni essere vivente e ogni elemento trova la sua collocazione e funzione, in una relazione armonica che possa garantire la sopravvivenza della comunità. Per consentire la permanenza di questa difficile organizzazione comunitaria, su di un territorio spesso crudele, è stato indispensabile definire punti di riferimento invalicabili che nella cosmologia e nel mito fortificassero le radici di un mondo agricolo. L’insediamento dei villaggi, la disposizione delle abitazioni, dei granai e degli edifici collettivi, gli elementi naturali, gli oggetti d’uso e gli strumenti di lavoro attraverso i tempi e le modalità del loro utilizzo assumono valori e significati rituali che legano gli individui tra loro e nella comunità in un rapporto interdipendente con il mito e la religione.
Dunque vivere in un ambiente tanto ostile ha prodotto uno sforzo comunitario e una coltura complessa che affonda le proprie radici nel terreno e nel rapporto uomo-natura. L’uomo ha riconosciuto in questa terra la propria madre, avendone avuto rifugio e sostegno, le ha dedicato solerti attenzioni per vivere in simbiosi con essa. Per ciò i dogon di sono identificati in un mito che associa e giustifica eventi soprannaturali a fenomeni naturali, così che l’uomo potesse in esso trovare conforto dalle difficoltà della vita. Il risultato di questa simbiosi uomo-terra è evidente nell’habitat dogon nella fascia rocciosa, in cui esiste un perfetto equilibrio tra natura esistente e sapiente e tenace intervento dell’uomo; ogni deiezione, in cui i massi non siano tropo grandi, viene sistemata a piccole terrazze-orti delimitate a valle da muri che hanno la funzione di tenere la poca terra e di arginare l’erosione continua delle rocce. L’elemento principale della mitologia appartenente a questa popolazione di agricoltori è l’acqua: incarnata nel genio Nommo. Nella religione dogon la fecondazione della terra da parte dell’acqua si confonde con la sessualità umana nell’unione tra l’Uomo e la Donna. La struttura stessa dei granai, identica a quella degli altari dedicati agli antenati, testimonia l’unione profonda tra mito, agricoltura e architettura.
Casa del Hogon, anziano del villaggio, con nicchie tradizionali in facciata.
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CASA DI FAMIGLIA TRADIZIONALE L’orientamento dell’edificio si pone come tutto il villaggio sull’asse N-S, con l’ingresso al centro della parete a Nord. La facciata è 12 cubiti per un’altezza di 8 ( 6x4 m circa) e presenta una scacchiera di vuoti e pieni; dieci file verticali di otto nicchie quadrate, di un palmo ciascuna, che cominciano da terra e sale fino ad una fila orizzontale di fori tondi, molto più piccoli, protetti da un tettuccio di legni che sporge di circa 25 cm. L’edificio è coronato da colonnette slanciate coperte da una pietra piatta per proteggerle dalle intemperie. Al centro due porte separate da due nicchie; quella a piano terra si chiede con due semplici scuri lisce e quella superiore, più piccola, è costituita da una tavola unica scolpita. Le otto file di dieci nicchie rappresentano gli otto antenati e la loro discendenza, numerosa quante le dita delle loro mani (10). Le dieci serie, guardando la casa da di fronte, rappresentano le dita di due mani distese una affianco all’altra, distanziate dalla porta. I dieci fori tondi sono nidi di rondini, il pollaio degli antenati, mentre le colonnette sono gli altari degli antenati.
Facciata di una casa tradizionale dogon.
L’articolazione della pianta e degli spazi interni alla casa è totalmente improntata sul rito della fecondazione della terra (la dea madre, la Donna) da parte dell’acqua (il genio Nommo, l’Uomo). La pianta ricorda una croce greca con braccia spesse e corte, suddivisa in uno spazio centrale quadrato di circa 4m per lao e quattro ambienti laterali, dei corridoi lunghi di 2x4m. L’ingresso principale che dall’esterno porta al vestibolo simboleggia i genitali maschili (il vestibolo è l’area propriamente maschile),mentre la seconda porta che introduce all’ambiente centrale (d’uso per lo più femminile) rappresenta gli organi femminili. La donna (piano terra) sorregge l’uomo (piano superiore) con le braccia tese (pilastri) nell’atto dell’unione matrimoniale. Il focolare situato a Sud rappresenta la testa di entrambi; in particolare nella mitologia dogon gli antenati nacquero con attributi sia maschili che femminili pur avendo una sola testa. Si potrebbe anche assimilare l’unione qui rappresentata alla riproduzione del corpo di un antenato.
Pianta di una casa tradizionale dogon.
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Capitolo Sesto | Dio d’Acqua
VILLAGGIO Il villaggio si estende da Nord a Sud e rispecchia il disegno del Lebè (antenato) sepolto sotto al fiume. Esso dunque segue la disposizione dei nodi articolari di un uomo che giaccia supino. La testa è rappresentata dalla piazza principale su cui sorge il togu na, a nord del quale c’è la fucina (strumento di creazione del mondo). Le mani sono rappresentate dalle case rotonde per le donne mestruate, ai lati est ed ovest, mentre i piedi sono esposti a sud, rappresentati dai tre altari. Il petto è costituito dalle case di famiglia, mentre gli attributi (maschili e femminili) sono esposti a nord degli altari, simboleggiati rispettivamente dall’altare di fondazione del villaggio e dalla macina per il miglio.
Impianto tradizionale di un villaggio dogon.
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Parte Terza Architettura del Territorio in Australia Centrale
Relazioni tra Territorio, Società e Mito in mancanza di un’architettura costruita
Parte Terza | Aranda
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Australia
Secondo gli archeologi, i primi antenati dei moderni aborigeni provenienti dall’Asia giunsero sul continente australiano circa 45.000 anni fa. Nei successivi 20.00030.000 anni gli aborigeni percorsero il continente tracciandone i confini territoriali e contribuendo in maniera diretta alla sua conservazione fino all’arrivo degli europei, i quali lo trovarono intatto, privo delle modifiche a grande scala tipiche dello sviluppo urbano. Gli aborigeni australiani avevano costituito circa 500600 regni territoriali, ciascuno dei quali era diviso in gruppi famigliari e tribali che parlavano più di 250 lingue diverse oltre a centinaia di dialetti. I rapporti di parentela tra le famiglie dei clan e i membri esterni erano regolati da sofisticate leggi e politiche sociali, intrinsecamente legate ai luoghi di stanziamento delle singole tribù. La peculiarità del modo di abitare delle tribù aborigene, è l’assenza di qualsiasi tipologia costruttiva. Qui l’architettura intesa come costruzione o modificazione del territorio non è presente in nessuna sua forma e persino le strade e i sentieri seguiti stagionalmente, non sono realmente riconoscibili dal resto del paesaggio. Gli aborigeni australiani adottarono per millenni questa strategia adattiva per sopravvivere in un territorio molto ostile. Fu questo atteggiamento passivo che permise una completa integrazione dell’uomo nell’ambiente e che mantenne intatto il paesaggio e gli habitat natu-
rali australiani fino all’arrivo dei primi coloni. Il motivo di questo adattamento quasi unico nel suo genere si deve probabilmente alle caratteristiche geo-climatiche del continente. Definito il continente fossile, la maggior parte delle sue rocce si sono formate nel Precambriano (il primo eone) e dunque, in seguito all’erosione di milioni di anni il paese è per lo più pianeggiante ed ha un suolo prevalentemente arido. Solo le regioni sud-orientali e sud-occidentali presentano un clima temperato: in forza di tale situazione la popolazione australiana si concentra negli Stati del sud-est. In seguito alla forte colonizzazione e alle politiche di occidentalizzazione che portarono alla generazione rubata, ( i bambini aborigeni venivano allontanati dalle rispettive famiglie per seguire un’educazione occidentale, nel tentativo di integrarli nella nuova società australiana), le tribù aborigene andarono diminuendo, mentre si aggravò sempre di più il clima discriminatorio nei confronti dei nativi. Ad oggi sopravvivono solo poche tribù aborigene, ritiratesi nei luoghi sacri all’interno del continente, in zone desertiche e abbandonate dagli occidentali. Il 2% della popolazione australiana censita è aborigena e costituisce un vero dramma sociale e culturale, data l’assenza di politiche sociali adeguate che non permettono nè una loro effettiva integrazione, nè garantiscono una valida difesa all’autonomia etnica-culturale.
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Aranda
In ambito di popolazioni nomadi non si osserva una grande produzione architettonica; è il territorio a svolgere il ruolo di strumento d’ordine sociale. Su di esso si articola la sovrastruttura interpretativa della società che lo abita; così che, se da un punto di vista della produzione materiale, l’architettura nomade non può superare certi limiti tecnologici, da quello della conoscenza territoriale essa è già uno strumento completo: il complesso patrimonio mitico è spesso un processo di semantizzazione degli elementi paesistici che connotano il territorio in cui il gruppo è stanziato. Il mito assume così un valore mnemonico di ricostruzione paesaggistica, in grado di fornire un efficace orientamento territoriale. Questa ri-creazione del paesaggio attraverso la mediazione del mito, si pone propriamente come un’attività architettonica: essa è infatti garanzia della possibilità di incidere attivamente sul territorio, intesa come inter-
pretazione e umanizzazione del territorio stesso. In questo contesto si inseriscono gli Aranda, una popolazione aborigena stanziata nell’Australia centrale, nell’aree limitrofe ad Alice Springs. Ad oggi la zona è interesse di un certo flusso turistico, dovuto alla curiosità verso la cultura aborigena e alla presenza del massiccio Uluru (la montagna simbolo dell’Australia). La conoscenza da parte del mondo occidentale degli Aranda si deve allo studioso Theodore George Henry Strehlow. Soprannominato anche tedesco buono, Strehlow non era assolutamente in linea con gli obiettivi dell’Australia di ceppo britannico in forte espansione territoriale, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Nato nel cuore del territorio degli Aranda, crebbe in un miscuglio unico di educazione meticcia, che lo portò a documentare da antropologo sul campo, cerimonie, canti e rituali aranda. L’abbracciare interamente la cultura aranda gli procurò grosse divergenze con il governo
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dell’epoca, così che i suoi scritti Aranda Traditions (1947) e Songs of Central Australia (1971) non conobbero una diffusione mondiale fino agli anni novanta del secolo scorso. Mentre studiosi a lui contemporanei screditavano il popolo aborigeno descrivendolo come il più arretrato e primitivo dei popoli, Strehlow adottò un linguaggio quanto più possibile neutro, riuscendo a capovolgere questo radicale pregiudizio. Fortunatamente il popolo aborigeno è tuttora vivo e con tradizioni ancora intatte, malgrado le decimazioni storiche, così che oggi il mondo occidentale possa coglierne apprezzarne la complessità. Nel mondo aborigeno il mondo maschile è completamente separato dal quello femmiile, così che gli uomini non possono partecipare ne conoscere i rituali e le tradizioni proprie delle donne e viceversa. Solo con l’indagine di molte donne antropologhe si è arrivati ad una conoscenza completa del patrimonio culturale aborigeno. Da questi studi è emersa una cultura capace di far convivere monoteismo sessuato con una comunità polito-
58 temica e polisessuata. Da ultimo si sottolinea il ruolo centrale della narrazione come processo creativo: la creazione consiste nel dare n nome alle cose. “nel Tempo del Sogno il paese non era esistito finchè non era stato cantato. Nel Presente, il divino che è in ciascuno ha un unico scopo: continuare la creazione, rinnovandola, proteggendola, conservandola” [T.G.H.Strehlow in Aranda Traditions, 1947]
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Introduzione
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Parte Terza | Aranda
Dreamtime
La terra, come il cielo, esiste da sempre; appariva come una pianura desolata e informe. Su quest’arida superficie non vi erano catene montuose, dune e corsi d’aqua. Soltanto al di sotto di essa la vita pulsava nella sua pienezza, sotto forma di esseri soprannaturali increati che esistevano da sempre; ma stavano ancora dormendo nel loro sonno eterno. Il Tempo ebbe inizio quando questi esseri soprannaturali rinvennerodallorotorporeederupperosullasuperficieterrestre; i loro luoghi di nascita furono i primi siti ad essere impregnati della loro vita e del loro potere. Essi presero forma di animali mantenendo un pensiero umano ed altri la forma di esseri umani atteggiandosi da animali. Una volta nati, gli antenati totemici presero a girovagare sulla terra e a compiere azioni che nel tempo diedero vita a tutte le caratteristiche del paesaggio australiano.
AlcuniantenatitotemiciassunserolafunzionediEroiCulturali. Gli uomini infatti alTempo del Sogno esistevano sottoformadimasseembrionali,centinaiadiinfantinon-formati uniti tra loro. Tra i più importanti degli eroi ci fu colui che svegliò gli uomini e scorporandoli dalle masse semi-embrionali infuse in loro pienezza di vita, insegnando poi loro i rudimenti della sopravvivenza. Dopo che gli esseri soprannaturali nati dalla terra ebbero finite le loro fatiche e conclusoilorovagabondaggi,unastanchezzasoverchiante cadde su di loro. Avevano trovato la terra un luogo di oscurità, arido e desolato, e l’avevano trasformata in un luogo di vita e di luce. Cosìessisprofondarononuovamentenellevisceredellaterra, riprendendo il loro sonno eterno e i luoghi del loro sonno finale furono resi sacri come i loro luoghi di nascita. [racconto del Dreamtime presso gli Aranda]
Capitolo Settimo | Dreamtime
“Gli aborigeni non credevano all’esistenza del paese finchè non lo vedevano cantavano, allo stesso modo, nel Tempo del Sogno, il Paese non era esistito finchè gli antenati non lo avevano cantato”. [Bruce Chatwin] Fulcro della cultura aborigena è il Dreamtime o Epoca del Sogno, un ricco insieme di miti e canti e rituali atti a tramandare le origini del mondo e a spiegare il passato e il presente. Esso è un elemento comune e unificante delle credenze religiose, dei rituali, dei comportamenti e delle abitudini sociali; esso collega intimamente e indissolubilmente ogni aborigeno alla propria terra o al proprio territorio, che costituisce l’essenza più vera del Dreamtime. Nel caso australiano si può parlare di paesaggio totemico: non esiste alcuna caratteristica morfologica degna di nota del territorio australiano che non sia associata a qualche episodio di uno dei molti miti sacri, o ad un verso dei molti canti sacri, nei quali trovano espressione le credenze religiose aborigene.
62 Il patrimonio mitologico svolge in effetti un’ importante funzione di enciclopedia geografica orale, indicando cosa i viaggiatori umani avrebbero trovato lungo li loro viaggi, a loro volta replica delle peregrinazioni mitiche avvenute nel Dreamtime. Oltre a fornire un buon metodo di orientamento su di un continente immenso, il mito è strumento di coordinazione sociale all’interno di ogni tribù e tra le tribù stesse. Queste infatti interagiscono tra loro e sul territorio in maniera consapevole e mirata alla condivisione delle risorse, affinché tutti i gruppi possano sopravvivere tranquillamente all’interno del relativo territorio. Ogni tribù custodisce nella propria tradizione totemica, le storie e le azioni eroiche legate all’area geografica abitata, così che ognuna di esse custodisca un pezzo di un puzzle più grande, comprendente l’intero territorio conosciuto. Questo è concepito come una struttura architettonica di soste e percorsi ben rappresentati dal Dreamtime, a sua volta insieme di viaggi e soste compiuti dagli eroi mitologici. Il Dreamtime è anche uno
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strumento di sopravvivenza all’interno di un ambiente molto ostile, una guida sicura per ritrovare le risorse scarse , ma presenti in esso. Non è un caso infatti che la maggior parte dei luoghi sacri, dove nacquero o si assopirono gli eroi corrispondono a pozze d’acqua affioranti o sotterranee, sorgenti o fiumi. Accanto si vede la riproduzione del fiume Dakover sulle cui sponde sono distribuite cinque diverse tribù. L’area di competenza di ciascuna di queste è definita dal percorso del fiume entro due sue anse, alla quale è associata una bandiera di riferimento. Ogni area contiene le risorse naturali necessarie alla sopravvivenza di un gruppo , così che ogni tribù possa essere autosufficiente. Gli aborigeni instaurarono da sempre un rapporto adattivo con la Natura, seguendone le regole e i ritmi, senza sviluppare nessuna di quelle tendenze edificatorie che connotano le altre civiltà umane. Essi fondano la loro cultura sulla ripetizione di comportamenti che hanno permesso la loro sopravvivenza per millenni, in una
Simboli territoriali aborigeni.
Rappresentazione della distribuzione tribale sul fiume Dakover e i suoi affluenti.
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concezione ciclica coerente con il flusso ecosistemico naturale, ed estesa in maniera capillare nella loro cultura: tutto è parte dell’universo, uomo compreso. Dunque egli non può pensare di poter appropriarsi di qualcosa che non gli appartiene, né è necessario che si procacci cibo e acqua, giacché l’universo fu creato per sostentarlo e accoglierlo nel corso della sua vita. Una capanna e dei vestiti risultano quindi inutili in una visione di Natura accorta ai bisogni umani. In effetti la particolarità del caso australiano sta proprio nel tipo di legame tra territorio e uomo. Gli aborigeni credono che l’essere umano abbia due anime, una mortale e una immortale, incarnazione della forza vitale di uno degli antenati del Dreamtime. Mentre l’anima mortale viene trasmessa dalla madre al figlio, l’altra si insinua nel corpo del feto al momento della prima nausea o altro sintomo di gravidanza e deriva del luogo stesso in cui avviene tale manifestazione. I centri sacri da cui gli eroi emersero e quelli attraverso
64 cui tornarono alla terra sono fulcri pregni di energia in cui la tribù effettua periodicamente degli stanziamenti e dai quali escono queste anime totem. Ogni aborigeno è dunque intimamente legato al luogo di “concepimento” dal quale deriva la propria identità totemica e il suo ruolo all’interno del gruppo. Può capitare dunque che in una tribù coesistano diversi totem, presenti allo stesso modo in tribù differenti. Ogni aborigeno custodisce le narrazioni e i rituali legati al proprio totem, così che in una singola tribù ognuno sia custode della storia di un determinato luogo e responsabile della sua cura e mantenimento. Le cerimonie annuali coinvolgono gruppi di uomini con lo stesso totem, così che diverse tribù si occupino di mantenere intatte (in senso rituale e materiale) parti di territorio che abitano, ciascuna in periodi dell’anno diversi. In questo senso, diverse tribù abitanti aree molto vaste di territorio, si trovano direttamente implicate nei ritua-
65 li di salvaguardia dello stesso. I rituali di rigenerazione infatti hanno l’obiettivo di mantenere il paesaggio così come è stato tramandato di generazione in generazione. Tenendo in considerazione quanto spiegato e ricordando che le migrazioni e i rituali eseguiti dagli aborigeni sono una replica del Dreamtime, che a sua volta è semantizzazione del paesaggio, è evidente quanto il territorio sia profondamente radicato nella cultura aborigena. Esso è matrice poiché su di esso sono plasmate le storie mitologiche; è prodotto poiché nella ripetizione dei percorsi mitologici l’Uomo è in grado di interagire con l’ambiente ricavando da esso le risorse necessarie al sostentamento; è strumento poiché attraverso la sua semantizzazione le tribù trovano una coesione sociale-culturale, garantendo all’individuo una struttura capace di concretizzare le gerarchie e l’insieme dei rapporti tra gli uomini e il territorio.
Dreamtime. Creazione di un fiume dopo il passagio del dio serpente.
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IL MASSICCIO DI ULURU. Uluru (chiamato in inglese Ayers Rock) è il più imponente massiccio roccioso dell’outback australiano. Circondato dalla superficie completamente piana del bush, Uluru è visibile da decine di chilometri di distanza ed è celebre per la sua intensa colorazione rossa. La superficie, che da lontano appare quasi completamente liscia, rivela avvicinandosi molte sorgenti, pozze, caverne e peculiari fenomeni erosivi. Si tratta di un luogo sacro per gli aborigeni, formalmente riconsegnato dal governo australiano agli indigeni del luogo nel 1985. Le narrazioni aborigene a proposito di questo enorme massiccio di arenaria sono molte e cercano di spiegare ogni particolarità geomorfica del massiccio. Dall’insieme delle storie aborigene si può ricavare una mappa precisa delle caratteristiche geomorfologiche del massiccio e dei luoghi in cui è possibile ritrovare sor-
genti e ruscelli stagionali. La particolarità del massiccio è la sua posizione isolata su di una piana vasta, tanto che risulta visibile da molto lontano. Questo è uno dei motivi per cui Uluru è stato per moltissimo tempo un luogo di incontro tra diverse tribù, in occasione di cerimonie che avevano, oltre al significato sacro, l’effettivo compito di mantenere rapporti di scambio materiale e culturale. La piana del Bush non è un luogo particolarmente fertile, ma grazie alla presenza di Uluru, da cui sgorgano sorgenti d’acqua, l’area limitrofa è tappezzata con macchie di vegetazione locale, in cui vivono 46 specie differenti si mammiferi autoctoni. Non sorprende dunque la sacralità del sito, data la sua importanza per la sopravvivenza delle molte tribù aborigene del luogo.
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NARRAZIONI ABORIGENE SU DI ULURU. Secondo il mito, Tatji, la Lucertola Rossa, che abitava nelle pianure, giunse a Uluru. Lanciò il suo kali (boomerang), che si piantò nella roccia. Tatji scavò la terra alla ricerca del suo kali, lasciando numerosi buchi rotondi sulla superficie della roccia. Questa parte della storia è volta a spiegare alcuni insoliti fenomeni di corrosione sulla superficie di Uluru. Non essendo riuscito a trovare il suo kali, Tatji morì in una caverna; i grossi macigni che vi si trovano oggi sono i resti del suo corpo.
Secondo il mito di Kuniya, durante il dreamtime, gli uomini pitone giunsero a Uluru da tre direzioni diverse. Una delle donne portava sulla testa delle uova, che seppelì a est di Uluru. Un giorno i Kuniya furono attaccati dai velenosi uomini serpente, nati dalle uova dischiuse. I segni delle lance si possono vedere sul versante sud-ovest. L’acqua che scorre lungo il versante percorre il cammino di un eroe che morì sconfiggendo i serpenti.
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Conclusione
Fare architettura non è solo un processo edificatorio: esso raccoglie in sé l’insieme delle possibilità dell’uomo di interagire con la realtà fisica del territorio, la codificazione dello stesso e delle regole civili e culturali che mantengono un popolo unito e socialmente stabile. L’architettura è il mezzo attraverso cui l’uomo abita la terra, potendo in essa esprimere la complessità della propria natura, in un adattamento continuo ai casi ambientali specifici. Nella stragrande maggioranza dei casi essa si concretizza in costruzioni e modifiche sostanziali su diversa scala. Tuttavia esiste la possibilità che il territorio stesso di faccia architettura, permettendo un integrazione quasi assoluta dell’uomo entro i cicli naturali (seppur comportando un’impossibilità evolutiva dal punto di vista tecnologico e di comfort abitativo). Oggi, nel tentativo di preservare l’ecosistema terrestre da un ulteriore deterioramento, l’architettura cerca risposte sostenibili, ecologiche, integrate nell’ambiente. Si ricerca quel legame che per secoli e in certi casi ancora oggi, rapporta l’uomo al suo pianeta in modo simbiotico. Forse l’architettura tradizionale, con i suoi casi specifici e articolati, può essere un buon inizio per un pensiero auto-analitico che torni non solo alle radici del fare architettura, ma che rapporti l’uomo con se stesso , ridimensionandone gli orizzonti progettuali.
I casi raccolti in questa tesi, sono tutti accomunati dal valore umano espresso in un’attenzione voluta e sensibile sia alle necessità funzionali (coerenza forma-funzione, ma anche società-funzione, mito-funzione...etc) che al contesto ambientale (coerenza ecosistema naturale e antropico). Si tratta di architetture spontanee, senza il pedegree dato dal nome dell’architetto o costruttore, nate per uno scopo preciso e con caratteristiche che le rendono uno strumento completo per il vivere dell’uomo. Non è un caso che molti architetti contemporanei si rivolgano per le loro aspirazioni progettuali all’architettura tradizionale dei propri paesi. Infatti, nonostante la scuola positivista tenda a dimostrare una stretta dipendenza dei tipi costruttivi al clima, alle risorse naturali e alla disponibilità di materiali da costruzione, l’architettura spontanea si sviluppa e si differenzia come strumento di vita sociale malgrado le limitazioni ambientali e non a causa di esse. Le correnti culturali, le strutture sociali e produttive, le credenze religiose risultano spesso più importanti delle costrizioni ambientali esterne, condizionano la scelta delle forme architettoniche e cercano talvolta di superare le costrizioni imposte dall’uso di materiali locali. Un’architettura senza architetti, riprendendo qui Rodufsky, è un’architettura necessaria, destinata ai biso-
Conclusione
gno di una comunità e sorta dalla comunità stessa. Essa ci fa riflettere sul fatto che troppo spesso si è connotato l’architettura di aggettivi, semplice, spontanea, sostenibile, comunitaria, come se si volesse far intendere l’esistenza di un’architettura che potesse esprimere i concetti opposti. L’esperienza narrativa della mostra Architettura senza architetti, organizzata da Bernard Rudofsky al MOMA Museum di New York nel 1964, ci mostra un’architettura che vede in sé tutti questi connotati, dando una risposta efficace alle strutture culturali e ai bisogni sociali e psicologici delle popolazioni. Probabilmente non dovrebbe poter esistestere questa aggettivazione di architettura, proprio perchè non dovrebbe esistere una forma di architettura priva di
70 questo legame profondo con la comunità e il territorio cui appartiene. Bisognerebbe forse uscire dal metodo accademico della categorizzazione e comprendere nel termine Architettura non solo i principi di forma e struttura, ma anche i suoi legami viscerali con la comunità e il territorio. “parte dei nostri problemi deriva dal fatto che tendiamo ad ascrivere al sapere tecnico-specialistico il compito di tradurre in forma architettonica il complesso concetto di abitare, quando nella realtà gli specialisti sono impegnati in problemi di business e prestigio personale. Ecco perché l’arte dell’ abitare non è né promossa, né insegnata nei nostri paesi” [Architecture Without Architects, Bernard Rudofsky, 1964]
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Conclusione
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Bibliografia e Sitografia
ALBERTO ARECCHI
AbitareinAfrica:architetture,villaggiecittànell’Africasubsaharianadalpassatoalpresente, 1999
BERNARD RUDOFSKY
ArchitectureWithoutArchitects–AShortIntroductiontoNon-PedegreedArchitecture, 1964
BRUNO ZEVI
Saper Vedere l’architettura, 1948
CLIFFORD GEERTZ
Religion Nowdays, 1972
DAVID SLOAN WILSON
Darwin’s Cathedral: Evolution, Religion, and the Nature of Society, 2002
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Primitive Social Organization, 1962
EMILE DURKHEIM
Les Formes élémentaires de la vie religieuse, 1912
ENRICO GUIDONI
Architettura Primitiva, 1975
JAMES MORRIS
Butabu - Architeture in terra dell’Africa Occidentale, 2004
JERED DIAMOND
Il Mondo Fino a Ieri, 1012
MARCEL GRIAULE
Dio d’Acqua, 1948
MARCO AIME
Diario Dogon, 2000
MARLO MORGAN
E Venne Chiamata Due Cuori, 1990
MARTIN HEIDEGGER
“Costruire, Pensare e Abitare”, tratto da Saggi e Discorsi, 1976
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Bibliografia e Sitografia
MICHAEL SHERMER
The Believing Brain, 2011
RACHEL STORM
Dreamtime, 2009
STREHLOW THEODOR J.
I Sentieri dei Sogni – la religione degli Aborigeni, 1997
TITO SPINI, SANDRO SPINI
Togu na - La Casa della Parola, 2003
WINFRIED SPEITKAMP
Breve Storia dell’Africa, 2007
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Bibliografia e Sitografia
www.treccani.it www.wikipedia.it www.australia.com www.africankingdoms.com www.aboriginalart.com www.survival.com http://www.crystalinks.com/dreamtime.html