Il Grand Siécle in Sicilia

Page 1

LIVIA SANTANGELO LIVIA SANTANGELO

IL GRAND SIÉCLE IN SICILIA IL GRAND INBranciforti-Carafa SICILIA Magnificenza barocca SIÉCLE nella corte dei Magnificenza barocca nella corte dei Branciforti-Carafa



MINISTERO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA ALTA FORMAZIONE ATISTICA E MUSICALE ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI PALERMO DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE E ARTI APPLICATE SCUOLA DI PROGETTAZIONE ARTISTICA PER L’IMPRESA DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTAZIONE DELLA MODA

IL GRAND SIÉCLE IN SICILIA

Magnificenza barocca nella corte dei Branciforti-Carafa di

LIVIA SANTANGELO 6800

Relatore PROF. VITTORIO UGO VICARI

A.A. 2012-2013



Indice generale Introduzione Capitolo I

IL SEICENTO IN EUROPA

1. Il Seicento: l’Europa tra miseria e splendore e la sfida della crisi 2. La cultura del Seicento e la rivoluzione scientifica 3. Il Trionfo del Barocco 4. La Francia da Luigi XIII a Luigi XIV 5. L’Inghilterra fra rivoluzioni e ascesa economica 6. L’Europa Centro-Orientale nel XVII secolo 7.1 Le dominazioni straniere in Italia 7.2 La Sicilia nel XVII secolo

Capitolo II

I CARAFA TRA NAPOLI E LA SICILIA

1. Signori e Corti nel cuore della Sicilia: i Branciforti-Carafa p. 85 2. La Corte di Mazzarino nel XVII secolo p. 93 3. Carlo Maria Carafa p. 98

Capitolo III

p. 7 p. 18 p. 24 p. 36 p. 45 p. 47 p. 51 p. 56

MODA, SOCIETÀ E CULTURA NELL’EUROPA DEL GRAND SIÉCLE L’Europa: la moda nella prima metà del Seicento (1610-1643) 1. Abbigliamento maschile p. 132 2. Abbigliamento militare p.137 3. Abbigliamento femminile p.138 4. Abbigliamento delle cortigiane, dei bambini e del popolo p.142 5. Acconciature e accessori p.143 6. La moda francese p.145 7. La moda spagnola p.146 8. La moda inglese p.147 9. La moda olandese p.148 10. La moda italiana p.150 11. Il carattere della moda francese in Italia p.152 12. La moda nella seconda metà del Seicento (1654-1714) p.154 13. Abbigliamento maschile p.155 14. Abbigliamento da campagna e militare p.158 15. Abbigliamento femminile p.159 16. Abbigliamento infantile e popolare p.161


17. Acconciature e accessori p.162 18. Gioielli e orologi p.164 19. Tessuti e motivi decorativi p. 168 20. Mode e costumi in Sicilia nel XVII secolo p. 170 21. I motivi decorativi dei tessuti siciliani p. 177 tra XVII e XVIII secolo 22. Il tessile europeo tra opulenza e classicismo nella Sicilia p. 180 Centro-Meridionale Capitolo IV

IL GRAND SIÉCLE IN UN DIPINTO 1.Mazzarino: la perla del Barocco della Sicilia Centrale 2. Moda ed eleganza alla corte di Mazzarino 3. San Luigi Gonzaga

p. 201 p. 205 p. 214

Capitolo V

IL PROGETTO

p. 229

Apparati

Indice delle illustrazioni Bibliografia Sitografia

p. 252 p. 257 p. 261




Introduzione Lo studio di un popolo e dei suoi usi e costumi è spesso collegato a chi quel popolo l’ha governato e amministrato, stabilendo in quelle determinate terre un clima, una cultura e un modus vivendi che, più o meno indirettamente, lo hanno plasmato e trasformato in ciò che vediamo tutt’ora. All’interno di questo quadro d’inchiesta si colloca il seguente progetto di tesi, pensato in vista della realizzazione di un futuro progetto culturale denominato Il Grand Siécle in Sicilia. L’obiettivo primario che la presente tesi si propone è quello di descrivere ed ricostruire gli scenari tipici della moda e dell’abbigliamento tra il Seicento e i primi anni del Settecento nei territori della Sicilia Centrale e, in particolar modo, a Mazzarino, un piccolo centro nel cuore dell’isola. La ricostruzione della caratteristiche stilistiche dell’abbigliamento di un determinato popolo in un dato periodo implica necessariamente un’attenta analisi, considerata da vari punti di vista, non solo storico, ma anche culturale, artistico, filosofico ed economico. Attraverso un procedimento discendente che dalla storia d’Europa, attraversa quella d’Italia, per finire a quella della Sicilia, si giunge ad un contesto più ristretto, quello delle corti del cuore dell’isola, come Mazzarino, che con le loro testimonianze e memorie contribuirono ad arricchire il caleidoscopico quadro storico e politico, nonché sociale ed artistico di uno dei periodi più affascinanti della storia: il Grand Siécle, ovvero l’età dell’assolutismo illuminato di Luigi XIII (1601-1643) e Luigi XIV (1638-1715) di Francia, secolo di espansione e conquiste, scoperte scientifiche e fioritura delle arti. Il metodo di lavoro adottato è stato quello della consultazione di testi a carattere storico e artistico, affiancato dall’osservazione diretta di dipinti, tessuti e apparati liturgici esposti presso le chiese e i musei limitrofi, come il Museo Diocesano di Caltanissetta e il Centro culturale museale “Carlo Maria Carafa” di Mazzarino. Per un’ analisi più approfondita sulla storia e cultura dei territori della Sicilia Centrale sono stati consultati, inoltre, i testi e le pubblicazioni provenienti dalla biblioteca della Soprintendenza dei Beni Culturali ed Ambientali di Caltanissetta. 9


Gli studi della storia siciliana del XVII secolo hanno tradizionalmente considerato lo stretto legame tra la grande nobiltà terriera e i centri feudali dell’isola. Nel panorama nobiliare della Sicilia Centrale del XVII secolo, una delle famiglie più ricche e note fu quella dei Branciforti-Carafa di Mazzarino. Tale famiglia giocò un ruolo essenziale nello sviluppo economico, sociale e urbanistico di questa città, rendendola una tra i più fiorenti centri artistici e culturali dell’isola. Nelle corti siciliane del Seicento lo stile di vita si era fatto sempre più elitario, i costumi si erano raffinati come non si era mai visto in precedenza e si era sviluppata una vita sociale che affascinava e conquistava gli stranieri: gli artisti, le opere, i modelli, lo stile italiano, si diffusero in breve tempo in tutta Europa, e da li ritornavano contaminati dalle influenze e mode straniere. In questo periodo, corrispondente alla fase aurea della Sicilia Centrale, i grandi nobili di Mazzarino, come Giuseppe Branciforti (1619-1675) prima e Carlo Maria Carafa (1651-1695) dopo svolsero un ruolo essenziale nel processo di fioritura della città. Con il Carafa, singolare figura di principe mecenate, intellettuale e scrittore, Mazzarino raggiunse il suo massimo splendore; la sua corte, con gli intellettuali e gli artigiani che gravitavano intorno ad essa, è significativa e rappresenta un modello esemplare di corte barocca siciliana. Intorno alle figure dei nobili mazzarinesi si appunta quindi il tentativo di definizione del gusto e delle mode cortesi locali nel XVII secolo. Il presente lavoro partendo da una profonda analisi del contesto storico, sociale e artistico del XVII secolo nei vari stati d’Europa e in Italia, si sofferma con attenzione al particolare quadro storico della Sicilia, trattando la genealogia delle famiglie Branciforti e Carafa, nobili famiglie feudali dei territori di Napoli e Sicilia, dalle loro origini sino alle figure di Giuseppe Branciforti e Carlo Maria Carafa. Centro focale del progetto di tesi è la profonda relazione instauratasi tra la corte siciliana barocca e un più ampio contesto socio-politico, storico e culturale che ha caratterizzato il Seicento in ampia scala in tutta Europa. Uno studio dell’evoluzione della storia del costume e delle mode che hanno caratterizzato il XVII secolo: un periodo in cui l’abbigliamento era inteso come espressione di affermazione sociale e importante mezzo di comunicazione di singoli e di popoli. Fondamentale diviene dunque il cambio 10


di rotta che ha contraddistinto la moda di quel periodo e il passaggio dalle fogge vestimentarie di impostazione italo-ispano-germanica, che avevano contraddistinto la prima metà del Seicento, a quelle di impronta francese nella seconda metà del secolo. Il progetto qui proposto verte sulla realizzazione di un abito maschile della fine del 1600; un abito che raccoglie le caratteristiche e i tratti essenziali della moda di quel periodo e sulla ricostruzione dell’allure tipica del gentiluomo seicentesco studiato attraverso l’osservazione di un dipinto dell’ultimo quarto del XVII secolo la cui commissione è attribuibile al Carafa: La Comunione di San Luigi Gonzaga, trovatosi un tempo presso la Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola di Mazzarino e conservato oggi presso il Centro culturale museale “Carlo Maria Carafa” della stessa città. L’estrema importanza di questo dipinto consiste nell’essere testimonianza di quel dato periodo storico, specchio della cultura e della moda del Grand Siécle e del Barocco in Sicilia. All’interno del lavoro di tesi, particolare interesse è stato riservato, inoltre, allo studio delle stoffe e dei motivi decorativi tessili tipici dell’epoca, riprodotti e rivisitati, nella parte pratica del progetto, con le tecniche di lavorazione moderne. Desidero ringraziare tutti coloro che col loro lavoro hanno contribuito alla realizzazione del mio progetto di tesi: la Soprintendenza dei Beni Culturali ed Ambientali di Caltanissetta; il Centro culturale museale “Carlo Maria Carafa” per la promozione delle risorse umane e artistiche della città di Mazzarino. Per la guida nella realizzazione sartoriale la Sartoria costumi teatrali di Pipi Francesca & f.lli sas. Per la realizzazione grafica della stampa tessile l’azienda CA.MA. Pubblicità di Filippo Cammarata. Ringrazio inoltre il mio relatore, il Prof. Vittorio Ugo Vicari per avermi guidato durante la realizzazione di stesura della tesi; la Prof.ssa Francesca Pipi per le indicazioni di tecniche sartoriali; il Prof. Sergio Pausig per l’impaginazione grafica e la presentazione degli elaborati di tesi on line. 11



Capitolo I IL SEICENTO IN EUROPA I. Il Seicento: l’Europa tra miseria e splendore e la sfida della crisi

Agli inizi del ‘600 una profonda crisi economica e sociale trasformò il sistema feudale dell’ancien régim2 verso un sistema assolutista. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo quasi tutte le aree europee furono investite da un processo di trasformazione, che la storiografia ha identificato come la “crisi generale del Seicento”. Essa fu generale per una molteplicità di fattori e componenti che entrarono nel processo storico, per la vastità delle aree investite, nonché per l’omogeneità delle dinamiche e degli effetti. La causa principale è da rintracciare nella concentrazione della ricchezza nei ceti più elevati ed il conseguente impoverimento dei ceti popolari; un’altra causa fu il raffreddamento del clima europeo che determinò la rovina delle coltivazioni di cereali (i quali richiedono un clima mite), e il conseguente impoverimento del sottosuolo. Iniziarono, quindi, a diffondersi la fame e le carestie, che portarono a un peggioramento delle condizioni di salute e favorirono il propagarsi di epidemie e malattie quali la peste. La crisi, tuttavia, non colpì tutti i paesi allo stesso modo: In Italia e in Spagna, dove la classe borghese era assente o poco numerosa, ci fu un processo di rifeudalizzazione, ovverosia il ripristino dei tradizionali diritti signorili ai danni dei contadini, che tuttavia non portò a una ripresa risolutiva delle economie nazionali e locali. Dalla crisi alcuni paesi uscirono invece più forti: l’Inghilterra e l’Olanda reagirono alla recessione potenziando i sistemi capitalistici e stabilendo la loro egemonia sul continente. In Olanda si ebbe, infatti, uno straordinario sviluppo nel settore manifatturiero e in quello dei commerci, dovuto alla nascita di un dominio coloniale che fu reso possibile dalla costituzione, nel 1602 ad opera dei mercati olandesi, dalla Compagnia delle Indie orientali, che ottenne dal governo amplissimi privilegi, quali il monopolio dei traffici con l’Oriente, la possibilità di possedere un proprio esercito e una marina militare, di dichiarare guerra e stipula13


re alleanze e trattati, e amministrare direttamente i territori conquistati. Erano queste grandi compagnie di navigazione privilegiate (spesso in forma di società di capitali) detentrici, nei confronti dei propri connazionali, dell’esclusivo diritto di navigazione e commercio al di là del Capo, sulla base di patenti concesse dalle autorità nazionali. Le compagnie commerciali rappresentavano la migliore forma di organizzazione per mobilitare capitali e massimizzare i profitti commerciali, riducendo allo stesso tempo al minimo gli inevitabili rischi nel commercio a lunga distanza. Vennero fondate all’inizio del Seicento per contrastare il monopolio dei traffici con l’Oriente detenuto dai portoghesi in seguito all’apertura della rotta del capo di Buona speranza (1498) con cui avevano aperto una via marittima diretta tra l’Europa e l’Asia. Prima di quella olandese3 (fig.1), già nel 1600, era stata fondata la britannica East India Company4(fig.2),quando la regina Elisabetta I d’Inghilterra accordò una “carta” o patente reale (Charter) che le conferiva per ventuno anni il monopolio del commercio nell’Oceano Indiano. A esse si affiancarono la compagnia fondata in Francia5(1664) (fig.3) e altre minori, tra cui la compagnia danese, quella svedese e quella prussiana. Le Compagnie (fig.4) furono protagoniste, nei secoli XVII e XVIII, della colonizzazione del mondo e della costruzione di un unico mercato mondiale sotto l’egemonia europea. Si affermò così un nuovo tipo di politica coloniale più potente da un lato, grazie alla rigorosa razionalità commerciale e alla fino a quel momento sconosciuta mobilità dei capitali, e dall’altro lato, riluttante nei confronti di tutto ciò che non garantisse profitto. Tali compagnie rifornirono l’Europa nel XVII secolo di prodotti come spezie (pepe, noce moscata, chiodi di garofano) e tessuti orientali, ai quali si aggiunsero, nel XVIII secolo, tè, caffè e zucchero. Nei primi decenni l’espansione territoriale delle compagnie riguardò zone costiere limitate in cui creare le basi commerciali. Il trasporto di beni dall’Asia in Europa consisteva inizialmente in beni prevalentemente di lusso (come spezie e preziosi), poi di maggiore consumo (come i tessuti). Il commercio delle stoffe fu una delle fonti di maggiore guadagno; esso riguardava principalmente la seta grezza, il cotone, la pelletteria, ricami, velluti, broccati di diverso colore, rasi, taffetà di Cina e damasco. Dal momento che nessuna delle merci prodotte in Europa poteva essere venduta con profitto sui pur ricchi e attivissimi mercati asiatici (le lanerie europee, 14


per esempio, che le navi britanniche esportavano in Asia, venivano cedute a mercanti asiatici solo in dumping, ovvero fortemente sottocosto), l’unico possibile mezzo di scambio era l’argento, che veniva prelevato dai “tesori” provenienti dall’America e trasferito in Asia. Alternativa al trasporto di grandi quantità d’argento, osteggiate dalle correnti mercantilistiche, fu il commercio interasiatico, il cosiddetto country trade, sistema di intermediazioni mercantili che recava le merci da Oriente verso l’Europa non in unica soluzione ma di porto in porto, di fondaco in fondaco. I privilegi delle Compagnie, tuttavia, scontentavano in Europa sia i mercanti, che non ne godevano, sia gli artigiani in difficoltà per la concorrenza dei prodotti coloniali (soprattutto tessili) importati dalle Compagnie. Nel 1617 venne creata anche una Compagnia delle Indie Occidentali6(fig.5), impegnata nei traffici con l’Africa Occidentale e le Americhe. Anche l’Inghilterra fu interessata da una grande crescita economica che riguardò i commerci, la produzione manifatturiera e l’agricoltura. Nel corso del XVII secolo, gli inglesi raggiunsero la costa atlantica dell’America settentrionale, dove fondarono nuove colonie o strapparono possessi agli olandesi (è il caso della città di Nuova Amsterdam, poi ribattezzata New York, nel 1667). Tornando alla questione della crisi, al clima di incertezza economico-finanziaria di molte nazioni europee, va aggiunto anche il fatto che dal 1618 al 1648 esse furono coinvolte nella Guerra dei Trent’anni (fig.6), che contrappose le potenze cattoliche, guidate dalla Spagna e dagli Asburgo, a quelle protestanti d’Olanda, Svezia e Danimarca, aiutate dalla Francia. Fu l’ultima guerra di religione fra protestanti e cattolici (fig.7). I suoi presupposti politici e religiosi si possono rintracciare già nel 1555 con la Pace di Augusta, quando Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, decise di rinunciare all’unità politica e religiosa dell’Impero. Da un lato accettò la libertà religiosa dei protestanti, dall’altro, tuttavia, impose due principi restrittivi: 1) cuius regio eius religio, secondo cui i sudditi di uno Stato avrebbero dovuto conformarsi alla religione del loro principe o, in caso contrario, emigrare; 15


2) reservatum ecclesiasticum, secondo cui i beni ecclesiastici secolarizzati prima del 1552 non sarebbero più stati rivendicati dalla chiesa cattolica, mentre, se qualche prelato cattolico si fosse convertito al luteranesimo, dopo tale anno avrebbe dovuto rinunciare a tutti i benefici e possessi goduti in virtù della propria carica e restituirli alla chiesa cattolica. Agli inizi del 1600 gli Asburgo controriformisti vollero riprendere la politica centralistica di Carlo V, che si era illuso di poter tenere unita l’Europa in nome di principi feudali e della religione cattolico-romana. Le cause che hanno condotto allo scoppio della guerra furono varie: la principale fu l’opposizione religiosa e politica tra cattolici e protestanti; ai luterani e calvinisti non stava bene che i sudditi dovessero avere la stessa religione del loro principe, sia ch’egli fosse cattolico o protestante. Agli inizi del XVII secolo le zone d’influenza dei vari territori religiosi erano piuttosto complesse: • i luterani occupavano soprattutto i territori tedeschi del centro e del nord-est, come la Sassonia, la Slesia, il Brandeburgo, la Pomerania e la Danimarca; • i calvinisti erano concentrati a ovest: Palatinato, Nassau, Assia ecc., e Olanda; • i cattolici risiedevano in Baviera, Renania ecc.; • in Boemia erano diffusi i dissidenti di origine hussita (Moraviani). A questi problemi religiosi si aggiunsero tendenze egemoniche o d’indipendenza di vari stati europei, rivalità commerciali, problemi interni ma anche ambizioni personali tra i vari stati europei. Il conflitto può essere sintetizzato in quattro fasi: 1. Fase Boema (1618-1624) (fig.8): caratterizzata dalla protesta contro la tedeschizzazione e cattolicizzazione di Boemia e Ungheria da parte di Ferdinando. La scintilla che scatenò il conflitto si ebbe nel 1618, quando l’imperatore del Sacro Romano Impero Mattia nominò re di Boemia, prevalentemente protestante, il cattolico e gesuita Ferdinando 16


II. Questi vietò la costruzione di alcune chiese protestanti, provocando una ribellione, che culminò nel celebre episodio della “defenestrazione di Praga”, durante la quale i rappresentanti dell’imperatore vennero buttati dalla finestra per protesta contro Ferdinando. A favore dell’imperatore si schierò il duca Massimiliano di Baviera. La guerra acquisì una dimensione europea e durò fino al 1648 perché la questione della Boemia era solo una parte di un problema ben più grande: la questione del predominio fra cattolici e protestanti. La prima fase terminò nel 1630 con la “battaglia della montagna bianca” in cui Massimiliano, aiutato dall’esercito spagnolo (cattolico), sedò i rivoltosi. 2. Fase Danese (1625-1629) (fig.9): La schiacciante vittoria cattolica nella prima fase della guerra provocò le apprensioni di molti dei sovrani protestanti del nord Europa, che trovarono la loro nuova guida nel re di Danimarca Cristiano IV. La Danimarca fu sostenuta dalla Francia che, sotto la guida del cardinale Richelieu, cominciò a contrastare la politica espansionista asburgica. Sicché si decise, nel 1625, l’entrata in guerra della Danimarca e della Bassa Sassonia, con l’appoggio francese, inglese e olandese. La Svezia rimase neutrale. Il re danese Cristiano IV invase il Meclemburgo, ma non fu assolutamente in grado, da solo, di fronteggiare la reazione delle forze imperiali, per cui subì una dura sconfitta nella battaglia di Lutter (1626). Successivamente le truppe della Lega cattolica invasero la Danimarca stessa fino allo Jutland, e Cristiano fu costretto a firmare la pace di Lubecca (1629), con cui s’impegnava a non intromettersi più nelle vicende tedesche. Si chiuse così la seconda fase della guerra. Tuttavia, l’imperatore Ferdinando non si accontentò della vittoria e ne volle approfittare per restaurare in Europa l’autorità dell’imperatore e il cattolicesimo. Questo suscitò un allarme di tutte le potenze europee e lo scoppio della terza fase. 3. Fase Svedese (1630-1635) (fig.10): L’imperatore tentò di imporre la sua autorità e il cattolicesimo, suscitando l’allarme dell’Europa con due provvedimenti: prima di tutto l’“Editto di Restituzione” che restituì alla Chiesa Cattolica tutti i beni confiscati in precedenza. Questo editto scontentò sia protestanti sia cattolici, che lo ritennero inopportuno; inoltre, per premiare Massimiliano della sua fedeltà, gli conferì la carica di Principe Elettore, atto illegale, perché era una carica ereditaria da sette generazioni, fin dalla Bolla d’Oro del 1356. Nel frattempo una nuova 17


potenza europea, la Svezia, guidata dal re Gustavo II Adolfo, stava per scendere in campo assumendo il ruolo di guida del partito protestante. Dopo avere realizzato una tregua con la Polonia, decise di difendere la causa protestante e il predominio svedese nel Mar Baltico, che sembrava minacciato dalla crescente aggressività dell’impero. Anche la Svezia, come già la Danimarca, fu aiutata finanziariamente nella sua impresa dalla Francia, che s’impegnò a versarle un cospicuo sussidio di guerra. Nel 1630 Gustavo Adolfo sbarcò con le proprie truppe in Pomerania, occupò Stettino, poi entrò nel Meclemburgo. Nel frattempo le forze imperiali attaccarono l’unico alleato che la Svezia avesse allora in Germania, la città di Magdeburgo (1631), sottoponendola a un sanguinario saccheggio. Questo episodio indusse Pomerania, Brandeburgo e Sassonia ad appoggiare gli svedesi. La guerra tra svedesi e imperiali ebbe alterne vicende, fino a quando lo stesso re Gustavo Adolfo non morì nella battaglia di Lützen (1632) e, grazie alla ritirata degli imperiali, si risolse in una vittoria svedese e con conseguente Pace di Praga del 1635, ma la Svezia rimase debole, in quanto al posto di Gustavo subentrò la figlia Cristina, di soli nove anni. 4. Fase Francese (1635-1648) (fig.11): L’entrata in guerra della cattolica Francia contro l’Imperatore, anch’esso cattolico, mise fine al periodo della guerra in cui gli schieramenti erano basati su problematiche confessionali e trasformò il lungo periodo delle guerre europee di religione in una guerra per l’egemonia politica. Richelieu intervenne anche contro la Spagna, che si trovava già in uno stato di crisi. Aumentarono, inoltre, le spinte indipendentistiche delle province spagnole, in particolare della Catalogna e del Portogallo, che raggiunse l’indipendenza nel 1640. La battaglia conclusiva di questa fase avvenne nel 1643, a Rocroi: la Francia vinse contro la Germania. A questo punto decisiva per le sorti della guerra fu la Pace di Vestfalia nel 1648, che venne firmata dal successore Ferdinando III. Essa ebbe conseguenze fondamentali per la storia successiva: il definitivo crollo del progetto politico e religioso dell’imperatore di estendere la sua egemonia cattolica su tutti i cristiani d’Europa e la fine delle guerre di religione con la sconfitta del progetto di sottomettere i protestanti. Con il trattato di Vestfalia s’inaugurò un nuovo ordine internazionale, un sistema in cui gli Stati si riconoscevano tra loro in quanto Stati, al di là della fede dei vari sovrani. 18


La guerra, che sconvolse l’Europa centrale non senza lambire l’Italia del nord e i Paesi Bassi, assorbì molta della sua asprezza e della sua violenza dagli elementi di crisi già apparsi verso la fine del secolo precedente, e che essa accentuò ulteriormente. Inoltre le ostilità continuarono per altri dieci anni nei Pirenei e nel nord Europa, facendo sentire i loro contraccolpi nelle insurrezioni e nelle rivolte interne, in Spagna e in Portogallo7. Quando essa terminò nel 1648 con la Pace di Vestfalia8(fig.12), l’Europa era a pezzi: gli Asburgo d’Austria persero il loro potere sugli stati tedeschi; l’Olanda e la Svizzera ottennero la loro indipendenza; la Francia, vincitrice dell’ultima fase della guerra, divenne la nuova potenza dominante in Europa. Il concetto di “crisi” appare dunque intimamente legato a quello di “trasformazione”, ma nel suo significato “generale” occorre innestarvi anche altri aspetti: la pressione militare e fiscale; il declino dei grandi sistemi imperiali, la decadenza dei modelli politici tradizionali e la conseguente circolazione su scala europea di nuove forme di governo. Decisivo nel corso del XVII secolo fu, ad esempio il crollo dell’ancien régime e il nascere di un nuovo sistema di governo: il regime assoluto. Nel sistema politico dell’ancien régime centro e fulcro dello Stato era la persona del re, che, dotato di un potere a lui derivante “per grazia di Dio” (e non per volontà del popolo). In virtù di tale caratteristica, egli diveniva l’esecutore di una funzione provvidenziale ben espressa dalla formula “da Dio il re, dal re la legge”: con essa da un lato l’autorità divina e il potere regio si presentano strettamente interdipendenti tra loro; dall’altro il compito essenziale del sovrano era individuato nella promulgazione delle leggi, unico baluardo contro il disordine politico e l’irrazionalità degli istinti. Ordine, pace e prosperità venivano così considerate il frutto delle “buone grazie” del legittimo sovrano, che, in quanto padre dei propri sudditi e al tempo stesso loro insindacabile signore, reggeva e impersonava l’intero Paese. A livello sociale l’ancien régime si caratterizzava per una stratificazione della società in classi o “stati”, in chiara gerarchia discendente: Clero (coloro che pregano per tutti), Nobiltà (coloro che combattono per tutti) e Terzo stato (coloro che lavorano). A livello economico, invece, l’ancien régime imponeva il persegui19


mento di una piena autonomia da parte del sovrano: una tale autonomia doveva, da un lato, mettere al sicuro la corona dai continui, e più o meno subdoli, tentativi di limitarne il potere da parte di coloro che potevano offrire denaro in cambio di privilegi e concessioni (i Parlamenti); dall’altro, doveva permettere al re di essere munifico con quanti gli erano indispensabili per l’esercizio stesso del proprio assolutismo (la nobiltà).I rapporti tra gli stati nel corso del Seicento continuarono a essere dominati dal principio dell’equilibrio, che nel 1648 era stato riconosciuto dal trattato di Vestfalia, attraverso il quale era stato espressamente dichiarato l’obiettivo di: “assicurare la pace europea attraverso l’equilibrio delle forze”. Questa politica dell’equilibrio delle forze e dei “contrappesi” mirava a far sì che principi e governi considerassero l’Europa come una comunità, le cui diverse parti dovevano non già trovarsi in contrasto tra loro, bensì contribuire all’armonia dell’insieme: il che non impedì alla giustizia di finire molto spesso palesemente calpestata in nome dell’equilibrio, né evitò che i popoli continuassero a essere rimescolati e fusi senza rispetto alcuno delle loro aspirazioni, della loro nazionalità e della loro volontà.

II. La cultura del Seicento e la rivoluzione scientifica

Il Seicento non si limitò a ridefinire l’intero assetto politico dell’Europa, ma riscrisse l’intera carta dell’universo. Nel corso del secolo si assistette a una totale rivoluzione del pensiero scientifico, protagonista in tal senso fu Galileo Galilei (1564-1642), che introdusse la civiltà occidentale nell’era della modernità grazie alle sue invenzioni e alle sue scoperte. Lo scienziato compì ricerche e mise a punto strumenti di importanza fondamentale: inventò la bilancetta idrostatica per determinare il peso specifico dei metalli nell’aria e nell’acqua, il microscopio (1624), elaborò una nuova definizione del concetto di moto che permise di studiare i fenomeni fisici celesti e terrestri con gli stessi criteri. In particolare, il perfezionamento del cannocchiale (1609), da lui puntato verso la volta celeste, gli permise di scoprire i satelliti di Giove, le fasi di Venere e di osservare le macchie lunari, consentendogli di ridefinire la cosmologia 20


tradizionale e di dimostrare che la superficie della luna non era liscia e levigata, come si era sino ad allora sostenuto, ma presentava caratteristiche simili a quelle della crosta terrestre. Dimostrò così la sostanziale omogeneità tra i corpi celesti, annullando la distinzione tra Terra e Cielo ed eliminando ogni confine e ogni rapporto di subordinazione tra “alto” e “basso”, “perfetto” e “imperfetto”. Parallelamente, la letteratura barocca abbandonò la distinzione tra generi “alti” e “bassi”, dando vita a una contaminazione di modelli espressivi da cui nacquero generi misti, come il poema eroicomico, inconcepibili per il canone tradizionale fino a quel momento. Le arti e la letteratura abbandonarono il loro fine pedagogico, che le aveva caratterizzate in epoca rinascimentale, proponendo invece, un’arte e una poesia animate dalla ricerca del piacere, di un’esperienza cioè tutta terrena e soggettiva. Fondamentale per il processo di trasformazione del tempo fu pure la conferma dell’ipotesi avanzata dall’astronomo polacco Giovanni Keplero (1571-1630), secondo cui non il Sole era intorno alla Terra, ma viceversa, era la Terra a girare intorno al Sole. Ciò portò al rovesciamento di un’intera concezione cosmologica: il passaggio dal sistema geocentrico a quello eliocentrico introduceva a una nuova visione del mondo, rivalutando il ruolo dell’uomo sulla terra. Il modello di un universo eliocentrico, che sostituì quello geocentrico, comportò il diffondersi di una sensazione di disorientamento profondo. Ne conseguì che, l’uomo del Seicento, scoprì di non essere al centro dell’universo e perse così fiducia nella possibilità di riprodurre sulla Terra l’armonia e l’ordine celeste. Alcune opere barocche, infatti, trasportano nelle strutture letterarie questa nuova condizione dell’uomo, che si ritrova a vivere in un universo che ha perso il suo centro, e propongono quindi nuove concezioni esistenziali. La dottrina ufficiale della Chiesa, legata ancora alla concezione filosofica aristotelica, tuttavia, ritenne eretiche le affermazioni di Galileo. Lo scienziato, nel difendere le sue posizioni, rifiutò ogni forma di dogmatismo e d’imposizione autoritaria, rivendicando la libertà della ricerca e la responsabilità dello scienziato, ma fu costretto, nonostante tutto, ad abiurare. L’importanza di Galileo fu soprattutto nella formulazione del “Metodo scientifico”, detto anche “metodo sperimentale”, articolato in diverse 21


tappe: 1. Osservazione accurata del fenomeno con relativa descrizione dello stesso. 2. Formulazione di un’ipotesi che spieghi il fenomeno. 3. Verifica sperimentale del fenomeno, ripetuto in laboratorio, utilizzando tecniche e strumenti opportuni. 4. Conclusione e formulazione di una teoria scientifica, se la sperimentazione ha confermato più volte la validità delle ipotesi. Galileo così affidò la conoscenza della verità alla sperimentazione e alla dimostrazione matematica. Il metodo era per lui l’insieme dei criteri e delle regole prescritte per un uso corretto delle facoltà conoscitive: esso consentiva di raggiungere un elevato grado di certezza. Gli aspetti contro cui si indirizzò la critica galileiana erano l’appello al principio di autorità, ovvero la consuetudine sbagliata di risolvere le controversie scientifiche mediante il ricorso all’autorità di qualche autore antico. Al contrario, Galilei sottolineò il ruolo dell’esperienza nell’indagine scientifica e stabilì l’osservazione e l’analisi come modo privilegiato per raggiungere la conoscenza. Altre importanti invenzioni in campo scientifico furono il barometro (1643) di Evangelista Torricelli (1608-1647), il telescopio a riflessione (1671) di Isaac Newton (1642-1727), la calcolatrice in grado di eseguire moltiplicazioni (1673) di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) e la scoperta della legge che regola la pressione dei fluidi, “Principio di Pascal”, in onore dello scienziato e filosofo francese Blaise Pascal (16231662), secondo cui la pressione esercitata su un fluido si trasmette con lo stesso valore in tutte le direzioni. Sempre in quegli anni, l’astronomo danese Ole Christensen Römer (1644-1710) calcolò la velocità della luce. In campo medico, invece, di straordinaria importanza furono la scoperta della circolazione del sangue (1628) e dei capillari (1669) ad opera di William Harvey (1578-1657), il funzionamento dei polmoni (16661) grazie al medico modenese Marcello Malpighi (1628-1694), l’esistenza dei globuli rossi (1658) ad opera del naturalista olandese JanWammer22


dame la scoperta della malattia del diabete (1670) grazie agli studi del medico inglese Thomas Willis (1621-1675). La crisi del Seicento, in campo letterario diede origine a un profondo mutamento della struttura e dei contenuti del poema epico, che porterà alla sua definitiva dissoluzione e al superamento di quest’ultimo attraverso un genere ibrido, il poema eroicomico, o attraverso la costruzione di un monumentale poema lirico, che perde ogni legame tematico e stilistico con il genere della tradizione. Il Barocco letterario nacque e si definì come elemento di rottura contro gli ideali di equilibrio e composizione sanciti nel Cinquecento dal canone classicista rinascimentale e contro ciò che riguardava la poesia. Nel Seicento si affermò, nel campo della letteratura, una “corrente Purista”, che voleva stabilire un canone di lingua “pura” sulla base della tradizione fiorentina trecentesca. Tale corrente faceva capo all’Accademia della Crusca, un’accademia sorta a Firenze nel 1583, che aveva assunto questo nome perché il fine che si proponeva era separare la lingua da ogni impurità, così come si separa la farina dalla crusca. A tal proposito essa pubblicò il Vocabolario degli Accademici della Crusca nel 1612, nel quale erano registrati tutti i termini d’uso fiorentini trecenteschi. In quel periodo, inoltre, un forte dibattito si accese tra cruscanti e anticruscanti, sostenitori di una lingua italiana più aperta a vari apporti e propugnatori del modello fiorentino vivo. Esponenti di questi ultimi fu Alessandro Tassoni (1565-1635), autore del poema eroicomico La Secchia rapita9, che polemizzava contro la pedanteria del Vocabolario, in nome di un uso più moderno della lingua italiana. Egli ricorreva ancora alla narrazione epica, fondata sul fitto intrecciarsi e susseguirsi delle azioni tra i personaggi, allo scopo, però, di svuotarne il senso originario (la celebrazione degli ideali eroici e cavallereschi) per immettervi elementi parodici e irriverenti a denunciare la crisi di una società che non trovava più nella fede, nell’eroismo e nell’amore una sua giustificazione etica e morale. Una delle molteplici chiavi interpretative del XVII secolo è data dallo stretto rapporto che il pensiero filosofico e le manifestazioni artistiche e culturali stabilirono con il contesto politico. Nel ‘600 il diffondersi di gruppi d’intellettuali informali, esterni sia alle accademie che alle università, costituì una delle caratteristiche principali della cultura del secolo. Il cenacolo scientifico e filosofico più famoso del tempo fu sen23


za dubbio quello che si raccolse a Parigi, nel convento di PlaceRoyale, nella prima metà del secolo, attorno al padre Marin Marsenne (15881648), “il segretario dell’Europa colta”. Il XVII secolo si presentò come una delle fasi più ricche e complesse della storia del pensiero filosofico: fu proprio grazie alle ricerche di Bacon, Galilei e Cartesio che prese avvio la filosofia dell’età moderna. Alle soglie dell’epoca moderna, la ricerca intorno a natura e metodo del conoscere assunse una posizione di assoluta centralità, tale per cui giustamente si è detto che il tratto distintivo della filosofia moderna risiedeva nel passaggio che in essa si realizzò dall’orientamento ontologico del pensiero antico e medievale a un indirizzo prevalentemente gnoseologico. Nel ‘600 il principale termine di confronto della filosofia diventò la nuova scienza sperimentale e matematica: maturò sempre una più radicale consapevolezza dei limiti sia della tradizionale filosofia naturale, di derivazione aristotelica, nonché delle metafisiche a essa collegate, sia delle speculazioni naturalistiche della filosofia rinascimentale. Il tratto più caratteristico della filosofia seicentesca consistette nella forte istanza razionalistica che guidò la maggior parte delle ricerche del secolo. Cartesio (1596-1650), ad esempio, intese la filosofia come “un albero le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami che se ne dipartono tutte le altre scienze”. Francis Bacon (1561-1626), invece, pose la “filosofia prima” a fondamento della “filosofia naturale”, della “filosofia umana” e della “filosofia civile”. Nella seconda metà del secolo, con la riflessione empirista di Locke (1632-1704), la filosofia avviò un confronto con la scienza, che pose piuttosto il problema dell’origine, dei limiti e della validità del sapere. La ricerca filosofica si costituì così come critica della conoscenza, ossia come punto di vista esterno alla scienza, in grado di vagliarne strumenti e valori e di orientarli, al contempo, verso il bene degli individui e della comunità. A fondamento del pensiero filosofico seicentesco si collocò la celebre formula cartesiana “cogito ergo sum”: penso dunque sono. Essa significava che il soggetto pensante, per quanto possa dubitare di tutto, è pur tuttavia costretto a riconoscere l’esistenza del proprio pensiero. Alla scoperta del soggetto come portatore di una ragione autonoma, si accompagnò anche un significativo sviluppo della meditazione su se stessi, sia religiosa che laica. In un contesto di generale crisi e mancanza di certezza divenne quin24


di fondamentale l’importanza dell’uomo in quanto soggetto pensante. Viceversa, Blaise Pascal, nei Pensieri10, al primato cartesiano della ragione oppose il punto di vista del cuore, raccomandando all’uomo quell’umiltà che gli era necessaria di fronte alla vastità insondabile dell’universo. Con Cartesio, invece, la filosofia pervenne alla fondazione di un nuovo sistema metafisico alternativo a quello aristotelico-scolastico, in cui lo strumento decisivo per raggiungere la verità e la conoscenza era assunto dalla matematica. Bacon, invece, ritenne che solo muovendo dall’esperienza, e non da principi astratti, fosse possibile apprendere cose nuove sul mondo della natura. Nella seconda metà del secolo, si affermò maggiormente il ruolo della ragione, in quanto capace di ricostruire e spiegare l’ordine delle cose. Così il filosofo olandese Spinoza (1632-1677), nella sua Ethica11, espose un intero sistema di filosofia attraverso catene di deduzioni che muovevano da principi assunti in base alla regola dell’evidenza; e Leibniz (1646-1716) sperimentò un linguaggio logico che, similmente a quello algebrico, era in grado di combinare in modo certo le proporzioni con le quali era possibile descrivere il mondo, evitando le confusioni e le ambiguità del linguaggio naturale. Comune a queste posizioni fu anche la convinzione che la conoscenza scientifica non possa essere fondata sull’esperienza sensibile, inevitabilmente confusa e incerta, ma debba muovere da principi posti dalla ragione stessa. Una convinzione opposta animò invece l’empirismo inglese, il cui testo fondamentale fu il Saggio sull’intelletto umano12di Locke, nel quale si affermava l’origine empirica dei nostri contenuti mentali. Gli sviluppi più importanti della filosofia politica del ‘600 maturarono nelle regioni settentrionali europee, in Olanda e in Inghilterra. Qui il Giusnaturalismo13si cimentò con il compito di legittimare gli ordinamenti politici sulla base di argomenti esclusivamente razionali, fondati sulla natura dell’uomo. Fondamentale in tal senso fu la visione di Thomas Hobbes, secondo il quale l’uomo naturale era insocievole e aggressivo nei confronti degli altri uomini e lo stato di natura era descrivibile come una guerra condotta da tutti contro tutti. Poiché in queste condizioni veniva compromessa la vita stessa degli individui, questi si accordavano per dare vita alla consociazione civile, cedendo per contratto tutti i diritti dei quali erano naturalmente portatori a uno solo, in cambio 25


del fatto che questi si preoccupasse di garantire l’ordine sociale. Anche Spinoza e Locke reputarono lo stato come un’istituzione artificiale, prodotta da un contratto; tuttavia essi concepirono l’uomo naturale come animato da spirito di benevolenza e soprattutto come portatore di diritti inalienabili. Furono qui espressi i fondamenti della dottrina liberale dello stato, cioè quella dottrina che si fondava sulla libertà individuale, assegnando allo stato il solo compito d’arbitro e di giudice esterno. Alla stessa linea di pensiero appartennero le teorie che affermavano la libertà e la tolleranza religiosa, teorie nelle quali si rifletteva la drammatica esperienza delle guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa partire dalla Riforma. III. Il trionfo del Barocco

Il 600 è considerato il secolo del Barocco. La parola “Barocco”, fu coniata nel ‘700 in senso negativo per contrapporre l’enfasi e l’esagerazione del ‘600 alla razionalità illuminista. Esso deriva dallo spagnolo barrueco e dal portoghese barroco che indicano la perla irregolare e scabra o da baroco che designava un sillogismo artificioso della filosofia scolastica medievale, ossia un ragionamento confuso e impuro. Con questo termine si definisce un’arte bizzarra e strana, grandiosa, ricca d’invenzioni ed effetti teatrali. Caduto il mito rinascimentale della superiorità della ragione per conquistare la verità divina, le arti visive si fecero sempre più teatrali, per fare sentire ai fedeli raccolti in Chiesa quelle stesse verità che non possono più dimostrare chiaramente attraverso la ragione. Il Barocco fu l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, sia quello papale a Roma, sia quello monarchico in Francia e Spagna; ma fu anche l’arte dell’introspezione psicologica dell’uomo, dell’espressione del suo dramma. Il suo stile fu contraddistinto dal movimento grandioso e pluridimensionale delle masse, dall’audacia degli scorci prospettici, dai contrasti tra le ombre dense e le luci improvvise. Il Barocco rappresentò il trionfo della linea curva, dell’ardimento architettonico e della ricerca della teatralità e dell’esagerazione. Le radici del barocco vanno rintracciate nell’arte italiana del tardo XVI secolo, come reazione al Manierismo, caratteriz26


zato dall’inquieto tentativo del superamento dei temi della tradizione attraverso l’enfatizzazione del difforme e dell’asimmetrico e il ricorso ai contrasti cromatici. Nella complessità di tale quadro, molti artisti, tuttavia, furono animati dal desiderio di un ritorno a un ordine classico, tal che, invero, il Seicento potrebbe essere definito in modo più appropriato un secolo “neoclassico” ma contaminato da un senso del dubbio estraneo al classicismo rinascimentale. Senso del dubbio che s’insinua nell’uomo moderno per il tramite di alcune porte particolari: • La critica luterana e calvinista alle forme religiose della Chiesa di Roma: un vasto movimento religioso e politico, iniziato nel 1517, l’anno in cui il monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) pubblicò, sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, le novantacinque tesi con le quali reagiva contro la scandalosa pratica delle indulgenze, condannava il nepotismo, il lusso sfrenato, il concubinaggio, la simonia e la compravendita di reliquie come idoli sacri e dava appello al rinnovamento. Ciò condurrà alla scissione della Chiesa e alla nascita del Cristianesimo Evangelico. Il messaggio di Lutero provocò uno sconvolgimento, soprattutto in Germania, perché molti principi tedeschi videro in questa riforma la possibilità di far valere la propria autorità e i propri diritti sui loro principati rispetto sia alle imposizioni della Chiesa, che si appropriava delle risorse dei territori, sia al potere dell’imperatore. Lo strumento dottrinario diventava così anche politico, strumento di rivendicazione dell’indipendenza. Anche le frange povere del proletariato urbano e i contadini avevano accolto la predicazione luterana, interpretando la sua esaltazione della libertà dell’uomo come un invito alla libertà da qualsiasi oppressione. Di fronte alle prime manifestazioni di adesione perciò, nel 1520, Papa Leone X (pontefice dal 1513 al 1521) emanò una bolla, ExurgeDomine, in cui condannava la predicazione di Lutero e incaricava l’imperatore Carlo V(regnante dal 1520 al 1558) di ricomporre la situazione. Allora Carlo convocò la Dieta di Worms (1521), chiedendo a Lutero di abiurare; questi però rifiutò e venne condannato come fuorilegge e nemico pubblico. Lutero fu però protetto da Federico il Savio (Elettore di Sassonia dal 1486 al 1525) che lo fece rapi27


re e portare nel castello di Wartburg, dove, al sicuro, poté concludere la traduzione della Bibbia e portare avanti la propria riforma. Altro importante protagonista della Riforma fu il francese Giovanni Calvino (1509-1564), che ne delineò i fondamenti nelle Istituzioni della Religione Cristiana14, uno dei testi più importanti del Protestantesimo. Ispirata alla teologia di San Paolo e di Sant’Agostino, la dottrina calvinista muoveva dal concetto dell’assoluta sovranità di Dio e della giustificazione per mezzo della sola fede, codificando in una rigida teoria della predestinazione la convinzione, già propria di Lutero, dell’impossibilità per l’uomo, segnato dal peccato originale, di raggiungere la salvezza con le proprie forze. Assegnando alla Bibbia il ruolo di autorità unica per i fedeli, Calvino propugnava una stretta dipendenza del potere politico da quello religioso e si distaccava dagli altri riformatori nell’interpretazione dell’Eucaristia, escludendo per questa sia la transustanziazione sia ogni dottrina implicante presenza reale, e considerando il “pane” come un simbolo in cui si realizza l’unione dei fedeliche partecipano al corpo di Cristo. • La risposta controriformata a tale critica: la Chiesa cercò di arginare le posizioni eretiche e le devianze dottrinali dovute allaRiforma protestante, rinvigorendo l’ortodossia e attuando un processo di “ricattolicizzazione” dei territori caduti in mano al protestantesimo. Con l’elezione di papa Paolo III nel 1534 (pontefice dal 1534 al 1549) la Chiesa ottenne gli strumenti efficaci per dar vita a un reale rinnovamento. Il papa incoraggiò la formazione e l’azione di ordini nuovi, come i cappuccini, le orsoline e specialmente i Gesuiti i quali, con il loro impulso al rinnovamento dell’educazione e il fervore catechetico dell’opera missionaria, conferirono nuovo vigore alla trasmissione della dottrina cristiana e all’apostolato. Nel 1542 il pontefice istituì l’Inquisizione romana; nel 1545 convocò il Concilio di Trento (1545-1563) per ribadire le posizioni della Chiesa in materia di dogma e di dottrina e dirimere le questioni relative alla gerarchia e alla disciplina ecclesiastica sollevate dai protestanti. In particolare il Concilio di Trento fissò il dogma del “peccato originale” e quello della giustificazione per la fede e per 28


le opere, condannando il principio luterano della giustificazione per la sola fede, indipendentemente dalle opere, e affermando il valore del libero arbitrio persistente anche dopo il peccato originale. Anche nel campo della riforma disciplinare il concilio svolse un opera essenziale, dando norme per la scelta e l’azione dei cardinali e dei vescovi, condannando così il nepotismo. • La nuova mancanza di certezze teologiche indotta dalle ricerche scientifiche sistematiche: la Rivoluzione Scientifica prima mise in crisi e poi fece crollare definitivamente quelle teorie che per due millenni avevano costituito punti di riferimento per gli uomini. In particolar modo il passaggio dal sistema geocentrico a quello eliocentrico comportò la perdita di centralità dell’uomo e mise in discussione tutto ciò in cui aveva fino ad allora creduto. Proprio nel XVII secolo iniziò un processo di distacco tra la teologia e la cultura, messo in atto da Cartesio, quando contestò qualsiasi autorità del passato, filosofica, teologica, scientifica, per ricostruire dalle fondamenta tutto l’edificio del sapere. E cosi, mentre fino ad allora si era sempre pensato a Dio come al fondamento certo, l’impersonale motore immobile aristotelico o il Dio cristiano della scolastica, ora il fondamento diventa l’ “io”. La Chiesa si sentì quindi fortemente minacciata poiché vide distrutta alle fondamenta quella visione cosmologica in cui aveva inquadrato le proprie credenze di fede, venendo messa in discussione anche la parola divina espressa nella Bibbia. Al crollo delle certezze promosse dalla fede, conseguì l’affermazione della ragione, come strumento di risposta alle incertezze che affliggevano l’uomo. • La perdita di centralità del pensiero medievale europeo a confronto con le civiltà “esotiche”: il parallelismo medievale di ragione e fede divenne nuovamente problematico con l’emergere della scienza moderna nel Rinascimento; la ricerca filosofica infatti dimostrò sempre maggiori difficoltà a conciliarsi con le restrizioni della dottrina religiosa, man mano che i risultati dell’indagine razionale contrastavano con i dogmi e le verità della rivelazione mettendo in crisi il principio di autorità con cui venivano risolti questi contrasti. Il 29


sapere medievale era enciclopedico, armonioso, coordinato e orientato verso Dio, inteso come culmine della verità, quadro che teneva insieme i vari saperi. Ragione e fede procedevano assieme. Dopo Guglielmo Ockham (1288-1349), filosofia e teologia divennero autonome, anzi si contrastarono. Nel Medioevo per quanto disordinata e approssimativa fosse la vita, il papato e l’impero costituivano dei punti di riferimento ben saldi, simboli di speranza, ordine e legalità universale. Nella cultura umanistico-rinascimentale saltò, invece, il quadro di riferimento religioso, la cornice che teneva insieme il mosaico del sapere, e si smarrì il senso della stabilità culturale e politica. Le scienze diventarono autonome e specialistiche, si perfezionano ma non comunicano più tra loro, secondo quella che fu definita “decompartimentazione” del sapere. Andò quindi in crisi non solo l’antica fisica aristotelica ma la stessa metafisica che già nel Medioevo serviva essenzialmente come strumento già pronto per sostenere la conversione alla fede. Il baricentro del sapere si spostò così dall’Europa all’Oriente, in un primo momento la Turchia e la Persia e in seguito la Cina. I rapporti con l’Oriente ruppero l’isolamento europeo ben molti secoli prima dei viaggi orientalisti, ma i riflessi culturali dei contatti commerciali o politici si manifestavano quasi sempre in maniera ancora confusa e indefinita. Già nel Tardo-Gotico e nel Rinascimento fecero la loro comparsa motivi esotici, spesso collegati a soggetti biblici oppure infernali e simbolici, con citazioni mutanti dall’arte islamica a quella cinese. Fu soprattutto a partire dal XVI secolo, grazie allo sviluppo del colonialismo, che l’Europa moltiplicò esponenzialmente i suoi contatti sia con il nuovo mondo americano, sia con l’Oriente e con l’Africa, sviluppando di conseguenza un sempre maggiore interesse e curiosità per tutto ciò che apparteneva alle terre più lontane. Gli esiti di questa nuova stagione dubitativa, sul versante della moda e delle galanterie, vedremo più tardi. Nell’ambito delle arti figurative invece, il ‘600 presentò molte sfaccettature, tanto che le sue manifestazioni artistiche non erano riconducibili a una formula univoca, quanto piuttosto, a percorsi artistici e culturali in continuo rapporto dialettico, ricco di reciproci prestiti e contaminazioni: 30


• Corrente classicheggiante: Carracci (Annibale, Agostino e Ludovico) La scuola che si sviluppò intorno ai Carracci, l’ “Accademia degli Incamminati”15, tentò di liberare l’arte dalle sue complicazioni manieristiche recuperando i principi di chiarezza, monumentalità ed equilibrio propri del primo Rinascimento. Annibale (1560-1609) e Agostino (1557-1602), pittori, erano fratelli, mentre Ludovico (1555-1619), loro cugino, assunse il ruolo di teorico.I Carracci si prefissarono di far risorgere l’arte italiana, che consideravano agonizzante, assumendo le forme della natura come modello da imitare. Tale impostazione stilistica caratterizzò le opere di pittori come Guido Reni, Domenichino, Francesco Albani, e di scultori come Alessandro Algardi. •

Corrente naturalista: Michelangelo Merisi (detto Caravaggio) Merisi (1571-1610) elaborò un personale e drammatico stile espressivo, incentrato su forti contrasti di luce e ombre: figure umane vive, “autentiche” nella loro caratterizzazione, che attingeva dalla realtà e dalla quotidianità, emergevano con forza prepotente attraverso il chiaroscuro, palesando la loro intima verità. Egli vedeva la realtà e ce ne presentava il significato, emetteva giudizi morali su di essa, separando un oggetto da un altro, un uomo da un altro o addirittura un particolare da un altro per mezzo della luce, elemento attivo della composizione, e lasciando tutto il resto nell’ombra. Tema della sua pittura fu quindi la realtà drammatica in cui vive l’uomo.

Corrente “Teatrale”: Gian Lorenzo Bernini Il maggior rappresentante della teatralità del Barocco, architetto, scultore, pittore e scenografo, artista prediletto dall’autorità papale fu Bernini (1598-1680). Egli realizzò per la Basilica di San Pietro l’imponente baldacchino bronzeo sull’altare maggiore e la Cattedra di San Pietro, splendide prove dello sfarzo e della munificenza della Chiesa Cattolica Romana, contro i quali tuonavano i sostenitori della Riforma. Nelle sue opere non si rivelava mai un 31


realismo soggettivo ma un sottile idealismo, e benché esse imitassero perfettamente la natura, si caricavano di significati soprattutto allegorici. • Corrente “Introspettiva”: Francesco Borromini Grande antagonista del Bernini fu Francesco Borromini (15991667): mentre il primo esprimeva il trionfo della Chiesa cattolica, che rendeva attraverso la grandiosità delle sue opere in un’apoteosi di forme, luci, colori, volumi e spazi; il secondo esprimeva invece l’intimità del singolo, il suo linguaggio era sottomesso, i suoi spazi erano limitati, e invece di materiali nobili, usava materiali poveri, tutto questo anche in ragione di una committenza spesso meno facoltosa del suo rivale Bernini. Borromini fu l’artista degli ordini monastici, chiusi e rigorosi, e la sua carriera fu piena di amarezze e delusioni. La contraddizione degli elementi fu il motivo conduttore della sua arte: niente era sicuro e l’uomo stesso viveva nel dubbio. La diffusione del Barocco investì gradualmente tutta l’Europa. Nella Spagna seicentesca, dominata ancora dallo spirito controriformista, la pittura espresse alcuni grandi artisti, di cui Diego Velázquez (15991660)fu il maggiore. Egli iniziò la sua attività con la rappresentazione di personaggi popolari, ma divenne ben presto pittore di corte, raffigurando sovrani, principi e dignitari. In Francia la politica assolutistica di Luigi XIII e Luigi XIV trasformò lo stato, centro unico del potere, nel principale committente. Soprattutto l’architettura, di cui il massimo esempio era la Reggia di Versailles, divenne l’espressione più organica dell’arte di governo. Prima del 1661, sotto il governo di Richelieu e Mazarino (v. infra, pp. 19), nella vita artistica predominava ancora una tendenza relativamente liberale; gli artisti non dovevano subire la tutela dello Stato, non c’era ancora una produzione organizzata dal governo. Quando Luigi XIV assunse personalmente il potere, l’arte perse la sua autonomia e si adeguò ai fini dell’assolutismo. Divenne sempre più pressante l’esigenza di un’arte che sapesse illustrare il trionfo politico della Francia a livello europeo. Lo stile che si affermò con Charles Le Brun (1619-1690) soddisfaceva tale richiesta. Il gusto classicista trovò invece un punto di forza nelle 32


opere di Nicolas Poussin (1594-1665); mentre interprete della lezione caravaggesca fu Georges de La Tour (1593-1652). La costituzione della Repubblica delle Province Unite (1579) e la conseguente indipendenza dalla Spagna delle regioni settentrionali dei Paesi Bassi, svilupparono in quest’area una solida struttura economico-sociale. Durante tutto il XVII secolo si delineò in quella realtà borghese - mercantile una straordinaria fioritura artistica caratterizzata da molteplici tendenze stilistiche, dovuta soprattutto all’aumentare di coloro che potevano permettersi di possedere opere d’arte. I nuovi borghesi non amavano più soggetti religiosi, né storici o mitologici, ma prediligevano quadri di piccolo formato incentrati sulla rappresentazione della vita quotidiana. Nell’Olanda Protestante, repubblicana e democratica, la pittura mostrava uomini di ogni estrazione sociale e di ambienti vissuti, resi con naturalismo. I maggiori esponenti di tale stile furono: Rembrandt (1606-1669), che usava il rapporto ombra-luce caravaggesca in funzione espressiva e Johannes Vermeer (1632-16759), che dall’antica tradizione dei Paesi Bassi traeva l’uso di rappresentare con assoluta precisione la realtà in tutti i suoi dettagli, manifestando in maniera vibrante l’amore per l’atmosfera familiare e quotidiana. Nelle province Cattoliche, invece, il massimo esponente fu Pieter Paul Rubens (1577-1640),che esprimeva la grandezza del potere politico e religioso attraverso una pittura trionfale nella composizione d’insieme, sempre ricca di moto nelle singole forme sovrabbondanti e nel colore. Egli fu il pittore che rappresentava al meglio la bellezza opulenta e gioiosa. Altro famoso pittore di questa tendenza fu Anton Van Dyck (1599-1641),discepolo di Rubens, da cui ereditò la ricchezza cromatica e la gioia per la pittura. La sua arte raggiunse il massimo livello nei ritratti a figura intera, in cui conferiva maestà alle figure. Parole chiave del Barocco furono: stupore e teatralità; la sua poetica del può essere riassunta in una famosa terzina del Marino: E’ del poeta il fin la meraviglia (parlo de l’eccellente, non del goffo): chi non sa far stupir, vada a la striglia.16

33


Il Barocco rifiutò regole e canoni rinascimentali; in esso possiamo rinvenire le caratteristiche fondamentali, e cioè la ricerca di novità, l’uso delle allitterazioni, iperboli, antitesi, parallelismi, bisticci, e soprattutto metafore, il bisogno di destare la meraviglia. Il più importante poeta di questo periodo, che improntò di sé al tal punto la poesia da originare una vera e propria corrente letteraria, il “Marinismo”, fu Giovan Battista Marino (1569-1625), convinto sostenitore che la grandezza del poeta si misurasse in base alla capacità di stupire il pubblico. Inclinazione questa che è comune a molti media nel Seicento europeo: dall’architettura alla pittura, nonché nell’uso di tecniche “illusionistiche” al confine tra quest’ultime, come il trompe l’oeil (inganna l’occhio). Ciò è intimamente legato all’atteggiamento di considerare l’arte soprattutto come decorazione. Per cui i finti marmi o le dorature erano utilizzate in sovrabbondanza, per creare l’illusione di preziosità non reali, ma solo apparenti. L’effetto illusionistico è utilizzato anche in pittura e in scultura: nel primo caso la grande padronanza tecnica della prospettiva consentiva di creare effetti illusionistici di grande spettacolarità, come avveniva spesso nelle grandi decorazioni ad affresco; in scultura, invece, la padronanza tecnica al limite del virtuosismo più esasperato, consentiva di imitare nel duro marmo aspetti di materiali più morbidi con effetti illusionistici straordinari. In pratica è proprio nell’età barocca che si apre una separazione tra l’essere e l’apparire dove il secondo termine prende una sua indipendenza dal primo al punto che non sempre, o quasi mai, ciò che si vede è ciò che è. Un altro parametro stilistico del Barocco è sicuramente la complessità. Nulla deve essere semplice, ma deve apparire come il frutto di un virtuosismo spinto agli estremi del possibile. In pratica l’effetto che un’opera barocca deve suscitare è sempre la meraviglia. Dinanzi ad essa si doveva restare a bocca aperta, chiedendosi come fosse possibile realizzare una cosa del genere. Le peculiarità stilistiche dei versi di Marino erano l’uso sistematico di metafore e concetti, il controllo magistrale dell’apparato retorico e della musicalità del verso. Il suo capolavoro fu L’Adone17, un poema vastissimo, di oltre 40.000 versi, in venti canti in ottave. Famosissimi sono i versi pronunciati da Venere in Rosa in riso d’amor del ciel fattura, in cui, sotto la penna abile del poeta, la rosa diviene sorriso d’amore, cre34


azione celeste, pregio del mondo, ornamento della natura, vergine figlia della terra e del sole, conforto e oggetto di cura di ninfe e pastori, vanto e signora dei fiori per eloquente bellezza, imperatrice sul trono. Obiettivo del poeta era “far inarcar le sopracciglia”, immagine eloquente che esprime l’emozione provata nel cogliere, all’improvviso, significati impliciti e sotterranei. Strumento tipico della poetica barocca era la Metafora, che nel Cannocchiale Aristotelico18di Emanuele Tesauro (1592-1675), assumeva il ruolo di strumento retorico irrinunciabile ai fini dell’espressione della nuova sensibilità, utile per raggiungere una visione matura del mondo in questa fase di totale rivalutazione e sovvertimento delle certezze tradizionali. Un altro aspetto della poetica del Barocco si rivela nello stile potente e oscuro di Tommaso Campanella (1568-1639). La poesia era per lui strumento di conoscenza spirituale che conduceva alla scoperta delle analogie che collegavano la dimensione materiale e concreta della realtà terrena con l’elemento trascendente e metafisico che la animava. Per manifestare questa visione del mondo Campanella elaborò un linguaggio originale e denso, aperto alla parlata popolare. Durante il Seicento, inoltre, si pongono le basi teoriche del teatro moderno come teatro della rappresentazione, della simulazione, dell’illusione e come luogo di applicazione di nuove tecniche della visione; ma soprattutto come luogo che accoglie ogni fantasia, ogni garanzia di un momentaneo sollievo alla precarietà del mondo, alla crisi delle certezze.19

In Italia nel ‘600 si assistette alla nascita di un nuovo genere teatrale: il “Melodramma” o dramma per musica. II Spagna il concettismo barocco raggiunse vette di straordinaria altezza e originalità con Luis de Góngora (1561-1627) e Francisco de Quevedo (1580-1645), esponenti più significativi del barocco lirico spagnolo. La poesia lirica, depositaria dell’espressione individuale del sentimento, esprimeva il disinganno e divenne, infatti, una delle forme privilegiate per descrivere la crisi in atto e la percezione che gli autori avevano, sempre più drammatica, della distanza che intercorreva tra la realtà concreta della vita di ogni giorno e i valori della morale e della bellezza. La poesia, per questi poeti, era capace di rappresentare una realtà più profonda e più vera di 35


quella concreta delle cose. Di estrema importanza fu inoltre il “dramma spagnolo”, di cui uno dei maggiori esponenti fu Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Tra il 1622 e il 1640 egli scrisse i suoi migliori drammi profani, che possono essere suddivisi in due categorie principali: le “commedie di cappa e spada”, come La dama duende20,costruite su intrighi amorosi ed equivoci a lieto fine, e le “opere serie”, che trattavano il tema della gelosia e dell’onore. Il vero capolavoro di Calderón fu La vida es seuño21, una favola allegorica sulla condizione umana e sul mistero della vita; in cui il tema del libero arbitrio che trionfa sulla presunta predestinazione voluta dal fato è calato in una favola suggestiva, animata da personaggi vividi. Motivo dominante dell’opera è il tema del desengaño: la consapevolezza, cioè, della natura crudele e barbara dell’uomo, della vanità mondana, rimediabili solo con un atto coraggioso di volontà e di fede che restituisca dignità e onore all’esistenza. Ai vertici del teatro spagnolo si colloca inoltre Lope Félix de Vega Carpio (1562-1635), famoso per la sua maestria nel costruire intrecci avvincenti dove avventure amorose e d’onore si chiudono sempre con un lieto fine. Si deve a lui, inoltre, l’invenzione del personaggio gracioso o semplicione. Un altro importante drammaturgo fu Tirso de Molina (1579-1648), che spicca per una maggiore profondità e finezza psicologica nella descrizione dei personaggi e per la ricchezza dei riferimenti alla realtà sociale del suo tempo. In Inghilterra, la poesia di John Donne (1572-1631), capostipite della corrente metafisica, si caratterizzava per lo stretto collegamento tra gli oggetti dell’esperienza sensibile e la riflessione intellettuale sui grandi temi dell’esistenza umana quali l’amore, la morte, il tempo e il divino. Nella poesia metafisica la metafora assumeva dunque un ruolo fondamentale creando immagini inaspettate al fine di sorprendere il lettore. Il maggiore esponente del genere epico inglese fu John Milton (16081674) con il suo capolavoro Paradise Lost22,che narra la storia di Adamo ed Eva e la loro cacciata dal Paradiso Terrestre, parallelamente alla cacciata di Lucifero, il più splendente tra gli angeli, dal Paradiso celeste. Lo stile di Milton era elevato e complesso, con una sintassi latina e un vocabolario ricercato. Con l’avvento al poter degli Stuart tornarono in voga in Inghilterra i Masques, allestiti in onore della famiglia reale. Il principale autore di 36


tale genere fu Ben Jonson (1572-1637), mentre l’allestimento delle scenografie era affidato a Inigo Jones (1573-1652). Nei masques la musica e la danza erano le vere protagoniste, e attraverso esse, si narrava una storia allegorica che poneva in luce numerose analogie tra la persona a cui lo spettacolo era dedicato, o l’occasione che era celebrata, e alcuni personaggi o episodi mitologici. In Francia il dibattito religioso e lo scontro d’interessi politici contrastanti segnarono profondamente l’attività letteraria di Pierre Corneille (1606-1684)e di Jean Racine (1639-1699). Corneille, nelle sue tragedie, metteva in scena il valore eroico, incarnandolo in personaggi dall’umanità complessa e ricchi di sfumature, come i protagonisti delle sue quattro opere principali: Il Cid, Orazio, Cinna, e Polutio. Temi centrali erano l’onore, l’amor di patria e la grandezza d’animo. Il predominio di Corneille rimase incontrastato fino agli anni ‘70, quando il primato a corte passò nelle mani di Racine. L’opera che meglio esprime la poetica di Racine è la Fedra23, che riprendeva la materia trattata da Euripide e da Seneca, piegandola a nuovi e intensi significati, evidenziando il tema centrale dell’ineluttabile debolezza dell’uomo. Altro grande autore del ‘600 teatrale francese fu Molière (1622-1673), grande maestro delle “commedie di costume”, dove rappresentava in chiave comica e ironica le manie e le mode del tempo. Il XVII secolo fu, quindi, un periodo di profondi cambiamenti sotto ogni aspetto: dal punto di vista politico, sociale, culturale, artistico e scientifico, tanto da essere stato considerato da Voltaire (1694-1778) come “uno dei più grandi secoli di civilizzazione”24. Con l’espressione “Grand Siècle” egli comprendeva quindi l’età che va da Luigi XIII (1601-1643), fino, e soprattutto, all’assolutismo di Luigi XIV, il così detto “Re Sole” (1638-1715). Egli sosteneva, infatti, che la grandezza di un’età, andasse misurata innanzitutto dal progresso che vi avevano compiuto le arti e dal mecenatismo che le aveva sostenute. Perciò il secolo di Luigi XIV appariva ancora più grande delle altre tre grandi stagioni dell’umanità: la Grecia di Pericle e di Alessandro, la Roma di Augusto e la Firenze dei Medici. Questo periodo segnò quindi il primato politico, culturale ed economico della Francia sul resto dell’Europa.

37


IV. La Francia da Luigi XIII a Luigi XIV

Luigi XIII (1601-1643), detto il Giusto, fu il primo figlio di Enrico IV e di Maria de’ Medici. Ascese al trono all’età di nove anni dopo l’assassinio del padre ad opera del monaco Ravaillac, avvenuto nel 1610. La madre diventò reggente per il figlio minorenne finché questi non compì i sedici anni e le subentrò nel governo. Ebbe così luogo quella svolta radicale della politica francese che portò alla pace con la Spagna e alla promessa di matrimonio di Luigi con Anna d’Austria, ma provocò anche una grave tensione interna ad opera degli ugonotti, timorosi di perdere i vantaggi dell’editto di Nantes25, e dei principi del sangue, che imposero, nel 1614, la convocazione degli Stati Generali. La politica della Reggente, ispirata da Concino Concini(1575-1617), fu fieramente avversata dalla nobiltà, specialmente dai Condé26che si sollevarono in armi fra il 1614 ed il 1616. L’assassinio, forse ordinato dallo stesso Luigi XIII, di Concino Concini (1617), che aveva avuto una grande influenza nella politica di Maria, tolse effettivamente alla Regina Madre la sua posizione di potere. Nel 1624 iniziò la collaborazione con il cardinale Richelieu (15851642), che il re aveva fin allora tenuto lontano perché già ministro della madre, e che durò fino alla morte di quest’ultimo nel 1642. Spregiudicato manipolatore, avido di potere o lungimirante e devoto alla corona: il cardinale più famoso della storia è stato un personaggio fortemente complesso. Pur pretendendo che ogni decisione fosse sottoposta alla sua approvazione, Luigi XIII lasciò di fatto il governo al brillante ed energico cardinale Richelieu, il vero governate della Francia della prima metà del XVII secolo, che ebbe due scopi preminenti in politica interna ed uno in quella estera: in politica interna, ridurre l’influenza ugonotta sulla monarchia e ridimensionare fortemente l’arroganza della nobiltà francese sottomettendola al potere regale; in politica estera, lottare contro l’impero austriaco. Egli era, infatti, fortemente convinto che in un regime monarchico accentrato non ci dovesse essere spazio per le forze centrifughe come quelle rappresentate dalla politica autonoma dei riformati e della fronda nobiliare di opposizione al re. Punti cardine della sua azione politica erano quindi la limitazione dei privilegi della nobiltà feudale, l’istituzione degli intendenti per governare le province, 38


l’impulso al commercio e all’industria nazionali per limitare le esportazioni. La sua politica religiosa prevedeva, invece, il ridimensionamento della minoranza ugonotta attraverso una vera e propria guerra. Già con la Pace di Montpellier (1622), a conclusione di una rivolta protestante (fig.13), i diritti dei protestanti emergenti dall’Editto di Nantes furono decisamente ridimensionati. Richelieu continuò poi a perseguire la sua politica attaccando le roccaforti protestanti ed in particolare quella di La Rochelle, la cui posizione sull’Atlantico consentiva ad essi di ricevere armi e viveri dalla flotta inglese. Dopo quattordici mesi di assedio La Rochelle cadde (ottobre 1628), segnandone il declino commerciale, e la Pace di Alais (1629), pur confermando agli ugonotti la libertà di culto, riconoscendoli di pari dignità rispetto ai cattolici, tolse loro il sostegno militare delle piazzeforti. Sistemata la questione del potere protestante, la Francia di Luigi XIII e del Richelieu si rivolse contro l’Austria ed il pretesto fu la successione del duca di MantovaVincenzo II Gonzaga (1594-1627), rimasto privo di eredi maschi, per la quale Richelieu prese le parti del duca Carlo di NeverseRethel27. Ne conseguì l’invasione del ducato di Savoia, alla quale partecipò lo stesso re Luigi, con la quale Carlo Emanuele (Principe di Piemonte dal 1580 al 1630)fu costretto a schierarsi con la Francia contro l’Impero. Con un potere più ampio che mai Richelieu riprese la sua politica estera antiasburgica, inserendo la Francia nel vivo della Guerra dei Trent’anni,dopo aver partecipato fino ad allora solo a episodi marginali del conflitto. Il 24 novembre 1615 Luigi XIII sposò una principessa asburgica, Anna d’Austria, figlia del re Filippo III di Spagna (regnante dal 1598 al 1621). Il loro matrimonio non fu mai felice e per la gran parte i due regali sposi vissero come estranei. Tuttavia, dopo vent’anni di matrimonio e quattro aborti, Anna diede finalmente alla luce un figlio nel 1638, Luigi Deodato, futuro re Luigi XIV, cui ne seguì un secondo due anni dopo, Filippo, duca d’Orléans. Luigi XIV di Borbone (1638-1715) fu il primogenito di Luigi XIII, figlio di Enrico IV e di Maria de’ Medici, e di Anna d’Austria, figlia del re Filippo III di Spagna. Luigi XIV fu chiamato il “Re Sole” (in Francese Le Roi Soleil) o “Luigi il Grande” (in francese Louis Le Grand). Egli aveva appena quattro anni quando il re suo padre morì; ereditò così il trono di Francia, ma essendo minorenne fu nomi39


nata reggente la madre, che gestì il potere assieme al Primo Ministro, il cardinale Giulio Mazarino (1602-1661), già segretario di Richelieu, che continuò la politica accentratrice del suo predecessore, tesa a rafforzare l’assolutismo regio (fig.14). Negli anni finali della Guerra dei Trent’anni in Francia scoppiò una guerra civile meglio conosciuta col nome di Fronda28, che mise seriamente in crisi la stabilità della riuscita Pace di Vestfalia. I Frondeurs erano insorti contro il Re a protezione dei diritti feudali dell’aristocrazia francese contro il crescente accentramento del potere statale guidato dal cardinale Mazarino, che per di più aveva proseguito la politica di Richelieu suo predecessore nel far crescere la Corona a spese della nobiltà e del parlamento. Nel 1648 Mazarino tentò di tassare i membri del Parlamento di Parigi. Essi si rifiutarono di sottoscrivere quest’atto e ordinarono anche che il decreto finanziario promosso da Mazarino fosse pubblicamente bruciato. Mazarinodiede quindi ordine di arrestare alcuni membri del parlamento come dimostrazione della rinnovata forza sui rivoltosi, ma la cittadinanza di Parigi insorse contro il governo. Dopo che i Frondeurs ebbero fatto irruzione nel palazzo reale, Anna ed il piccolo Luigi XIV decisero di lasciare Parigi e di trasferire altrove l’intera corte. Dopo la prima fronda (“Fronda parlamentare”, 16481649), scoppiò una seconda fronda, che coinvolse i rappresentanti dell’aristocrazia (“Fronda dei principi”, 1650-1653). Questa seconda fase vide l’insurrezione totale delle classi agiate; essa era condotta dagli aristocratici che protestavano contro la centralizzazione del potere. I due movimenti furono però stroncati il primo grazie all’esercito, il secondo per la reazione popolare, che non perdonò al capo dei nobili, il principe di Condé (Luigi II Borbone, 1621-1686), di aver fatto ricorso alla Spagna pur di affermare la propria egemonia. Fu così che, dopo avere dovuto lasciare Parigi insieme alla corte, nel 1652 Mazarino poté rientrare trionfalmente nella capitale, dopo un lungo periodo d’esilio, dove governò fino alla morte (1661). Una volta sconfitta la rivolta delle Fronde, Mazzarino si volse alla politica estera, concludendo abilmente la guerra contro la Spagna, ultima appendice della guerra dei Trent’anni. Grazie a un’alleanza con l’In40


ghilterra di Cromwell (v. infra), fu relativamente agevole per il generale francese Henri de la Tour (1611-1675), visconte di Turenne, battere l’esercito nemico nella cosiddetta “battaglia delle dune” (1658) nelle Fiandre. La Spagna dovette perciò assoggettarsi alla “Pace dei Pirenei” (1659), che segnava la sua definitiva disfatta come potenza europea. Nel 1660 si ebbe il tanto atteso matrimonio tra i due cugini: Maria Teresa, nipote della regina Anna d’Austria, e Luigi XIV, nipote del re di Spagna. Col matrimonio finirono le guerre e tra i due paesi regnò dopo tanto tempo la pace. Questo fu il capolavoro diplomatico di Mazarino che resse le sorti della Francia per molti anni e fu così influente che solo alla sua morte, avvenuta il 9 marzo 1661, Luigi poté assumere effettivamente i poteri. La sua ascesa riportò ordine nell’amministrazione dello stato francese, ma allo stesso tempo le casse dello stato si trovavano sulla soglia della bancarotta. Ad alleviare le conseguenze negative determinate in campo economico dalla spregiudicata politica di Luigi XIV fu certamente la situazione di generale sviluppo dell’economia francese, favorita dall’intensa opera riformatrice posta in atto dal ministro delle finanze Jean-BaptisteColbert (1619-1683). Generalmente considerato come il più valido esponente del mercantilismo, di quel sistema cioè di produzione e circolazione della ricchezza che promuove le esportazioni e frena le importazioni, Colbert resse le sorti della vita economica e finanziaria francese per circa un ventennio, a partire dal 1665, con lo scopo di conquistare il mercato internazionale con la qualità dei prodotti francesi. Fermamente convinto che la ricchezza di una nazione dipendesse dalla quantità di moneta pregiata posseduta, egli ricorse a una politica protezionistica finalizzata alla realizzazione di una grande riserva di metalli preziosi: a tal fine ostacolò, con elevati dazi doganali (ossia imposte sulla merce proveniente da altri Paesi), l’acquisto di prodotti di lusso dall’estero, incoraggiando invece l’importazione di materie prime, la cui lavorazione e successiva esportazione sotto forma di prodotti finiti procurava sicura ricchezza al Paese. Nello stesso tempo, allo scopo di favorire la produzione locale, appoggiò con ogni mezzo lo sviluppo del commercio interno, sforzandosi di unificare il sistema dei pesi e delle misure, equilibrando le diverse forme di prelievo fiscale, eliminando le innumerevoli barriere doganali che soffocavano il movimento delle merci, intensificando la costruzione di 41


strade e canali e favorendo con ogni mezzo l’immigrazione di personale specializzato dai Paesi vicini, con particolare riguardo per i tessitori olandesi e i setaioli lombardi. Colbert ebbe anche l’intelligenza di incoraggiare lo sviluppo industriale, ben comprendendo che gli utili di questo settore potevano essere di gran lunga superiori a quelli derivanti dall’agricoltura. A tal fine inserì direttamente lo Stato nel processo produttivo, impegnando consistenti somme di denaro pubblico nella realizzazione di nuove imprese industriali e dando così inizio a una nuova era: quella dell’intervento statale nella vita economica del Paese. Fra i prodotti delle “industrie di Stato” da lui realizzate furono particolarmente famosi gli specchi di Saint-Gobain, le tappezzerie di Beauvais, gli arazzi Gobelins di Parigi e le sete di Lyone. Si trattava di merci di lusso, destinate a entrare nel giro delle corti, dei nobili e dei ricchi, clienti abituali dei prodotti provenienti dall’estero.Colbert lanciò un ambizioso progetto di organizzazione e promozione delle industrie tessili francesi, sia in patria che all’estero. Lyone, già importante centro commerciale per l’importazione dei tessuti, emerse come il centro di questa industria diventando il più grande produttore francese di tessuti di lusso e capitale europea per la produzione della seta, tanto erano ricercati i suoi colorati tessuti dai motivi decorativi più vari. Per quanto riguardava, invece, la produzione degli arazzi il primato spettava a la Manufactures des Gobelins, uno storico laboratorio di tessitura di arazzi creato nel 1601 per volontà di Enrico IV (1589-1610) su suggerimento del suo consigliere per il commercio Barthélemy de Laffemas (15451612). I Gobelins erano una famiglia di tintori specializzati nella tintura del colore rosso scarlatto ricavato dalla cocciniglia, originaria di Reims. Verso la metà del XV secolo la famiglia si stabilì in Faubourg Saint Marcel presso un mulino sulla Bièvre, chiamato così mulino dei Gobelins. Nel 1662Luigi XIV acquistò gli edifici dalla famiglia Gobelin, che nel 1667 divennero, con la direzione del pittore Charles Le Brun e la supervisione di Jean-Baptiste Colbert, la sede della Manifacture Royale des Meubles de la Couronne che produceva oggetti e arredi di lusso per la nobiltà. Nonostante ciò rimase libera di fornire anche privati, e produsse serie di arazzi tra i più pregiati del secolo, su cartoni di grandi artisti dell’epoca come Pieter Paul Rubens e Antoin Caron. 42


Scopo di Colbert era quello di riunire in un lavoro comune architetti e ornatisti, pittori e scultori, ebanisti e arazzieri, tessitori di seta e di panno, fonditori di bronzo e orefici, ceramisti e maestri del vetro. Il tutto era coordinato da un efficiente lavoro meccanizzato della manifattura a carattere industriale, che portò a un livellamento sia nelle arti applicate,sia in quelle maggiori. Quasi tutto ciò che si fabbricava nella Manufactures des Gobelins nasceva sotto il diretto controllo di Le Brun. Egli stesso disegnava gran parte dei cartoni, altri venivano preparati sotto le sue direttive, ed eseguiti sotto la sua sorveglianza. Di estrema importanza furono anche le fabbriche regie di Valanciennes, famose in tutto il mondo per la produzione dei migliori pizzi e merletti. Tipica era nei primi pizzi la straordinaria finezza dei fili utilizzati e la decorazione a motivi floreali. La città di Valanciennes godeva, inoltre, per concessione del re, di un dazio sulle tele, i lini e le battiste, di cui si faceva gran commercio in questa città. Lo Stato incoraggiava anche la creazione di nuove fabbriche private, ma più spesso, sovvenzionava imprese già avviate (come accadde per numerose manifatture di tessuti, soprattutto nella Linguadoca). Le fabbriche reali avevano il permesso di fregiarsi delle “armi del re”, cioè di segnare con un marchio i loro prodotti della corona o dei fiori di giglio, e soprattutto beneficiavano di un sostanziale aiuto finanziario. Nello stesso tempo, nell’intento di incrementare il commercio con l’estero, secondo l’esempio inglese e olandese, egli promosse la formazione di cinque compagnie commerciali privilegiate, cui demandò il monopolio dei traffici francesi con le colonie (Compagnie del Nord, del Levante, delle Indie orientali, delle Indie occidentali e del Senegal). Provvide anche a potenziare la flotta militare, naturale difesa di quella mercantile e indispensabile mezzo propulsore dell’attività coloniale. Per quanto avesse cercato di ispirarsi al modello di sviluppo inglese, Colbert non riuscì però che in parte nel proprio intento: troppo diverso si presentava, infatti, l’assetto economico e sociale dei due Paesi. Luigi XIV, il Re Sole, impostò la sua politica sull’assolutismo del sovrano. Il soprannome con cui è passato alla storia, si addice proprio a ciò che cercò di realizzare: uno stato nel quale il re fosse sciolto dalle leggi (legibus solutus), essendo il suo potere superiore a qualsiasi 43


altro all’interno dello stato stesso, che doveva essere dipendente dal suo. Prepotente e aggressivo in politica estera, il sovrano pose fine al cosiddetto “regime ministeriale” e governò praticamente da solo, accentrando tutti i poteri nelle proprie mani e combattendo senza mezze misure lo spirito di autonomia specie dei Parlamenti locali, che vennero privati di qualsiasi diritto di protesta e ridotti a semplici trascrittori degli editti regi. In sintonia con la teoria che faceva derivare il potere monarchico direttamente da Dio e non dal popolo (sostenuta soprattutto dal vescovo e letterato JacquesBénigneBossuet), Luigi XIV era sostenitore dell’origine divina della missione di re, nei riguardi della quale non ammetteva limitazioni di alcun genere.29

Il sistema adottato da Luigi XIV per ridurre all’obbedienza la nobiltà, che storicamente ostacolava la monarchia per paura di perdere i suoi privilegi, fu quello di costruire una sfarzosa reggia a Versailles, nella quale obbligò i nobili a trasferirsi, lasciando i propri possedimenti. In questo modo eglitolse loro il potere politico, inviando a governare i loro possedimenti dei funzionari di fiducia, costituendo così una borghesia molto moderna; contemporaneamente ridusse l’autonomia dei parlamenti locali e non convocò più gli Stati Generali. Luigi XIV scrisse nelle sue Memorie: «Nulla assicura il riposo e la felicità delle province quanto il concentrare l’autorità nella sola persona del sovrano.»30e usò una metafora per questo concetto, ovvero quella del corpo umano, dove alla sola testa spetta di decidere per il bene di tutto il corpo, ma poi tutte le membra le devono ubbidire. Quindi il potere del re è dato da Dio perché sia rispettato dai sudditi. In questo modo egli coincide con lo stato e quindi emana la legge e ne è allo stesso tempo superiore. Del sistema politico che il Re Sole creò, denominato Ancien Régime, rimase, dopo la Rivoluzione Francese, solo la fortissima burocrazia e uno stato accentratore. Nel 1665 morì Filippo IV, re di Spagna, lasciando in eredità i Paesi Bassi spagnoli non alla figlia di primo letto, ma a Carlo II, figlio di secondo letto e ancora bambino. Luigi XIV pretendeva che i Paesi Bassi Spagnoli fossero ereditati dalla moglie Maria Teresa, figlia di primo 44


letto del defunto re di Spagna. Inghilterra e Olanda terminarono di farsi guerra e anzi prepararono la “Triplice Alleanza” che comprendeva anche la Svezia. Luigi dovette affrontare così la “Guerra di devoluzione” contro la Spagna. Nel 1667 la Francia occupò la parte meridionale dei Paesi Bassi spagnoli. Olanda, Inghilterra e Impero mobilitarono la loro diplomazia nel tentativo di interrompere l’avanzata francese. La potente flotta olandese sconfisse rovinosamente quella francese. La Francia presto si trovò sola contro l’Olanda e attaccata da Spagna, Impero Austriaco e Tedesco. Con la Pace di Aquisgrana (1668) la Spagna pose fine alla guerra e riconobbe i vantaggi territorialiacquisiti dalla Francia nelle Fiandre. Alla fine, quindi, la Francia vinse ma non come aveva sperato il Re Sole: il costo fu altissimo. Tra il 1672 e il 1678 la Francia, invece, si schierò contro le Province Unite. Cause del conflitto furono l’intervento olandese nella guerra di devoluzione e le ritorsioni commerciali olandesi in risposta alla guerra tariffaria ingaggiata da Colbert. A fianco della Francia si schierarono Inghilterra e Svezia, mentre l’Olanda ottenne l’appoggio della Spagna e dell’Impero. Nel 1672 le truppe francesi invasero le Province Unite, l’esercito olandese seppe però difendersi strenuamente grazie anche all’intervento spagnolo e imperiale. Nella seconda fase della guerra l’Inghilterra decise di firmare una pace separata con l’Olanda; infine con la Pace di Nimega (1678) la Francia ottenne dalla Spagna terre nei Paesi Bassi spagnoli. Nel 1683 morì Maria Teresa, regina di Francia e enfanta di Spagna, nello stesso anno se ne andò pure Colbert. D’ora in poi il re si affiderà ad adulatori che non sapranno ben consigliarlo, indebolendo sempre più il paese. Tra gli errori suoi maggiori ci furono le guerre di religione, intraprese dal 1685, anno in cui venne revocato l’Editto di Nantes. Luigi XIV ritenne necessario ridurre all’ubbidienza la chiesa francese per poter continuare il suo disegno politico assolutistico. La sua politica religiosa mirò a utilizzare la religione cattolica come elemento unificante della popolazione e pertanto s’irrigidì nei confronti di posizioni di dissenso rispetto al cattolicesimo dominante. Ciò lo condusse a lottare contro il Giansenismo, una corrente inserita all’interno del cattolicesimo ma che predicava il ritorno ad una semplicità spirituale, alla povertà dell’uomo, 45


ad un codice comportamentale più rigido aderente alla norme del Vangelo, contro una religione troppo permissiva nei confronti della mondanità. Nel 1691 morì François Michel Le Tellier de Louvois, il più grande ministro dopo Colbert. Nello stesso periodo Luigi XIV divenne sempre più duro contro il popolo. In seguito alla morte nel novembre del 1700 di Carlo II di Spagna, ultimo della dinastia Asburgo, la pretesa del trono spagnolo era avanzata da molte casate europee, ma i maggiori pretendenti erano i regnanti di Francia e Austria, che avevano entrambi mogli e madri spagnole. Un accordo firmato prima del decesso (25 marzo 1700) assegnava: a Carlo, secondogenito dell’imperatore tedesco Leopoldo I, la corona di Spagna, dei Paesi Bassi spagnoli e delle colonie; a Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV di Francia, la corona sui domini italiani. Un mese prima di morire (2 ottobre 1700) Carlo II, tuttavia, aveva redatto un testamento in cui stabiliva: l’annullamento dell’accordo precedente; la nomina di Filippo V d’Angiò, nipote del Re Sole, erede universale (con la rinuncia al diritto di successione in Francia per evitare un eccessivo rafforzamento del potere francese in Europa). Il 16 novembre 1700 Luigi XIV presentò suo nipote agli ambasciatori spagnoli dando la sua ascesa al trono come fatto compiuto. Come reazione a tale gesto, le potenze straniere si allearono di nuovo contro la Francia. Scoppiò così, nel 1701, la “Guerra di successione Spagnola”(1701-1714). A fianco della Francia si schierarono la Spagna, Savoia, Portogallo e parte dei principi tedeschi. A fianco dell’Impero, invece, Inghilterra, Olanda, Danimarca e alcuni principati tedeschi. Dopo gli iniziali successi francesi, il Ducato di Savoia e il Portogallo decisero di schierarsi nella coalizione anti-francese (1703). Seguirono quindi una serie di operazioni militari a favore della Grande Coalizione. Nel 1713 si ebbe la fine della guerra con la “Pace di Utrecht” (fig.15) tra Francia, Inghilterra e Olanda. La Francia mantenne l’integrità territoriale ma le fu preclusa la corona spagnola. Filippo V mantenne la corona e l’Inghilterra ottenne concessioni marittime cospicue (detenute fino a quel momento dagli spagnoli). L’Olanda, invece, ottenne delle piazzeforti lungo il confine francese. Così naufragò il sogno di Re Sole di unificare un regno grande come 46


un nuovo Cesare. Luigi XIV si spense l’1 settembre 1715. V. L’Inghilterra fra rivoluzioni e ascesa economica Elisabetta I morì, in Inghilterra, nel 1603. Suo successore fu Giacomo I Stuart (regnante dal 1527 al 1625). In quelli anni in Inghilterra si ebbe un notevole sviluppo demografico e economico (carbone, prodotti tessili, cannoni): Londra, con il suo porto, era il centro e il motore di tale sviluppo, anche se l’attività dominante rimaneva l’agricoltura. Sotto il profilo religioso, la situazione era complessa e variegata. La Chiesa anglicana, nata con lo scisma31(1533) voluto da Enrico VIII (regnante dal 1509 al 1547), era Chiesa di stato: i vescovi, nominati dal re, rispondevano direttamente a lui ed erano la longa manus del sovrano anche in ambito politico. Elisabetta stessa non aveva esitato a usare la Chiesa anglicana per combattere la sua battaglia contro la Spagna e il Papato. Nel ‘600, tuttavia, il livello culturale dei predicatori nelle campagne era notevolmente peggiorato, gettando discredito sulla Chiesa anglicana. Molti gentiluomini di campagna avevano nominato predicatori più competenti, di formazione calvinista (puritani), che volevano “purificare” la chiesa inglese, cancellando i residui cattolici ancora presenti nella sua dottrina e nella sua liturgia. Il re Giacomo I aveva perseguitato i puritani e così molti di loro erano emigrati nel Nuovo mondo. I sovrani inglesi del ‘500 avevano cercato di ridurre il ruolo del Parlamento, instaurando un assolutismo di fatto. Giacomo I cercò di continuare su questa linea rivendicando la sacralità del potere regale e il diritto di imporre tasse senza il parere del Parlamento, difendendo la Chiesa anglicana. Contro di lui si schierano sia forze politiche (sostenitori delle prerogative del Parlamento), sia religiose (puritani). Carlo I (regnante dal 1625 al 1649), figlio di Giacomo proseguì nella stessa linea (fig.16). Negli altri stati d’Europa l’assolutismo era nato come reazione alle spinte centrifughe feudali e di ceto, tentativo di soluzione della questione religiosa, sforzo di concentrazione delle attività economiche ed estensione di potere in funzione della lotta per l’egemonia tra le potenze europee. Fu dunque un sistema che non coincideva con una dittatura d’emergenza, ma un sistema di continuo allargamento delle competenze 47


statali allo scopo di risolvere i problemi sopra elencati. In Inghilterra, quindi, l’assolutismo in senso continentale non aveva alcuna ragione d’esistere. Con la fine della Guerra delle Due Rose (1455-1485)32il feudalesimo era uscito debole e dissanguato; il problema religioso era stato risolto a monte dalla monarchia; l’economia non era fortemente compromessa da guerre civili ed egemoniche. Dunque la necessità di un forte governo monarchico non era tale da diventare l’unico argomento di azione politica. Gli anni compresi tra 1640 e il 1660 segnarono così la fine dell’Inghilterra del Medioevo e dei Tudor. Tra il 1640 e il 1648 la monarchia si scontrò con il Parlamento provocando la Guerra Civile, che si concluse nel 1649 quando il re Carlo I venne giustiziato dal Parlamento. Conseguentemente venne proclamata la Repubblica (fig.17), guidata da Oliver Cromwell (1599-1658), il quale governò il paese come dittatore e venne eletto, nel 1653, Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Le Prerogative Courts non furono ricostituite e la sovranità del Parlamento e della Common Law non furono messe in discussione. Le tassazioni, e in generale qualsiasi attività politica erano controllate dal Parlamento. Potenti uomini locali, si coalizzarono per stabilire una feroce attività anti francese in chiave economica. I decenni rivoluzionari (1642-1660) completarono l’unificazione dell’Inghilterra. Dopo aver abolito il Consiglio del Nord e del Galles, fu possibile l’unificazione del diritto inglese su tutto il paese, fondato sulla Common Law. La Camera dei Comuni diventò rappresentativa nel 1653 per tutta l’Inghilterra, dopo che nel 1652 si unì la Scozia, e nel 1690 terminò di esistere anche il parlamento irlandese. Fra il 1649 e il 1660 la Camera dei Lord venne abolita e i privilegi dei pari furono sospesi. Nel 1658 morì Cromwell designando come suo successore il figlio Richard (1626-1712), il quale però l’anno seguente abdicò e si rifugiò in Francia. Le vecchie regolamentazioni del diritto di voto vennero rimesse in vigore nel 1659 e confermate alla restaurazione del 1660.In quell’anno, infatti, per riempire il vuoto di governo, Carlo II (regnante dal 1660 al1685), figlio del re giustiziato, venne richiamato in patria e la Monarchia Assoluta fu restaurata ai danni del Parlamento. Carlo II si concentrò nell’opera di restaurazione delle corporazioni, sempre nell’interesse di una ristretta oligarchia; suo figlio Giacomo II (regnante dal 1685 al 1688) cercò di 48


raggrupparle e influenzarle, pensando che questo fosse il modo migliore per accattivarsi il Parlamento. Nel 1679 i Whigs (liberali) proposero di ripristinare il diritto di voto solo per coloro che avevano un reddito minimo annuo di duecento sterline, ma nel 1688 non venne più fatto alcun tentativo di riforma elettorale e il nuovo edificio rilevò le vecchie istituzioni. Le oligarchie delle corporazioni subivano pressioni da ogni parte, poiché il loro ristretto elettorato costituiva la base sui cui s’innalzava il sistema di corruzione parlamentare del secolo XVIII. Pare che sotto Carlo II e Giacomo II i Whigs avessero quasi sempre maggior sostegno rispetto ai Tories (conservatori), e favorivano in ogni caso l’allargamento del diritto di voto. Nel 1640 a Windsor il voto fu allargato a tutti gli abitanti, nel 1661 ristretto ai rappresentanti cittadini, al sindaco e ai balivi33, nel 1679, infine, la Camera dei Comuni Whig ripristinò l’allargamento. Giacomo II volle restaurare nel regno il cristianesimo romano, ormai da più di un secolo considerato nell’isola il principale nemico della comunità.Ciò spinse il Parlamento, nel 1688, a offrire la corona d’Inghilterra a un principe di sangue protestante, Guglielmo III d’Orange (regnante dal 1689 al 1702), Statolder d’Olanda e marito di Maria Stuart, figlia primogenita di Giacomo II e anch’essa protestante. Nel 1689 egli firmò la “Dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights), sancendo in questo modo la nascita della Monarchia Costituzionale e Parlamentare.Questo periodo segnò una radicale svolta ai vertici della monarchia inglese senza alcun tipo di coinvolgimento delle masse popolari, ma anche senza spargimento di sangue. Fu definito, per questo motivo, “Gloriosa Rivoluzione” (1688-1689). Nel 1702, alla sua morte senza figli, il regno passò alla sua sorellastra Anna Stuart (regnante dal 1702 al 1714). Morta anch’essa senza eredi, la corona venne assegnata a un esponente della dinastia tedesca degli Hannover, che assunse il nome di Giorgio I (regnante dal 1714 al 1727). VI. L’Europa Centro-Orientale nel XVII secolo La Svezia svolse, nel Seicento, un ruolo d’importanza cruciale nella storia dell’Europa settentrionale ed orientale, accelerando la crisi della Polonia e producendo il rafforzamento della Russia e della Prussia. 49


Nel Cinquecento, la Svezia si era resa indipendente dalla Danimarca e si era convertita al Luteranesimo; la confisca delle terre ecclesiastiche fornì a Gustavo I Vasa (regnante dal 1523 al 1560) notevoli risorse che consentirono di ampliare l’amministrazione regia e di avviare la costruzione di uno Stato moderno e centralizzato. Sotto i successori di Gustavo I, la Svezia dette inizio alla sua espansione: alleata con la Polonia, respinse l’offensiva dello Zar Ivan IV (regnante dal 1561 al 1584) e conquistò l’Estonia. Il re Gustavo II Adolfo (regnante dal 1611 al 1632), con la collaborazione della nobiltà svedese, perfezionò il sistema di governo, potenziò l’esercito e allestì una forte marina militare; mossa guerra alla Russia e alla Polonia, gli svedesi estesero il loro controllo sulle rive meridionali del Baltico, occuparono la Livonia ed imposero pesanti dazi sul commercio dei cereali; Gustavo Adolfo intervenne in Germania nella Guerra dei Trent’Anni, ottenendo clamorose vittorie. Alla sua morte, la Svezia, affidata al cancelliere Alex Oxenstierna (1583-1654), era la più forte potenza dell’Europa settentrionale (fig.18). La pace di Vestfalia sancì la statura internazionale della Svezia, che ottenne la Pomerania e il controllo delle foci dell’Elba, dell’Oder e del Weser, centri di grande importanza economica e strategica. Nel 1655, il sovrano Carlo X Gustavo (regnante dal 1654 al 1660) attaccò la Polonia a cui, nonostante l’intervento della Danimarca, tolse la Lituania e la sovranità sulla Prussia orientale, mentre la Danimarca perse la Scania e il controllo degli stretti per cui si accede via mare al Baltico. L’entità dei successi svedesi e il rischio che il commercio nel Baltico risultasse impedito, convinsero gli Olandesi ad intervenire contro la Svezia; grazie alla mediazione francese, si giunse, nel 1660, alle Paci d’Oliva e di Copenaghen, che riconobbero gli acquisti territoriali della Svezia e sancirono l’indipendenza del Brandeburgo dalla Polonia. Queste sistemazioni territoriali ridimensionarono l’estensione della Polonia, ma consentirono al re Giovanni III Sobieski (regnante dal 1674 al 1696) di concentrare gli sforzi contro la pressione turca: la vittoria sui Turchi, nel 1683, liberò Vienna dalla minaccia ottomana e segnò il momento in cui l’Impero turco cominciò ad arretrare. La costruzione dell’assolutismo in Svezia proseguì sotto Carlo XI (regnante dal 1660 al 1697), cui fu attribuito il diritto divino all’assoluta sovranità. L’efficiente macchina statale e militare, ereditata dal padre, 50


consentì a Carlo XII (regnante dal 1697 al 1718) di lanciarsi nella “Seconda Guerra del Nord” (1700-1721) (fig.19) e di attaccare la Russia contro Pietro I il Grande (regnante dal 1682 al 1725). La guerra ebbe inizio nel 1700, allorché il re di Svezia, Carlo XII, dopo aver attaccato e costretto alla resa la Danimarca, si rivolse contro la Polonia, sbaragliò l’esercito sassone-polacco e giunse fino a Varsavia e Cracovia. Nel 1707, Carlo si volse ad Oriente ed invase il territorio russo; Carlo, di fronte alle difficoltà provocate dal freddo, dalla scarsità di rifornimenti e dalla strategia russa, piegò la sua avanzata verso sud, per ricongiungersi con alcune tribù cosacche, ribelli allo zar, e con i Turchi, ma a Poltava, nella steppa ucraina, subì una sconfitta da parte dell’esercito zarista. La disfatta svedese in Russia provocò il ritorno del re di Polonia ed il passaggio della Pomerania e della Lituania in mano a Prussiani e Russi. Carlo XII interruppe le trattative di pace e riaprì le ostilità, ma nel 1718 fu ucciso nel corso delle operazioni militari. La Svezia riprese le trattative di pace che si conclusero con le paci di Stoccolma e di Nystadt. Nel 1714, la Turchia, che era rimasta neutrale nel conflitto russo-svedese, dichiarò guerra all’Austria e recuperò la Morea; l’Austria e Venezia rinsaldarono la loro alleanza, passando all’offensiva, fino a cingere d’assedio Belgrado, che era il più importante centro ottomano nella penisola balcanica. Nel 1717, Belgrado si arrese e gli Austriaci occuparono la Serbia e la Valacchia; queste conquiste furono riconosciute dalla Pace di Passarowitz, che sancì anche il declino di Venezia, che non ottenne la restituzione del Peloponneso(fig. 20). Agli inizi del XVII secolo la Germania, invece, era ancora frammentata in una molteplicità di entità politiche, indipendenti l’una dall’altra: il Sacro Romano Impero34era solo un nome senza sostanza, anche se il titolo imperiale rimase prerogativa della casa asburgica, allorché, alla fine del Seicento, cominciò a delinearsi l’ascesa di un nuovo protagonista, la Prussia degli Hohenzollern35. Gli Hohenzollern furono fatti marchesi del Brandeburgo ed Elettori dell’Impero dall’imperatore Sigismondo, in riconoscimento dell’aiuto fornito contro il movimento hussita36.Il Brandeburgo era un territorio agricolo, privo di città importanti, dominato dalla nobiltà dei grandi proprietari terrieri, gli Junker, il cui ceto era economicamente potente perché utilizzava il lavoro servile e 51


tradusse questa forza anche sul piano politico, imponendo un sistema di rappresentazione di Ordini. Gli eventi decisivi per le fortune degli Hohenzollern maturarono durante la Guerra dei Trent’Anni: i loro domini furono percorsi e saccheggiati dagli eserciti contrapposti, finché si vennero a trovare assoggettati alla Svezia, la cui dominazione militare ridusse il ruolo delle diete nobiliari ed eliminò molte assemblee rappresentative; la pace di Vestfalia consegnò agli Hohenzollern possedimenti ingranditi, in cui era ridimensionata l’importanza della nobiltà feudale. Per fronteggiare l’espansionismo svedese era necessario disporre di un esercito forte e costruire un solido apparato amministrativo, imponendo ai sudditi il pagamento delle tasse. Il duca Federico Guglielmo I (16881740) costrinse la nobiltà ad accordargli un sussidio straordinario, che utilizzò per costruire il primo esercito permanente statale; la nobiltà ottenne in cambio la riconferma dei privilegi d’immunità fiscale e di servitù dei contadini. Le autonomie cittadine furono eliminate e venne generalizzato un sistema di prelievo fiscale che gravava sulle città e sui contadini; i nobili conservarono i loro privilegi economici e sociali, ma dovettero rinunciare ad ogni pretesa di esercitare il potere politico: in cambio trovarono impieghi e riconoscimenti nel servizio prestato allo Stato in campo militare, amministrativo e diplomatico. Per coordinare la conduzione degli affari militari venne creato il primo organo unitario, un Commissariato Generale che estese le sue funzioni al campo delle finanze e dell’economia. Per averne l’appoggio, l’imperatore Leopoldo d’Austria (regnante dal 1658 al 1705) concesse al duca Federico III di Hohenzollern il titolo di re di Prussia. Il nuovo re, che assunse il titolo di Federico I di Prussia (regnante dal 1701 al 1713), dotò il regno d’istituzioni culturali, come l’Università di Halle, l’Accademia delle Arti e l’Accademia delle Scienze di Berlino. La Guerra dei Trent’Anni significò, per la nobiltà boema, la fine di ogni potenza economica e politica: le sue terre furono assegnate dagli Asburgo ad una nuova nobiltà, priva di radici nel Paese e poco attaccata alla Corona. La Pace di Vestfalia, annullando le pretese asburgiche sulla Germania, orientò Vienna verso le regioni danubiane; Leopoldo I impegnò le risorse sui fronti sud-occidentali, anche se l’assoggettamento della nobiltà ungherese rimase un obiettivo a lungo irraggiungibile. Importante per il consolidamento dello Stato asburgico furono le vittorie 52


riportate sui Turchi: dopo alcune guerre, i Turchi lanciarono una decisiva offensiva che li portò a porre l’assedio a Vienna; il pericolo mobilitò il mondo cristiano a sostegno degli Asburgo: a Kahlenberg, nel 1683, l’esercito cristiano riportò una grande vittoria sui Turchi, e il successo fu completato grazie ad una serie di operazioni militari condotte dal generale Eugenio di Savoia (1663-1736). Con la pace di Carlowitz, nel 1699, gli Ottomani cedettero all’Austria l’Ungheria e la Croazia, fino al Danubio e alla Drava, mentre la Transilvania si riconobbe vassalla di Vienna; con questi acquisti, la casa d’Asburgo divenne la potenza egemone dell’Europa sud-orientale. L’Austria riacquistò la capacità di intervenire nella politica dell’Europa occidentale e, nell’ambito delle guerre contro Luigi XIV, assunse il ruolo di elemento cardine dell’equilibrio europeo. VII.1. Le dominazioni straniere in Italia Tra il ‘600 e ‘700 gli eserciti spagnoli, austriaci e francesi risolsero le loro contese sui campi di guerra italiani. L’Italia era poco più di un’espressione geografica e assisteva quasi impassibile alla sua distruzione e alla sua totale decadenza (fig.21). L’Italia, dopo la Pace di CateauCambresis, nel 1559 si ritrovò sotto la dominazione degli spagnoli (1559-1713), che dominavano direttamente su Sicilia, Sardegna, Napoli e ducato di Milano. Se le condizioni di Milano e del Regno di Napoli erano pessime per il pesante giogo spagnolo, non molto migliori potevano dirsi quelle dello Stato Pontificio, per l’inetto governo dei Papi, e per la Toscana che, anche per l’inerzia di alcuni rappresentanti dei Medici, s’impoverì sempre più, trasformandosi da paese industriale e mercantile in paese agricolo di scarsa importanza nella vita economica italiana. La sola Venezia rimase un’oasi di libertà e seppe difendere la propria indipendenza dalle ingerenze della Curia. Venezia nei primi anni del ‘600 era comunque uno Stato forte, considerato un mito per la sua indipendenza e per la libertà culturale che era riuscita a mantenere. Sentiva la pressione del papa che mirava ad espandere il proprio potere e a far valere i diritti del clero e cercò di imporre il proprio potere. Lo scontro tra il papa e il doge fu inevitabile. 53


Il motivo ufficiale fu l’arresto di due ecclesiastici che il papa pretendeva di processare, mentre Venezia rivendicò la propria giurisdizione; in precedenza c’era stato anche un divieto da parte del governo veneziano a costruire nuove Chiese senza il loro permesso. Il papa lanciò allora un interdetto sulla repubblica di Venezia sospendendo la somministrazione di sacramenti al popolo veneziano. Venezia, tuttavia, non cedette. Lo scontro ebbe un rilievo internazionale, ma si arrivò a un accordo grazie alla mediazione del re francese e alla volontà spagnola di mantenere la pace in Italia. Sotto la dominazione straniera, l’Italia perse le sue libertà regionali. I piccoli stati italiani vivevano ormai nell’orbita dei grandi stati europei, la cui politica condizionava, in alterni giochi di alleanze, la loro stessa sopravvivenza. Un’Italia divisa in tanti staterelli, dominata da una potenza straniera, oppressa da una chiesa avversa allo sviluppo del capitalismo e al libero pensiero, non poteva che ripiombare nel feudalesimo, dopo essere stata per almeno mezzo millennio la punta avanzata della borghesia europea. L’Italia fu vista dal regno spagnolo come un territorio da sfruttare per soddisfare le esigenze della Corona: le risorse andavano in Spagna, per cui non rimanendo sul suolo italiano, i cittadini erano stremati dalla fiscalità, e in più ci fu la diffusione di una nuova epidemia di peste gravissima negli anni ‘30 e ‘50, frutto dell’impoverimento. A partire dal 1631, tutti i principali beni di prima necessità (farina, sale, olio ecc.) furono gravati di nuove imposte (o gabelle). I trasgressori, che cercavano di non pagare i tributi, erano puniti molto severamente. Ovviamente questa situazione fece sì che si scatenassero rivolte contadine che non riuscirono ad imporsi, mancando di una guida politica. La più importante di queste si verificò a Napoli nel 1647 e 1648. Il 3 gennaio 1647, un editto del viceré Rodrigo Ponce de León, duca di Arcos (1602-1647), giunto a Napoli nel febbraio 1646, impose una gabella sulla frutta, sulle olive e sui legumi (fagioli, piselli, fave). Il nuovo provvedimento fu accolto molto male dai napoletani, non solo per il fatto che si aggiungeva a numerose altre imposte, ma perché il duca di Osuma (viceré negli anni 1616-1620) l’aveva in precedenza abolita in modo plateale e pubblico, colpendo con la sua spada al mercato la bilancia su cui si pesava la merce, per calcolare in proporzione l’importo da 54


versare.Il 20 maggio 1647, il popolo di Palermo insorse e il giorno seguente ottenne l’abolizione dell’odiata gabella sui frutti. L’insurrezione siciliana destò molto scalpore a Napoli, che decise di reagire.All’inizio di luglio, circolò la voce che presto sarebbe stata aumentata l’imposta sul vino; il 7 luglio, pertanto, al mercato scoppiò il primo tumulto, subito guidato da un giovane pescivendolo di umilissime origini chiamato Tommaso Aniello d’Amalfi (1620-1647), detto Masaniello. La rivolta si estese subito all’intera città ed ebbe come protagonisti i cosiddetti “lazzari” (i più poveri e cenciosi tra la plebe napoletana) e numerosi ragazzini armati di sassi e di bastoni. Masaniello riuscì a ottenere i patti giurati del viceréspagnolo, con i quali si chiese di diminuire le tasse e di cambiare l’amministrazione. Il viceré, Rodrigo Ponce de León, duca d’Arcos (1602-1672), accettò e rese Masaniello duce, conducendolo in gita a Posvetico, lusingandolo in modo tal che Masaniello cascasse nella trappola. Accade, infatti, che lo stile di vita sfarzoso che questi assunse, condusse la popolazione a ucciderlo il 16 luglio 1647. Intanto, in agosto, l’insurrezione aveva trovato nuovi leader, ripreso forza e assunto nuovamente il carattere politico.Mentre Masaniello si era sempre preoccupato di dimostrare che il popolo napoletano era fedelissimo nei confronti del proprio sovrano, e a tal fine aveva idealizzato Carlo V (il re senza gabelle), i capi che, in seguito, guidarono la ribellione dichiararono senza mezzi termini che volevano l’indipendenza di Napoli dalla Spagna.Questa seconda fase della rivolta fu guidata da Gennaro Annese (1604-1648), un armaiolo che si impose alla testa della rivolta nell’ottobre 1647, durante il bombardamento della città da parte della flotta capitanata da Don Giovanni d’Austria37(1629-1679) il 5 ottobre 1647. Il distacco formale dalla corona spagnola fu sancito in una solenne dichiarazione emanata il 17 ottobre. Dopo che il re, con il brutale bombardamento di Napoli, aveva dimostrato di non avere a cuore il bene della città, ma anzi di essere il carnefice del popolo napoletano, l’obbedienza dinasticacessava di avere qualsiasi significato. La rivolta napoletana era senza speranze e fu chiesto dunque l’appoggio della Francia di Mazarino, che, tuttavia, rifiutò poiché non aveva intenzione di scontrarsi con la Spagna. Enrico di Guisa (1614-1664), duca di Lorena, al contrario, si affrettò a raggiungere la città e accettò 55


di diventare capo militare della Real Repubblica di Napoli,in qualità di lontano discendente degli angioini. La repubblica assunse diversi nomi ufficiali, che ne evidenziano la doppia natura, allo stesso tempo repubblicana e monarchica: “Serenissima Repubblica di questo regno di Napoli”, “Reale Repubblica” e “Serenissima Monarchia repubblicana di Napoli”. La bandiera repubblicana fu un vessillo con scudo rosso recante la sigla S.P.Q.N., sormontato dalla parola “Libertas” e dallo stemma del duca di Guisa. Malgrado questo, tuttavia, da Parigi non venne alcun aiuto militare veramente significativo, la rivoluzione non si radicò e fu facile preda per il re che inviò un contingente di truppe che cannoneggiarono Napoli nel 1648, ripristinando l’ordine pubblico con repressioni feroci. Nell’aprile 1648, il Guisa fu arrestato, Gennaro Annesevenne impiccato e il dominio spagnolo finalmente ripristinato. La rivolta fallì perché mancò quel ceto sociale borghese che, con proprie finanze e capacità di guida, potesse dare uno sbocco positivo. Vi era, infatti, una situazione di arretratezza, che non consentiva di rovesciare la situazione come invece era riuscito alla borghesia olandese nella lotta contro gli spagnoli, e di essere riconosciuta autonoma con la tregua del 1609. Anche Genova, ove si mantenne al potere l’oligarchia dei banchieri e dei grandi mercanti, sfruttò la presenza spagnola in Italia, concedendole numerosi prestiti finanziari e facendo del proprio porto uno scalo per i traffici spagnoli col ducato di Milano e i territori tedeschi. Tuttavia Genova non potrà in alcun modo sottrarsi al progressivo tramonto della Spagna, già iniziato verso la metà del XVI secolo e precipitato con una serie di catastrofiche bancarotte del governo iberico tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. A conservare una certa libertà di manovra fu, invece, lo Stato Sabaudo, che aveva riconquistato l’indipendenza dai francesi nel 1559 ma, data la modesta superficie e la posizione geografica, fu costretto a subire l’influenza degli stati vicini. Sotto la guida di Emanuele Filiberto I di Savoia (regnante dal 1553 al 1580), il piccolo stato si attrezzò di una buona rete viaria, di un’eccellente economia agricola e di un’industria tessile moderna. Nel corso del Seicento tornò a farsi sentire l’influenza della corte di Versailles sul Piemonte. La vicinanza del Ducato di Milano, 56


dov’erano stanziate truppe francesi, e la cessione di Pinerolo, vincolò strettamente Torino a Parigi. La corte, che era stata spagnola sotto Carlo Emanuele I (regnante dal 1580 al 1630), divenne francese sotto i suoi tre successori: il matrimonio di Vittorio Amedeo I di Savoia (regnante dal 1630 al 1637) con Maria Cristina di Borbone-Francia (reggente dal 1619 al 1637), futura Madama Reale, non fece che stringere questo legame. Cristina mantenne il vero potere in Savoia durante il breve periodo di Francesco Giacinto38(1632-1638) e nella giovane età di Carlo Emanuele II di Savoia (regnante dal 1638 al 1675). Alla forte influenza francese, si sommarono varie disgrazie che, ripetutamente, colpirono il Piemonte in seguito alla scomparsa di Carlo Emanuele il Grande. Prima fra tutte la peste, sviluppatasi nel 1630, che contribuì sensibilmente alla miseria già diffusa, ma anche i numerosi lutti delle Guerre di Successione del Monferrato (1628-1631), che avevano insanguinato le campagne e costretto la monferrina Casale ad un lungo assedio, e per finire il conflitto ideato da Vittorio Amedeo I per creare una lega anti-spagnola in Italia, tra il 1636 e il 1637. Vittorio Amedeo I morì nel 1637; gli succedettero i figli: per un brevissimo lasso di tempo il primogenito Francesco Giacinto di Savoia (1632-1638) e poi il secondogenito Carlo Emanuele II (1634-1675). In entrambi i casi la reggenza venne affidata alla madre Maria Cristina, che per il popolo divenne Madama Reale. A Torino si formano due partiti: i “madamisti” (filo francesi) sostenitori della duchessa Cristina, e i “principisti” (filo spagnoli), favorevoli ai fratelli del Duca, Maurizio e Tommaso. La città di Torino fu presto assediata da entrambe le fazioni. Nel 1639 il partito dei principistiebbe la meglio e la duchessa Cristina esiliò in Francia. L’anno seguente, sempre con l’aiuto della Francia, rientrò a Torino. Solo nel 1642 si raggiunse un accordo tra le due fazioni, ma ormai la vedova di Vittorio Amedeo I aveva posto in trono il figlio Carlo Emanuele II, ed in tal modo governò, in sua vece, anche oltre la maggiore età del figlio. Solamente nel 1663 Carlo Emanuele II di Savoia assunse il potere dopo la morte della madre. Il suo governo fu un primo passo verso le grandi riforme del successore e del secolo successivo: di estrema importanza fu, in particolare, la creazione delle milizie sabaude e del primo sistema di scuola pubblica, nel 1661. Uomo colto, ma anche ottimo statista, seppe fare tesoro delle lezioni impartite all’Europa da Luigi XIV, e volle per 57


questo circoscrivere la corte nella sontuosa Reggia di Venaria Reale, un capolavoro dell’arte barocca che ricreava, in Italia, i fasti della Reggia di Versailles. Era il momento della grande espansione urbanistica, e non a caso Carlo Emanuele II promosse l’espansione di Torino e la sua ricostruzione in stile barocco. VII.2. La Sicilia nel XVII secolo Durante il XVII secolo la Sicilia era in mano al dominio spagnolo, iniziato il 23 gennaio 1516, con l’ascesa al trono di Spagna di Carlo V (1500-1558), e conclusosi il 10 giugno 1713, con la firma della pace di Utrecht, che sancì il passaggio dell’isola da Filippo V (1683-1746) a Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732). Dopo la morte di Filippo II di Spagna (1527-1598), salì al trono il figlio Filippo III (1598-1621), assolutamente inadatto a reggere così vasti territori. Per la Sicilia il XVII secolo fu assai duro: le malversazioni della pubblica amministrazione, i rigori del Sant’Uffizio39, divenuto ormai vero e proprio strumento di oppressione politica e spirituale, le numerose e tremende epidemie e carestie e il sempre più frequente brigantaggio furono i mali che maggiormente afflissero la Sicilia del Seicento (fig.22). La dominazione spagnola, affermatasi in un momento politico di difficile gestione, date le rinnovate incursioni ottomane nel Mediterraneo, fu apprezzata dai siciliani sia per l’aiuto militare impiegato nella difesa dell’isola, sia perché fece della Sicilia un baluardo strategico contro le incursioni turche determinando un rilancio della sua funzione mediterranea. Tuttavia, la condizione politico-sociale venne appesantita dalle strategie adottate dagli spagnoli: il parlamento40 era quasi assente e veniva frequentemente sostituito dagli organi di governo connessi con la Corona. I baroni41ottennero molti più privilegi e nuovi feudi ma questi ultimi, a causa dello scarso senso imprenditoriale dei proprietari, furono spesso abbandonati dai contadini che si riversarono nelle città alla ricerca di migliori condizioni di vita. Per la Sicilia, il diciassettesimo secolo fu assai duro: le malversazioni della pubblica amministrazione, i rigori del Sant’Uffizio manifestantesi sempre più organo di oppressione politica e non soltanto spirituale, le numerose e tremende calamità

58


pubbliche e un dominante brigantaggio furono i mali che maggiormente afflissero la Sicilia nel Seicento.42

L’isola nel corso del 1600 era governata da viceré43, ma godeva di una fitta rete di privilegi a vantaggio di città, di nobili, del clero, dei ceti organizzati. Il viceré durava in carica tre anni, ed era coadiuvato e nominalmente controllato dal Parlamento. Questo si divideva in tre ordini o bracci: • L’ecclesiastico, formato da arcivescovi, vescovi, abati e priori; • Il baronale o militare, costituito da baroni, nobili e soggetti della milizia; • Il popolare o demaniale, che comprendeva i rappresentanti delle terre demaniali44. Del primo era capo l’Arcivescovo di Palermo, del secondo il più antico dei nobili, del terzo il rappresentante della capitale dell’isola. Il Parlamento costituiva, quindi, la rappresentanza delle tre classi in cui era divisa la popolazione della Sicilia. Ogni braccio era formato da quattro deputati, che rimanevano in carica un triennio; l’intero parlamento si radunava in assemblea ordinaria una sola volta durante il periodo della legislatura, quasi sempre a Palermo, qualche volta a Messina o a Catania, ma poteva anche riunirsi in seduta straordinaria tutte le volte che ce n’era bisogno. Nonostante il governo oppressivo degli spagnoli, i monopoli da essi esercitati, specie quello della vendita del grano, le ingenti tasse e tutti gli altri disagi causati dalla dominazione straniera, le principali città siciliane, Palermo, Catania e Messina, erano in grande floridezza e avevano la possibilità di impiegare somme cospicue in opere di abbellimento e di utilità. Il periodo della dominazione spagnola lasciò, inoltre, una fisionomia particolare al Meridione: usi e costumi degli Spagnoli dominatori furono in buona parte assorbiti. Il periodo di regno di Filippo IV di Spagna, iniziato nel 1621 e conclusosi nel 1665, fu caratterizzato da una generale crisi economica a livello europeo. Si accentuò in Sicilia il fiscalismo statale, che provocò 59


un generale malcontento. Gli storici hanno infatti evidenziato che, dopo il primo trentennio del secolo caratterizzato da un’espansione continua potenziata dal crescente apporto di oro e d’argento proveniente dal nuovo mondo, nel cinquantennio successivo furono evidenti i segni di una depressione economica generale. In Europa si ebbe lo spostamento del centro di gravità economica dalle regioni meridionali agli stati settentrionali. Questo fu un periodo storico dai fortissimi contrasti: da un lato, l’enorme divario, tipico della società spagnola del XVII secolo, tra i grandi ricchi e i poverissimi; dall’altro, un forte declino economico in presenza dello splendore culturale del Secolo d’oro45. Nel 1644 venne mandato da Filippo IV (1605-1665) in Sicilia come viceré Pedro Fajardomarchese di Los Velez (1640-1693), sotto il cui vice regno si iniziò una serie di sommosse che si sarebbero protratte per un buon cinquantennio. Tra i vari disordini e rivolte si distinsero quella di tipo popolare, antifeudale e antifiscale di Messina, Catania, ma soprattutto Palermo. L’isola in quegli anni soffriva per forti carestie e il triste fenomeno era particolarmente acuto nelle zone meno agrarie, come Messina. In questa città appunto, poiché la giunta municipale aveva deciso di ridurre il prezzo del pane, il popolo si ribellò nel dicembre del 1646. Il Los Velezaccorse da Palermo, fece impiccare i capi della sommossa e provvide Messina di scorte sufficienti; mentre a Palermo la giunta municipale, invece di ridurre il peso del pane, preferì venderlo in pura perdita, attirando con ciò turbe di affamati da ogni parte dell’isola. Ben presto però la situazione divenne insostenibile, perché da Madrid arrivò l’ordine di ridurre di due once il peso del pane, e tale ordine esasperò la popolazione. Il malumore si trasformò ben presto in tumulto e furono assaliti i pubblici uffici, come il palazzo Pretorio e la Vicaria (il carcere di Palermo). Fu proprio Palermo, guidata da un assassino condannato ed evaso, il mugnaio Nino La Pelosa e dall’orefice Giuseppe d’Alessi (1612-1647) nel 1647, a ribellarsi contro gli spagnoli. La ribellione, fu subito repressa e i suoi esponenti furono impiccati, tra cui Nino La Pelosa il 22 maggio. La situazione sembrava essersi normalizzata, ma il popolo spinto dalla notizia dei tumulti che contemporaneamente avvenivano a Napoli sotto la guida di Masaniello, decise di insorgere il 15 agosto 1647, e di rapire il viceré e le altre autorità, in occasione di una processione religiosa. Avuto sensore della congiura il Los Velez 60


si barricò nel palazzo Reale di Palermo, ma i popolani insorsero ugualmente e sotto la guida del D’Alessi assalirono il palazzo Reale e costrinsero il viceré a rifugiarsi su una nave da guerra. Il D’Alessi fu eletto dal popolo “capitan generale” e si presentò ad esporre i nuovi Capitoli della città, che prevedevano l’abolizione di gabelle e privilegi, l’elezione di tre assessori popolari e tre nobili, l’istituzione dell’Università di Palermo e la nomina del D’Alessi stesso a pretore di Palermo. Il viceré finse di approvare i nuovi Capitoli, ma sottomano preparava la controrivoluzione spargendo la voce che il D’Alessi volesse impadronirsi dell’isola per consegnarla ai francesi. La plebe si rivoltò contro di lui e lo fece decapitare il 22 agosto 1647. Successivamente, nel 1674, anche Messina si sollevò contro gli Spagnoli Messina era la sola città della Sicilia a conservare una certa prosperità economica, grazie al suo attivo porto ed alla esportazione della seta. I suoi privilegi ne facevano una specie di repubblica mercantile indipendente, in cui un’oligarchia patrizia tendeva a monopolizzare, al solito, il potere. Il governo spagnolo, tuttavia, vedeva di malocchio l’autonomia messinese, ed incoraggiava perciò il partito popolare detto dei Merri (merli), democratici, contro la fazione patrizia dominante, dei Malvizi (tordi), aristocratici.46

Con l’aiuto di Luigi Hojo, mandato come stratigoto a Messina nel 1671, il partito popolare dei Merri ottenne una riforma della composizione della giunta comunale di Messina, nella quale si stabiliva che i sei giurati che la componevano sarebbero stati tre aristocratici e tre popolari, mentre prima erano quattro aristocratici e due popolari. Ciò provocò le ire dei nobili Malvizi, i quali ricorsero al viceré Claude La Moral, principe di Ligny, che sostituì Hojo col napoletanoSanciod’Estrada, marchese di Crispano (1672). La situazione divenne sempre più tesa, finché nel 1674, avendo i Malviziripreso la maggioranza nel senato cittadino, i popolari Merri, aizzati dallo strati goto, si ribellarono, ma gli aristocratici presero subito in mano le redini della situazione, scacciando lo stratigoto Crispano e abolendo così il presidio spagnolo; dopodiché offrirono la città a Luigi XIV. L’evidente carattere antispagnolo della rivolta spinge Luigi XIV a intervenire in aiuto di Messina, tanto che il 27 settembre 1674 inviò undici navi al comando del cavaliere Jean-Baptiste deValbelle (1627-1681) e successivamente mandò maggiori 61


aiuti il 2 gennaio 1675 al comando del duca di VivonneLouis Victor de Rochechouart de Mortemart (1636-1688), fratello di Françoise-Athénaïs diMontespan (1640-1707), favorita del Re Sole. La flotta francese sconfisse quella spagnola nei pressi di Stromboli (11 febbraio 1675), mentre il duca di Vivonne,si era insediato a Messina in qualità di viceré, il 28 aprile dello stesso anno. La Sicilia ebbe così, per tre anni, due viceré contemporaneamente: uno spagnolo a Palermo e uno francese a Messina. Il 1676 vide il consolidamento dei successi francesi. La flotta spagnola fu sconfitta più volte: nonostante l’aiuto della flotta olandese, il 9 gennaio fu battuta presso l’isola di Alicudi nelle Eolie, il 22 aprile verso Augusta e il 2 giugno nelle acque di Palermo. Il 25 settembre 1677 sulle alture di San Leonardello, nei pressi di Giarre, si combatté una battaglia decisiva, che ebbe i suoi riflessi nella vita politica del tempo. L’intento dei francesi non era tanto quello di difendere Messina, quanto di conquistare la Sicilia. Pertanto, batterono due volte la flotta spagnola, e non essendo riuscita a conquistare Palermo, si rifecero sulla costa orientale, occupando Taormina e Castelmola nell’ottobre 1676 e minacciando Acireale. Era allora viceré spagnolo in Sicilia il marchese Angelo Guzman (1677), il quale rinforzò le difese acesi con truppe sue, che respinsero i francesi. Il duca di Vivonne tentò la sorte della armi per terra, ed inviò sette battaglioni; ma i cittadini acesi corsero ad affrontarli sulle alture di San Leonardello, aiutati dalle truppe spagnole in retroguardia, e riuscirono così a respingere gli assalitori francesi e a riconquistare Taormina e Castelmola. Da quel momento la sorte della armi fu favorevole ai siciliani e agli spagnoli, sicché i francesi, con la firma della Pace di Nimegatra Francia e Spagna il 17 settembre 1678, evacuarono l’isola. La Sicilia fu abbandonata a se stessa dai francesi e riconquistata dagli spagnoli, privata di tutti i privilegi storici e repressa duramente, con misure tali che l’avviarono alla decadenza. La lunga durata della rivolta mise in pericolo l’egemonia della Spagna ed evidenziò i limiti della nobiltà siciliana. La nobiltà siciliana aiutò il viceré a riconquistare la città di Messina; ma si avvertiva sempre più l’esigenza crescente di una monarchia indipendente, a fronte dell’immagine di debolezza che la Sicilia spagnola dava di sé. Sotto il regno di Carlo II (regnante dal 1665 al 1700), la Sicilia fu sconvolta dal terremoto del Val di Noto del 1693, che rase al suolo de62


cine di città, tra cui Catania, Siracusa e Noto, e d’altro canto, contribuì alla nascita del barocco siciliano. Con la morte di Carlo, nel 1700, salì al trono Filippo V dei Borbone di Spagna (1683-1746). Ben presto, tuttavia, egli perdette il regno nella guerra di successione spagnola (1707), ad opera degli Asburgo d’Austria, anche se di fatto nel 1713,con la Pace di Utrecht, la Sicilia venne assegnata a Vittorio Amedeo II di Savoia(re di Sardegna dal 1720 al 1730). Questa data segnò la fine del dominio spagnolo e l’inizio di quello sabaudo, che durò fino al 1720.

63


Note al Capitolo I

2 Letteralmente “Antico regime”, sulla base di una definizione coniata solo in seguito, all’epoca della Rivoluzione Francese (1789) in riferimento alla situazione politica della Francia pre-rivoluzionaria. 3 La Compagnia Olandese delle Indie Orientali, la celebre VOC (Vereenigde Oostindische Compagnie), nacque dalla fusione di otto compagnie minori dietro le pressioni degli Stati generali olandesi che desideravano porre ordine tra le innumerevoli società di navigazione e coagulare le proprie risorse per strappare al Portogallo il monopolio commerciale dei mari delle Indie. La Compagnia era composta da sei Camere (Kamers) fondatrici. Il suo organo esecutivo era costituito dagli Heeren XIX(i diciannove direttori), scelti in seno a un’assemblea di sessanta rappresentanti degli azionisti con una presenza fissa di otto delegati della Camera di Amsterdam e quattro provenienti dalla Zelanda. Per il governo delle terre coloniali acquisite, la Compagnia creò un’amministrazione stabile, con sede a Batavia, facente capo a un governatore generale assistito da un Consiglio delle Indie composto da sedici membri. Nel giro di pochi anni strappò ai portoghesi il controllo del Capo di Buona Speranza e dell’Oceano Indiano e pose basi commerciali a Ceylon, in Indonesia e a Taiwan. Gli olandesi importavano numerosi prodotti asiatici: seta, porcellana, indaco, salnitro e diversi metalli. 4 La Compagnia Britannica era dotata di un capitale iniziale di 72.000 sterline, suddiviso tra 125 azionisti. Era gestita da un governatore e da ventiquattro direttori che formavano la Corte dei Direttori. Essi venivano nominati ed erano responsabili davanti all’Assemblea dei proprietari. La Compagnia Inglese delle Indie Orientali fu dapprima meno importante di quella olandese, non solo per il suo capitale più ridotto ma anche per l’instabilità interna della politica britannica, dove spinte protezionistiche a difesa della politica britannica e gruppi d’interesse rivali si sovrapponevano ai grandi conflitti della storia inglese del XVII secolo. Dopo anni di guerre con gli Olandesi per il controllo dell’Oceano Indiano, nel 1623 si arrivò a un accordo di spartizione: ai Britannici andò l’India, agli Olandesi Ceylon, l’odierno Sri Lanka, e l’Indonesia. In India la Compagnia aveva ottenuto nel 1616 l’autorizzazione del Gran Mogol (l’imperatore) a stabilire basi commerciali: le più importanti furono Surat, Madras, Bombay e Calcutta. 5 La Compagnia francese delle Indie Orientali, ideata da Jean-Baptiste Colbert, fu istituita da Re Luigi XIV con lo scopo di commerciare con l’Emisfero Orientale. Essa derivò dalla fusione di tre precedenti compagnie: la Compagnia della Cina del 1660, la Compagnia d’Oriente e la Compagnia del Madagascar. Essa pose a Pondichéry la propria sede centrale e acquisì gli empori di Surat sulla costa orientale e nel Bengala, Chandernagore, non lontano da Fort William, e Calicut. La scelta delle zone fu determinata dal particolare interesse per i tessuti indiani.

64


6 La Compagnia delle Indie Occidentali fu organizzata in modo simile alla più grande e ricca Compagnia delle Indie Orientali, che aveva il monopolio dei commerci verso l’Asia. La principale differenza sta nel fatto che alla WIC (West-Indische Compagnie) non era permesso condurre operazioni militari senza il consenso del Governatore olandese. Essa era composta da cinque uffici, detti kamers (camere): tre in Olanda (ad Amsterdam, Rotterdam e Hoorn) uno in Zelanda (a Middelburg) e uno a Groninga. Il Consiglio era formato da 19 membri, conosciuti come the Heeren XIX (i Diciannove Signori). Ebbe le sue basi commerciali in Louisiana e nelle Antille. 7 A tal proposito è importante menzionare la sollevazione della Catalogna (in catalano guerra dels Segadors, cioè guerra dei mietitori), una rivolta che coinvolse larga parte della regione catalana fra il 1640 e il 1659. La causa della sollevazione era il generale malcontento della popolazione catalana causato dalla lunga presenza di truppe castigliane, stanziate sul territorio, al confine francese, durante la guerra dei trent’anni. Il conte-duca di Olivares, primo ministro di Filippo IV, aveva saccheggiato a lungo le risorse della Catalogna per finanziare la guerra e i contadini catalani erano costretti a rifornire e alloggiare le truppe castigliane. Questa situazione di estrema tensione sfociò nel cosiddetto Corpus di sangue (in catalano Corpus de Sang), una rivolta contadina scoppiata nel giorno del Corpus Domini, nel maggio 1640. Contadini e mietitori in rivolta entrarono a Barcellona verso la fine dello stesso mese. I disordini causarono la morte di funzionari reali e giudici. Lo stesso viceré, il conte di Santa Colomba, fu assassinato, grazie anche all’appoggio che i rivoltosi trovarono nell’aristocrazia catalana che progettava di recuperare l’autonomia dalla Castiglia. Quello stesso anno, infatti, l’aristocratico Pau Claris y Casademunt proclamò la Repubblica Catalana. Un’altra grande rivolta fu la “Guerra di Restaurazione portoghese” (16401668), che vide contrapporsi il Portogallo e la Spagna. Il casus belli fu il colpo di stato organizzato da alcuni membri dell’aristocrazia portoghese ai danni della famiglia degli Asburgo, nello specifico di Filippo III. Quest’ultimo era divenuto poco prima re del Portogallo e della Castiglia, dimostrandosi subito interessato a fare del Portogallo una provincia castigliana. Questa situazione culminò in un colpo di stato organizzato dalla nobiltà e dalla borghesia portoghese. Esso prese avvio il 1º dicembre 1640, sessanta anni dopo l’incoronazione di Filippo I del Portogallo, il primo monarca di tutta la penisola iberica. Il sostegno della popolazione diventò immediato, e, nel giro di poche ore, Giovanni Duca di Braganza fu acclamato Re del Portogallo. Il 2 dicembre 1640, solamente un giorno dopo il colpo di stato, Giovanni, proclamò la partecipazione del Portogallo alla guerra dei Trent’anni. 8 I principi sanciti dalla pace furono i seguenti: riguardo alla questione religiosa. Fu confermata la Pace di Augusta, furono estese ai calvinisti le concessioni stabilite dalla Pace di Augusta per i luterani, fu stabilita la parificazione dei diritti civili di tutte le confessioni, fu deciso che i beni ecclesiastici in possesso dei protestanti fino al 1624 non fossero restituiti alla chiesa cattolica. Riguardo all’ordinamento interno del Sacro Romano Impero, fu riconosciuta ai principi la piena sovranità territoriale, il diritto di

65


approvare gli Atti imperiali nella Dieta e il diritto di stringere alleanze, purché non fossero contro l’imperatore e l’impero; il Palatinato fu diviso in Alto e Basso: il duca Massimiliano di Baviera ottenne l’Alto Palatinato, il figlio di Federico V, Carlo I Luigi ottenne invece il Basso Palatinato; il Brandeburgo ricevette la Pomerania Orientale e i vescovadi di Magdeburgo, Halberstadt, Kammin e Minden, nonché i territori di Cleves, Mark e Ravensberg in seguito alla risoluzione della disputa per i territori del defunto Duca di Jülich-Cleves-Berg; i Paesi Bassi e la Svizzera furono riconosciuti sovrani e indipendenti dall’impero. Riguardo ai mutamenti territoriali europei: la Francia, ottenne la Lorena, i vescovati di Metz, Toul e Verdun e i territori asburgici dell’Alsazia; l’Italia si prese le fortezze di Pinerolo e Casale Monferrato; la Svezia ricevette un risarcimento in denaro, la Pomerania occidentale e i vescovati di Brema e Verden, che le assicuravano il controllo delle foci dei fiumi Oder, Elba e Weser, ottenendo in tal modo l’egemonia sul Mar Baltico. 9 Tassoni, Alessandro, La Secchia Rapita, Parigi, presso Tussaudu Bray, 1622. 10 Pascal, Blaise, Pensées, presso Port-Royal, 1670. 11 Spinoza, Baruch, Ethica more geometric demonstrata, Amsterdam, opera posthuma a cura di Jan HendrikGlazemaker, 1677. 12 Locke, John, An Essay Concerning Human Understanding, Londra, Buffet, 1690. 13 Corrente filosofico-giuridica, configuratasi tra il XVII e XVIII secolo ad opera di pensatori come Grozio, Hobbes, Spinoza, Locke, Pufendorf e Kant , fondata sulla convinzione dell’esistenza di un diritto naturale (conforme, cioè, alla natura dell’uomo e quindi universalmente valido e immutabile) preesistente e superiore al diritto positivo (il diritto prodotto dagli uomini), che non si adegua mai completamente alla legge naturale, perché esso contiene elementi variabili e accidentali, mutevoli in ogni luogo e in ogni tempo. I diritti positivi sono, infatti, realizzazioni imperfette e approssimative della norma naturale e perfetta, la quale può servire in via sussidiaria per colmare le lacune del diritto positivo. Il Giusnaturalismo rivendica in campo politico l’autonomia della ragione, sostiene l’origine umana dello Stato e stabilisce i limiti del potere. 14 Calvino, Giovanni, Istitutio Christianae Religionis, Basilea, presso Oliva Roberti Stephani, 1536. 15 L’Accademia fu la prima scuola privata di pittura dell’età moderna, fondata a Bologna nel 1582 con lo scopo di garantire una formazione completa a livello pratico quanto teorico non solo in arte ma anche in altre attività considerate minori a quei tempi. Essa fu inizialmente chiamata “Accademia del Naturale” in quanto la sua finalità principale era quella di stimolare negli allievi la riproduzione dal vero. In seguito venne anche detta “Accademia dei Desiderosi”, per il desiderio ad imparare che dovrebbe

66


essere insito in ciascun artista, e infine “Accademia degli Incamminati”, allo scopo di sottolineare l’impegno di maturazione artistica a cui ogni allievo era chiamato. 16 Cit. in, Marino, Giovan Battista, La Murtoleide, fischiata XXXIII, Francoforte, presso Giovanni Beyer, 1626. 17 Idem, L’Adone, Parigi, presso Olivier de Varennes, 1623. 18 Tesauro, Emanuele, Il Cannocchiale Aristotelico, o sia, Idea dell’arguta et ingeniosa elocuzione: che serue à tutta l’arte oratoria, lapidaria et simbolica, Venezia, presso Paolo Baglioni, 1654. 19 Cit. Angelini, Franca, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Roma-Bari, Laterza ed., 1988. 20 Calderòn de la Barca, Pedro, La Dama duende, Valencia, 1636. 21 Idem, La Vida es sueño, Madrid, 1635. 22 Milton, John, Paradise Lost, London, 1667 23 Racine, Jean, Phèdre et Hippolyte, Parigi, 1677. 24 Voltaire, Le Siècle de Louis XIV, 1751, citato in, Brancati Antonio, PagliaraniTrebi, Dialogo con la Storia. Dalla méta del Seicento all’Ottocento, Milano, La Nuova Italia ed., 2006, tomo II, cap. I: L’Età dell’assolutismo, pp. 4. 25 Disposizione emanata dal re di Francia Enrico IV il 13 aprile 1598 per regolare la posizione degli ugonotti (calvinisti) francesi e porre così fine alle guerre di religione, che devastarono la Francia dal 1562 al 1598 e assicurare così la pace civile garantendo libertà e tolleranza a entrambe le confessioni religiose nelle quali la Francia appariva irrimediabilmente divisa. Esso stabiliva la libertà di coscienza in tutto il territorio francese; la libertà di culto (tranne che a Parigi); il diritto di accesso a tutti gli uffici, cariche pubbliche, dignità e scuole; il diritto di proprietà; il possesso di alcune piazzeforti armate, tra cui quella di laRochelle. 26 I Condé erano principi di sangue reale, un ramo collaterale della casa reale di Francia, iniziato con Luigi di Borbone (1530-1569), figlio cadetto di Carlo, duca di Vendôme (1489-1537), che nel 1567 assunse il titolo di principe di Condé, forse dal feudo di Condé-en-Brie, parte speciale a lui toccata nella divisione patrimoniale tra i fratelli. e di Francesca di Alençon. Luigi era inoltre il fratello minore di Antonio di Borbone-Vendôme e re di Navarra (1772-1804) , quindi zio di Enrico IV di Francia. I Principi di Condé ebbero un ruolo determinante nella politica francese fino alla loro estinzione avvenuta nel 1830 con la morte di Luigi-Enrico-Giuseppe (1756-1830).

67


Il più noto dei Condé fu Luigi II (1621-1686), detto il GrandCondé, che condusse vittoriosamente le truppe francesi nella battaglia di Rocroi (1643) distruggendo così il progetto imperiale degli Asburgo. 27 La guerra di successione di Mantova e del Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), scoppiò alla morte senza eredi di Vincenzo II Gonzaga e vide contrapporsi il Sacro Romano Impero, la Spagna e Carlo Emanuele I di Savoia, che appoggiavano la candidatura di Ferrante II Gonzaga, duca di Guastalla (15631630), alla Francia e alla Repubblica di Venezia, che appoggiavano la successione del duca Carlo Gonzaga di Nevers (1580-1637), sostenuto anche da papa Urbano VIII. Lo scontro si innestò nel quadro generale della guerra dei Trent’anni. 28 La Fronda fu un movimento di opposizione alla politica del Cardinale Mazarino che nacque clandestino e che si manifestò poi apertamente. Il nome deriva dal termine francesefronde che significa fionda, dall’arma utilizzata dal popolo parigino per distruggere le finestre degli appartamenti del cardinale nei moti di protesta. Le cause principali del malcontento erano la crisi economica, la crescente pressione fiscale dovuta alla partecipazione francese alla guerra dei Trent’anni, la rimessa in causa dei privilegi dei parlamentari parigini e l’intenzione del monarca di governare da solo, nel quadro di una monarchia assoluta. Il movimento ebbe inizio ufficiale il 10 luglio 1648 con la Dichiarazione dei 27 articoli da parte del Parlamento di Parigi che enunciavano la limitazione dei poteri del sovrano preparando di fatto la trasformazione del regime in una monarchia parlamentare ed ebbe termine il 3 agosto 1653 con la Sottomissione di Bordeaux. Tale movimento ebbe un’importanza eccezionale, perché costituì il tentativo dell’aristocrazia di toga e poi di spada di riconquistare gli spazi e il potere che la politica assolutistica di Richelieu e di Mazzarino le avevano sottratto. 29 Brancati Antonio, PagliaraniTrebi, Dialogo con la Storia. Dalla metà del Seicento all’Ottocento, Milano, La Nuova Italia ed., 2006, tomo II, cap. I: L’Età dell’assolutismo, pp. 12. 30 Cit. in, Memorie di Luigi XIV. Le istruzioni del Re Sole al Delfino, Milano,Bompiani ed.,1977, pp. 14. 31 La causa scatenante dello scisma anglicano va ricollegata al fatto che Enrico VIII non riuscì ad ottenere dalla Chiesa di Roma lo scioglimento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona (vedova del fratello Arturo) per sposare Anna Bolena. Tale richiesta creò seri problemi al papa: non voleva inimicarsi né Enrico VIII, che era difensore della fede cattolica, né tanto meno Carlo V che era nipote di Caterina d’Aragona.La richiesta di Enrico fu respinta e ciò provocò, nel 1531, la rottura perché Enrico VIII, durante un’assemblea del clero, approfittando del malcontento che serpeggiava nelle file di quest’ultimo e del laicato cattolico inglese contro Roma, si fece proclamare capo della Chiesa d’Inghilterra e nominò Thomas Cranmer arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa d’Inghilterra. Questi proclamò nullo il matrimonio del re e ne

68


celebrò il matrimonio con Anna Bolena. Il papa rispose con la bolla di scomunica che Enrico VIII, nel novembre del 1538, combatté con la pubblicazione dell’atto di supremazia, documento col quale il sovrano d’Inghilterra acquistava sulla chiesa inglese tutti i poteri che erano propri del papa: Enrico VIII divenne il capo supremo della Chiesa inglese.Egli fece approvare, inoltre, dal Parlamentouna serie di leggi che rompevano i legami con Roma e sottomettevano interamente il clero inglese alla corona; impedì, ad esempio, che si pagassero le “annate” al papato, cancellò la sua giurisdizione, sciolse i monasteri, confiscò i beni della chiesa, stroncando ogni resistenza interna. Naturalmente il divorzio fu solo un pretesto: la causa profonda va vista nel generale processo di rivendicazione della sovranità regia contro ogni interferenza, soprattutto se proveniente dall’esterno. Il sorgere dei rapporti capitalistici nell’Inghilterra del XVI secolo aveva reso urgente la costituzione di una monarchia assoluta, che accelerasse la disgregazione del regime feudale. La riforma della chiesa rappresentò dunque un importante mezzo di centralizzazione dei poteri; la separazione venne accolta senza alcuna resistenza sia da parte dell’episcopato locale, sia da parte del basso clero. 32 La guerra delle due rose fu una sanguinosa lotta dinastica combattuta per il possesso del trono in Inghilterra tra il 1455 ed il 1485 tra due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York. La guerra fu così denominata, nel XIX secolo, basandosi sulla convinzione che i due partiti combattessero avendo come distintivo una rosa rossa per i Lancaster e una bianca per gli York. 33 Balivo (dal latino baiulivus, “portatore”) era il nome di un funzionario, investito di vari tipi di autorità o giurisdizione, presente nei secolipassati in numerosi paesi occidentali. All’interno dello Stato poteva svolgere i compiti di reggente plenipotenziario del potere centrale nei centri periferici, all’estero svolgeva invece il compito di rappresentante diplomatico stabilmente residente, con autorità sui cittadini del proprio paese presenti nel territorio estero. 34 Il Sacro Romano Impero, noto anche come “Primo Reich”, fu un’istituzione politico-religiosa medievale fondata da Carlo Magno (in carica dall’800 all’814)la notte di Natale dell’800, data in cui quest’ultimo ricevette la corona a San Pietro da papa Leone III (pontefice dal 795 all’816), fondando così l’impero carolingio e ponendo fine alla dinastia merovingia. Questo nuovo impero fu costituito quale garante dell’unità dell’Europa cristiana occidentale come ideale prosecuzione dell’Impero romano e con la legittimazione dell’autorità della Chiesa cattolica; nonché rappresentò una realtà territoriale che comprendeva la Francia, il Belgio, l’Olanda, l’Italia tranne il Mezzogiorno, la Germania, la Spagna settentrionale e la zona mistilingue tra Francia e Germania. Il grande sogno di Carlo Magno, fu, infatti, quello di unire con una medesima legge tutti i paesi da lui governati, di dare a tutti i popoli gli stessi ordinamenti, di favorire la conversione al cristianesimo di chi era ancora pagano, di dare incremento alla cultura, dimenticata per tanto tempo.

69


35 La Casata degli Hohenzollern fu una dinastia tedesca di principi elettori, re di Prussia, sovrani di Romania e imperatori di Germania. Essa era originaria dell’area intorno alla città di Hechingen in Svevia durante l’XI secolo e prese il nome dal castello di BurgHohenzollern, presso tale città, che fu la loro prima dimora. La dinastia degli Hohenzollern deve la sua fortuna a Federico III conte di Zollern (1139-1201), fautore degli Hohenstaufen, il cui matrimonio con Sofia, figlia del conte Corrado di Raabs (1125-1191), lo portò a insediarsi nel burgraviato di Norimberga (1191).Dei suoi figli, il maggiore, il conte di Zollern Corrado III (1193-1252), divenne il capostipite della linea principale in Franconia, e il minore, conte Federico II (1194-1250), di quella secondaria in Svevia.La famiglia si divise, infatti, in due rami: quello cattolico di Svevia e quello protestante di Franconia. Il primo dominò l’area di Hechingen e Sigmaringen, a sud di Stoccarda, fino al 1849, per poi rinunciare ai propri domini per riunirsi come ramo cadetto a quello di Franconia. Quest’ultimo, invece, acquisì il Brandeburgo nel 1418 e il Ducato di Prussia nel 1525. L’unione di queste due linee di Franconia nel 1618 portò alla creazione del Regno di Prussia nel 1701, lo stato che portò all’unificazione della Germania e all’Impero Tedesco nel 1871. 36 Hussiti è il termine con cui si indicano i seguaci di JanHus (1369-1415), sacerdoteboemo, insegnante di filosofia e teologia all’Università di Praga, condannato al rogo nel Concilio di Costanzadel 1415 per le sue posizioni ereticali.Il movimento hussita si sviluppò come una forma di rivendicazione dell’identità nazionale dopo la morte di Hus. I suoi seguaci rifiutarono i decreti del Concilio di Costanza, e organizzarono la resistenza sintetizzando il loro programma nei “Quattro Articoli di Praga” che, redatti nel 1420, chiedevano: la comunione eucaristica sotto le due specie (del pane e del vino),la libertà per i sacerdoti di far conoscere ai fedeli le Scritture, la povertà del clero e la restituzione dei beni ecclesiastici ai proprietari laici. Il movimento si scisse in due fazioni: da un lato vi era la fazione moderata, detta degli “utraquisti” (dal latinoutraque, “entrambe le cose”, in riferimento alla comunione eucaristica sotto le due specie); dall’altro l’ala più radicale, detta dei “taboriti” dal monteTabor, luogo della trasfigurazione di Cristo, nome con cui fu chiamato il loro quartier generale alle porte di Praga. Quest’ultimi chiedevano la fine dell’uso del latino nella liturgia, invocavano l’abolizione dell’abito ecclesiastico e attaccavano la monarchia e il sistema feudale. Nel 1431 il concilio di Basilea riconobbe agli hussiti il diritto alla comunione eucaristica sotto le due specie, e questo compromesso portò a una coalizione fra cattolici e utraquisti, oltre alla sconfitta dei taboriti nella battaglia di Lipany del 1434. I dissidenti ottennero una sostanziale autonomia nell’ambito del cattolicesimo, dando vita a una Chiesa nazionale boema. Dopo il passaggio di molti hussiti al luteranesimo nel XVI secolo, la Chiesa cattolica di Boemia mantenne l’indipendenza da Roma fino al 1620. 37 Condottiero e politico spagnolo, figlio illegittimo di Filippo IV (regnante dal 1621 al 1665) di Spagna e di María Calderón, una famosa attrice, che si ritirò in un convento dopo la sua nascita. Nel 1642, il re lo riconobbe ufficialmente come suo figlio ed il principe iniziò la sua carriera politica in qualità di rappresentante militare degli

70


interessi del padre. 38 Francesco Giacinto di Savoia, secondo figlio di Vittorio Amedeo I di Savoia, fu marchese di Saluzzo, duca di Savoia, principe di Piemonte e conte d’Aosta, Moriana e Nizza dal 1637 al 1638, titoli ereditati a soli cinque anni in seguito alla morte del padre. Egli, tuttavia, non ebbe mai veramente l’opportunità di regnare: la madre, Maria Cristina di Borbone-Francia, manteneva, infatti, la reggenza sul Piemonte data la giovane età del duca. 39 Il Sant’Uffizio, o “Inquisizione Romana” è stata la Suprema sacra congregazione per la Dottrina della Fede; la prima delle sacre congregazioni romane, fondata da Paolo III (pontefice dal 1534 al 1549) con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, con il nome originale di “Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione”, per combattere l’eresia, e più volte riformata. Il Sant’Uffizio consisteva di un collegio permanente di cardinali e altri prelati che dipendeva direttamente dal Papa. Il suo compito esplicito era quello di mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. A tale scopo, ad esempio, fu anche creato l’Indice dei libri proibiti (in latino Index librorum prohibitorum), un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica. In breve tempo questo tribunale divenne il più importante all’interno della cattolicità, tanto che ad esso potevano appellarsi i condannati da altri tribunali. Inoltre divenne quasi una sorta di supervisore del lavoro dei tribunali locali. Il primo presidente della congregazione fu Giovanni Pietro Carafa, futuro papa Paolo IV (pontefice dal 1555 al 1559), che, una volta assunto il dominio della congregazione, la usò per affermare la propria egemonia all’interno della Curia romana stessa: il Sant’Uffizio, insomma, divenne sempre più strumento nelle mani del Carafa che lo utilizzò contro i suoi nemici interni in curia.Una battaglia decisiva si svolse negli anni del papato di Giulio III (pontefice dal 1550 al 1555), che odiava profondamente il cardinal Carafa, nondimeno a stento riusciva a moderare il suo impeto inquisitoriale. Giulio III avviò un politica a favore dell’indulto e della delazione e tentò di mettere un freno all’intransigenza e alla sete di potere dei cardinali inquisitori. Alla fine del papato di Giulio III la Congregazione del Sant’Uffizio risultava composta dai cardinali Carafa, Carpi, Toledo, Verallo, Cervini e Puteo. Gli “intransigenti” avevano ormai conquistato la Congregazione; la tappa successiva sarebbe stata la conquista del papato e dell’intera curia romana. Tuttavia con Pio IV (pontefice dal 1559 al 1565) si voltò momentaneamente pagina, tornando a orientamenti simili a quelli di Giulio III: i nipoti di Paolo IV, Carlo (cardinale dal 1555 al 1561) e Giovanni Carafa furono messi a morte e il Sant’Uffizio fu ridimensionato nel numero dei cardinali e soprattutto nelle sue competenze e nella sua influenza. Fu San Pio X (pontefice dal 1903 al 1914) a cambiare il nome in “Sant’Uffizio” con la Costituzione Sapienti consilio del 29 giugno 1908. 40 I normanni, grandi guerrieri vichinghi, giunsero in Sicilia portando nell’isola il

71


regime feudale, con un parlamento gestito inizialmente solo dai nobili, laici e religiosi. Con l’incoronazione a re di Ruggero II nel 1130, per la prima volta nella storia di tutta Europa, venne convocato il Parlamento siciliano. La convocazione del parlamento in Sicilia non fu la prima, ma certamente la più importante, dalmomento che furono ammessi, anche se in via eccezionale, non solo nobili ed ecclesiastici, ma anche vari rappresentanti del popolo. Questa tradizione parlamentare iniziata dai Normanni, venne confermata e corroborata dagli Svevi. Una svolta vera si ebbe nel 1240 quandoFederico II di Svevia (regnante dal 1130 al 1154) ammise nel parlamento anche i rappresentanti delle città demaniali. Il Parlamento siciliano rappresentò il simbolo della libertà e dei sentimenti autonomistici della Sicilia. La distinzione in “bracci” (militare oaristocratico, ecclesiastico e demaniale) apparve chiaramente avvenuta con la convocazione del Parlamento di Taormina del 1411. Il braccio militare, o baronale, era il più potente e la sua compagine si rafforzava sempre più con la costituzione di nuovi feudi. L’età minima per essere ammessi in Parlamento era di quattordici anni, che fu stabilita per consuetudine parlamentare verso la metà del XVII secolo; con l’atto parlamentare del 13 settembre 1813 l’età minima fu, invece, portata a diciotto anni.Il braccio ecclesiastico era composto da circa sessanta prelati, che dovevano avere tutti la cittadinanza siciliana. Capo del braccio ecclesiastico era l’arcivescovo di Palermo, poiché la chiesa di Palermo era la metropolitana del regno, secondo la bolla di Adriano IV (pontefice dal 1154 al 1159) del 7 luglio 1154. Il braccio demaniale, costituito dai rappresentati delle “università” (ripartizioni amministrative del regno), contava già quarantacinque membri nel 1398; ne era capo il sindaco di Palermo, chiamato “pretore”. Le convocazioni ordinarie del Parlamento avvenivano generalmente in primavera; le mansioni specifiche del Parlamento erano, oltre al mantenimento delle relazioni col re, la cura della proprietà economica dell’isola e i problemi inerenti all’istruzione e alla giustizia; l’oggetto principale dei lavori parlamentari era la determinazione della somma, delle modalità e del tempo di pagamento, dovuta al re dal Regno di Sicilia e chiamata “donativo”. In compenso dei donativi concessi, il Parlamento richiedeva al re il riconoscimento di speciali diritti e privilegi, detti “grazie”. Il Parlamento siciliano, così strutturato, durò fino al 1812, anno in cui fu riformato prendendo a modello quello inglese. Si ebbero così due camere: quella dei “pari”, con centottantacinque membri, e quella dei “comuni”, con centocinquattaquattro deputati. Questo Parlamenti si riunì l’ultima volta nel 1815, poiché con la proclamazione dell’”atto di unione”, con cui si costituiva il Regno delle Due Sicilie, ad opera di Ferdinando III di Borbone (regnante dal 1816 al 1825), si spense l’antico regno di Sicilia e sembrò così che il Parlamento siciliano avesse esaurito la sua plurisecolare funzione. Durante la grande rivoluzione risorgimentale (1848-1849), tuttavia, il Parlamento fu ricostituito sulla base elle strutture costituzionale del 1812. Dopo circa un secolo di silenzio, il Parlamento siciliano tornò a riunirsi a Palermo, presso palazzo dei Normanni, il 20 maggio 1947, costituito da novanta membri eletti su base provinciale, con il nome di “Assemblea regionale siciliana”. 41 L’origine del feudalesimo in Sicilia va ricercata in ogni dominazione che l’isola ha subito. Infatti ogni conquistatore cedeva appezzamenti di terra ai propri uomini

72


d’arme che erano stati fedeli, che divenivano così vassalli. All’avvento dei Borbone lo stato era essenzialmente feudale, pieno di uomini che, in veste di baroni e di prelati, possedevano gran parte delle terre. La proprietà terriera era dominata dal latifondo; la terra libera, non infeudata,era detta “demanio”, nominalmente proprietà del re in quanto sovrano, nella quale i contadini e i pastori esercitavano gli “usi civici” avevano cioè il diritto di poter gratuitamente fare pascolo di greggi, raccogliere legna nei boschi, attingere acqua, piantare, coltivare. Terreni feudali, invece, erano quelli dati in possesso dai sovrani ai baroni. Nelle Due Sicilie il sistema feudale era “puro”, regolato cioè dal cosiddetto “diritto franco” che obbligava i feudatari a tramandare i loro titoli secondo il principio del maggiorascato, che stabiliva la trasmissione delle terre al maggiore per discendenza. In Sicilia lo strapotere baronale raggiungeva il massimo grado, dato che erano quasi inesistenti le terre demaniali: circa un terzo della superficie totale era proprietà del clero e più di due terzi del territorio era sottoposto ai baroni. Quest’ultimi avevano inoltre alcune prerogative particolari, sconosciute ai feudatari di altre parti d’Italia e d’Europa, e giustificavano questi privilegi col fatto che, secondo la tradizione, il feudalesimo era nato nell’isola prima dell’avvento dei Normanni, addirittura ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente, e che l’investitura feudale era stata concessa dal primo re Ruggero II, come riconoscimento dei servigi prestati, a coloro che avevano militato nella sua guerra contro gli Arabi; questi privilegi implicavano che il barone non si sentisse un vassallo del re ma quasi un suo pari. Nel panorama politico siciliano, i Borbone furono gli unici ad impegnarsi realmente nel combattere i residui di feudalità che ancora funestavano il popolo. Da Carlo di Borbone (1716-1788) a Ferdinando IV (1751-1825), fu un susseguirsi di leggi atte a limitare il potere feudale e persino di togliere loro le terre, come la Prammatica XXIV del 1792, che stabiliva di trasformare i contadini da salariati a coltivatori diretti. Altri decreti furono intrapresi anche nel corso del XIX secolo, ma sempre con scarsi successi. 42 Correnti, Santi, Storia della Sicilia, Roma, Pubblicazione a fascicoli settimanali delle Periodici Locali Newton ed., 1997, Anno I, Volume II, Fascicolo 20: La Sicilia del Seicento, pp. 381-382. 43 Il viceré era colui che governava, in rappresentanza del sovrano, una provincia, una colonia o, in generale, una parte del regno, detta vicereame. Il Vice regno spagnolo in Sicilia iniziò il 23 gennaio 1516, con l’ascesa al trono di Spagna di Carlo V (1500-1588), e si concluse il 10 giugno 1713, con la firma della pace di Utrecht, che sancì il passaggio dell’isola da Filippo V (1683-1746) a Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732). Con la morte del re Ferdinando II di Aragona (regnante dal 1452 al 1516), avvenuta il 23 gennaio 1516,la Sicilia e il regno di Napoli furono incorporati nella nuova corona di Spagna, che venne ereditata dal giovane nipote Carlo V (regnante dal 1519 al 1556). I nobili siciliani, capitanati da Pietro Cardona (1467-1522), conte di Golisano, invitarono il viceré Giovanni Moncada a lasciare il potere. Questi si rifiutò e dichiarò decaduto il parlamento: allora il popolo si ribellò con i cosiddetti “secondi Vespri siciliani”, costringendo il viceré a fuggire. Questi fu sostituito dal

73


duca Ettore Pignatelli di Monteleone (in carica dal 1516 al 1535) e iniziò così la serie dei viceré di casa d’Austria. Dal 1516 in poi la Sicilia e l’Italia meridionale, furono così rette dalla dinastia degli Asburgo. I due regni furono realmente amministrati da distinti viceré con sede a Napoli e Palermo. Tra i viceré di Sicilia durante il XVI ed il XVII secolo troviamo personalità importanti come Ferrante Gonzaga (1535-1546), Juan de Vega (1547-1557), Juan de la Cerda (1557-1564), Emanuele Filiberto di Savoia (1622-1624). 44 Nel periodo arabo la Sicilia venne divisa in tre centri amministrativi denominati: “Vallo di Mazzara”, con capoluogo Mazzara e poi Palermo, “Vallo di Noto”, con capoluogo Noto e poi Catania, “Vallo di Demone”, con capoluogo Messina. Tale suddivisione durò per circa novecento anni. Il più esteso era il Vallo di Mazzara, che comprendeva poco meno della metà dell’isola, e cioè da Capo Lilibeo sino alla sponda destra del fiume Salso; il Vallo di Noto comprendeva tutta la zona sud-orientale, e cioè dalla riva sinistra del fiume Salso fino a Capo Passero; il Vallo di Demone era, invece, nella zona settentrionale dell’isola e comprendeva tutta la zona dell’Etna. I Normanni continueranno a mantenere la suddivisione amministrativa della Sicilia data dagli Arabi. Le città demaniali nacquero con la costituzione del Parlamento siciliano ad opera di Ruggero II di Sicilia; la prima riunione avvenne a Mazzara nel 1097. A quei tempi, infatti, la Sicilia era in gran parte costituita da territori nel possesso delle quarantadue città del demanio regio, riconosciute dalla corona, con i loro antichissimi diritti e privilegi, accanto a estese terre baronali di investitura feudale ma comunque sempre parte della giurisdizione di una città demaniale, dove erano concentrati i commerci e una élite di professionisti e amministratori. Tali città non erano amministrate da Vescovi-Conti, nobili, abati e archimandriti, ma facevano capo direttamente alla corona. Ciascuna delle città regie o demaniali si distingueva dall’abitato feudale per i privilegi e le prerogative che disponeva insieme ad un vasto territorio di appartenenza, ricco di chiese e conventi; godeva di un proprio riconosciuto corpus di privilegi e i cittadinierano autorizzati a regolarsi secondo tali norme e giudicati, in prima istanza, da magistrati cittadini. 45 Con l’espressione “Secolo d’Oro” si intende il cosiddetto Siglo de Oro, cioè il secolo d’oro per la Spagna, che va dai primi del cinquecento a tutto il seicento e corrisponde al periodo della maggior gloria politica e militare della nazione, che era da poco giunta all’unità, con la cacciata dei mori. Indicativamente, è chiamato Rinascimento la prima parte, mentre Barocco il periodo seicentesco. La Sicilia, che in quelli anni era sotto il dominio spagnolo, fu anch’essa direttamente influenzata da questo clima di splendore culturale, che si manifestò in una forte esigenza di cambiamento e di affermazione di una rinnovata visione della vita sociale, artistica e politica. Tra il XVI e il XII secolo, con l’influenza dell’Umanesimo e del Rinascimento, le scienze e le arti, così come la scrittura, il teatro, la pittura e la letteratura, arrivarono al punto di massimo splendore e fioritura. Nel XVI secolo, ad esempio, la diffusione della cultura in Sicilia raggiunse tale livello che si sentì il bisogno di creare una seconda università

74


a Messina nel 1548. Numerosissime furono, inoltre,in tutti i centri culturali della Sicilia le accademie,come quella palermitana dei “Solitari”, sorta nel 1549 e fusasi nel 1568 con quella degli “Accesi”; e quella dei “Risoluti”, fondata a Palermo nel 1570. Nel XVII secolo, la diffusione della cultura fu incrementata dall’accresciuto numero delle istituzioni scolastiche della Sicilia, dovuto all’apertura dei collegi da parte dei gesuiti e teatini. Per le belle arti, il Seicento fu per la Sicilia il Secolo d’oro del Barocco, continuato poi nel primo Settecento. 46 Spini, Giorgio, L’Italia dalla pace di Vestfalia alla guerra della Lega di Augusta, in Storia del mondo moderno, Milano, Garzanti ed., 1968, pp. 599.

75


fig.1

fig.2

76


fig.3

fig.4

77


fig.5

fig.6

78


fig.7

fig.8

79


fig.9

fig.10

80


fig.11

fig.12

81


fig.13

fig.14

fig.15

82


fig.16

Fig.17

fig.18

fig.19

83


fig.20

fig.21

84


fig.22

85



Capitolo II

I CARAFA TRA NAPOLI E LA SICILIA

I.

Signori e Corti nel cuore della Sicilia: i Branciforti–Carafa

Le notizie più complete sui Carafa risalgono all’Historia Genealogica della Famiglia Carafa1 (fig.23) di Biagio Aldimari (1630-41/1713), pubblicata a Napoli nel 1691. Egli fa risalire l’origine della famiglia a un certo Sigismondo, principe germanico, il quale avrebbe salvato la vita all’imperatore Enrico IV (imperatore del Sacro Romano Impero dal 1056 al 1105) frapponendosi tra lui e la lama di un attentatore. Il sovrano, avendolo abbracciato, gli disse: «Cara fe m’è la vostra», da cui il cognome “Carafa”. Passando tre dita sulla corazza insanguinata del fedele gentiluomo, l’imperatore venne a segnarvi tre bianche fasce: da qui lo stemma con tre fasce d’argento in campo rosso della famiglia. Sigismondo giunse in Italia e divenne vicario della città di Pisa per disposizione dell’imperatore. Nel 1022 suo figlio Stefano divenne Signore della Sardegna, dopo averla liberata dai Saraceni, e a lui si deve l’origine del cognome “CARAFA”, che compose dal nome della propria madre “CARA” e dal proprio “steFAno”. Secondo un’ulteriore versione, la famiglia dei Carafa fu di origine polacca, o meglio ungherese; ebbe a capostipite certo Zoardo, di cui è detto: «Zoardo illustre per la vittorie di Attila in Ungheria. La sua discendenza abitò diverse contrade del mondo, Venezia, Napoli e Italia». Stabilitasi in Italia attorno al 1000, tradusse il proprio cognome Korczak in “Carafa”. Un’ultima teoria fa derivare l’origine dei Carafa da un’illustre famiglia napoletana il cui capostipite si fa risalire a Gregorio Caracciolo, del ramo dei Caracciolo detti “Rossi” (per distinguerli dai “Pisquizi” e dai “Cassano”), vissuto nel XII secolo, detto per l’appunto “carafa”, forse perché concessionario della gabella sul vino, chiamata “campione della carafa o della caraffa”. A questo proposito, alcuni storici sostengono che 87


il figlio di Gregorio Caracciolo, Tommaso, fosse chiamato “de Caraffa” in un documento del 1269. Dallo stesso documento si viene a sapere che a Gregorio appartenevano vari feudi tra Napoli, Acerra e Aversa. A ciò si aggiunge l’epigrafe di Letizia, morta nel 1340 e vedova di Philippi Caraczoli dicti Carrafa. Sempre nel XIV secolo,inoltre, visse a Napoli Bartolomeo Caracciolo detto Carafa, nobile e diplomatico del Regno di Napoli. Trasferitasi nel Regno di Napoli, la famiglia si divise in seguito in due grandi rami: Carafa della “Spina”, chiamato così perché portava una spina di traverso nello stemma (fig. 24), e Carafa della “Stadera”, perché aveva una stadera fuori dello stemma (fig.25). I Carafa ebbero possedimenti in tutto il Regno di Napoli e si imparentarono con le più importanti famiglie feudali del meridione. I rami principali della famiglia “della Spina” furono i Principi di Roccella, i Duchi di Forlì e i Conti di Traetto. Il capostipite della famiglia Carafa “della Stadera” fu Antonio, patrizio napoletano, Giustiziere della Terra di Bari nel 1400, detto Malizia per l’abilità con cui portò a termine importanti incarichi diplomativi per conto di Ladislao d’Angiò (re di Napoli e di Sicilia dal 1386 al 1414), Carlo III d’Angiò-Durazzo (re di Napoli dal 1382 al 1386) e Giovanni II d’Aragona (regnante dal 1558 al 1479). Diomede, ultimo figlio di Antonio detto Malizia, fu primo conte di Maddaloni. Nato nel 1406, seguì fedelmente Alfonso I d’Aragona (1481-1500) nelle sue campagne di guerra in Spagna e in Barberia. La sua fedeltà alla Casa d’Aragona che Diomede dimostrò in diverse occasioni, partecipando nel 1442 anche all’assedio di Napoli, gli fece ottenere prestigio e potenza. Durante il regno di Ferrante I d’Aragona (regnante dal 1458 al 1494), Diomede Carafa ricoprì le più alte cariche del Regno: fu infatti nominato Gran Consigliere di Corte, Ispettore supremo delle finanze regie, Ministro plenipotenziario del re presso Papa Nicolò V (pontefice dal 1447 al 1455) e ottenne numerosi feudi, tra i quali quello di Maddaloni sul quale nel 1465 ottenne il titolo di conte. I Carafa “della Stadera” si divisero in cinque rami principali e in altri rami minori. I rami principali comprendevano i Carafa marchesi di Montesardo, duchi d’Andria, conti di Ruvo, principi di Chiusano, conti di Montecalvo, conti di Mondragone, principi di Stigliano, marchesi 88


di San Lucido, duchi di Laurito, principi di San Lorenzo, duchi di Maddaloni, conti di Nocera, duchi di Noja, principi di Belvedere. I Carafa “Della Stadera” ebbero nobiltà in Napoli, nel Sedile di Nido, in Benevento, in Lucera, Troppa, Girgenti, Trapani, Catanzaro, Chieti, Crotone, Policastro e San Giorgio di Polistena e furono ricevuti nell’Ordine di Malta fin dal 1395. I Carafa ebbero possedimenti anche in Sicilia: nel XVI secolo un ramo della famiglia passò a Modica, Girgenti e Trapani. Nella loro storia i Carafa ricoprirono cariche altissime sia nel campo civile (grandi ammiragli, dogi, grandi di Spagna2, principi del Sacro Romano Impero, duchi, marchesi, conti, viceré3 ecc.), sia nel campo ecclesiastico (cardinali, vescovi, arcivescovi, abati); un Carafa, Gian Pietro, fu addirittura Papa dal 1555 al 1559 col nome di Paolo IV. Carlo Maria Carafa (1651-1695), figura chiave della corte della Sicilia centrale del XVII secolo, discendeva dai Principi della Roccella, del ramo Della Spina; il suo stemma (fig.26) rappresenta un campo rosso con tre fasce d’argento e una spina verde di traverso che scende da destra verso sinistra. Lo scudo è coronato con la corona usata dai principi; fuori dallo scudo troneggiano l’aquila e la corona imperiale. Carlo Maria Carafa utilizzò quasi sempre lo stemma della sua famiglia originaria assieme a quelli dei principali stati che andavano arricchendo il patrimonio dei Carafa. Un’altra illustre famiglia feudale fu quella dei Branciforti. Sulla loro origine le opinioni sono discordi; alcuni pensano che fossero di origini spagnole, altri francesi, altri ancora di origine piacentina e questa sembra essere la più esatta. La famiglia dei Branciforti ebbe origine da un certo Obizzo, alfiere generale dell’esercito di Carlo Magno. Durante una battaglia tra l’esercito di Carlo Magno ed i Longobardi, Obizzo fu assalito da tre nemici che volevano strappargli la bandiera. I tre gli mozzarono le mani, ma l’alfiere Obizzo continuò a stringere a se la bandiera con i moncherini fino a quando fu salvato dall’arrivo dei soldati di Carlo Magno (imperatore del Sacro Romano Impero dall’800 all’814). Quest’ultimo lo ricompensò dandogli in premio la città di Piacenza e da quel momento la famiglia si sarebbe chiamata Branciforti. Lo stemma gentilizio era costituito da un leone con una 89


corona d’oro che sosteneva con i moncherini la bandiera spiegata con tre gigli a sinistra e due zampe mozze a destra (fig.27). Fin dal XIV secolo i Branciforti facevano parte dei ranghi della feudalità siciliana più importante; tre secoli dopo Vincenzo Di Giovanni4 scriveva: Non abbiamo famiglia in Sicilia, che sia più ricca di signori che questa, perché ha il conte di Raccuja, il conte di Cammarata, il marchese di Militello Val di Noto, il duca di San Giovanni ed il principe di Butera, ch’è anco principe di Pietraperzia5.

Capostipite della famiglia Branciforti, da cui il Carafa discendeva per linea materna, fu Stefano, cavaliere piacentino, Maestro Razionale del Regno, che ottenne dal re Federico II di Svevia (re di Sicilia6 dal 1198 al 1250 e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220 al 1250) il privilegio di poter dare in dote metà del prezzo dello stato di Mazzarino al proprio figlio Raffaele, quando questi sposò nel 1325 Graziana di Villanova e Artefina, figlia maggiore di Calcerando, Signore di Mazzarino. Il contratto matrimoniale stipulato tra Stefano Branciforti e Calcerando Villanova, consentì a Stefano, figlio del Branciforti, di diventare il primo signore di Mazzarino, dal momento che Calcerando non ebbe eredi maschi. I successori di Raffaele consolidarono il loro ruolo all’interno della feudalità siciliana grazie soprattutto ai meriti acquisiti per i servigi militari prestati ai Re di Sicilia: Giovanni, ad esempio, fu comandante delle armi regie e riconquistò Messina e Piazza Armerina; suo fratello Federico, invece, ottenne un grosso vitalizio per aver sottomesso nuovamente le due città ribelli nel 1375. Giovanni Branciforti morì nel 1376 senza figli e gli successe Federico suo fratello, il quale ebbe confermata la signoria di Mazzarino. Morto Federico Branciforti gli successe il figlio Nicolò che ebbe, oltre la baronia di Mazzarino, quale erede del padre, anche il castello e terra del Grassuliato, già elevato a contea da Federico II di Svevia, nonché i feudi Condrò e Gatta, nel 1393, da re Martino che li aveva confiscati al ribelle Ruggero Passaneto e dati in premio a Nicolò Branciforti. Avere la signoria di Mazzarino, nel periodo feudale, significava possedere una fortuna; basti pensare che, nel XVII secolo, tale stato rendeva al suo conte ben 50.000 scudi l’anno. Nel 1393 Nicolò collaborò alla presa di Iaci e di Paternò; suo nipote Nicolò II ebbe da re Alfonso V (regnante 90


dal 1416 al 1458) l’investitura nel 1429 e con essa il riconoscimento più importante per una famiglia feudale in ascesa, il diritto ad esercitare il mero e mixto imperio7. In questo modo andava consolidandosi sempre più il prestigio politico e la solidità patrimoniale dei Branciforti all’interno della nobiltà siciliana. Alcuni di essi furono spesso nominati vicari generali del regno, come Nicolò Melchiorre Branciforti, nipote di Nicolò II, che fu vicario generale d’Augusta, strategoto8 di Messina e deputato9 del Regno; nel 1507 ottenne da re Ferdinando il Cattolico (re di Sicilia dal 1452 al 1516) il titolo di Conte di Mazzarino. Egli gestì il suo patrimonio con animo e comportamenti da mecenate, favorendo lo sviluppo delle arti e della letteratura. Si sposò con Belladama Alagona, dalla quale ebbe tre figli maschi. Dal figlio minore di Nicolò Melchiorre, Blasco, ebbe inizio il ramo indipendente dei Branciforte di Tavi (poi Leonforte). Al primogenito era invece spettato Mazzarino, e nella sua discendenza confluirono i titoli di marchese di Pietraperzia, di Militello e di principe di Butera; al secondogenito vennero assegnate, invece, le baronie di Mirto e Melilli. Belladama aveva istituito un fedecommesso10 per via testamentaria sul feudo di Tavi, modo francorum, e aveva delineato tutti i meccanismi di sostituzione in caso di mancanza dell’erede designato. Questo dispositivo vincolava la trasmissione del feudo, indiviso, al primogenito maschio di Blasco e a quello dei suoi discendenti. In mancanza di eredi maschi sarebbero dovute succedere le femmine, purché avessero mantenuto il cognome Branciforti. Dai figli di Blasco discesero il ramo dei duchi di San Giovanni e quello dei conti di Raccuja e principi di Leonforte. Il primogenito Nicolò acquistò nel 1551 la terra di Raccuja, utilizzando il denaro lasciatogli dallo zio Antonio. Quest’ultimo, che non ebbe figli, gli donò anche la baronia di Mirto, vincolata secondo lo ius francorum (legge che prevedeva la trasmissione del feudo integro al primogenito). Nicolò aveva sposato nel 1550 Giovanna Lanza, figlia del più noto Cesare, dalla quale ebbe cinque figli: Orazio, Giuseppe, Beatrice, Lucrezia e Antonio. Morto nel 1509 Nicolò Melchiorre, gli successe il figlio Giovanni III Branciforti. Questi sposò Emilia Moncada11, figlia del conte di Paternò e Caltanissetta. Da questo matrimonio nacque Artale Branciforti che succedette al padre e si investì nel 1530 di Mazzarino, Grassuliato, 91


Favara, Balsi e del feudo di Gallici. Artale sposò Chiara Tagliavia12, con la quale ebbe Giovanni IV Branciforti. Questi, essendo ancora molto giovane quando il padre morì, si investì delle contee di Mazzarino e Grassuliato e degli altri feudi, tramite il proprio contutore Don Antonio Branciforti, barone di Mistra. Giovanni IV Branciforti sposò nel 1550 Dorotea Barresi13, sorella di Pietro principe di Pietraperzia e figlia di Gerolamo Barresi, marchese di Barrafranca, e di Antonina Santapau14, figlia di Ponzio III di Licodia. Il barone di Butera Ambrogio Santapau acquisì nel 1563, oltre a quello del marchese di Licodia, il titolo di principe di Butera che diventò il primo titolo del regno; suo figlio Francesco nel 1580 passò il principato di Butera a Fabrizio Branciforti (1550-1624), già conte di Mazzarino e marchese di Militello. Nel 1571 morì Pietro Barresi, fratello di Dorotea, per cui passarono a lei il principato di Pietraperzia, il marchesato di Barrafranca e la baronia di Fontana Murata. Dallo zio materno, Francesco Santapau, invece, Dorotea ereditò il principato di Butera, la signoria di Occhiolà (Grammichele) e la baronia di Belmonte. Nel 1591 morì Dorotea Barresi lasciando erede l’unico figlio Fabrizio, il quale nel 1570 sposò Caterina Barresi dei marchesi di Militello. Dal loro matrimonio nacquero nove figli. Nel 1594 Fabrizio poté dimostrare le proprie capacità sostenendo con valore e successo l’urto del corsaro turco Cighala-Zade-Yusuf-SinanPashà (1545-1605), il quale, dopo aver saccheggiato Reggio e devastato la costa ionica meridionale, aveva posto l’assedio a Castelvetere. Il 24 marzo 1594 Filippo II (re di Spagna dal 1556 al 1598, re Napoli e Sicilia dal 1554 al 1598) concesse al Branciforti il titolo di principe di Roccella con un privilegio nel quale si richiamavano le virtù militari e la fedeltà dei suoi avi, nonché il fatto d’armi di cui Fabrizio era stato protagonista. La concessione della dignità principesca rappresentava il coronamento di un’ambizione già espressa nel 1581, quando Fabrizio aveva chiesto al sovrano il titolo dietro versamento di una congrua somma di denaro sulla quale probabilmente non si giunse ad un accordo. Il nome di Fabrizio Branciforti è legato inoltre alla persecuzione degli eretici calabresi, fra i quali spiccava il famoso filosofo nativo di Stilo, Tommaso Campanella (1568-1639). L’illustre autore de La Città 92


del Sole15 si era fatto notare all’epoca per le sue idee innovatrici che si scontravano contro i principi assunti dalla Chiesa nel Concilio di Trento16, per cui ben presto fu sottoposto a diversi processi, anche se venne sempre assolto dall’accusa ricorrente di eresia. Nel 1599 a Stilo, ovvero ai confini del feudo roccellese, il Campanella stava preparando una congiura con la quale sperava di sovvertire l’ordine monarchico alleato della Chiesa. Fu però scoperto da Fabrizio Branciforti che trasse in arresto il filosofo, portandolo nelle carceri di Castelvetere da dove venne poi trasferito a Napoli per essere processato e crudelmente torturato. L’impresa condotta dal Principe ebbe grande eco nel governo napoletano, per cui al nobile fu riservata la carica di consigliere Speciale della Corona per gli affari. Il 9 novembre 1600, Fabrizio fu nominato decano del Consiglio Collaterale17; il 16 agosto 1622 l’imperatore Ferdinando II lo insignì del titolo di principe del Sacro Romano Impero e nello stesso anno Filippo IV lo accolse nell’Ordine del Toson d’Oro18. Al consolidamento della sua posizione dovette contribuire, inoltre, il matrimonio con Giulia Tagliavia d’Aragona19, figlia di Carlo, principe di Castelvetrano, uno dei maggiori titolati del Regno, viceré di Catalogna e governatore di Milano, marito di Caterina Ventimiglia20 dei principi di Geraci. Questa nuova situazione patrimoniale, unitamente alla posizione guadagnata nella nobiltà del Regno, consentì ai figli del Branciforti di conseguire ragguardevoli posizioni sociali: Vincenzo divenne il capostipite della linea dei duchi di Bruzzano, Carlo fu nominato vescovo di Aversa; Simone divenne arcivescovo di Messina; Francesco, infine, è ricordato come primo priore di Roccella e prefetto delle galere di Malta. Alla fine del secolo i Branciforti-Carafa di Mazzarino possedevano dunque una grande signoria che comprendeva il principato di Butera e quello di Pietraperzia, il marchesato di Militello, le contee di Mazzarino e Grassuliato, le baronie di Niscemi, Barrafranca, Palazzolo, Belmonte, Radalì e Occhiolà, ma non è stato il ben più titolato principato di Butera ad avere assorbito i meno titolati signori dell’interno, come si potrebbe pensare, in quanto l’aumento del prezzo del grano e la rendita fondiaria verificatosi in questo periodo accrebbe il potere economico della nobiltà che disponeva delle zone interne della Sicilia ancora spopolate e dedite all’agricoltura. Contemporaneamente, infatti, si assistette all’aumento 93


della potenza economica dei Moncada che, già principi di Paternò, conti di Adrano e Caltanissetta, baroni di Melilli e Motta S. Anastasia, nel 1585 aggiunsero, con il matrimonio tra Francesco Moncada e Maria Aragona La Cerda21, la baronia di Collesano e alle Petralie, cosicché alla fine del secolo con un reddito annuo di 50.800 onze divennero la famiglia più ricca di Sicilia, precedendo anche i principi di Butera, con un reddito annuo di 26.941 onze. È da notare, inoltre, in questa prima metà del secolo un notevole arretramento di Butera; per un certo verso questa situazione è da attribuire al fatto che i Branciforti, una volta divenuti principi, oltre che di Butera, anche di Pietraperzia, preferirono risiedere prima nel loro castello di Pietraperzia e dal 1624 in quello di Mazzarino. Nel 1603, Francesco Branciforti (fig. 28) , primogenito di Fabrizio, sposò Giovanna d’Austria, figlia di Giovanni d’Austria (1547-1578)22, il vincitore di Lepanto23. Quando nel 1624 morì Fabrizio Branciforti i beni passarono al nipote Giuseppe Branciforti, figlio del secondogenito Giovanni. Le strutture familiari della nobiltà nel XVII secolo erano condizionate in maniera significativa dalle norme di costituzione e trasmissione dei beni feudali. La tendenza verso la concentrazione del patrimonio nelle mani di un solo individuo, verso la riorganizzazione delle parentele in senso agnatizio24 era la prassi prevalente all’interno delle famiglie aristocratiche. Essa aveva come scopo il mantenimento dei beni feudali all’interno dello stesso lignaggio per il maggior numero possibile di generazioni. Allo stesso tempo, le regole di devoluzione erano funzionali agli interessi di accrescimento economico e di rafforzamento del prestigio sociale di ogni famiglia aristocratica. Questi obiettivi erano perseguiti anche tramite la politica di alleanze coniugali che ogni gruppo familiare cercava di attuare. Nel ‘500 e primo ’600 si possono scorgere, ad esempio, tre principali tendenze negli orientamenti matrimoniali: in un primo periodo i Branciforti si orientarono per alleanze matrimoniali con famiglie sia di un prestigio maggiore, come i Moncada, sia di un prestigio minore. Nella generazione di Nicolò Placido (1593-1682), tuttavia, il matrimonio si combinò solo con membri di altri rami della famiglia Branciforti, mentre nella generazione seguente i matrimoni si fecero 94


o con elementi della famiglia o con membri ritenuti di pari grado. Il succedersi degli “intermatrimoni” sembra indicare che a fine ’500 non si riuscisse più a trovare coniugi di pari grado, essendo i Branciforti ormai una famiglia che godeva di un limite massimo di prestigio. I matrimoni con le famiglie ritenute inferiori si contemplavano soltanto per le figlie minori. I capifamiglia, infatti, cercavano di evitare la dispersione de beni tra i figli cadetti, sforzandosi in ogni modo di assicurare buoni matrimoni per il figlio o la figlia più grande, nell’intento di consolidare o incrementare il proprio prestigio sociale (fig.29). Durante il ‘600 i Branciforti acquistarono una sempre maggiore forza politico-economica all’interno della nobiltà siciliana. II. La Corte di Mazzarino nel XVII secolo Nel panorama nobiliare della Sicilia del XVII secolo, una delle famiglie più ricche e note fu quella dei Branciforti. Fra i cospicui beni posseduti dalla nobile famiglia si annoverano quelli relativi al palazzo che essa deteneva a Mazzarino, centro nell’entroterra nisseno che fu possedimento feudale dei Branciforti sin dal XIV secolo. La famiglia Branciforti giocò un ruolo essenziale nello sviluppo economico, sociale e urbanistico di questa città. Nelle corti siciliane del ‘600 i costumi si erano raffinati come non si era mai visto in precedenza e si era sviluppata una vita sociale che affascinava e conquistava gli stranieri: gli artisti, le opere, i modelli, lo stile italiano, si diffusero in breve tempo in tutta Europa. I grandi nobili, come i Branciforti-Carafa a Mazzarino, si ponevano in una posizione sociale ben distinta dalla piccola aristocrazia e dal nobilitato urbano. Nessuno poteva competere con il principe, né pretendere di eguagliarlo: egli svettava sopra tutti gli altri con il suo rango, con la sua ricchezza, con il suo potere personale, con il suo carisma. Il signore, del resto, tendeva in tutti i modi a distinguersi dalla folla dei notabili locali: attraverso il colore dei suoi vestiti, il suo incedere elegante, lo stuolo di paggi e cortigiani, la decorazione del suo palazzo. A partire dai primi anni del ‘600 il suo stile di vita diventò ancora più raffinato ed elitario, distaccandosi ogni giorno di più da chi tentava 95


affannosamente di imitarlo. La rappresentazione di sé, però, andava creata fondamentalmente attraverso tre indicatori: la costruzione di monumenti, palazzi e chiese che lasciassero un segno sul territorio, il fasto della vita di corte e l’attività artistica e culturale. Anche la cultura era, infatti, per tutte le grandi famiglie feudali siciliane un elemento di distinzione, uno strumento per dare una rappresentazione di sé, un indicatore che permette appunto un più alto riconoscimento sociale. E in questo senso era necessario che la cultura si traducesse in una forma di “spettacolarizzazione”, che fosse visibile a tutti e da tutti ammirata, considerata straordinaria, irraggiungibile. L’esempio di Mazzarino, con il suo principe mecenate, con la sua corte, con gli intellettuali e gli artigiani che gravitavano intorno ad essa, è significativa e rappresenta un modello esemplare di corte barocca siciliana. Momento di svolta per la città fu, nel corso del XVI secolo, lo spostamento definitivo dei mazzarinesi dal territorio circostante il castello al nuovo e attuale sito, causato anche dal trasferimento del conte dalla sede castellana al suo nuovo palazzo. La data esatta di questo trasferimento si sconosce, come pure quella dell’erezione della nuova dimora del conte. Nel mese di aprile 1574 Fabrizio Branciforti, conte di Mazzarino, stipulò un contratto, con Geronimo Miccichè, nel quale è contenuto un elenco di somme dovute dal Branciforti a diverse persone per vari motivi. Il 3 aprile 1632 fu fatta la stima, dal notaio Vincenzo Pitta di Mazzarino, dei beni lasciati da Giovanni Branciforti, figlio di Fabrizio, nel quale si evince, che già a quel tempo, il palazzo era ormai provvisto di ogni comodità e necessità. Decisivo fu l’ingresso nella storia di Mazzarino di una figura di nobile e signore che darà ai Mazzarinesi un po’ di pace, serenità e benessere: Giuseppe Branciforti; quest’illustre personaggio aprì a Mazzarino uno dei periodi più belli e desiderabili. Egli nacque a Palermo nel Novembre del 1619; il 18 dicembre 1623 gli morì il padre, Giovanni Branciforti, che non lasciò nessun testamento, per cui gli successero, nei beni, tutti i figli: Gabriele, Caterina, Agata e Giuseppe. A Giuseppe fu concesso il possesso delle contee di Mazzarino e Grassuliato, la baronia di Niscemi e ben 2578 onze di soggiogazioni25. Dal momento però che tutti i figli di Giovanni Branciforti erano minorenni, la Magna Regia Curia nominò tutrice degli stessi la loro 96


madre Giovanna Branciforti; tale tutela sarebbe stata revocata qualora la signora si fosse risposata. Giovanna Branciforti, tuttavia, il 15 aprile 1628 passò in seconde nozze sposando Francesco Ventimiglia, marchese di Geraci, per cui, le fu tolta la tutela dei figli, che passò al loro zio materno Nicolò Placido Branciforti (fig.30), fondatore e principe di Leonforte. Filippo Caruso (1593-1671), famoso cronista del tempo vissuto a Militello, tesse le lodi del principe di Leonforte dicendo che egli: Fu di molto elevato e grande ingegno e illustre, eccellente, e magnifico […] Di Leonforte furon da lui fatti le fabbriche del castello, della matrice chiesa, del convento dei Cappuccini, della cavallerizza […] il giardino di aranci, limoni e frutti, splendido di fontane […] girò il mondo con alcuni suoi fidati servi, e dove potevan essere scoperti si faceva da quelli trattare da eguale, ma senza si lasciasse il decoro e la riverenza dovuta al signore […] così da cavaliere errante visitò quasi tutta l’Europa, e fu ben trattato e onorato alla casa dell’imperatore di Alemagna non potendosi occultare la nobiltà della sua vita e persona.26

Nobile colto e raffinato, fu egli stesso poeta e collezionista di opere d’arte, si circondò di artisti e letterati tanto da essere descritto “protettore delli baroni e de’ letterati, facendo il suo palazzo scuola di scienze ed arti liberali”27. Nicolò Placido oltre ad essere primo principe di Leonforte ricoprì numerose cariche pubbliche che ne accrebbero il prestigio e il potere come deputato del Regno, Vicario Generale del Val di Noto, Pretore di Palermo nel 1613 e nel 1624 e Strategoto di Messina nel 1642. Il 7 gennaio 1628 si stipulò la promessa di matrimonio tra Giuseppe Branciforti e Agata Branciforti, sua cugina, figlia di Nicolò Placido Branciforti. Il matrimonio si sarebbe celebrato quando Giuseppe avrebbe compiuto quattordici anni. Giovanna Branciforti morì nel 1629 e nel suo testamento lasciò tutto al proprio marito. Nicolò Placido Branciforti non gradì l’azione della sorella e ne impugnò il testamento, facendolo così annullare. Il 17 luglio 1632 si celebrò il matrimonio fra Giuseppe e Agata Branciforti e fu un matrimonio in cui non si badò a spese. Dalla lista degli acquisti per abbigliamento personale e corredo provenivano: Tela di Fiandra, tela abbisso28, lenzuola lino malfitano,velo, corpetti, calzoni, guarnizione grande di Fiandra, un paio di pendagli di vetro, un paio di scarpe

97


ricamate, mmuccatori (fazzoletti), passamano d’oro per il corpetto, un paio di attavagli (tovaglie da tavola), per la signora contessa , di taffità e guarnite d’oro, calzette lavorate d’oro, vestito argentiero, guanti ricamati, un paio di scarpe d’ambra, ondiatura di ferriolo (stiratura articolare del mantello) del sig. conte, ecc.29

Da questo matrimonio nacquero due figli, Caterina e Giovanni Casimiro, che premorino entrambi ai genitori. Nel 1649 fu ordita, a Palermo, la cosiddetta “Congiura dei nobili” alla quale prese parte anche Giuseppe Branciforti. Si era sparsa a Palermo la falsa notizia che il re Filippo IV di Spagna (regnante dal 1621 al 1665) era morto senza aver lasciato l’erede legittimo al trono. Temendo e non volendo che a reggere le sorti della Sicilia fosse ancora un re straniero, alcuni nobili palermitani pensarono che fosse giunta l’occasione propizia per porre a capo del regno di Sicilia un nobile siciliano e, quindi, ordirono la congiura. Il Branciforti partecipò quindi al tentativo, messo in opera dai Ventimiglia, dai Filangeri, dai Gaetani, dai Del Carretto, di affidare la Corona di Sicilia al principe di Paternò, il più ricco e potente barone siciliano. In quella occasione il Branciforti stesso aveva fiutato la possibilità di essere lui il futuro re. In un primo momento, aveva partecipato attivamente all’organizzazione della congiura; accortosi, poi, di come realmente stessero le cose e che perciò le sue aspettative sarebbero andate deluse, rivelò la congiura al viceré Don Giovanni d’Austria (1629-1679), ottenendo il perdono; suo cognato, Giovanni Del Carretto, conte di Racalmuto, fu giustiziato assieme ad altri congiurati minori. Dopo la cocente delusione politica, il principe amareggiato per essere stato coinvolto in una congiura antispagnola, che gli costò la nomina a viceré di Sicilia, scelse l’esilio volontario lasciando la sua residenza di Palermo e facendosi costruire un’imponente Castello nelle sue terre di Bagheria. Morta Agata Branciforti, Giuseppe si risposò con una dama della regina di Spagna, Caterina Antonia de Vera y Tobar, ma il matrimonio fu annullato nel 1658. In seguito alla morte della cugina del conte Margherita, nel 1660, Giuseppe Branciforti ottenne l’investitura di Grande di Spagna, principe di Butera e di Pietraperzia, marchese di Militello, Barrafranca e Licodia, signore dell’Occhiolà e barone di Belmonte. Il Branciforti ebbe effettivamente l’investitura di Butera il 17 98


dicembre 1661 e fu anche il primo principe di Niscemi. Il 5 Novembre del 1662 furono celebrate le nozze con Luisa Moncada, figlia di Ignazio, fratello di Luigi30 principe di Paternò e duca di Montalto. Il governo di Giuseppe Branciforti determinò una svolta epocale, sia a Mazzarino che in tutti gli altri suoi stati, poiché la sua signoria non fu affatto pesante nei confronti dei vassalli o di altri, tanto che intere famiglie dai paesi circostanti si trasferirono a Mazzarino. Il periodo della signoria di Giuseppe Branciforti fu quello che iniziò il cosiddetto “secolo d’oro” a Mazzarino, continuato poi dal suo successore Carlo Maria Carafa. Giuseppe Branciforti fu un uomo molto religioso e dall’animo generoso, e questa sua religiosità manifestava con elargizioni, aiuti e opere varie. La sua fama fu legata anche ai restauri e alle modifiche apportate al palazzo baronale, lavori che resero lo tale da non invidiare quelli della capitale. Nel Seicento, inoltre, il nucleo più interessante di dipinti relativo al territorio della Sicilia centrale era racchiuso, per l’appunto, a Mazzarino, nelle chiese e in maggior misura nella quadreria di Giuseppe Branciforti. La quadreria, essenziale per comprendere i gusti del collezionismo privato siciliano e basilare per capire certi esiti della cultura artistica di stretta influenza palermitana, si caratterizzava, a differenza delle altre quadrerie del secolo, più aperte ad esempi continentali, per l’esclusiva presenza di artisti siciliani, o stranieri operanti nella capitale dell’isola. Tale differenza può presumibilmente spiegarsi considerando la posizione socio-culturale della famiglia Branciforti, rappresentante della vecchia nobiltà terriera e feudale. La quadreria, il cui nucleo fondamentale si era formato fra gli anni ’40 e ’50, era costituita da più di centocinquanta dipinti. Un numero consistente di questi, forse il nucleo più tardo, era formato da paesaggi di campagna e di marina, secondo un gusto che ebbe grande fortuna nel XVII secolo. Appare plausibile, tuttavia, che il gusto del Branciforti fosse orientato verso l’arte fiamminga o più genericamente naturalistica. L’8 aprile 1675 il conte di Mazzarino, Giuseppe Branciforti, sentendo prossima la fine dei suoi giorni su questa terra, dettò il suo testamento a don Giuseppe Petruzzella. Due giorni dopo, morì. A sua moglie Luisa Moncada lasciò tutti i gioielli, i vestiti, “tutte le robbe bianche (la biancheria) e onze ottocento una tantum pro bono amore”.31 Il 99


Branciforti, non avendo figli, nominò suo erede particolare di tutti i suoi stati Carlo Maria Carafa principe della Roccella (in Calabria), suo nipote, figlio di Agata Branciforti sua sorella sposata con il principe Fabrizio Carafa (fig.31). Alla morte del principe venne redatto il Repertorio dei beni allodiali, e mobili così urbani,come rusticani fatto nel Mazzarino a 8 Aprile 167532. Fra i numerosi dipinti, centotrentasette oltre quelli collocati nella galleria del Mazzarino è da rilevare la presenza di opere attribuite ad autori noti; in taluni casi si tratta di artisti di chiara fama come Matteo Stom, da identificare evidentemente con Matthias Stomer33. Del maestro fiammingo vi erano: Cinque quatri originali cioè della disputa di nostro Signore e dei Dottori della nascita di nostro Signore della sentenza di Salamone di San Matteo e di Mutio Scevola; quattro quadri di santi copie di Matteo Stomo; quattro quatri di diverse Istorie originali grandi.34

I “dodeci originali di vergini” che generalmente vengono definiti “del fiamengo”, sono presumibilmente da attribuire a Guglielmo Walescart35, presente in Sicilia in quel periodo. “Octo quatri dell’istoria di Rebecca, octo quatri di Santi, un Santo Stefano un San Giovanni” per un totale di diciotto dipinti risultano opere di “Pietro di mistri” o “Demetri”, cioè Pietro Dimitri, pittore di origine trapanese. Sono opera di Pietro D’Asaro36 i “Quattro quatri della rotta di Troia del cieco di Racalmuto”, cos’ definito, l’autore, perché cieco di un occhio e nativo di Racalmuto. Di un artista meno noto, Pietro Rendino, sono diciassette quadri aventi per soggetto dei paesaggi. Oltre i dipinti dei suddetti autori, è da sottolineare, infine, la presenza dei “Ventinove retratti de’Signori della casa”. III. Carlo Maria Carafa Carlo Maria Carafa Branciforti (fig.32) principe di Butera, nacque a Castelvetere (oggi Caulonia), in Calabria, il 22 febbraio 1651, da Fabrizio marchese di Castelvetere, principe della Roccella e del Sacro Romano Impero e da Agata Branciforti, figlia di Giovanni conte di 100


Mazzarino. L’Aldimari descrive la sua nascita con queste parole: In questa, Castelvetere hoggi, Metropoli de’ suoi Stati nel Regno di Napoli nella Calabria di là, nacque l’Eccellentissimo Signor Principe di Butera, e della Roccella, a’ 22. di Febraro ad hore sette, e minute 40 dell’anno 1651; E nel nascere, a’ giubili della sua Casa, corrisposero gli applausi del Cielo; Mentre quella, con sollennità indicibili, e con triplicate salve del Castello, e della Città, ne festeggiò il natale, e particolarmente, che dopò molte Lune, spuntò questo Sole sommamente desiderato da’ suoi; E questi con le salve di terribili tuoni, ch’in quel medesimo punto si sentirono con terrore, solennizzò la nascita d’un Grande, che ben dovea nell’attioni grandiose, essere un tuono de’ Principi.37

Politico, erudito, filosofo, scienziato, scrittore, umanista e mecenate, fu una figura emblematica di grandissimo spicco del XVII secolo. Dotato di grande intelligenza, fu educato da dotti precettori secondo le migliori abitudini delle grandi famiglie nobiliari; curò particolarmente gli studi di filosofia e matematica, ma ebbe grande dimestichezza anche con le lettere, le arti e gli studi religiosi. I suoi educatori vollero certo realizzare per lui un percorso formativo degno di un principe destinato a governare i suoi stati in un periodo storico in cui era ancora vivissimo l’interesse per gli studi classici, ma allo stesso tempo era altrettanto forte l’impegno della nobiltà cattolica nel sostenere lo sforzo controriformistico della Chiesa. Il Carafa rappresentò degnamente la famiglia Branciforti all’interno della nobiltà siciliana, rafforzandone il ruolo, grazie anche al grande prestigio personale di cui godeva e alle doti di moderazione e di saggezza. Fu proprio Carlo Maria Carafa Branciforti, ad invitare “il regio consigliere” Don Biagio Aldimari a scrivere una Historia genealogica della famiglia Carafa38. Nel 1671 gli morì il padre, per cui Carlo ereditò il principato di Roccella, il marchesato di Castelvetere, le contee della Grotteria e di Condoianne, le signorie di Bianco e Siderno, oltre a diversi casali. La causa della morte di Fabrizio Carafa39, fu l’ennesimo evento sfortunato che afflisse la nobile famiglia. Si narra, infatti, che il 13 marzo 1671, il principe di Roccella, nello scendere dalla sua carrozza per salire su quella del principe di Scilla don Francesco Maria Ruffo, pose un piede in fallo e si ruppe una gamba. Proprio in quei giorni, tra l’altro, fervevano i preparativi delle nozze del figlio maschio di don Fabrizio, Carlo Maria 101


Carafa con la cugina Isabella d’Avalos40, figlia dei marchesi di Pescara e Vasto. Era tutto pronto per le nozze, che dovevano essere celebrate a Procida ma, purtroppo, nei giorni seguenti, il Principe, fu colpito da una mortale cancrena. Il Principe Carlo Maria era l’unico erede maschio di Fabrizio, il quale, sposato ad Isabella non riuscì ad avere a sua volta un erede a cui lasciare le sue fortune, essendo l’unica figlia femmina morta in tenera età. Quando, nel 1674, scoppiò la rivolta a Messina41 il Carafa provvide subito a reclutare cinquecento uomini nei suoi feudi e ne curò l’armamento e l’addestramento. Formato così un reggimento, lo trasferì a Reggio, al comando di don Giuseppe d’Aragona, feudatario del principe, e ivi lo fece imbarcare sulle galee dei cavalieri di Malta affinché, agli ordini di suo zio Gregorio Carafa (fig.33) il priore della Roccella, raggiungesse Milazzo e si ponesse a disposizione del viceré di Sicilia, che da quella cittadina dirigeva le operazioni contro la città ribelle. Il contributo del Carafa, sulla scia dei successi riportati dai suoi uomini, fu integrato anche da donativi in contanti, approvvigionamenti, feluche armate e anche da due compagnie inviate di stanza a Reggio e ivi mantenute a sue spese. Queste erano tutte operazioni volte ad aumentare il prestigio del nome e suscitare l’ammirazione della Corona. Nello stesso tempo il principe inviò due compagnie di uomini bene armati a rafforzare la guarnigione di Reggio. Questi uomini e quelli inviati a Milazzo, stipendiati e approvvigionati di tutto punto a sue spese, si rivelarono di grande utilità contribuendo a mantenere attiva la difesa e sgravando l’erario di un onere non indifferente. Nel 1676 s’investì del principato di Butera, dei marchesati di Militello e Barrafranca, della contea di Mazzarino, delle terre di Occhiolà (Grammichele), delle signorie di Niscemi e di molti casali42. Nel 1678 si trasferì con la moglie definitivamente a Mazzarino per amministrare direttamente i suoi possedimenti. Il Carafa scelse Mazzarino, dove il palazzo dei Branciforti superava ogni altro per maestosità e bellezza artistica, per la sua terra generosa e fertile, e amabile nel costume dei suoi abitanti. Nel dicembre 1680 partecipò, come capo del braccio militare, al Parlamento convocato a Palermo dal viceré e vi diede prova di notevole senso di moderazione, in una questione di precedenza, tipicamente 102


secentesca, sollevata dall’arcivescovo di Palermo, capo del braccio ecclesiastico, che si rifiutò di rendere visita ai capi dei bracci militare e demaniale, come voleva la consuetudine. Il Branciforti, invece di irrigidirsi a costo di provocare l’aggiornamento dell’assemblea, preferì lasciar cadere l’affronto, riservandosi di ritornare sulla questione a Parlamento concluso. Nel 1681 presiedette il Parlamento siciliano, dove ebbe modo di dimostrare le proprie virtù, tanto da suscitare la stima e l’ammirazione di tutti i membri del Parlamento. Eletto deputato del Regno alla fine del Parlamento del 1680, nell’agosto del 1683 venne nominato “ambasciatore straordinario” presso Innocenzo XI (pontefice dal 1676 al 1689) per rendere al pontefice, in nome del re, il tradizionale omaggio della chinea; la fastosa cerimonia ebbe luogo il 2 febbraio dell’anno successivo. La chinea era una mula bianca da sella che ogni anno il re di Napoli regalava al papa in segno di vassallaggio.43 L’Aldimari descrive con minuzia di particolari la “solenne cavalcata” che si tenne a Roma nel febbraio del 1684, durante la quale il Carafa sfoggiò “uno sfarzo e una pompa da far sbalordire perfino la più cospicua nobiltà romana invitata alla cerimonia”44. Seguiva appresso l’Eccellentissimo Signor’ Ambasciadore, accompagnato da tutta la sua servitù, cioè da sedici Paggi, da trenta Staffieri, e dodici Lacchè, tutti con livree così ricche, che la Corte di Roma restò stupita in vedere con quanta liberà fosse stato profuso l’oro anco sopra i vestiti de’servidori più bassi. Li sedici Paggi erano tutti vestiti di velluto riccio lavorato sopra fondo d’argento con maniche grandi alla Spagnola tutte ricamate d’oro, e argento sopra a raso di color di rose. Li dodici Lacchè vestivano con calzoni larghi di velluto verde, e con un giuppino d’ormesino verde tutto coperto di ricami d’oro, e li calzoni erano anch’essi con una fascia ben larga di ricamo da piedi, e con altre quattro fasce simili dalla parte delle saccoccie, e oltre il detto ricamo erano così da capo, come da piedi guarniti tutti con una quantità infinita di fettucce di diversi colori rasate, e lavorate à opera, e portavano un cappello coperto da due grandissimi fiocchi delle fettucce medesime, e guarniti attorno con un gallone d’oro, e argento, e con cravatte, e manichetti di mezzo punto di Venetia, e di vantaggio haveva ognuno d’essi il suo Giustacuore di velluto simile parimente ricamato, fattogli da Sua Eccellenza per esser seguita la funtione d’Inverno, colle calzette di seta di color verde, e spadini dorati. Li Staffieri erano parimenti vestiti con livree di velluto simile, parimente ricamate d’oro con maniche larghe alla Spagnola, tutte ricoperte di ricamo d’oro, e con farrajoli di panno fino ricamati così nel bavaro, come ne’scudi,e cascate d’avanti, con collari, e manichetti guarniti di merletto di Fiandra, e dell’istessa forma erano l’altri vestiti de’ Cocchieri, e Famigli, tutti con calzette di seta, con spade, e pugnali

103


dorati, e con cappelli guarniti con fittuccia verde lavorata con oro. Solamente il Decano era vestito per maggior decoro di velluto nero liscio con ferrajolo di panno di Venetia soprafino, e con collaro, e manichetti di tutto punto. Dalla ricchezza grande de’vestiti de’Servidori, potrà V.S. illustrissima facilmente comprendere quella, con che comparve Sua Eccellenza in quel giorno, poiché non è facile à descriverla con parole. Il vestito era tutto una massa d’oro, di modo tale, ch’appena si conosceva sopra che drappo fosse ricamato, era bensì drappo di seta nero; e quello che era più notabile, e singolare, si vedeva tutto ricamato à fiori bellissimi con oro tirato senza seta; dell’istessa maniera era ricamata tutta la sella, e tutti li finimenti della medesima. La spada, il pugnale, le staffe, la briglia del cavallo e una quantità di chiodi, ch’essendo lavorati à foggia di rosette servivano per adornamento maggiore della sella, erano tutti in filigrana d’oro massiccio. La criniera dell’istesso cavallo era tutta composta con grandissimo artificio di merletto d’oro di punto di Spagna, piena di fiocchetti di fittuccia di color di ponzò, e arricchita da una quantità infinita di bottoncini d’oro al numero di trè mila, e fù una delle più ricche, e delle più superbe cose, che si poteva vedere. […] Verso le sedici ore del seguente giorno, si trasferì di nuovo Sua Eccellenza con tua la sua Famiglia al Palazzo Reale, continuando anco nella seguente giornata a rappresentare la figura dell’Ambasciadore Straordinario, comparve agl’occhi di Roma con una nuova, ma altrettanto ricca magnificenza, poiché non solo l’Eccellenza Sua, ma tutta la servitù s’ammiravano con altr’habito, e con altre livree di medesima ricchezza delle prime, ma altretanto più vaghe. Il vestito di Sua Eccellenza differiva solamente dal primo, che dopo quello era tutto ricamato d’oro,questo secondo era tutto ricamato d’argento, ma quello, che macò nella materia, superò notabilmente nella maestria del lavoro, che fu stimato così vago, e singolare, che v’è stata poca difficoltà di confessare, che la città di Napoli non solo pareggia, ma anco avanza tutte l’altre Città nella professione di ricamare divinamente. Li sedici Paggi comparvero con nuove maniche ricamate d’oro, e argento, che per distinguerli notabilmente, che non erano le prime, dove quelle erano ricamate sopra raso di color di rose, queste si vedevano ricamate sopra raso turchino. L’altre livree de’Staffieri, Lacchè, Cocchieri e Famigli, furono talmente diverse, poiché queste erano di scarlattina finissimo tutte guarnite con fasce ricchissime di broccato d’oro, e argento. Quelle de’dodici Lacchè risplendevano più di tutte, poiché havevano li gipponi tutti del sudetto brocato, e li calzoni alla Romana oltre a essere guarniti del medesimo broccato, erano di vantaggio arricchiti con quantità d’altre fittucce bellissime di color differente dalle altre prime; haveva parimenti ogn’uno d’essi il suo giustacuore della medesima qualità, e comparvero con nuovi cappelli guarniti con fiocchi grandi, e bizzarri di fettucce simili, con gallone attorno tutto d’argento, e con calzette di seta color cremisi. Li Cocchieri, Staffieri, e Famigli havevano solamente le maniche grandi, e le tracolle tutte del sudetto broccato, del resto li farraioli, e li vestiti erano del scarlattina, guarniti con fasce del colore medesimo, e questi parimente comparvero con cappelli con fiocchi di fettucce simili alla guarnitione, e con calzette di seta pure di color cremisi.45

104


La pomposità, lo sfarzo e la generosità dei mezzi con cui fu eseguita la consegna della Chinea suscitarono, indubbiamente e in ogni ambiente sociale dell’epoca, invidie e critiche in merito all’incoerenza della “presunta” umiltà tanto proclamata dal Carafa. Questi, per spiegare i motivi del suo comportamento, iniziò la stesura de L’Ambasciatore politico-cristiano46, libro che verrà successivamente pubblicato nel 1690. In esso, il principe, dimostra che il suo comportamento è stata una semplice testimonianza di coerenza con i propri principi. Lo scopo del Carafa era esclusivamente quello di dare maggior lustro al re, ponendosi come cornice di un dipinto che è l’oggetto più importante di un quadro e questo dipinto, questa tela, per lui, non era altri che il re. Dopo la missione a Roma si ritirò nei suoi feudi di Sicilia per dedicarsi agli studi di filosofia e matematica e alla meditazione religiosa e dare alle stampe diverse opere. Tra le sue opere quelle di maggior nota furono: Opere politiche-cristiane: Il Principe politico-cristiano (fig.34). L’Ambasciatore politico-cristiano47. Scrutinio politico contro la falsa ragion di stato48. L’intento esplicito del Carafa era quello di caratterizzare i suoi scritti come “cristiani”, quasi a voler prendere subito le distanze da chi scriveva di politica senza fare i conti con le esigenze della morale cristiana. Per tutto il ‘600 era infatti proseguito il dibattito sul rapporto tra politica e morale e tutti i trattatisti avevano dovuto confrontarsi da un lato con Machiavelli e dall’altro con le ragioni della morale in pieno clima di riforma cattolica. Carlo Maria Carafa scrisse manuali di precettistica “politico cristiana” con un occhio rivolto alla Spagna e agli interessi della nobiltà siciliana, e con l’altro alla morale cattolica. Egli ribadì l’identità tra morale e politica e subordinò questa a quella. Devotissimo alla Madonna, scrisse una Hebdomada Mariana49 per testimoniare questa sua filiale devozione alla Vergine; ma compilò anche altre due opere di carattere religioso che ebbero larga diffusione anche dopo la sua morte: L’Idiota volgarizzato50 e Il cammino sicuro del cielo (fig.35). Nonostante le critiche, la sua influenza politica rimase intatta tanto che nel Parlamento riunitosi a Palermo il 15 giugno 1690 venne eletto ancora una volta deputato del Regno. Nell’intento di riordinare amministrativamente le sue terre, emanò 105


due raccolte di leggi e ordinamenti: nel 1686, pubblicò gli Ordini, Pandette e Costitutioni (fig.36) per il territori siciliani, da osservarsi negli Stati di Butera, Mazzarino, Niscemi, Barrafranca, Occhiolà, Militello ecc.; nel 1692, per i territori calabresi. Carlo Maria Carafa appariva, infatti, un feudatario sui generis animato, per l’epoca, da un insolito ed elevato spirito umanitario diretto, in linea con la propria eclettica formazione intellettuale, alla materiale realizzazione del buongoverno dei propri feudi. Basti pensare che la stragrande maggioranza delle norme giuridiche dettate per il governo dei suoi Stati erano ispirate dalla esigenza di difendere i più deboli dagli abusi dei suoi amministratori, che spesso si muovono con assoluto arbitrio all’interno di generiche norme e in mancanza di effettivi controlli sul loro operato. Si pensi che tra le norme più significative emanate dal Carafa vi sono la difesa d’ufficio per i poveri, gli arresti domiciliari per i detenuti ammalati, il divieto di tortura per ottenere confessioni, l’obbligo di esercitare la giustizia con prudenza e moderazione, di motivare la sentenza, di rispettare il contraddittorio, di esprimere giudizi imparziali, di esercitare, insomma, la clemenza, che è la virtù dei forti quando debbono occuparsi dei più deboli. La contea di Mazzarino era uno dei più grandi possedimenti feudali della Sicilia del Seicento; Carlo Maria Carafa da essa traeva il potere e le ricchezze che gli consentivano di progettare e realizzare in grande i suoi progetti. Affascinato dal problema della proiezione delle ombre e dalla teoria della “architettura obliqua” di Juan Caramuel51, Carafa ristrutturò urbanisticamente la città di Mazzarino, facendola diventare una delle grandi capitali feudali della Sicilia. Durante la sua breve vita Carlo Maria Carafa realizzò molte opere architettoniche e diede alle stampe più di un libro. Nel 1684 fece ricostruire, ampliandola la Chiesa Madre di Butera. A Mazzarino l’opera del Carafa raggiunse livelli altissimi che ancora oggi manifestano l’estrosità e i gusti artistici posseduti, nonché la sua profonda religiosità. In un documento del 1680 avente per oggetto una Transazione a favore dell’eccellentissimo Principe di Butera e dalla Roccella Don Carlo Maria Carafa contro li Deputati del venerabile Cappellone del Glorioso Prothomartire S. Stefano52, vengono citati i beni mobili contenuti all’interno del palazzo di Mazzarino, tra i quali settantotto 106


dipinti con segnato a margine il relativo valore espresso in onze. Tra i quadri che andarono ad arricchire la quadreria di Mazzarino è da rilevare, inoltre, la peculiarità di quelli aventi per soggetto “un istrumento matematico di bronzo” e quei due “quadri di orologgi con cornici d’ebbano nere, in uno dei quali vi è un orologio dentro”. Tali dipinti erano evidentemente correlati agli interessi scientifici che il principe coltivava. Altrettanto degna di nota è la presenza, nell’inventario, dei dipinti che costituivano le scenografie del teatro annesso al palazzo. Il Carafa fece, inoltre, restaurare ed abbellire il Convento di S. Maria di Gesù e l’annessa Chiesa, di cui ne sono testimonianza lo stemma in marmo che signoreggia sull’ingresso del Convento e il suo ritratto ad olio (fig.37), nonché il suo desiderio di essere sepolto nella suddetta Chiesa. Nel 1694 fece costruire il Collegio e la Chiesa annessa dedicati a S. Ignazio da Loyola, ordinando nel suo testamento che nel collegio si impartisse l’insegnamento gratuito per tutti i cittadini, abbienti e non abbienti di discipline quali grammatica, retorica e filosofia. La monumentale opera, progettata da egli stesso, fu fatta eseguire, come risulta dalla iscrizione che trovasi sopra l’ingresso principale all’interno della chiesa, dopo una miracolosa guarigione del principe, in segno di gratitudine e devozione al Santo. Essa infatti dice: «Carlo Maria Carafa, il più benefico della nostra società e della sua, Principe di Butera, obbligatissimo al nostro fondatore, a un anno dalla riacquistata salute, eresse al fondatore, questa splendida chiesa»53. L’opera fu portata a termine solo ventitre anni dopo la sua morte. Nel suo testamento il Carafa ordinò che al Collegio fosse versato un vitalizio: Item lascio ed ordino che nella mia terra del Mazarino si faccia un collegio dé Padri Gesuiti per il cui effetto gli lascio scudi mille, e cinquecento per ogn’anno in perpetuo, questi si diano dal mio herede universale ogn’anno al Provinciale di detta compagnia affinché vada facendo la chiesa e la casa e dopo fatto vi possano andare a stanziare i PP. della compagnia con l’obbligo m’habbiano da dire due messe ogni giorno e fare l’anniversario in perpetuo per l’anima mia quale raccomando alla loro carità.54

Nello stesso anno istituì la Confraternita del SS. Sacramento, composta 107


da artigiani, ai quali concesse per le loro riunioni un locale annesso al Collegio. Nel suo testamento, infine, il Carafa dispose che venisse costruita la Chiesa Madre, per cui lasciava “scudi Mille per una volta tantum”. L’opera del principe, tuttavia, non si limitò ai soli edifici sacri, ma anche a quelli profani. Considerato singolare figura di principe illuminato, trasformò la città di Mazzarino in un centro culturale, arricchendo di opere d’arte il palazzo baronale costruito dai Branciforti che il marchese di Villabianca definì “degno invero di una Città Metropoli”. Annesso al palazzo baronale fece costruire un bel teatro che fu inaugurato nel 1694 con l’opera sacra: “L’innocenza esaltata, ovvero il Mardocheo sublimato di Don Ferdinando Leto e Grimaldo della città di Calaxibetta, rappresentata nel nuovo e famoso teatro eretto dall’Ecc.mo Sig. Principe di Butera e della Roccella dentro il palazzo della sua città del Mazzarino in Sicilia”, la quale opera fu stampata in Napoli, presso Giuseppe Rosselli nel 1694. Migliorò e rese più bello e artistico lo stesso palazzo, sua sede personale. Inoltre il Carafa istituì tre tipografie, dove fece stampare i suoi libri, attraverso i quali cercò di istruire, consigliare e suggerire un comportamento da cristiano autentico, non solo ai vassalli e all’umile gente, ma principalmente a chi possedeva un qualsiasi potere, come principi e nobili in genere. Tra i libri più famosi del Carafa stampati a Mazzarino se ne annoverano due di carattere scientifico-matematico: il Sistema spherae solaris (1688) e lo Exemplar Horologiorum Solarium Civilium55 (1689). Tutte queste varie esperienze culturali del Carafa non sono estravaganti e bizzarre, ma rispondono ad una sua precisa visione del mondo e della sua funzione di reggitore politico: una sistemazione scientifica del mondo abitato era, per Carlo Maria Carafa, principio ordinatore non soltanto della realtà fisica, ma, anche e soprattutto, di quella sociale. Un principio ordinatore e regolatore ispirava l’idea di una città a pianta esagonale che avesse al centro un “orologio solare”. Tra le opere più significative realizzate dal Carafa si colloca la ricostruzione di Grammichele (ai tempi Occhiolà), precedentemente distrutta dal terremoto dell’ 11 gennaio 1693. Occhiolà era feudo dei Branciforte, ai quali era pervenuto attraverso i Santapau. Il borgo venne ricostruito, in soli tre mesi, il 18 aprile 1693 non nel suo sito originario, avendo preferito il principe rifondare una nuova città nel 108


piano di San Michele, ma qualche chilometro più a sud. Nacque così “Magnus Michael”, Grammichele. Su disegno dello stesso Carafa, l’esecuzione dei lavori fu affidata al frate Michele La Ferla dei Minori Osservanti56, architetto di riconosciuta esperienza, il quale, prima della posa della prima pietra, tracciò lo schema viario principale che delimitava i sei “sestieri” della nuova città a pianta esagonale che si ampliava con il sistema di cinque borghi perimetrali, restando il sesto riservato alla residenza del principe (fig.38). Al centro dell’originale struttura esagonale, si collocava una grande piazza attraversata da sei strade che si staccano tutte al centro dei lati dell’esagono; al centro della piazza principale si ergeva una meridiana avente come gnomone una croce. La pianta della città (fig.39) definita ad exagonum risultava così divisa in sei spicchi uguali, che partendo da quello successivo alla Matrice, in senso orario si susseguono in sestieri: di San Michele, San Carlo, Santa Caterina, l’Annunziata, San Rocco, l’Angelo Custode. Fu il principe stesso a disegnare direttamente la pianta del nuovo centro, ispirandosi a una precisa visione culturale del problema. La pianta siffatta, infatti, prevedeva l’insediamento della popolazione superstite, ma altresì la futura espansione; non quindi un impianto statico, ma estremamente dinamico. Degno di nota è inoltre il fatto che il principe Carlo Maria Carafa aveva concepito Grammichele come una città del sole realizzando nel centro della piazza principale una grande Meridiana a forma di croce (fig.40). Carlo Maria Carafa ebbe un’altissima considerazione del suo ruolo di governante; tutte le esperienze della sua vita vanno lette alla luce di questa sua nobilissima funzione, che lo portò a riordinare la legislazione dei suoi Stati, a mettere ordine agli abusi dei suoi stessi funzionari che agivano senza scrupoli all’ombra del grandissimo potere che il regime del mero e misto imperio assegnava al Principe. Le innate doti di magnanimità ed esemplarità fecero di Carlo Maria Carafa un grande uomo e signore; è possibile capire meglio alcuni tratti della sua vita, mediante le sue opere ed alcuni disposti contenuti nel suo testamento, che tracciano un percorso filosofico dell’architettura e dell’urbanistica. Il 21 novembre 1690, Carlo Maria Carafa stese il primo testamento; data ritenuta importante perché dimostra la devozione del principe verso la Madonna, essendo tale data giorno della Presentazione di 109


Maria Vergine. In questa occasione, infatti, espresse il desiderio di essere sepolto nella Chiesa di S.Maria di Gesù. Morì circa cinque anni dopo, il primo giugno 1695. Per la profonda umiltà che lo caratterizzava decise di farsi seppellire nudo, con addosso solo un saio di quelli della limosina e per cuscino una pietra e posto in un tabbuto (cassa da morto) di rozza tavole e senza pompa alcuna, proibendo espressamente qualsiasi accompagnamento di persone nobili, o civili, ma voglio essere accompagnato da venti quattro pezzenti ai quali si daranno scudi cinque per ognuno.57

Sulla sua lapide funeraria (fig.41 A-B) vi è scritto: D. O. M. -Agnosce viator mortuum - quem vix craedideras fuisse - mortalem Carolus M. Carafa - hic est But.re Roc.ae et Sacr. Impery - Princeps Sic. Optimatum p. inter Hysp.ae Magnates ex primis sanguine pietate. - Editisq. Libris urbi orbique notis -Ad novenam vix dum lustra provectus, - meritis sat maturus: - terraeque supestes P. Juny - coelum occupavit An. 1695.58

Morto senza figli, l’unica nata gli era premorta, Carlo Maria Carafa lasciò tutti i suoi beni alla sorella Giulia, sposata col cugino Federico Carafa. Alla morte di Giulia Carafa, Nicolò Placido II Branciforti, terzo principe di Leonforte a partire dal 1697, divenne anche quarto principe di Butera, conte di Mazzarino e di Grassuliato, marchese di Militello e di Barrafranca: in lui si videro così riuniti tutti i domini della famiglia Branciforti.

110


Note al Capitolo II 1 Aldimari, Biagio, Historia Genealogica della Famiglia Carafa, Napoli, presso Bulison, 1691, vol: 1-3. 2 La Grandezza di Spagna, titolo che viene conferito al figlio del re e ai figli del principe delle Asturie, è la massima dignità nobiliare spagnola, immediatamente al di sotto dell’infante di Spagna. Tale carica fu istituita la prima volta da Carlo I (regnante dal 1519 al 1556), quando concesse il titolo di Grande di Spagna a ventisette capi di famiglia, distinguendolo dai titoli nobiliari dei Regni di Castiglia e d’Aragona. I grandi di Spagna sono considerati quali successori degli antichi nobili dei regni di Castiglia e di León così come della Corona d’Aragona e di Navarra. 3 Il viceré era organo di stato monarchico che indicava colui che governava, in rappresentanza del sovrano, una provincia, una colonia o, in generale, una parte del regno, detta vicereame. Sebbene il titolo possa far pensare a poteri quasi sovrani, non sempre era così: il viceré, infatti, spesso aveva un ruolo analogo a quello di un governatore e la differenza di titolo era solo onorifica; il re, infatti, manteneva sempre il pieno e integrale esercizio delle sue funzioni. 4 Vincenzo Di Giovanni (1550-1627) è stato uno storico italiano, e letterato siciliano, autore di vaste opere storiografiche sulla città di Palermo. 5 Di Giovanni, Vincenzo, Palermo restaurato,Palermo, Sellerio ed, 1989, pp. 201. 6 Intendasi il Regno di Sicilia, istituito nell’XI secolo dai normanni, precisamente nel 1130, da Ruggero II d’Altavilla (regnante dal 1130 al 1154), e durato fino all’inizio del XIX secolo in stati di più o meno larga indipendenza. 7 Locuzione latina medievale che indicava la delegazione dell’esercizio di tutti i poteri politico, amministrativo, fiscale, militare, giudiziario ad un feudatario. Si tratta della competenza, molto ambita e spesso comprata, di poter esercitare il potere giudicante non solo nelle cause civili, ma anche in quelle penali. 8 La carica dello strategoto risale all’epoca della dominazione bizantina in Sicilia e aveva carattere prettamente militare. Lo strategoto, insieme alla sua curia, aveva come compito principale quello di far eseguire le leggi, amministrare la giustizia e intervenire nell’elezione degli ufficiali della città (giurati, maestri di piazza, consoli del mare ed altri). Lo strategoto rimaneva in carica un anno. Il numero dei giudici della curia straticoziale, all’inizio oscillante fra 3 e 5, fu fissato a tre nel secolo XVI. La curia straticoziale era competente sia in materia civile che criminale: la sua giurisdizione comprendeva oltre al territorio di Messina, quello del distretto da Milazzo a Taormina. 9 Il deputato del Regno era una persona che veniva incaricata di eseguire un mandato in un’assemblea.

111


10 Fedecommesso (dal latino fideicommissum, derivato a sua volta da fides, “fiducia”, e committere, “affidare”), è un’istituto di diritto successorio che obbliga l’erede a trasmettere tutta o parte dell’eredità a un’altra persona (fidecommissario) dopo la morte dell’erede designato (istituito). Di origini romane, serviva soprattutto a favorire i minorenni o comunque i successori giuridicamente incapaci di ricevere e di conservare particolari beni all’interno della famiglia. Mantenutosi in età medievale, a partire dal XVI secolo tese a generalizzarsi fra i ceti dominanti fino a divenire una componente essenziale della società aristocratica di ancien régime. 11 I Moncada furono una famiglia nobile siciliana di origine catalana, possidente di vari feudi e titoli nobiliari, che si stabilì in Sicilia nel XIII secolo. La famiglia Moncada era d’origine antichissima e risaliva a Depisfero, figlio di Tessilone III (742-794) duca di Baviera, che attuò il cambiamento nel nome in Montecateno, volgarmente detto Moncada. La casata venne trapiantata sull’isola nel 1282 da Guglielmo Raimondo Moncada (1266-1325), che al servizio del re Pietro I d’Aragona (re di Sicilia dal 1282 al 1285) vi guerreggiò contro le truppe di Carlo d’Angiò (regnante dal 1266 al 1285). Guglielmo Raimondo divenne signore dell’isola di Malta che cedette al suo re Federico II (re di Sicilia dal 1198 al 1250) ottenendone in cambio Agosta ed il suo castello ed il territorio di Melilli. Tra gli altri esponenti di tale famiglia occorre ricordare: Guglielmo Raimondo II , (...-1348) primo Conte d’Agosta nel 1336 per concessione del re Federico II; Matteo I, (...-1378) Conte di Adernò, uomo illustre da ricordare perché raccolse varie cariche come quella di gran siniscalco, governatore del regno, vicario, capitan generale di alcuni possedimenti in Grecia e titolare della baronia di Pantano e signore della fiumara di S. Leonardo in Sicilia. Dall’unico tronco dei conti di Agosta e di Adernò, dal quale proviene l’attuale ramo dei principi di Paternò, si staccarono diversi rami e tra questi quello dei baroni di Calvaruso e di Monforte. Questi ultimi discendevano da Federico Moncada (15471611) barone di Tortoreto, di Monforte e di S. Petri. Tra i rappresentanti di questo ceppo si ricordano:Giuseppe, primo principe di Monforte nel 1628; Luigi Guglielmo Moncada, principe di Paternò, duca di Montalto, fu presidente del regno di Sicilia, dal 1635 al 1638, viceré di Sardegna nel 1647 e di Valenza nel 1657. Nel 1456, Guglielmo Raimondo V Moncada (1415-1466), conte di Adrano, acquistò la vicina cittadina di Paternò; nel 1565 il re Filippo II di Spagna (regnante dal 1556 al 1598) elevò il territorio a Principato. Il primo principe di Paternò fu Francesco I Moncada (1510-1566). Alla fine del XVI secolo i Moncada, già principi di Paternò, conti di Adrano e Caltanissetta, baroni di Melilli e Motto S.Anastasia, nel 1585 aggiunsero, con il matrimonio tra Francesco Moncada e Maria Aragona La Cerda, la baronia di Collesano alle Madonie, diventando così una delle famiglie più ricche della Sicilia. 12 I Tagliavia furono un’illustre e antica famiglia siciliana, di origine amalfitana, signori storici di Castelvetrano che ebbe in feudo il 18 gennaio 1299 grazie a concessione di Federico II (re di Sicilia dal 1198 al 1250). Capostipite fu Bartolomeo Tagliavia discendente di un Guido famoso capitano sotto l’imperatore Arrigo VI

112


(1165-1197). Nel 1491 si unirono alla famiglia degli Aragona, marchesi di Avola, legati alla famiglia reale Aragona di Spagna e di Sicilia. Il matrimonio di Giovan Vincenzo Tagliavia con Beatrice d’Aragona e Cruyllas è all’origine dell’unione fra i Tagliavia e i d’Aragona, signori d’Avola e Terranova (Gela). Tra gli esponenti di tale famiglia occorre ricordare: Giovanni Vincenzo, che nel 1538, ottenne concessione del titolo di conte di Castelvetrano e fu stratigoto di Messina negli anni 1521-22, 152627; Giovanni, reggente e capitan generale del Regno nel 1528; Bartolo deputato del Regno nell’anno 1594; Carlo, principe di Castelvetrano, deputato del Regno nell’anno 1599, capitan generale della cavalleria siciliana e cavaliere del Toson d’oro. 13 I Barresi furono una nobile famiglia originaria della Normandia e venuta in Sicilia con Abbo Barresi a seguito del conte Ruggiero il Normanno (1095-1154). Godette nobiltà in Palermo ed in Messina dal secolo XI al XVII. Tra gli esponenti di tale famiglia occorre ricordare: Ruggero Barresi, milite, castellano del castello di Caltanissetta; Abbo Barresi, che possedette il feudo di Militello Val di Noto, feudo innalzato in marchesato nel 1565 da Vincenzo Barresi (1550-1567), passato in seguito a Carlo il quale ebbe un’unica figlia, Caterina, che sposò Fabrizio Branciforte e Barrese, principe di Pietraperzia, nella famiglia del quale passò il detto titolo. Epoca aurea per Pietraperzia si può considerare il XVI secolo quando i Barresi assursero prima alla dignità di marchesi con Matteo III Barresi, il fondatore di Barrafranca (1529), e poi di principi con Pietro Barresi (1564). La sorella di Pietro, Dorotea Barresi, una delle donne politicamente più potenti della Sicilia, fu viceregina di Napoli avendo sposato in terze nozze il viceré di Napoli, Giovanni Zunica. Con Pietro e Dorotea si estinse la dinastia dei Barresi, come signori di Pietraperzia, e subentrò quella dei Branciforte. 14 I Santapau furono una nobile famiglia originaria dalla Spagna e giunta in Sicilia nel XIII secolo con i fratelli Ugone e Ponzio di Santapau sotto il re Pietro I d’Araragona (regnante dal 1094 al 1104). Tale famiglia godette nobiltà a Caltagirone e a Messina, e possedette il principato di Butera, il marchesato di Licodia, le baronie di Alia, Belmonte, Biviere di Lentini, Bracaleci, Falconara, Licodia, Mangaliviti, Mendola e Torretta, Occhialà, Palazzolo, Radali. Ugo Santapau nel 1393 ebbe concesso da re Martino il Giovane (re di Sicilia dal 1392 al 1409) la terra e castello di Licodia che, essendo lui morto senza figli, venne dallo stesso re concesso al fratello Calcerando nel 1399. I maggiori esponenti della famiglia Santapau furono: Raimondo, barone di Licodia e di Butera, che fu presidente e capitan generale del Regno dal 1485 al 1488; Ponzio, marchese di Licodia, che fu deputato del regno nel 1522, strategoto di Messina nel 1529-30, presidente e capitan generale del Regno dal 1516 al 1540; Francesco, principe di Butera, che fu cavaliere del Toson d’oro e strategoto di Messina nel 1567. 15 Campanella, Tommaso, La Città del Sole, Civitas Solis idea reipublicae philosophica, presso G. Tampachius, Francoforte, 1632. 16 Il Concilio di Trento fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, aperto

113


da papa Paolo III (pontefice dal 1534 al 1549) nel 1545 e chiuso, dopo numerose interruzioni, nel 1563. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante). L’assemblea fu convocata la prima volta nel 1537 a Mantova e una seconda volta a Trento nel 1542, dove i padri conciliari riuscirono finalmente a riunirsi solo nel dicembre 1545. La scelta di queste precisa sede, al confine tra l’Italia e l’Impero, fu fatta proprio per sottolineare la volontà di trovare un compromesso con il mondo riformato. I contrasti tra il papa e l’imperatore Carlo V (regnante dal 1519 al 1556) bloccarono, tuttavia, i lavori dell’assemblea, che fu spostata da Trento a Bologna nel 1547 per volere di Paolo III e infine sospesa nel 1549 in seguito alle proteste imperiali. Nel 1551 il Concilio fu riconvocato a Trento da Giulio III (pontefice dal 1550 al 1555), ma l’anno dopo fu nuovamente interrotto a causa di altre guerre. Durante il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-59) esso subì una battuta d’arresto e si assistette a una svolta autoritaria della Chiesa di Roma con l’intensificarsi dei processi inquisitoriali e del controllo sulla circolazione dei libri. Il Concilio si concluse solo nel 1562-63 con l’elezione a pontefice di Pio IV (1559-65). Le due correnti che si scontrarono nel Concilio e che finirono poi per convergere furono quella che tendeva a porre in primo piano le riforme morali e disciplinari e quella che tendeva ad accantonare questi problemi, lasciandoli all’autorità del pontefice, per dare al Concilio la funzione esclusiva di pronunciare una condanna contro le dottrine protestanti. Il Concilio dette una nuova fisionomia alla Chiesa: ribadì la superiorità dei pontefici sui concili, riaffermò il magistero vincolante della storia del papato romano e il valore assoluto della tradizione patristica e conciliare; furono confermati il numero dei sacramenti e la loro efficacia; l’interpretazione delle Sacre Scritture fu riconosciuta come la sola valida, contro la teoria del loro esame. 17 Il Consiglio Collaterale fu il più importante organo politico e giurisdizionale del vicereame di Napoli. Istituito nel 1516 quando il Regno di Napoli fu conquistato da Ferdinando il Cattolico (regnante dal 1452 al 1516), sostituiva le antiche funzioni giuridiche della corte partenopea con un consiglio composto dal viceré e da cinque giuristi, spagnoli e napoletani. Nel Collaterale erano cumulate funzioni di Cancelleria, funzioni legislative e funzioni amministrative, come nomine di ufficiali e di giurisdizione. Il Consiglio Collaterale fu abolito da Carlo III di Borbone (regnante dal 1759 al 1788) nel 1735, e sostituito dalla Real Camera di Santa Chiara. 18 L’Ordine del Toson d’oro è uno degli ordini cavallereschi più antichi ed illustri, fu istituito il 10 gennaio 1430 da Filippo III di Borgogna (1419-1467) a Bruges per celebrare il proprio matrimonio con la principessa portoghese Isabella d’Aviz( Infanta del Portogallo dal 1430 al 1467), e con il compito di diffondere la religione cattolica. L’Ordine del Toson d’Oro venne modellato sull’esempio dell’Ordine della Giarrettiera inglese, ma venne dedicato a Sant’Andrea, che ancora oggi è il patrono supremo dell’Ordine. Come l’Ordine della Giarrettiera, esso si distinse per avere un numero limitato di cavalieri che potevano ricevere l’onorificenza che inizialmente erano ventiquattro, passati già a trenta nel 1433 e divenuti cinquanta nel 1516.

114


19 Gli Aragona furono una famiglia nobile originaria della casa reale d’Aragona che possedette un gran numero di feudi e baronie, come quello di Novara concesso nel 1364 a Vinciguerra Aragona gran cancelliere del regno, quelli di Ficarra, Raccuglia, Librizzi o Villanova concessi nel 1391 a Bartolomeo d’Aragona, quello di Crapani concesso nel 1396 a Ludovico d’Aragona maestro razionale del regno, i marchesati di Randazzo, Castiglione e Francavilla concessi al duca Giovanni d’Aragona, vicario del regno come tutore del re Ludovico, ed altri. Nel 1398 Giovanni d’Aragona ebbe da re Martino (regnante dal 1392 al 1409) confermata la baronia d’Avola; alla sua morte gli succedette il figlio primogenito Pietro, il quale ottenne, nel 1419, dai viceré di Sicilia la conferma della baronia d’Avola. Altri esponenti della famiglia degni di nota furono: Ludovico, maestro razionale del regno nel 1397 e Antonio strategoto di Messina nel 1448. In Sicilia gli Aragona si unirono in matrimonio a casati molto influenti quali i Peralta, i Chiaramonte, i Lanza, i Tagliavia, i Caetani. 20 I Ventimiglia furono una linea di discendenza siciliana di un lignaggio ligure, di probabile origine franca, molto potente e influente nella storia culturale, politica ed economica dell’isola e non solo dal XIII secolo al XIX secolo. Secondo alcuni, Ventimiglia presero il nome dalla città ligure di Ventimiglia della quale però non erano i conti, ma detenevano soltanto piccole quote signorili in condominio con i cugini del ramo principale, cioè i Lascaris, detentori della contea di Ventimiglia in qualità di ramo primo genitale; secondo altri pare che discendessero in linea retta mascolina dai principi Normanni dominatori di Sicilia. Il primo a passare in Sicilia fu Guglielmo, conte di Ventimiglia, nel 1242, padre di Enrico che, per ragion di dote, fu in Sicilia, il primo conte di Geraci, possedette le due Petralie, fu viceré di Napoli e morì nel 1265 col grado di capitan generale d’esercito di re Manfredi (regnante dal 1258 al 1266). I Ventimiglia in Sicilia dettero vita a due lignaggi principali: quello dei conti-marchesi di Geraci (principi di Castelbuono dal 1595, poi principi del Sacro Romano Impero, di Belmonte, Grammonte, Scaletta, Belmontino, Villadorata, Ventimiglia di Sicilia) e quello dei del Bosco Ventimiglia, conti di Alcamo e Vicari, duchi di Misilmeri, baroni di Prizzi e Siculiana, cavalieri del Toson d’Oro, nonché principi di Cattolica dal 1620. Laura del Bosco Ventimiglia (1610-1664), fu principessa del Sacro Romano Impero, marchesa di Castiglione delle Stiviere e Medole, come moglie di Luigi I Gonzaga (1611-1636), reggendo brevemente lo stato nel 1636, alla morte del marito. 21 I de La Cerda furono una nobile famiglia spagnola, discendenti di Ferdinando de la Cerda (1255-1275), erede del regno e reggente di Castiglia e León, furono diseredati e scavalcati nella successione al trono dallo zio Sancho IV di Castiglia (regnante dal 1284 al 1295). Il soprannome “de la Cerda” di Ferdinando derivava dal fatto di esser nato con del pelo nel petto, simile a delle setole di maiale, che in spagnolo si dice de la cerda. Il suo soprannome fu assunto come cognome dai suoi discendenti. Esponenti della famiglia in Sicilia furono: Juan de la Cerda (1514-1575) Viceré di Sicilia dal 1557 al 1564 e IV duca di Medinaceli; María de la Cerda (1542-1575), che sposò Antonio Moncada d’Aragona, quarto duca di Montalto e Conte di Sclafani e da questi ebbe Luigi Moncada Aragona e La Cerda, duca di Montalto, duca di Bivona, Principe

115


di Paternò, conte di Caltanissetta, di Sclafani, Collesano, Adernò, Caltabellotta, Centorbi, barone di Melilli, di Bilici, marchese di Los Velez, Molina e Martorel e altre terre nel principato di Catalogna e titolare di numerosissimi altri titoli in Spagna. 22 L’infante Don Giovanni d’Austria (1547-1578) fu un condottiero e diplomatico spagnolo. Figlio illegittimo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (regnante dal 1519 al 1566) e di Barbara di Baviera, Giovanni è ricordato per la sua carriera militare che lo vide al comando della flotta della Lega Santa con la quale sconfisse gli Ottomani nella battaglia di Lepanto del 1571. Seguendo l’ultimo volere del padre, il re Filippo II(regnante dal 1556 al 1598)riconobbe Giovanni come suo fratellastro, e gli diede una rendita ma non gli diede mai il titolo di Infante, e a corte veniva solo chiamato “eccellenza”.Il suo primo incarico fu nel 1568 contro i Pirati barbareschi, il cui successo gli permise una rapida ascesa al comando delle forze spagnole contro la rivolta dei Moriscos a Granada, che represse entro il 1571. Nel 1574 Giovanni divenne luogotenente generale d’Italia, fino al 1576, anno in cui ebbe la nomina a governatore e capitano generale delle Fiandre. 23 La battaglia di Lepanto fu uno storico scontro navale avvenuto il 7 ottobre 1571, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, nel corso della guerra di Cipro (1570-1573), tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa che riuniva le forze navali della Repubblica di Venezia, dell’Impero Spagnolo (con il Regno di Napoli e di Sicilia), dello Stato pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del Ducato d’Urbino federate sotto le insegne pontificie. La battaglia si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d’Austria, su quelle ottomane di Müezzinzade Alì Pascià, che perse la vita nello scontro. Il casus belli era stato l’attacco turco a Cipro (possedimento veneziano) l’anno precedente. La vittoria cristiana segnò l’inizio della decadenza marittima ottomana. 24 L’agnazione (dal latino agnasci, che significa propriamente “nascer vicino”) è un vincolo di parentela civile, basato sulla patria potestà, che indica in diritto romano il vincolo esistente tra le persone attualmente soggette alla patria potestà di uno stesso pater familias, o che vi sarebbero soggette per nascita o adozione se il pater familias non fosse morto. Nell’agnazione, la prossimità si calcola in base al numero dei gradi, seguendo una scala che mette capo all’ascendente comune, ed in cui ogni grado è occupato da una generazione. 25 Con il termine Contratto di soggiogazione si intende la costituzione di rendite perpetue gravanti su un dato patrimonio che non comporta l’obbligo della restituzione del denaro ottenuto. 26 Filippo Caruso, Francesco Branciforte Barresi e le due principesse d’Austia, citato in Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale - Catania, Archivio storico per la Sicilia

116


Orientale,Catania, Officina tipografica Giannotta, Anno XIII, Fascicolo I-II, 1916. 27 Idem. 28 Tela sottilissima, finissima, delicata e preziosa fatta col lino, proveniente dall’India e dall’Egitto e diffusa nel mondo mediterraneo dai Fenici. Ricavata dall’omonima, ciocca di pelo di seta che si trova aderente alla pinna marina, il bisso era una bella specie di tela tinta frequentemente di color porporino. Le fonti bibliografiche attestano come talvolta il bisso marino venisse filato insieme ad altri materiali quali cotone, lino o seta. Tale consuetudine era dettata non solo da ragioni economiche ma anche da ragioni di ordine pratico, al fine dunque di conferire maggiore corposità e resistenza al manufatto, che però veniva decurtato della lucentezza, caratteristica intrinseca dei capi in bisso marino. 29 Archivio di stato di Palermo (ASP), Archivio storico di Trabia, busta 94, fg. 442s, citato in Zaffuto Rovello Rosanna, Vitellaro Antonio, Cumbo Giacomo, Signori e Corti nel cuore della Sicilia, Catania, Fondazione Culturale “Salvatore Sciascia”, 1995. 30 Luigi Guglielmo I Moncada (1614-1672), figlio secondogenito di Antonio d’Aragona Moncada (1589-1631) e della nobildonna spagnola Giovanna de La Cerda, è stato un politico, militare e cardinale italiano. Fu V principe di Paternò, VII duca di Montalto, II duca di San Giovanni, V duca di Bivona, conte di Caltanissetta, Collesano, Adernò, Sclafani, Caltabellotta e Centorbi, barone di Melilli, di Motta Sant’Anastasia, di Belice, di San Bartolomeo e di Malpasso. Sposò in prime nozze nel 1629 la duchessa Maria Afan de Ribera, figlia di Fernando Henriquez de Ribera (1583-1637), duca di Alcalà. Rimasto vedovo dieci anni più tardi, nel 1642 sposò in seconde nozze Caterina Moncada de Castro, dalla quale ebbe un figlio, Ferdinando (1644-1713) . Investito a principe di Paternò nel 1627, fu presidente del regno dal 1635 al 1637, viceré in Sardegna dal 1638 al 1649 e viceré del regno di Valencia dal 1652 al 1659. Ebbe anche alcuni prestigiosi incarichi militari, come quelli di generale della cavalleria del Regno di Napoli e di capitano generale in Sicilia. Nel 1667 fu creato cardinale. 31 Archivio di Stato Palermo, Archivio storico di Trabia, Busta 94, fgg. 288-471. 32 Archivio di Stato di Palermo (ASP), Fondo Trabia, Serie I, vol. 440, fascicolo: I, 1625-1736, cc. 17r-28r, citato in D’Amico, Elvira, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Caltanissetta, Salvatore Sciascia ed., 2001. 33 Mathias Stomer, o Stom (1600-1650), è stato un pittore olandese, tra i più straordinari interprete del tardo caravaggismo europeo, uno dei più importanti pittori dell’area dei Paesi Bassi che visitarono la Sicilia nel Seicento stabilendovisi per un lasso di tempo e lasciandovi opere significative che influirono non poco sull’arte locale. Stomer si formò tra le Fiandre e l’Olanda nell’ambito di una cultura di

117


passaggio tra il tardo manierismo e la grande rivoluzione naturalistica determinata dall’impatto degli artisti nordici con la pittura avanguardistica del Caravaggio. Egli approdò in Sicilia, dove soggiornò all’incirca nel decennio 1640-1650, legandosi alla più vecchia aristocrazia dei conti di Mazzarino, dei principi di Villafranca e degli Afflitto di Belmonte. in Sicilia, dove successivamente lavorerà fino alla sua morte, lasciò diversi lavori in cui predomina un forte contrasto luminoso, come scene notturne illuminate da torce e candele. 34 Archivio di Stato di Palermo (ASP), Fondo Trabia, Serie I, vol. 440, fascicolo: I, 1625-1736, c. 24 v, citato in D’Amico, Elvira, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Caltanissetta, Salvatore Sciascia ed., 2001. 35 Guilliam Walschartz (1612-1666), pittore francese del XVI secolo attivo a Liegi e a Palermo. 36 Pietro D’Asaro (1579-1647), pittore di scuola tardo manierista centromeridionale, fu detto il Monocolo, l’Orbo di Racalmuto (egli stesso si firmava Mono-colus Racalmutensis). All’incirca negli anni tra il 1613 e il 1618 si collocano una serie di dipinti di genere del D’Asaro con soggetti allegorico-biblici caratterizzati da un vivo interesse per la raffigurazione di animali e di nature morte e dalla deformazione espressionistica, quasi caricaturale, delle figure. 37 Fuda, Roberto, I Carafa in Calabria: dai primi feudi al principato,Gioiosa Jonica, CORAB ed., 2000. 38 Aldimari, Biagio, Historia Genealogica della Famiglia Carafa, Napoli, presso Bulison, 1691, vol: 1-3. 39 Fabrizio Carafa, appartenente al ramo dei Carafa della Spina, nacque in data imprecisata da Girolamo (1564-1633), conte di Grotteria e marchese di Castelvetere, e da Livia Spinelli. Nell’anno 1570 successe al padre nei domini feudali calabresi. Nel 1589, il Carafa ottenne il privilegio di poter riedificare i casali di Santa Maria della Grazia e di Campoli e nel 1591 fondò il casale di Fabrizia nel territorio di Siderno. Sposò Giulia Tagliavia d’Aragona, dei principi di Castelvetrano,da cui ebbe nove figli. Il 24 marzo 1594 ottenne da Filippo II (regnante dal 1556 al 1598) il titolo di principe sul feudo di Roccella; nel 1622 fu investito del titolo di principe del Sacro Romano Impero dall’imperatore Ferdinando II d’Asburgo (regnante dal 1619 al 1637); nello stesso anno ricevette da Filippo IV (re di Spagna dal 1621 al 1665) l’Ordine del Toson d’oro. 40 I D’Avalos rappresentarono una delle famiglie più importanti del Regno di Napoli, arrivati dalla Castiglia (Spagna) nella penisola italiana con i fratelli Inigo, Alfonso e Rodrigo al seguito di Alfonso V d’Aragona (regnante dal 1416 al 1458). I membri della famiglia, fedeli ad ogni dinastia reale succedutasi sul trono di Napoli, si distinsero per il loro valore militare e politico. Innico I d’Avalos, nel 1449, ottenne

118


da Alfonso d’Aragona la contea di Monteodorisio e il marchesato di Pescara avendo sposato l’ereditiera Antonella d’Aquino. Loro figlio Innico II d’Avalos, nel 1497, divenne primo marchese del Vasto. Il figlio di Innico II, Alfonso III d’Avalos (15021546) ottenne, nel 1531, il titolo di Cavaliere del Toson d’Oro e fu governatore di Milano nel 1538. Altro importante esponente della famiglia fu Ferdinando Francesco d’Avalos (1489-1525), detto Ferrante, marchese di Pescara, conte di Loreto e Castellano dell’isola di Ischia, che nel 1509 sposò Vittoria Colonna (1490-1547), figlia di Fabrizio e Agnese di Montefeltre. Ferrante, valente combattente, prese parte nel 1512 alla battaglia di Ravenna contro i Francesi; nel 1513 partecipò alla campagna di Lombardia conquistando Voghera; nello stesso anno, nella battaglia di Vicenza, mise in fuga i Veneziani. Nel 1521 assediò e conquistò Milano, Como, Lodi e Genova. Cesare Michelangelo d’Avalos (1667-1729), marchese del Vasto e di Pescara, ottenne, nel 1704, da Leopoldo I d’Asburgo (regnante dal 1658 al 1705) il titolo di principe del Sacro Romano Impero e il diritto di battere moneta. 41 La rivolta antispagnola di Messina fu la più importante delle ribellioni scatenatesi in seno alla monarchia spagnola nella seconda metà del XVII secolo che coinvolse la città siciliana dal 1674 al 1678 e vide contrapporsi il partito popolare detto dei Merri (merli), democratici, contro la fazione patrizia dominante, dei Malvizi (tordi), aristocratici. Messina non potendo sostenere da sola la contrapposizione spagnola, chiese la protezione del re francese Luigi XIV, riuscendo così a mantenersi indipendente dall’impero spagnolo, anche se con gravissime difficoltà. Nel 1678, con la firma della pace di Nimega tra Francia e Spagna, la città fu abbandonata a sé stessa dai Francesi e subì una crudele riconquista spagnola. Rioccupata, Messina fu dichiara morta civilmente e privata di tutti i privilegi storici goduti in precedenza.

42 I casali siciliani, e i suoi corrispondenti arabi rahal e manzi, designavano dei

villaggi aperti, non difesi, isolati, ovvero sia una varietà di tipologia insediativa relativamente sfumata ma generalmente caratterizzata dalla struttura accentrata e dalla mancanza di mura o altri elementi di fortificazione. La maggior parte dei casali riportava, infatti, forme toponomastiche antropizzate risalenti al momento musulmano della presenza araba nell’isola ed escludenti una fondazione in epoca normanna. Il casale poteva essere collocato, di frequente, sui dossi, i promontori limitati dai valloni o lungo i crinali dei colli, riflettendo un’organizzazione del territorio condizionata da esigenze di sopravvivenza e difesa. Esso costituiva un piccolo nucleo economico composto di più fondi di natura e cultura diversi, situati nella medesima località, con le loro pertinenze, con una o più case per le fabbriche o edifici necessari all’azienda rurale assegnati ad una o più famiglie di coltivatori. È probabile che queste costruzioni rurali fossero realizzate con pietre a secco e tetti di canna e paglia, senza malta ma con un impasto di terra argillosa e calce. Le dimensioni dell’insediamento variavano: da quelle esigue, come luoghi abitati da una sola famiglia di coltivatori, alle unità abitative di oltre cento villani e una media di trenta nuclei familiari. Il valore intermedio era comunque modesto, attestandosi sulla decina di famiglie per casale. Il casale era subordinato giuridicamente ad un centro eminente, circondato da mura, fortificato e

119


talvolta munito di castello, a cui era legato da vincoli amministrativi e giudiziari. Ciò che caratterizzava il casale siciliano erano dunque lo statuto giuridicamente inferiore e la posizione topografica in siti collinari aperti, al massimo cinti da fossati. 43 L’uso risaliva a Carlo d’Angiò (regnante dal 1266 al 1285), che per ottenere il regno di Manfredi di Svevia (regnante dal 1258 al 1266) si impegnò a un censo annuo di otto mila once d’oro e al dono della chinea nella festa dei SS. Pietro e Paolo il 29 giugno. L’usanza durò fino al 1788, quando Domenico Caracciolo (1715-1789) dispose l’offerta del solo censo. Nel 1855 Ferdinando II (regnante dal 1830 al 1859) fu esonerato da ogni omaggio e tributo, dietro il versamento a Pio IX (pontefice dal 1846 al 1878) di dieci mila scudi, destinati al monumento all’Immacolata da costruirsi a Roma. 44 Aldimari, Biagio, Historia Genealogica della Famiglia Carafa, Napoli, presso Bulison, 1691, vol: I, pag. 477.

45 Aldimari, Biagio, Historia genealogica della famiglia Carafa, Napoli, presso Bulison, 1691, libro I, pp. 477-501.

46 Carafa, Carlo Maria, L’Ambasciatore politico-cristiano, Mazzarino, presso Giovanni Van Berghe Fiamengo, 1690. 47 Idem, Opere Politiche-Christiane:il Principe politico-cristiano, cioè istruzione cristiana per i principi e regnanti, Mazzarino, presso Giovanni Van Berghe Fiamengo, 1692, volume I:Il Principe istrutto. 48 Idem, Opere Politiche-Christiane: Scrutinio politico contro la falsa ragion di stato di Niccolò Machiavelli, Mazzarino, presso Giovanni Vanberghe, Fiamengo, 1692, volume III. 49 Idem, Hebdomada Mariana sive meditationes et preces ad beatissimam semper virginem Mariam septem doloribus transfixam in singulos hebdomadae dies distinctas..., Mazzarino, presso G. La Barbera, 1688. 50 Idem, L’idiota volgarizzato, Mazzarino, presso G. La Barbera, 1688. 51 Juan Caramuel y Lobkowitz (1606-1682) è stato un vescovo cattolico e matematico spagnolo, monaco cistercense, gentiluomo, dotto e avventuriero, matematico e politico, probabilista e architetto, tra gli inventori del sistema binario e dei caratteri mobili nel mondo della stampa, filosofo, grafico, tipografo, editore, grande scrittore ed erudito del Seicento. Fu il primo e massimo teorico della cosiddetta “architettura obliqua”, cioè quella in cui la formalizzazione della membratura classicista di una costruzione segue, al di sotto dell’ornamento degli ordini, la struttura soggiacente, anche se questa non è retta. Di conseguenza, le forme classiche si inclinano e declinano e, se si segue una traiettoria centrifuga, in presenza di strutture circolari, ovali o ellittiche, contro declinano.

120


52 Archivio di Stato di Palermo (ASP), Fondo Trabia, Serie I, vol. 440, fascicolo: III, 1680-1862, cc. s. n., citato in D’Amico, Elvira, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Caltanissetta, Salvatore Sciascia ed., 2001. 53 La lapide porta la data 1718.

54 Archivio di Stato di Palermo (ASP), Testamento di Carlo Carafa e Branciforte principe di Butera e della Roccella, ff. 179-200, citato in Mannella, Saverio, I Carmelitani a Mazzarino e i principi Giuseppe Branciforti e Carlo Maria Carafa, Caltanissetta. Edizioni Lussografica, 2010.

55 Carafa, Carlo Maria, Exemplar Horologium Solarium Civilium, Mazzarino, presso G. La Barbera, 1689. 56 L’Ordine dei Frati Minori Osservanti, istituto religioso maschile di diritto pontificio, è un Ordine mendicante fondato da San Francesco d’Assisi e ora formato dalle tre famiglie dei Frati Minori (Ordo fratrum minorum), dei Frati Minori Conventuali (Ordo fratrum minorum conventualium) e dei Frati Minori Cappuccini (Ordo fratrum minorum capucinorum). L’ordine deriva da quei gruppi sorti all’interno del primitivo ordine francescano subito dopo la morte del fondatore e caratterizzati dall’aspirazione a una vita più ritirata e da un più rigoroso controllo sull’uso dei beni, entrati in conflitto con i frati che accettavano il possesso comunitario dei beni. 57 Archivio di Stato Palermo, Sez. Microf. Protonorato del Regno, Busta 1634, Appendice VI. 58 A Dio ottimo massimo. O viandante, colui che è qui morto, e che a stento avresti creduto fosse un mortale, è Carlo Maria Carafa, principe di Butera, di Roccella e del Sacro Impero. Primo dei nobili di Sicilia e dei Grandi di Spagna; tra i primi per origine, religiosità e per i libri pubblicati e noti a Roma e nel mondo. Appena avviato verso i nove lustri, abbastanza maturo per i meriti e superstite alla terra, occupò un posto in cielo, il primo di giugno dell’anno 1695.(t.d.a.)

121


fig.23

fig.24

fig.25

fig.26

122


fig.27

fig.28

123


fig.29 A

124


fig.29 B

125


fig.30

fig.31

fig.32

fig.33 126


fig.34

fig.35

fig.36

fig.37

127


fig.38

fig.39

fig.40

128


fig.41 A

fig.41 B

129



Capitolo III MODA, SOCIETÀ E CULTURA NELL’EUROPA DEL GRAND SIÈCLE

L’Europa: La moda nella prima metà del Seicento (1610-1643) Se si pensa al ‘600, inevitabilmente, ci si riferisce all’esuberanza dello stile Barocco di netta impronta francese, anche se, prima che nei territori d’oltralpe, quel gusto era già maturato in Italia. Nel primo decennio del secolo si rimase fedeli alla severità spagnola, che si esprimeva, ad esempio, nella predilezione delle vesti scure, quali in nero1.Tenendo conto dell’ambito iconografico e ritrattistico tra Quattrocento e Seicento, si potrebbe riscontrare una predilezione per le vesti scure. Baldesar Castiglione ne Il Cortegiano2 sostiene tale tesi. Tale affermazione, tuttavia, deve essere contestualizzata e rivista alla base dei singoli casi, personali, quali l’età, il credo, il retaggio, la cultura e i casi di lutti, o non, quali motivazioni strettamente legate alle pratiche tintorie e alle esigenze derivanti dalle dinamiche di mercato. Michael Pastoureau nel suo libro Nero. Storia di un colore3 collega l’uso del colore nero al carattere di”stabilità” della tecnica tintoria. Il nero, infatti, per sua natura instabile e “corrosivo” nella pratica tintoria, era associato allo stato di instabilità emozionale e squilibrio sociale che pervadeva gli animi in caso di morte di una persona cara. Nel caso di epidemie, quando la morte colpiva un’intera comunità, il mercato tessile rispondeva incrementando la produzione di stoffe scure. Tenendo conto delle testimonianze riguardo le guardaroba delle aristocrazie europee tra XVI e XVII secolo, si evince come le vesti e 131


i drappi non possano essere ricondotti esclusivamente a questa chiave interpretativa, bensì essi abbracciano una gamma di colori e tinture molto più ampia di quelle che si può evincere dalla ritrattistica del tempo. Quindi accanto alle vesti di colore nero, ve ne erano altre di colore rosso, scarlatto, verde, lionato, oro. Con l’avvento del ‘600 si assistette a un sovvertimento degli ordini politici all’interno dell’Europa e al consecutivo riformarsi del sistema vestimentario. Francia e Olanda saranno in grado di esercitare una durevole influenza su tutta l’Europa, proponendo nuove fogge di abbigliamento, mentre Italia e Spagna perderanno progressivamente la loro supremazia, ostinandosi in un primo momento al mantenimento delle rigide forme dell’abbigliamento precedente. Al principio del ‘600, infatti, si riecheggiavano ancora le mode cinquecentesche, tanto che la donna era ancora irrigidita nelle chiuse vesti un po’ scampanate e aveva il collo imprigionato dalla gorgiera inamidata, che separava la testa dal resto del corpo; e l’uomo, rispettivamente, era rinserrato nei giubboni imbottiti e nelle braghe rigonfie. La linea rigida, di derivazione cinquecentesca, era riflesso del Manierismo, determinato da una convenzionale imitazione di vuoti schemi geometrici studiatamente calcolati, ma ormai privi di vitalità. L’evoluzione verso forme più libere, complicate e brillanti, è da attribuire, invece, alla lotta fra Francia e Spagna per il predominio dell’Europa. L’influsso spagnolo nella prima metà del secolo determinò un modo di vestire severo, mentre l’influsso francese nella seconda metà del secolo fu caratterizzato da una ricchezza più raffinata e mondana. In Francia, l’eleganza aristocratica cominciava a riformarsi, mentre in Olanda e nel Nord Europa si affermava un modo di vestire più informale, legato al successo del ceto borghese. Le principali aree produttive d’Europa divennero quindi: Francia, 132


Fiandre, Inghilterra e Germania. Una relazione profonda si stabilì, tra il secondo e il terzo quarto del secolo, tra il costume e l’arte barocca, dando vita al Grand Siècle francese, caratterizzato da un gusto per il virtuosismo, l’eccesso e il movimento sinuoso delle linee degli abiti. Lo stile barocco, con il suo esuberante sviluppo di motivi curvilinei, svolgeva nello spazio i conchiusi schemi rinascimentali. Si assistette, dunque, all’affermarsi di una nuova forma corporea, che rispecchiava il trionfo di nuovi ardimenti architettonici e si sviluppa verso uno spiegamento in senso orizzontale. Dall’architettura derivava, inoltre, la predilezione per i motivi curvilinei, che determineranno una trasformazione dello stile verso la metà del secolo con il definirsi di una nuova immagine della forma corporea, gonfia e ampia, artificialmente allargata. Nell’abbigliamento femminile esso si traduceva in un trionfo della linea ovale e sinuosa, mentre nell’abbigliamento maschile in una ricerca della magnificenza. Anche la figura maschile si caratterizzò per una tendenza ad allargare buona parte della persona al di sotto della vita, prima con calzoni ampissimi e poi con calzoni detti Rhingrave e con un sottanino detto “girello”.

Nell’opera del 1645 Della carrozza da nolo, overo Del vestire, et usanze alla moda4 di padre Agostino Lampugnani (1586-1666) la dama viene così descritta: La dama portava in capo per quindi incominciare un cappellaccio gialliccio di feltro, la cui faldetta rivoltata in su, con fermaglio di gioie affibiata stava […]. Vestiva la vita un farsetto, o come dicono a Venezia, Ghelaro, o com’ hora s’addomanda, cosacchino alla francese di drappo di seta, e oro incarnatino, guarnito nelle spalle di bizzarri abbigliamenti e meno di mezze maniche arredato. Dai lati della piegatura del gomito sbalzavano fuori, come per vezzo, fiocchi della camicia, bianchissimi.

133


Tipico era inoltre un carattere di concitata teatralità nell’abbigliamento, che evidenziava un’affettazione di sprezzatura che raggiungeva la trascuratezza e il disordine. Tutto ciò rispecchiava l’ansia di una nuova ricerca di naturalezza che infrangesse gli schemi ormai cristallizzati dell’euritmia cinquecentesca. Questa ricerca fu però fuorviata dalla mancanza di un ferreo equilibrio interiore e sfociò in atteggiamenti sciatti e caricati al tempo stesso. Si cadde così nella stramberia, nella vistosità e nell’atmosfera artificiosa. Inizialmente l’abbigliamento femminile era ancora grave e pomposo, mentre quello maschile era già più svelto e distinto. L’austerità e la semplicità dell’abbigliamento ispano-germanico venne sostituita da una squisita ricercatezza e ricchezza delle stoffe e degli accessori. Per porre un limite a questi eccessi nel 1625 e nel 1633 Richelieu (1585-1642) (fig.42) emanò un editto contro il lusso sfrenato e contro l’importazione di pizzi, passamanerie e ricami. Da questo momento in poi la moda francese raggiunse un’eleganza e semplicità che sarà presa ad esempio da tutte le nazioni circostanti.

III.1. Abbigliamento maschile Il costume degli uomini del ‘600 rappresentava al meglio la ricercatezza e il gusto per la stravaganza tipica barocca. Carlo Maria Maggi (1630-1699), ne I consigli di Meneghino5, descrive così il gentiluomo seicentesco: 134


Tutta ricci la parrucca, Tutta merli la camisa, Calza Inglese, e scarpa mucca, È ‘l giuppon ganze a divisa: Bel baston, buon anello, Spada lustra, guanti bianchi, Gioje al collo, ed al cappello, con la graffa di diamanti.

La costosa frivolezza della moda maschile rivelava un’inconscia attrazione per la raffinatezza di cui tuttavia deplorava vivacemente la vanità. Il ‘600 fu il secolo della meraviglia e dello scalpore e segnò il trionfo della linea curva e cioè di uno sfrenato svolgimento di linee e volumi estraneo al controllo della ragione e fuori di logica. Un ruolo essenziale svolgeva la parrucca, il più esplicito esempio di adesione alla classicità romana d’età imperiale, che ne riprendeva l’esempio dall’élite che erano solite calzarne diversissime, spesso dorate, rasandosi apposta il capo. Il Grand Siècle francese fu dunque la manifestazione più aperta, esornativa e conclusiva del classicismo divenuto in Francia il grande stile ufficiale della corte assolutista di Luigi XIV (fig.43), e che verrà, successivamente, portato ad un più alto livello dalle idee illuministe del Neoclassicismo. Al principio del ‘600 gli uomini portavano ancora i capelli corti e la barba, poi portarono il volto rasato e successivamente un pizzo appuntito o la mosca. Successivamente si diffuse l’uso di portare una zazzera artificiosamente arricciata, poi sostituita dalla parrucca. Le capigliature posticce dei gentiluomini erano molto più voluminose di quelle femminili. Altro artificio di toilette molto diffuso era quello di profumarsi, di imbellettarsi le guance e di costellarle di nei. Tutto ciò contribuirà alla definizione di un marcato carattere di efebicità. 135


In un manoscritto anonimo del tempo Le ore otiose o Del vivere civile secondo l’uso di corte6 vengono definite tre categorie del modo di vestire secondo le occasioni: il “vestir da gala”, il “vestir da città” e il “vestir da viaggio”. Il vestir da gala, che a sua volta si suddivideva in “libero” e “soggetto alle leggi di prammatica”, era caratterizzato da stoffe di raso lucido, di colore adatto all’età, ricamato e trapunto in oro o argento; mentre il vestir da città si divideva in “ordinario” e “straordinario”, che si differenziava dal primo in quanto permetteva solo l’uso del colore nero con guarnizioni molto discrete ed aveva il calzone legato sotto il ginocchio, al posto della calza intera; il vestir da viaggio era, invece, più libero di sbizzarrirsi nei colori vistosi e nell’uso dei tessuti. Tipici erano lo sfoggio dell’oro e dell’argento, inutilmente contrastato dalle leggi suntuarie, che conferiva all’abito un forte carattere di fasto e ricchezza. La ricercatezza dell’abbigliamento non era dovuta tanto alle stoffe, quanto piuttosto alle complicatissime guarnizioni, come ricami, intagli e trine. L’ambizione di avere camicie di finissimo lino e ornate di trine era stimolata dalla moda di metterle in vista sbuffanti in vita, tra il corto farsetto e i calzoni. Elemento principale dell’abbigliamento maschile era la casacca o giubba, che sostituì il giuppone maschile, ormai indossato solo dai ceti più umili, e che subirà delle variazioni nel corso del tempo: nei primi tre quarti del secolo (fig.44) la falda era poco svasata e scendeva a metà coscia, le maniche erano semplici e dritte, alcune leggermente a gozzo con lungo taglio da cui si poteva sfilare il braccio lasciandole pendere (fig.45); nell’ultimo quarto le casacche erano più lunghe e di forma più sfilata, quasi trapezoidale, attillata al torace e chiusa da una serie di piccoli bottoni ornamentali, e le maniche, piuttosto larghette nella parte alta, si accorciavano e si restringevano nella parte bassa lasciando in vista verso il polso quelle della camicia candide e arricciate, nello 136


stesso tempo si ornavano di alti paramani risvoltati e ornati di bottoni e galloni (fig.46). La vita era leggermente alta con le falde arrotondate e appuntite sul davanti, spesso irrigidite da inserti in cartone; le spalle erano decorate da corti brioni, rinforzati e talvolta imbottiti d’ovatta, mentre gli stratagli via via scomparirono, sostituiti da ampie aperture che valorizzano la camicia (fig.47). Sulla giubba venivano applicati galloni e passamanerie, con un effetto di arricchimento metallico e coloristico. Per l’abbigliamento maschile si prediligeva un abbigliamento severo, austero e intellettuale, di colore scuro, rischiarato solo al collo e ai polsi dai bianchi colletti delle gorgiere (fig.48), e dal secondo e terzo decennio del secolo, dai baveri rettangolari, risvoltati e appiattiti dei rabat (fig.49), allacciati in mezzo davanti. Questi erano detti golette se erano attaccati al vestito, o colletti se staccati da esso. Potevano essere di due modelli diversi: o rotondi con due punte davanti o tagliati in tronco orizzontalmente due e tre dita sotto l’incollatura. Anche il calzone maschile subì dei notevoli cambiamenti: dalle braghe ampie con tagli e sbuffi di derivazione cinquecentesca, si passò ai calzoni generalmente strettissimi e aderenti, allacciati con stringhe al ginocchio, poi lasciati sciolti ma sempre con fiocchi di nastri lateralmente (fig.50), anche se ancora agli inizi del secolo si potevano trovare i calzoni (cannons) di origine inglese, aderentissimi dalle ginocchia fino a metà coscia e molto più ampi sui fianchi. Tra gli anni venti e gli anni trenta del ‘600 si affermarono le braghe meno ampie di quelle precedenti ma lunghe fino al ginocchio e strette con dei nastri o lasciate libere (pantalons). Verso gli anni quaranta comparve tra i militari una variante dell’ungheresca, una veste manicata, talvolta foderata in pelliccia, abbottonata sul davanti e ampia sui fianchi, che sostituì definitivamente l’armatura metallica. Altro elemento di 137


derivazione militare, transitato nell’abbigliamento civile, era il coletto, comunemente in cuoi o pelli di camoscio di taglio semplice e diritto, qualche volta senza maniche. Ampiamente diffusa era anche la veste da camera, lunga e sciolta, erede della zimarra cinquecentesca, in damasco foderato o in pelliccia, ricamata con filati metallici e fittamente abbottonata. Tra le sopravvesti, ampiamente diffuse erano: - Cappenaghi, sopravvesti più larghe e fittamente ornate di passamaneria, e cappotti di felpa. - Ropiglia, un indumento da portare sul giuppone, che si allacciava sul davanti ed era corto di falde, spesso portato con le maniche pendenti. Le ropiglie per gala spesso potevano essere di colore nero “con bottoni d’oro massiccio, gioiellati, smaltati. Sforati a piacere”7. - Ungherina, era una ropiglia più lunga, non era considerata un indumento elegante, adatta per i viaggi e per andare a cavallo. - Toga, portata dai patrizi e dai professori in occasione delle parate ufficiali e nell’esercizio pubblico delle proprio funzioni, spesso foderata di pelliccia. - Pretine, chiamate così perché indossate dai preti, lunghe e abbottonate fino ai piedi. - Romana, sopravveste intera spesso foderata in pelliccia. - Tabarro, mantello in tessuti comuni e d’uso maggiormente popolare. - Cappa, nera ampia e lunga oltre il braccio, nel vestire di gala era nera “di teletta la state, o di terzo pelo il verno, guarnita similmente di nero o fodrata del colore del vestito; sia di felpa o di raso”8; chiamata Terziana se più lunga, e Cappino o Cappuccio se più corta. - Boemia, di raso con guarnizioni di piastre e bottoni d’oro. - Ferraiuolo, mantello di panno utilizzato per proteggersi dalla pioggia. 138


Il Giuppone, qualora veniva ancora indossato, si portava aperto in basso in modo da lasciare sbuffare la camicia che appariva anche ai tagli. Era qualche volta portato anche senza casacca ed era ornatissimo di tagli e di ricami. Moda diffusa intorno al 1640 era quella di portare il giuppone tanto corto e spesso slacciato in basso, così da lasciar uscire sbuffi della camicia dalla vita e dagli spacchi delle maniche. Spesso di colori scuri e ricamato in argento, era ravvivato dalle trine del collo e dei manichetti. Tra le calzature ampiamente diffusi erano gli Stivali a tromba ricolmi con pizzo, sia bassi che con tacco; le scarpe basse con grosse infiocchettature, bianche se eleganti, nere per uso comune, e con tacco rosso per i nobili. Nobili e mercanti andavano sempre con la spada al fianco, ma si insinuò anche la moda di portare in mano un alto bastone. Ricchissimi erano infine i gioielli maschili come anelli, fibbie per il cappello, catene, diamanti o rubini. Le leggi suntuarie, tuttavia, almeno per i gioielli, erano severissime anche per gli uomini, permettendo soltanto anelli e catene di limitato valore.

III. 2. Abbigliamento militare Tra la fine del ‘500 e il primo trentennio del ‘600 la decorazione sulle armature si arricchì di elementi a rilievo. Lodovico Melzo nel suo libro Regole militari9, del 1611, ci dà notizie sul costume e l’armamento adottato ai suoi tempi per la cavalleria. Il capitano di lancia, ad esempio, portava “petto e schiena a pruova d’arma bianca, cosciali, guardarene, bracciali, celate e manopola almeno sinistra”; l’armatura dei soldati era più o meno simile a parte che “in luogo di cosciali, per il travaglio della lancia, portarono i scarselloni 139


all’antica con tre o quattro lame”e sia gli uni che l’altro avranno banderuola alla lancia, ma il capitano farà portare la sua da un paggio. Nel primo decennio del secolo le armature più eleganti erano quelle con decorazioni a strisce verticali di medaglioni ornati di fogliami e agemina ture d’oro e d’argento in campo brunito; nel secondo e terzo decennio si diffonde la decorazione “a Castello” con decorazioni oblique a ovali o a rombi collegati con nastri ondulati. Progressivamente, tuttavia, l’armatura scomparve sui campi di battaglia tra gli anni ‘40 e ‘50 del ‘600; rimarranno in uso solamente alcuni elementi, come il casco,la protezione da busto e la goletta (fig.51), ovvero la protezione metallica per la gola, indossata dagli ufficiali più come segnale di rango che per effettiva protezione. Continuò ad essere prodotta, invece, l’armatura per i tornei e le giostre. Sopra il coletto (fig.52), che adesso era un lungo gilet trapezoidale, allungatosi nelle falde e accorciatosi in vita,si indossava il budriere, l’alta fascia riccamente decorata che sorreggeva la spada. In Francia, sotto il ministero di Richelieu, nel 1635, venne rigidamente riorganizzato l’esercito nazionale, formato da tredici reggimenti e suddiviso in picchieri, archibugieri e moschettieri, quest’ultimi divennero la scorta dei principi e come elemento riconoscitivo indossavano la mandille, un mantello azzurro con croce argentea davanti e dietro. Le divise militare cariche di alamari influenzarono fortemente l’abbigliamento civile. Il lusso crescente del 600 non andò però di pari passo con un raffinamento del gusto, non rispose se non in minima parte allo stimolo di una ricerca estetica, bensì fu un’affermazione di potenza. III.3. L’abbigliamento femminile Nell’abbigliamento femminile si realizza il trionfo della linea curva 140


nell’uso del Guardinfante. Esso segnò il passaggio dalla rigida linea cinquecentesca, caratterizzata dalla faldia o verdogale, all’ampliamento della figura femminile verso una linea curva ed ovale (fig.53). Fino al terzo decennio del secolo nell’Europa settentrionale e in Francia continuò ad essere utilizzato il verdugado a tamburo (fig.54), mentre in Spagna e in Italia anche la forma conica del guardinfante cominciò ad essere lentamente abbandonata a favore di forme più sciolte della gonna. Verso la fine del secolo il guardinfante non era più tuttavia un rigido cesto di vimini, ma un aggeggio di leggeri ossi di balena completato da due cuscinetti. Il busto, in netta opposizione con la parte sottostante, doveva essere il più sottile possibile, quindi lo si stringeva con la fascetta rinforzata, anche se questa rappresentava una forma di tortura per chi la indossava. Fascetta e guardinfante erano spesso capi di biancheria, anche se la prima poteva essere costituita da busti o giupponi rinforzati da ossi di balena, mentre il secondo poteva essere realizzato in ricche stoffe da portare in vista. Il busto del giuppone era estremamente rigido e lungo, talvolta guarnito di corte faldine e decorato con alti bordi di passamanerie metalliche. Le maniche erano aderenti per il giuppone e ampie per la sopravveste, spesso aperte per mostrare quelle inferiori (fig.55). Erano ancora molto diffuse le maniche formate da molte strisce di tessuto, che lasciano in vista la camicia di tela di lino. Assieme al giuppone si indossava il sottanino,la gonna vera e propria, mentre la sottana era la veste che seguiva le linee del corpo. Una variante del giuppone poteva essere il polacchino, che scendeva dietro con una falda, o il cosacchino, con piccole falde alle reni. Dalla vita in giù la donna indossava il sottanino, cha Venezia prendeva il nome di cotolo. Mentre differente dal sottanino era la sottana, indumento completo con maniche, già in uso nei secoli precedenti, chiamato a Venezia carpetta e in Piemonte jupe, e se la si divideva in vita, corps de jupe e bas e jupe. 141


Alcune fogge dell’abbigliamento femminile seicentesco prendevano il nome dal tessuto con il quale abitualmente erano fatte:come la saglia, veste intera e ampia di colore unito, già in uso nel ‘500; la bombasina, veste di cotone di colore bianco, qualche volta guarnita di spighettoni; la filisella, veste da festa del costume popolare di seta dal colore oro o morello, spesso senza maniche per lasciare in vista quelle della camicia; il grograno, veste provinciale in stoffa di seta mista a pelo di capra. Nei primi anni del ‘600 la gorgiera rimase ancora in uso tra le donne e si arricchì sempre più di decorazioni e merletti. Quando il verdugado cominciò a scomparire e le gonne diventarono più morbide si affermò l’uso della brassière, una corta giacchetta in tessuto operato e dalla vita alta, con grandi maniche e un’ampia scollatura, tutta guarnita di pizzi. Essa era decorata da un collo piatto e ampio (fig.56), che sostituì progressivamente la gorgiera, ricco di trine e merletti, così come riccamente decorati sono i polsini (manichetti). Sotto le gonne la donna indossava le calze di seta di vario colore, bianco, grigio, verde, blu, rosso, nero e i colori pastello. Esse potevano inoltre essere decorate da ricami in seta o in filato metallico ed erano sostenute da giarrettiere, lunghi nastri di seta decorati con merletti. Una sopravveste molto ricca era la vestura aperta sul davanti, prima solo dalla vita in giù e poi anche dal busto, trattenuta da un cordone a zig-zag e chiamata anche robba o roba. Essa derivava dalla zimarra cinquecentesca, in damasco di seta o velluto, larga e nera,aperta sul davanti e con ampie maniche a gozzo, tagliate per lasciar vedere le maniche della sottana; era una veste molto ricca dietro, dove formava alcuni “cannoni” partendo dalla vita piuttosto alta, con maniche aperte trattenute da nastri che si fermavano al gomito, lasciando in vista quelle della camicia. Altre sopravvesti molto diffuse erano la zimarra, già in uso nel ‘500, la marsina, che fece invece la sua comparsa nell’ultimo 142


decennio del secolo, aperta sul davanti e che copriva la vestura, prima dalla vita in giù, poi anche dal busto e l’ungherina, di derivazione maschile, lunga fino a mezza gamba e diritta. Molto diffuso alla fine del secolo era il mantò, veste panneggiata riccamente dietro e meno sui fianchi, che segnava una nuova tendenza al verticalismo, e spesso indossata sopra il sottanino che lasciava in vista sul davanti (fig.57). Per ripararsi dal freddo continuavano ad essere usate le pellicce ricoperte esternamente di stoffa dai colori vivaci. Nel corso del ‘600 fondamentale fu l’evoluzione che subì la linea delle maniche: gonfie in alto con un’attaccatura che soverchiava e immiseriva la spalla fino a restringerla verso la fine del ‘500 e i primi anni del ‘600, diventarono, a ‘600 inoltrato, con un’attaccatura larga e ribassata in modo da non disturbare la linea lunata. Accessori dell’abbigliamento femminile erano i grembiali, le traverse e i fazzoletti da man orlati di trina. Le calze, di seta o di lana, erano lavorate “a guggia” (ad ago), ma potevano essere nei casi più umili anche di panno. Le scarpe erano di pelle bianca e a punta arrotondata, ma nella seconda metà del secolo diventarono più ricche, di seta. Di velluto o di drappo d’oro e d’argento, erano decorate con perle e ricami e ornate da rosette di nastro. A Venezia, di chiara influenza orientale, avevano la punta aguzza e rialzata. Si diffuse inoltre la moda, già in uso nel ‘500, di portare scarpe con tacchi altissimi, tanto che le dame erano costrette ad appoggiarsi a due serventi per non cadere. Le acconciature, alte e raccolte alla fine del ‘500,si abbassano notevolmente allargandosi ai lati del viso, richiamando così la forma ovale tipica barocca, e si ornano di spille, rosette di nastro, fiori e penne d’airone. Con l’importanza delle acconciature diminuisce di conseguenza quella dei cappelli. Le donne inoltre erano solite a privilegiare la cura 143


del corpo con l’uso di unguenti, belletti, profumi e nei posticci. Altro chiaro esempio di lusso seicentesco erano i gioielli, come anelli, collane di perle, orecchini a pendente, gemme, diamanti, pietre preziose e ferretti gemmati, con cui si allacciavano i lembi della veste e orologi, preziosamente ornati di smalti e gemme, che si portavano appesi in vita. Molto diffusi erano anche i ventagli e gli ombrellini per ripararsi dal sole, così come i guanti e i manicotti per ripararsi dal vento.

III.4. L’abbigliamento delle cortigiane, dei bambini e del popolo Le meretrici assunsero nella società seicentesca una strana posizione, mista di infamia e di ammirazione. Tali donne si caratterizzavano per la capigliatura rialzata e arricciata in modo da formare le due famosa corna sulla fronte (fig.58). Thomas Coryat (1577-1617), viaggiatore inglese giunto a Venezia nel 1608, ci dà una testimonianza sull’abbigliamento delle cortigiane nel suo libro Crudities10, dove testimonia l’uso da parte delle cortigiane di indossare vestiti che scoprono sfacciatamente i seni da due aperture circolari e il divieto a loro imposto di portare ricche vesti e ornamenti, come il velo bianco delle fanciulle. Secondo la sua descrizione, le cortigiane vestivano di rosso con sopravveste di stoffa damascata e sottana di cammellotto ornata di pizzi d’oro,portavano le calze di seta rossa e si profumavano con le più fragranti essenze. L’eleganza delle cortigiane sfociava nell’uso di ricami, merletti e gioie e ne “le velette all’uso delle gentildonne” indossate per passeggiare per la città allo scopo di confondersi con le altre donne. L’uso della maschera si diffuse largamente nel ‘600, sebbene le leggi suntuarie cercassero di ostentarlo. Le cortigiane, oltre a portare volentieri la maschera, adottavano 144


audacemente travestimenti maschili, spingendo all’estremo quella tendenza a fogge viriloidi, già tipica del ‘500. Nel ‘600 l’abbigliamento infantile imitava ancora quello delle persone adulte, le vesti delle bambine erano intere con maniche aperte, mentre i bambini indossavano giuppone e brache a bande ricamate di foggia più arretrata; quanto all’abbigliamento popolare esso era ormai cristallizzato nello schema del passato, ma introduceva qualche elemento di novità, come le maniche in vista della camicia e gli aghi d’argento che fissano le trecce alla nuca. Le linee dell’abbigliamento popolare proseguivano, infatti, le forme del secolo precedente, sia nel costume maschile che in quello femminile. Le gonne delle popolane di città raggiungevano di solito la caviglia, mentre le contadine potevano mostrare anche una parte del polpaccio. I tessuti erano sempre semplici o decorati da applicazioni di stoffe in colori contrastanti. In testa le donne indossavano cuffie e veli; i piedi erano spesso scalzi, soprattutto quelli dei bambini, oppure calzati da zoccoli in legno, pelle o cuoio, o anche da grossi stivaletti al polpaccio.

III.5. Acconciature e accessori Nel ‘600, soprattutto nella seconda metà, si affermò l’uso di portare i capelli lunghi e il volto rasato, talvolta sostituito da baffi e pizzetto appuntito. Intorto agli anni ‘30 si diffuse l’acconciatura Cadenette (fig.59), caratterizzata da una lunga ciocca di capelli che ricadeva sul lato sinistro del volto, e che prendeva il nome da il signore di Cadenet11. Ben presto si diffusero le parrucche, prima brune o nel colore naturale, poi bianche con la cipria di polvere di riso. Le donne d’inizio secolo portavano un’acconciatura “piramidale”, 145


composta da fitti ricciolini, mentre intorno agli anni ‘30 portavano i capelli raccolti alti sulla nuca, con piccoli ricciolini ornati da fiori, piume e gioielli, verso gli anni ‘40 i capelli si dividevano in una scriminatura centrale e si raccoglievano, una parte dietro la nuca, e la restante parte divisa in due ampie ciocche arricciate che ricadevano lateralmente sul volto, detta bandeaux (fig.60). La regina Anna d’Austria (1601-1666), moglie del re Luigi XIII (1601-1643), diffuse la moda di portare dei riccioli laterali en serpentaux, detti anche anglaises. Per quanto riguarda le calzature si diffuse l’uso dello stivale, inizialmente aderente e alto al ginocchio, poi più morbido con ampi risvolti nella parte alta e infine rigido e robusto nella seconda metà del secolo. Dentro allo stivale si usava portare una calza in seta o in pelle, la cui parte alta veniva decorata con tagli, applicazioni e merletti, detta bas à botter. Nelle calzature maschili, in broccato di seta, si diffuse l’uso dei tacchi. Quando il tacco era appuntito veniva collegato alla suola da un “pattino” sottile, che permette al piede di non affondare nel fango delle strade. Le calzature femminili erano molto aggraziate e delicatissime, tanto da poter essere utilizzate una volta sola. In casa le signore indossavano morbide pantofoline di velluto, di lamé d’oro e di moiré. Tra i copricapo si affermò l’ampio cappello di feltro piumato a tese larghe. Le signore indossavano invece piccoli cappellini con piume e gioielli, cuffiette merlettate e plissettate, ma anche cappelli in feltro come quelli maschili. Molto diffusi sono anche i gioielli, come collane e orecchini di perle, ma anche spille, pendenti, piccoli orologi e ventagli (fig.61 A-B). Nel primo trentennio del secolo sia gli uomini che le donne usavano indossare i guanti (fig.62) di forma aderente, con il taglio delle dita che si allungava sul dorso creando tre linee verticali decorate da merletti. 146


I guanti femminili erano lunghi fino al gomito fino a incontrare le maniche che si accorciavano.

III.6 La moda francese L’impatto francese nella diffusione del sistema di moda fu talmente forte da influenzare fortemente il resto d’Europa. La società francese d’inizio secolo, infatti, prestava molta attenzione alle questioni di moda e amava porsi in evidenza e mostrare il proprio potere e ricchezza attraverso l’abbigliamento. Durante la prima metà del secolo, sotto il regno di Enrico IV (regnante dal 1594 al 1610), l’abbigliamento francese subì le mode spagnole, e, sotto il regno di Luigi XIII (regnante dal 1610 al 1643), quelle olandesi, tranne che per un carattere di maggiore briosità e spavalderia, che si manifestava nell’uso di una maggiore varietà di colori, inconcepibili nella puritana Olanda. Nel primo quarto del secolo il collo della camicia divenne ampio e piatto, decorato da pizzi eleganti e per un certo periodo si assistette alla fusione di più mode, tanto che venivano indossate indistintamente sia gorgiere inamidate di medie dimensioni, sia collari piatti (rabat), sia gorgiere non stirate che ricadevano morbide sulle spalle, chiamate fraisses à la confusion. Attorno al collo, soprattutto in ambito militare,veniva indossata la croata, una stretta striscia di mussola annodata sul davanti. La camicia rimaneva in vista sul davanti all’altezza dell’addome e veniva fatta sbuffare attraverso tagli sulle maniche e sul torace. Le braghe (pantalons) diventarono più lunghe e aderenti, decorate con applicazioni di passamanerie e galloni, e venivano indossate con alti stivali con tacco. 147


Tra le sopravvesti ampiamente usato era il manteau, molto simile alla cappa cinquecentesca, indossata alla maniera clamidata,in diagonale sulla spalla sinistra e lasciando scoperto il braccio destro. Le dame eleganti indossavano la camicia, guarnita di merletti, un corsetto, varie gonne e una sopravveste, jupe, che poteva essere sia intera che divisa in due parti, “corps-de-jupe” la parte superiore, e “basde-jupe” la parte inferiore; sopra di essa indossavano una sopravveste, anch’essa in uno e due pezzi,in tessuti lucenti, come rasi e damaschi o broccati. La linea della vita si alzò rispetto al punto naturale e la scollatura divenne molto ampia, quadrata o ovale. Le maniche erano gonfie con ampi tagli o realizzate a strisce accostate, mentre il polsino partiva da metà dell’avambraccio, lasciando scoperto parte del braccio femminile. Scomparve il verdugado e la gonna diventò morbida e rigonfia; caratteristica di questo periodo era che la parte superiore della gonna era rialzata e raccolta in un’abbondanza di tessuto attorno ai fianchi, mentre in basso si vedeva la jupe.

III.7 La moda spagnola Agli inizi del XVII secolo, la potenza militare e politica iberica era in declino. La Spagna era ancora la più forte e ricca nazione europea, ma la sua egemonia era già compromessa. La magnificenza spagnola era ancora ostentata; il cerimoniale di corte era rigido e il culto della forma sempre presente. L’impressione che dava la corte spagnola era ancora di grande opulenza, ma iniziava a mancare lo splendore e la potenza che avevano determinato quell’apparato estetico. La moda spagnola d’inizio secolo fu caratterizzata, infatti, da un 148


generale impoverimento dello stile, dovuto all’espulsione delle popolazione moresca, principale fonte manifatturiera della Spagna, decretata da Filippo III (regnante dal 1598 al 1621), e dalla proibizione dell’uso di broccati, sostituiti da un uso intensivo delle passamanerie. Nel 1623 Filippo IV (regnante dal 1621 al 1665) emanò i Capitulos de Reformacion, nei quali si stabilivano le regole del vestire “alla spagnola”, fortemente attaccati alla tradizione cinquecentesca, che imponevano una figura rigida e innaturale, se non che per alcune modifiche. I calzoni si allargarono, diventarono più lunghi, morbidi e sciolti e la gorgiera si restrinse fino a diventare un piccolo colletto inamidato, detto golilla. L’abbigliamento femminile rimase più a lungo vincolato alla moda passata, conservando la ricca gorgiera12 con merletti e il verdugale conico, che diventò sempre più ampio e assunse forme esagerate nel guardinfante, una struttura in vimini e ossi di balena che allargava enormemente i fianchi e raggiunse le massime dimensioni tra il 1630 e il 1660, ma che scomparirà nella seconda metà del secolo. L’unica concessione che si avvertì nel corso del secolo fu l’affermarsi di tinte più vivaci nell’abbigliamento femminile.

III.8 La moda inglese L’Inghilterra, durante il XVII secolo, conobbe una grande crescita economica, grazie alla colonizzazione delle coste dell’America del Nord, ma fu anche sconvolta da avvenimenti politici e sociali. Tra la fine del regno elisabettiano e i primi anni del regno di Giacomo I (regnante dal 1603 al 1625), anche in Inghilterra si verificarono i cambiamenti della silhouette maschile, verso uno stile sofisticato, ma sobrio: il farsetto, persa l’imbottitura, assunse una linea meno attillata con il punto vita 149


spostato leggermente in alto e lunghe falde sfasate, i calzoni erano più lunghi fino al ginocchio, le scarpe di aprirono ai lati e si ornarono di fiocchi, rosette, nastri e merletti, diventando cosi più eleganti, le calze si ornarono di ricami e le gorgiere vennero sostituite dai collari piatti. Anche le silhouette femminile si modificò intorno agli anni ‘30: le pesanti e rigide vesti del periodo elisabettiano furono sostituite da abiti più leggeri, che conferivano al corpo una maggiore naturalezza; scomparve il verdugado, sostituito da gonne dalla linea morbida e da tessuti lucenti,di linea francese. La vita divenne alta e il corpetto era decorato da passamanerie e si diffuse l’uso della giacca corta (brassière). Sia tra gli uomini che tra le donne si diffuse l’uso di portare ampi cappelli di feltro nero ornati da piume. Dagli anni ‘40 le linee inglesi subiranno l’influsso di quelle olandesi, caratterizzate da maggior rigore e sobrietà. Successivamente, con la restaurazione, la corte ritornò a un abbigliamento più ricercato, sebbene la modestia dei puritani venisse ancora ammirata e adottata, soprattutto dai ceti borghesi. Dal 1666 il re Carlo II (regnante dal 1660 al 1685) decise di adottare una tipologia d’abito che risentisse meno delle variazioni e dei capricci della moda. Comparve dunque la coat, una lunga giacca al ginocchio,svasata, indossata sopra una casacca smanicata, la vest, lunga quanto la coat. I calzoni si mantennero dritti e stretti. Tuttavia questo tipo d’abbigliamento rimase in voga solo per pochi anni e già verso gli anni ‘70 le mode francesi ripresero a influenzare anche l’Inghilterra.

III.9 La moda olandese Agli inizi del XVII secolo l’Olanda innovò il costume europeo. Libera 150


dal dominio spagnolo e grazie alla favorevole posizione geografica, che favoriva l’espansione coloniale e i commerci marittimi, l’Olanda divenne rapidamente una potenza politica ed economica. Benché un’influenza spagnola sia ancora percettibile nell’abbigliamento fiammingo d’inizio secolo, è già possibile notare in questo periodo alcune differenze che evolveranno verso un abbigliamento più informale e borghese. La ricca borghesia mercantile prediligeva forme del vestire più libere e sciolte, caratterizzate da toni scuri e dimessi. Della moda spagnola i fiamminghi conservarono la gorgiera, che qui raggiunse dimensioni eclatanti, detta “a ruota di molino”. Oltre alla gorgiera rotonda si usavano il colletto piatto e grandi colli di lino inamidato. Silhouette tipica dell’ aria nordica era quella “a botte”,affermatasi intorno agli anni ‘20 del secolo, e caratterizzata da volumi ampi e morbidi ma tutto sommato aderenti alla linea del corpo, con una particolare enfasi sul torace e sull’addome; anche nell’abbigliamento femminile la distinzione era analoga tra influenze spagnole e linee nordiche. Intorno agli anni ‘20 nelle province meridionali le donne indossavano i lunghi e stretti busti, con le gonne sostenute dal verdugado. La linea a botte venne poi adottata anche dalle signore. Accessorio tipico di questo periodo era il comodo e ampio casacchino, dalla linea svasata e orlato di pelliccia, aperto sul davanti, così da poter essere indossato sopra le vesti per riparasi dal freddo. Le gonne erano sempre a strati, spesso però veniva enfatizzata la decorazione centrale di galloni e il bordo alto in passamaneria. Per comodità e per vezzo si diffuse anche l’uso del grembiule in tela semplice per le popolane, in lino candido e immacolato,per le matrone. In generale la borghesia vestiva in modo semplice e austero, lontana dagli orpelli della moda francese, che invece era adottata dalle dame dei ceti più alti. L’ostilità nei confronti della corona spagnola e tutto 151


ciò che la ricordava, spinse la borghesia olandese ad elaborare un abbigliamento nuovo e alternativo a quello iberico. Quanto più le linee spagnole erano state rigide e scomode, tanto più quelle olandesi furono sciolte e comode. Le prime cose che scomparvero furono le imbottiture dei farsetti maschili, che a loro volta divennero anche più lunghi ed allentati, con il punto vita rialzata, e i verdugadi degli abiti femminili. Le scomode gorgiere resistettero solo pochi anni per trasformarsi in colletti più morbidi e ricadenti dolcemente sulle spalle. Nell’ abbigliamento femminile, i volumi furono enfatizzati, grazie allo spostamento in alto del punto vita e all’adozione di maniche gonfie, realizzata con l’applicazione di rigonfiamenti posticci, disposti a semicerchio intorno all’attaccatura delle spalle. I tessuti utilizzati erano meno vistosi nella qualità delle stoffe e dei colori e privi di pietre preziose o ricami complicati che, invece, avevano distinto la moda spagnola. Anche qui, come nel resto d’Europa, i bambini venivano vestiti come piccoli adulti, seguendo solo in parte un abbigliamento che ne lasciasse più liberi i movimenti. In area fiamminga divenne di moda tingersi i capelli di nero, creando un forte contrasto con la carnagione chiara. Ampiamente diffuso nei Paesi Bassi era l’Huiken, un velo da testa ampio e imponente, interamente plissettato fino a strascicare. Esso era fermato sulla testa con un copricapo a forma di dischetto con un puntale al centro.

III.10 La moda italiana Nel XVII secolo l’Italia perse la sua posizione di predominio culturale, 152


mantenuta per più di due secoli. Diventò terreno di conquista per spagnoli e francesi; continuò a produrre opere nel campo della pittura, della scultura e soprattutto dell’architettura, ma si avviò ad una lunga fase di decadenza nelle manifestazione del gusto. Nonostante i diversi influssi, tuttavia, il Barocco è da considerare una creazione tipicamente italiana; tale apparente contraddizione è giustificata dal fatto che l’Italia, tagliata fuori dalla lotta per la supremazia politica e avviata a una fase di amara decadenza, aveva tuttavia ancora la forza di creare nella libera sfera dell’arte uno stile che veniva assimilato Oltralpe e ritornava a noi riflesso nelle manifestazioni del gusto. Lo stile barocco portato oltre i confini d’Italia attraverso la pittura, la scultura e l’architettura, ci ritornava mediante fogge e invenzioni dell’abbigliamento, che spesso avevano una dimenticata origine nostrana, ma apparivano ora come segni distintivi dell’eleganza e superiorità dei nuovi padroni. In Italia agli inizi del secolo si veste ancora secondo le mode italiane e spagnole precedenti, fino al primo ventennio del secolo si indossavano ancora le ampie gorgiere e i verdugadi. Gli italiani rinunciarono, infatti, a vestirsi secondo un gusto proprio e si avvertì, di conseguenza, anche un profondo declino dell’attività economica legata all’abbigliamento. Cause principali di questa crisi sono da ravvisare sia nell’aumentata pressione fiscale, che nel diffondersi di nuove industrie straniere, fondate quasi tutte da operai italiani emigrati. Nella prima metà del secolo riecheggiavano ancora le fogge cinquecentesche, irrigidite dagli influssi spagnoli. Le donne indossavano ancora vesti ampie a cono, corpetti rigidi a punta, il collo serrato nelle ampie gorgiere, mentre gli uomini indossavano farsetti imbottiti e braghe rigonfie. Il gusto seicentesco del vestire nei primi decenni del secolo, seppure ancora fortemente improntato a quello cinquecentesco,se ne discostava 153


per alcuni particolari: per le donne le pettinature basse tendevano ad allargarsi lateralmente, i colli orlati di trina venivano troncati orizzontalmente sul davanti, il busto staccato e di tessuto diverso, si allungava sul davanti con una lunga punta arrotondata, si diffuse l’uso di galloni e ampie collane di perle a doppio giro che pendevano sul petto fin sotto la vita, le maniche del busto erano rigonfie ma strette ai polsi e quelle della roba o zimarra erano aperte verticalmente dalla spalla all’avambraccio, con una fenditura orizzontale all’altezza del gomito. La figura maschile era pomposa: casacche lunghe, ampi paramani, calzoni larghissimi, ampi mantelli panneggiati sulle spalle e vistose parrucche a grossi riccioli. In Italia, tuttavia, non si sviluppa un sistema di moda unitario, ma estremamente variegato:Venezia proseguiva una sua indipendenza, il Sud Italia e la Lombardia vestivano ancora secondo le fogge spagnole, Roma e lo Stato Pontificio esprimevano un splendore che era espressione della ricchezza culturale e politica di quel periodo, mentre Firenze, seppur rimane legata alle influenze spagnole, si differenziava da esse per una ricchezza di colore che era insolita per il gusto spagnolo. Nella seconda metà del secolo l’Italia abbandonò le mode spagnole per quelle francesi più capricciose e mutevoli: le linee si ammorbidirono, le fogge diventarono più raffinate e mondane e il verdugado scomparve.

III.11 Il Carattere della moda francese in Italia L’ostentazione del lusso era segnata principalmente dall’abbandono della moda spagnola in favore di quella francese, ben più mutevole e capricciosa. Tommaso Rinuccini nel suo Diario che va dal 1660 al 1675 affermava: 154


sono state tante le vanità del vestire, che in questo secolo sono seguite, che si rende impossibile di poterle non solamente narrar tutte, ma anco la maggior parte di esse.13.

La diffusione della moda francese era agevolata dall’uso di far venire sarti e parrucchieri direttamente dalla Francia o dall’ordinare i proprio vestiti da Parigi. Verso la metà del secolo, tuttavia,la moda francese non veniva seguita ancor fedelmente e ciò è dimostrabile dalla persistenza di caratteri di indubbia derivazione spagnola o anche di nuovi influssi inglesi e olandesi. Tipica spagnola era, ad esempio, l’attillatura dei calzoni, mentre tipica francese era l’abbondanza dei nastri e l’ostentazione della camicia, tipica inglese era, infine, la relativa cortezza delle vesti femminili. Fortemente evidente era, inoltre, un certo carattere di trascuratezza che nella dama verrà declinato nell’uso di portare un solo orecchino, le calze cadenti, i capelli scomposti e i guanti logori. L’estrosità e la sprezzatura rispecchiavano l’ansia di una nuova ricerca di naturalezza, ma sfociavano in atteggiamenti sciatti e caricaturali. Verso la metà del secolo si videro comparire, inoltre, tipici caratteri femminili nel vestire maschile, come chiome lunghe, tinture, nei e nastri, fino all’uso di un vero e proprio sottanino al posto dei calzoni. Testimonianza di ciò a si può riscontrare nel Diario di Giacinto Gigli (1594-1671)14: Gli huomini e le donne andranno vestiti tutti ad un modo, la qualcosa veramente si vede adesso perciocchè gli huomini portano collari di tela grandi giù per le spalle e le donne parimenti di sono portate via i collari delle zimarre e portano anch’esse gran collari nel modo medesimo et le vesti di sotto se le fanno chiuse fin sotto la gola; inoltre gli huomini quasi tutti portano la zazzera et capigliatura giù per il

155


collo sino alle spalle et le donne medesimamente portano la zazzera che gli pende di qua e di là alle orecchie, et dietro il collo portano i capelli arrotondati come gli huomini fin sopra il collare et perché una gran parte delle donne usano vestire di drappo nero, a vederla in chiesa massime se stanno inginocchiate, a prima vista paiono giovani huomini senza cappello.

Le particolarità principali dell’abbigliamento seicentesco che attirano maggiormente l’attenzione dei contemporanei sono per gli uomini le parrucche, gli artifici di bellezza e il modello dei calzoni; mentre per le donne sono le ampie scollature e il guardinfante. Questi erano i principali bersagli di critica, che suscitavano i più vivaci sarcasmi.

III.12 La moda nella seconda metà del Seicento (1654-1714) Nei ritratti di metà del secolo si nota una sorta di ricercata sciatteria, una ricercata e fantastica creatività, che si voleva sostituire all’equilibrata ricchezza cinquecentesca, ma che talvolta sfociava nella bizzarria. Verso gli anni ‘70, invece, l’abbigliamento divenne più razionale, soprattutto nella Francia di Luigi XIV (regnante dal 1643 al 1715), dove si reagì agli eccessi del Barocco italiano con un approccio misurato e classicistico. In questo periodo l’abbigliamento cominciò a diversificarsi, dividendosi in: abito “da città”, “da viaggio” o “da campagna”, e “per la corte” o “di gala”. L’abito da città prevedeva una maggiore sobrietà nelle decorazioni e nei colori, mentre quello da viaggio o da campagna era più comodo, per cavalcare e per sedere in carrozza, infine l’abito da gala era in tessuti pregiati, con decorazioni lussuose e accessori raffinati. Un ruolo fondamentale nella transizione dall’ “abito alla spagnola” all’ “abito alla francese” è affidato alla diffusione delle poupées à la 156


mode francesi, ovvero bambole di legno e cartapesta, simili alle pivole già usate nelle corti italiane, che, sotto il regno di Luigi XIV, venivano inviate ai sarti di corte e ai negozi più alla moda di ogni città europea.

III.13 Abbigliamento maschile Nella moda maschile francese prevaleva l’uso delle passamanerie e delle applicazioni, mentre nella moda italiana si prediligevano i ricami d’oro. L’abito maschile divenne meno rigido: il giuppone si accorciò e si portò slacciato sul davanti, scomparvero le falde, le maniche diventarono più ampie e si aprirono all’altezza dei gomiti. Nella seconda metà del secolo si portavano calzoni lunghi fino al polpaccio e larghissimi, che venivano infilati negli stivali, o prendevano una forma di grandi cilindri, tanto da diventare un vero e proprio sottanino maschile (fig.63), definito Rhingrave in Francia poiché indossati per la prima volta da Rheingraf von Salm, ambasciatore a Parigi, Rhein Graf15, Conte del Reno, fratello del principe di Palatina, venuto alla corte di Luigi XIV nel 1670. In Italia, invece, essi venivano chiamati Calzoni alla romana. A sostenere i calzoni si usavano le Brazzeruole. Il giustacuore, in francese justaucorps, di chiara derivazione del coletto militare, era una casacca manicata, aderente al torace e svasata nella parte bassa, con ampi paramani. Esso rappresentava una delle prime forme di “habit de cour”. Essa era anche chiamata marsina e, tra il 1660 e il 1680, era lunga fino al ginocchio e fittamente abbottonata, con grandissimi paramani dalle corte maniche e ornata da vistose allacciature di carattere ornamentale. Era spesso realizzata in tessuti operati, come velluti devorè o broccati, e decorata con passamanerie, galani e infiocchetta ture (fig.64). Intorno agli anni ‘80 le falde del giustacuore 157


vennero irrigidite con stecche di balena o infustite con tela impeciata e crine. Verso l’ultimo quarto del secolo gli occhielli erano spesso orlati in colori contrastanti, o sottolineati da sinuosi alamari. Le maniche si accorciarono visibilmente lasciando in vista verso il polso lo sbuffo della camicia (fig.65). Largamente diffusi erano anche gli ampi paramani risvoltati e ornati, come il resto della casacca, da vistose bottoniere o da galloni. Tutta la veste era decorata da ornamenti di passamaneria e bottoni dorati (fig.66). La sottoveste era di forma simile, finemente abbottonata, inizialmente con le maniche e in seguito smanicata, ed era in vista dall’apertura del giustacuore,cosicché permetteva di risparmiare il tessuto del dosso, facendo i quarti posteriori in una stoffa diversa, di colore simile ma do qualità inferiore. Verso la fine del regno di Luigi XIV la veste era lunga, con tasche base e sotto si indossava una sorta di lungo “gilè” ricco di ricami e merletti, e nastri e infiocchettature, detti “galani”16, che decoravano le spalle e i polsini. Il giustacuore era di solito scuro, mentre la veste, per contrasto, era chiara e broccata, d’oro o d’argento. Verso gli anni ‘80 l’ habit de cour era composto da giubbone/ casacca17, calzoni a gonnellino e ferraiulo. Le calze erano aderenti, di solito bianche e trasparenti di un filo di seta come rete, portate con una giarrettiera ornata con fiocchi; si usavano solitamente nere per l’abito da città, rosse, bianco e perlato per le altre occasioni. Il budriere, che sosteneva la spada, era adesso molto ampio e molto ornato, mentre una cravatta di pizzo decorava la gola. Essa poteva essere di finissimo lino o mussolina ed era formata da una lunga striscia girata intorno al collo e poi stretta sul davanti da un nodo di nastro, lasciando liberi i due capi che, orlati riccamente di trina, si allargavano a ventaglio sul petto. La cravatta subì delle modifiche nel corso degli anni: intorno al 1660 si 158


portava a due bande, lunga con la parte finale ricca di trine e di merletti; mentre tra il 1670 e il 1680 sempre più diffuso era un fiocco che stringeva la cravatta intorno al collo (fig.67). Ampiamente diffusa era, inoltre, la Cravatta alla Steinkerque: cravatta in voga dal 1692 in avanti, dopo la battaglia di Steinkerque (in Belgio), in cui i soldati francesi, non avendo tempo di annodarla bene al collo, la infilarono sveltamente dentro un occhiello della veste (fig.68). Verso la seconda metà del secolo l’uso di portare i capelli lunghi determinò il diffondersi colli piatti di linea rettangolare, che si allungavano sul davanti e scendevano a coprire la casacca come una pettorina e si restringevano verso il basso. Alla fine del secolo si usavano, invece, colli di batista trasparente, inquadrati dall’orlatura doppia di trina. Con questo genere di colletti si portavano i polsini o maneghetti all’insù e orlati di pizzo, o più spesso, tutti in pizzo. La biancheria maschile era riccamente ornata di ricami e di trine. La camicia, in finissimo lino, non variò di molto rispetto al periodo precedente se non che per l’aggiunta di volant (fig.69) in tela sottile, ricamati e ornati di trine, che venivano allacciati al polso con due bottoni o con un nastrino; le maniche, molto ampie e ricche, sbuffavano da quelle della marsina ed erano strette infine da un nastro al polso, ove terminavano elegantemente con una balza arricciata spesso in duplice o triplice ordine. Esistevano diversi tipi di mantelli, di dimensioni ampie o ridotte, semplici o decorati. Il ferraiolo, che adesso era spesso con un taglio sul dietro dal quale usciva la punta dello spadino, continuò ad essere molto usato. Il mantello, invece, perse importanza. Tra le sopravvesti nell’ultimo ventennio del secolo si diffuse l’uso del Brandeburgo, altra sopravveste di ascendenza militare, così chiamata perché indossata dalle truppe dell’Elettore di Brandemburgo nel 1672. 159


Tra le calzature ampiamente diffusi erano gli stivali, indossati soprattutto con l’abbigliamento da campagna e con quello da caccia, mentre per la veste da città si indossano le scarpe. Tra gli anni ‘60 e ‘70 esse erano semplici, con la punta quadrata e con tacco alto, tanto per gli uomini quanto per le donne, in tessuti o cuoi morbidi e pelli colorate, guarnite da infiocchettature in seta e ornate sul collo del piede con vistosi nastri colorati e rosette. Verso la fine del secolo la punta si arrotondò e i tacchi si abbassarono. Largamente diffuso era il tacco rosso (fig.70), simbolo di prestigio sociale nell’Europa del XVII e XVIII secolo, indossato solo dalle classi privilegiate. Il tacco rosso e incurvato e la forma appuntita del puntale caratterizzavano la silhouette della scarpa tra il XVII e il XVIII secolo.

III.14 Abbigliamento da campagna e militare Nell’ultimo decennio del secolo si diffonde l’uso del “vestire da campagna”, riferito non a villeggiature, ma bensì alle campagne militari e chiamato anche “vestire alla francese”, poiché questa moda proveniva dalla Francia. Essa imponeva le stoffe di lana, ma non escludeva ricche guarnizioni. Con le continue guerre, che inflissero l’Europa nella seconda metà del ‘600, si diffusero infatti le uniformi militari, caratterizzate dall’uso della casacca aperta ai fianchi e dietro e larga tanto da potere proteggere il moschetto e la fiasca dalla polvere in caso di pioggia. Generalmente i diversi reggimenti si distinguevano per il colore della sciarpa: ad esempio azzurro per i piemontesi e rosso per gli spagnoli. In questo periodo l’abbigliamento militare si fece più professionale. Diffuso era l’uso dell’ ungheresca, sopravveste adatta a cavalcare, chiusa sul torace con alamari e ampiamente svasata sui fianchi. 160


Altra sopravveste di origine militare era la redingote, o “inquartata”, sviluppo dell’antico coletto militare, giacca chiusa sul davanti da una lunga serie di bottoni e ganci, lunga fino al ginocchio, con maniche strette a larghi polsini. Essa poteva essere semplice in cuoio, ma anche ornata da passamanerie sulle maniche, sulle cuciture laterali, sull’orlo e sui quarti anteriori. Ampiamente diffuso era anche il Brandeburgo, che prendeva il nome dalle truppe dell’Elettore di Brandeburgo che per prime l’avevano indossato. Con Luigi XIV intorno agli anni ‘60 si avviò il processo di razionalizzazione delle uniformi militari. Essa era composta da: justaucorps, gilè e calzoni al ginocchio, detti “culottes”, e prevedeva l’uso dei colori borbonici, il blu, il rosso e il bianco. Verso la fine del secolo le armature si ridussero notevolmente e al posto della gorgiera metallica si portava intorno al collo un collare di trina. Anche l’elmo venne sostituito da un cappello piumato di feltro a larghe tese, che era rinforzato tuttavia all’interno da una cervelliera di ferro per riparare il cranio.

III.15 Abbigliamento femminile L’abbigliamento femminile assunse una linea più sfilata, con il busto a punta, la scollatura orizzontale e la vita sottile. Le gonne erano morbide e quella della sopravveste si apriva mostrando quella della veste. Intorno agli anni ‘60 vennero definite le linee dell’ abito di corte “alla francese”, caratterizzato da tre gonne: la secrète, sottogonna di biancheria ricamata, piatta sul davanti e ricca di pieghe sui fianchi e sul retro; la modeste, vera e propria sottana, cosiddetta perché realizzata in tessuti più sobri; e la friponne (la birichina), perché di colori vivaci, infustita 161


con carta grossa che ne consentiva la costruzione in drappeggi ampi e complessi. Completava l’abito il davantino del corsetto, staccabile e intercambiabile, detto anche corsage o pièce d’estomac, in tessuti e colori diversi, con ricami e applicazioni varie. Verso la seconda metà del secolo le vesti si scollarono e scomparirono così i collari rotondi, sostituiti da una scollatura ornata di trina e accompagnata dal fisciù, un fazzoletto di trina o tessuto leggero con lo scopo di dissimulare lo scollo. La camicia era ancora un elemento molto importante poiché largamente in vista, spesso talmente leggera da essere trasparente. Dopo la metà del secolo, per circa tre decenni, le maniche della veste si gonfiavano rotonde verso il gomito e poi si restringevano sotto la piegatura del braccio o poco sotto la spalla per fare uscire quelle della camicia in sbuffi cascanti e voluminosi; il braccio era così imprigionato in due o tre gozzi fino a sotto il gomito, che equilibravano con la loro linea gonfia la larghezza del guardinfante. Nell’ultimo decennio del secolo si affermò, invece, una linea intermedia: le maniche cadevano aperte, dritte e piuttosto larghe e corte, orlandosi all’interno con una fitta gala arricciata di trina. Intorno agli anni ‘70 comparve il manteau, di forma ampia e sciolta, ispirata alla veste da camera, e simile per il drappeggio posteriore all’ habit à la française, anche se si differenziava da quest’ultimo per la presenza di maniche più lunghe, spesso rifinite da alti

paramani,e per lo scollo rettangolare piuttosto che orizzontale. Derivando dall’informale veste da camere, il manteau non divenne però vero habit de cour. Per cavalcare le dame indossavano lunghe giacche con alamari, di derivazione maschile, con cravatta al collo, polsini ricamati e cappello di feltro ripiegato a tricorno. Nell’ ultimo 162


trentennio del secolo le donne indossavano per la caccia indumenti tipicamente maschili come il giustacuore e i calzoni, indossati sotto le gonne. Per uscire indossavano invece mantelline, cappe e mantelli, spesso con cappuccio per proteggere le alte acconciature. Verso l’ultimo decenni del secolo, in seguito alla diffusione delle mode francesi, si nota il rilancio della linea verticale con le alte creste di pizzo pieghettato e le vistose parrucche;la pettorina tendeva verso l’alto, sulla sottana, senza guardinfante, si portava una sopravveste di solito nera, rialzata lateralmente, detta alla francese manteau, sopravveste con scollo a mezze maniche ornate di falpalà, che assumeva un diverso aspetto per il modo con il quale è portata. Con il manteau i fianchi sono poco accentuati e il davanti è piatto (fig.71).

III.16 Abbigliamento infantile e popolare Fino al sesto anno d’ètà i bambini venivano vestiti senza differenziazioni tra maschi e femmine. Il corpo veniva modificato sin da piccoli per l’uso del busto, un vero e proprio strumento di tortura. I bambini venivano vestiti con un look che era perfettamente conforme a quello degli adulti. Già intorno al 1640, infatti, i bambini cominciavano a portare parrucche, anche incipriate nello stile degli adulti. Nell’abbigliamento popolare rimasero ancora in voga le forme tardocinquecentesche, mentre cominciarono a diffondersi nuove mode per quanto riguardava i cappelli e le scarpe. Gli abiti venivano usati fino alla consumazione e quindi le fogge mutavano molto lentamente. L’abbigliamento maschile era composto da semplici giubboni e braghe, mente in quello femminile il grembiule e la cuffietta diventarono parte irrinunciabile dell’abbigliamento popolare. 163


III.17 Acconciature e accessori Alla metà del secolo erano ancora di moda i baffi a forcella e il pizzetto, ma verso gli anni ‘70 il viso tornò rasato. Intorno al 1660 si portavano ancora i capelli naturali. Le acconciature maschili avevano forti caratteri femminili, caratterizzate da lunghe ciocche arricciate che ricadevano sulle spalle e da baffi lunghi e ricurvi. I baffi diminuirono via via di taglia fino a scomparire quasi del tutto verso la fine del secolo. Molti uomini inglesi portavano la mosca e lunghi baffi a punta fino agli anni ‘80. Le parrucche sostituirono i capelli veri intorno al 1670. Questa era formata da una massa di boccoli a cascata di vaie lunghezze, indossata sopra una testa perfettamente rasata. Nelle prime parrucche, i capelli erano cuciti a una calotta di seta, ma le ciocche erano ora disegnate lungo la tela e tenute insieme da nodi individuali. Larghi pettini d’avorio, argento e conchiglie o ornati d’oro erano portati in larghe tasche o nelle tabacchiere. I gentiluomini, infatti, avevano l’abitudine di acconciarsi i capelli in pubblico e profumare le parrucche per coprire l’odore del tabacco delle pipe. Una parrucca tipica, ad esempio, era la fenêtres, che presentava tagli sulla calotta dai quali far passare le ciocche dei capelli naturali, con l’effetto di gonfiarne l’aspetto. Un’acconciatura tipica femminile era quella detta à la Fontange (fig.72), un’alta struttura di fil di ferro che sosteneva pizzi e merletti inamidati in una forma a canne d’organo. Altra acconciatura era quella hurlupèe, detta anche alla contadina, che divideva i capelli in una scriminatura centrale che, dalle orecchie, fa scendere dalle spalle due grossi boccoli. Modificandosi il volume dei capelli, per l’uso delle parrucche, cambiarono anche le forme dei copricapo. Le donne portavano cuffie e cappucci ampi, mentre tra gli uomini ampiamente diffusi, intorno agli 164


anni ’60 del XVII secolo, erano i cappelli a tesa larga e cupola alta in feltro, velluto o castoro, con fascia in seta,ornati con piume di pavone o di struzzo e fibbie gioiello; mentre verso gli anni ‘70 le piume di struzzo divennero un elemento decorativo sempre più centrale, disponendosi a frange intorno al cappello. Caratteristici erano anche gli orli in passamaneria dorata o argentata, i lacci e i nastri, nonostante i vari editti di Richelieu prima e di Mazarino poi, tentarono invano di proibire l’uso di fibbie e galloni dorati, passamanerie e fiocchi. La forma della cupola cambiò costantemente nel corso degli anni abbassandosi, mentre la tesa venne risvoltata e infustita, e intorno agli anni ‘90 i risvolti divennero tre, formando il “tricorno” (fig.73), un cappello che continuerà ad essere indossato per altri cento anni. La tesa era qualche volta tenuta insieme alla cupola da cappi e bottoni. I lembi potevano essere tenuti giù a piacere da uno, due, o tre lati per proteggere il volto. Il cappello veniva più che altro portato in mano piuttosto che indossato sulle pesanti parrucche. I gentiluomini, infatti, lo tenevano schiacciando l’ala contro la cupola, mentre in segno di saluto lo abbassavano a terra con un vistoso gesto del braccio. Ampiamente diffusa era anche la berretta,completamento del vestito di gala, guarnita con penne d’airone, gazza o altri uccelli. I busti erano realizzati dai sarti di busti. Il busto di corte era leggermente diverso da quello di uso comune, soprattutto per la maggiora aderenza e per la posizione degli spallini, posti in orizzontale, per creare un’ampia scollatura. Nel corso del secolo si diffuse enormemente la cosmetica: le signore usavano rossetti per rendere più piccoli i contorni delle labbra, schiarivano la carnagione con la cipria, scurivano la linea delle sopracciglia e adornavano il volto con nei posticci in tessuto nero. In questo periodo si iniziano a portare maschere per uscire. Queste erano spesso dei semplici ovali neri, con buchi per gli occhi, in velluto 165


e pelle. Diventarono inoltre di gran moda le tabacchiere per conservare e portarsi dietro il tabacco da annusare. Esse erano realizzate come gioielli in metalli preziosi, intarsiate, dipinte, in ceramica, in pietre dure o in legno intagliato.

III.18 Gioielli e orologi Nel corso del Seicento furono mantenute la principali tipologie di parures: catene d’oro smaltate, braccialetti, anelli con diamanti, rubini, topazi, croci gemmate, catene di gemme ed oro; bottoni d’oro o pieni di pasta d’ambra, o smaltati e gemmati, fibule, diademi e ornamenti per capelli (fig.74 A-B). Intorno al 1610-20, ci fu un considerevole cambiamento nell’approccio ai gioielli: la pietra divenne maggiormente apprezzata per la sua intrinseca bellezza. Considerevoli progressi furono inoltre raggiunti nel taglio, soprattutto per quanto riguardava i diamanti degli ultimi anni del XVI secolo provenivano, ad esempio, le prime invenzioni di tagli in facce detti “ a rosa”; in seguito, intorno al 1640, sentiamo parlare addirittura di tagli in sedici facce. Le incastonature furono ridotte al minimo e nella maggior parte dei casi provenivano da mode per pietre di vero valore, sebbene la smaltatura era ancora usata per decorare i lati opposti dei gioielli (fig.75). Allo stesso tempo la principale influenza del Barocco ha dato origine a un gusto per i gioielli davvero lussuosi e magnificenti. L’arte della smaltatura non fu interamente sostituita dalla nuova incrementata importanza delle pietre, anzi ottenne un livello di perfezione mai raggiunto prima. La tecnica “champlevé” (smaltatura fatta con paste vitree inserite in canali tagliati su una base metallica) 166


ha dimostrato un grande successo. Le decorazioni floreali divennero sempre più realistiche e cominciarono a sostituire gli stilizzati arabeschi e le figure del Rinascimento. La fondazione dell’ Orto Botanico in Francia, ad opera di Enrico IV (1553-1610), rappresentò infatti una fonte di inspirazione per gli artisti del tempo. La forma “peapod” (baccello di pisello) fu uno dei primi motivi ad essere utilizzato. Un altro notevole punto di interesse furono i ritratti, poiché in essi era mostrata nei costumi la presenza della tradizionale austerità iniziata dagli Austriaci e dagli Spagnoli, e ancora effettiva nelle corti italiane. Dall’epoca di Luigi XIV (1638-1715), era preferito il diamante, in quanto la pietra più preziosa e costosa. Pur essendo incolore, il diamante poteva avere varie sfumature, di cui quella rosa era quella più apprezzata. Le pietre preziose furono usate per lungo tempo allo stato naturale, ma a quell’epoca venivano nobilitate con il taglio. Per la maggior parte del suo regno Luigi XIV ha condotto quella che può essere descritta come una politica di prestigio e l’effetto delle pietre preziose ha svolto un ruolo fondamentale per un uomo a cui piaceva essere paragonato al sole. Il re possedeva non meno di quattro parures complete, due delle quali erano in diamanti, una in perle e diamanti e un’altra, per gli abiti da giorno, composta da pietre di molti colori. Il XVII secolo fu quello ove, più che mai, si rivelò la vanità maschile. L’uomo, ad esempio, era solito indossare sprezzantemente un solo orecchino all’orecchio sinistro. Anche gli stivali, i cappelli e le vesti si ornavano di pezzi di oreficeria smaltati e gemmati, tra i quali ampiamente diffuso era il così detto motivo “a nastro” o “a fiocco” (fig.76). Ritratti del tempo mostrano come l’abbigliamento maschile fosse sontuoso tanto quanto quello femminile. Per gli uomini i principali ornamenti consistevano in pietre preziose fissate ai lunghi occhielli delle vesti o brandeburghi. 167


Le prime forme d’attaccatura delle fibule erano formate da un elemento metallico molto semplice a forma di spirale, che veniva appuntato al tessuto. Questa spirale possedeva già un ritmo plastico, che si ritrovava già nei modelli precedenti e veniva qui evidenziato maggiormente. Certe forme d’attaccatura daranno origine alla moderna “clip”. Alcune tipologie di gioielli provenivano dall’Oriente, come ad esempio gli ornamenti per le acconciature. I principali motivi rappresentati nei gioielli riproducevano elementi floreali e animali. La magnificenza di Versailles si diffuse in tutta Europa durante la seconda metà del XVII secolo, eccetto che a Madrid e a Vienna, che tenacemente stavano ancorate alle tradizioni. Un altro elemento tipico dell’eleganza barocca era l’orologio, che fece la sua comparsa nelle corti dell’Europa Occidentale a partire dal primo decennio del ‘500. Nel corso del XVII secolo l’interesse nei confronti dell’orologio aumentò notevolmente, rimanendo comunque appannaggio delle classi sociali più ricche. Gli orologi-gioiello, come quelli smaltati dagli orefici di Blois o gli orologi di fantasia fabbricati dai colleghi di Ginevra, continuarono ad essere molto apprezzati. Simbolo della ricchezza di chi li indossava, gli orologi facevano anche risaltare il gusto moderno dell’abito. L’orologio divenne quindi un elemento essenziale del lusso e segno di riconoscimento di uno status sociale. Fino al ‘600 gli orologi segnavano solo le ore, mentre a partire dal ‘700 fu introdotta anche la lancetta che segnava i minuti. L’orologio ha sempre stimolato una ricerca estetica tesa a rispondere via via ai nuovi gusti dell’epoca. È quindi strettamente legato alla storia delle correnti artistiche e degli stili decorativi. Orefici, gioiellieri, incisori e smaltatori, in armonia con i gusti artistici del tempo, crearono casse dalle più svariate forme e materiali. Particolarmente in voga erano le casse di forma ovale e ottagonale, in ottone, oro e argento. Le decorazioni 168


preziose e delicate fondevano insieme motivi floreali, sfingi, amorini, tritoni, figure allegoriche, scene mitologiche e religiose. Intorno al 1630, l’arte degli smaltatori si arricchì di una nuova tecnica: la pittura sui smalto. Grazie a questo procedimento sulle casse degli orologi si poterono eseguire veri e propri dipinti. Tipico del regno di Luigi XIV era il così detto orologio “ a cipolla”, grosso orologio rotondo e di forma panciuta, spesso costituito da una cassa incisa con foglie d’acanto e palmette, fra cui si intravedono uccelli appollaiati, sfingi e mascheroni. La profusione e la varietà di motivi erano sempre compensati dall’accurata simmetria delle composizioni (fig.77 A-B-C). Intorno al 1680 in Inghilterra si diffuse invece un orologio a doppia cassa: la cassa interna in ottone, argento o in oro, era leggermente levigata, mentre il bordo esterno era inciso e traforato con un ampio fregio di foglie d’acanto; la cassa esterna era talvolta incisa con un decoro analogo a quello della cassa interna. L’orologio era inoltre strettamente legato all’evoluzione dell’abbigliamento. Esso poteva essere appuntato in bella vista sul petto o alla cintura, al braccio nudo o intorno al dito, oppure lo si poteva tenere nascosto nel taschino in vita o sotto la manica. Nel corso del XVII secolo si diffuse la moda di portare l’orologio alla cintura pendente da una catena o da un nastro, spesso accompagnato da una chiavetta a manovella. Talvolta era affiancato da una confettiera o da uno specchio. Caratteristici della metà del XVII secolo erano gli orologi rotondi in argento, con incisioni floreali di gusto naturalistico.

III.19 Tessuti e motivi decorativi I tessuti maggiormente prodotti nel ‘600 erano: rasi, ermesini18,damaschi, 169


broccati e telette19 d’oro. I motivi decorativi erano costituiti da disegni di piccole dimensioni, mossi nelle forme e dai colori vivaci. Da ora in avanti il repertorio ornamentale dei tessuti si sdoppiò: le stoffe per gli abiti, maschili e femminili, prediligevano piccoli motivi, mentre i tessuti destinati agli arredi e alle vesti ecclesiastiche erano decorati da moduli ampi. Nel corso del ‘600, con la creazione della Compagnia delle Indie Orientali e Occidentali, si intensificarono gli scambi commerciali con l’Oriente, che portarono a un conseguente interesse per l’esotico. In particolare alcune variazioni del motivo delle “mazze” e di quello detto “isolato” nei tessuti cinque - seicenteschi italiani sembra siano riconducibili ad alcuni repertori decorativi di tappeti orientali. La decorazione “a mazze”, composta da piccoli elementi geometrici o naturalistici dai quali si muovono piccoli elementi floreali, si presentava quasi esclusivamente sui damaschi, sui velluti cesellati e raramente sui broccati. Altra tipologia decorativa era quella detta a motivo “isolato”, che si caratterizzava per la presenza di un singolo elemento ornamentale che spiccava nettamente sul fondo, e che veniva realizzata su velluti, damaschi, broccati, rasi lanciati20 e broccatelli. Questa tipologia decorativa tendeva a mettere in risalto l’effetto del disegno isolato per mezzo di vivaci contrasti cromatici, come verde e oro, rosa, viola, blu e argento, rosso e bianco. I colori più usati erano le tinte cariche e scure, il verde cupo e le sfumature d’azzurro. Spesso venivano accostati due colori tra di loro: Color acquamarina / argento Cremisi / oro Giallo / verde Rosso / verde 170


Tra il ‘600 e il ‘700 si assistette alla diffusione nelle più grandi città d’Europa delle corporazioni di sarti. Modellisticamente vi erano notevoli evoluzioni, in particolar modo nella modellatura della manica, che agli inizi del ‘600 veniva usualmente divisa in due teli e mostrava una lieve stondatura superiore, detta “pala”. Il ricamo, in questo periodo, ha ormai raggiunto livelli di vero virtuosismo e sofisticata abilità. I motivi preferiti erano quelli floreali e fitomorfi, tra cui i più diffusi erano la rosa, i tulipani e i crisantemi. Sempre più spesso si usava ricamare in filato d’oro e d’argento, con applicazione di piccole perle e altri materiali preziosi, per decorare abiti da cerimonia. Si può affermare infatti che i risultati raggiunti dall’ arte del ricamo durante il XVII e XVIII secolo in Sicilia collocano questo genere di attività a metà strada tra arte tessile e arte orafa. I temi ricamati, infatti, risentivano fortemente dell’influenza di orafi e argentieri. Nelle volute a viticcio dei ricami siciliani del XVII secolo si può scorgere, ad esempio, un’analogia con i fregi a lumachelle che apparivano in alcuni prodotti dell’oreficeria locale. Un analogo raffronto si può notare anche in quei tessuti su cui il ricamo è stato applicato a rilievo ondulato. Per quanto riguarda i merletti tipici erano il punto “a fogliami”, i disegni slanciati e i bordi a punta. I motivi tessili, invece, dopo il 1630 andarono in una direzione che privilegiava l’andamento scenografico ed un accentuato naturalismo, privilegiando soggetti quali bacche, fiori e foglie, disposti a mazzetti. Fra i temi naturalistici comparivano anche tulipani, peonie, iris e le composizioni floreali in genere. Si fecero invece meno frequenti i motivi ovoidali.

171


III.20 Mode e costumi in Sicilia nel XVII secolo Le cronache di feste, di guerre, d’avvenimenti tristi o lieti, le leggi suntuarie, le liste dei corredi e i lasciti notarili, sono punti di riferimento fondamentali, sulle produzioni delle stoffe e sui commerci ad esse connessi in Sicilia. Dal Quattrocento in poi, l’uso dei panni lana, nel meridione, andò diminuendo a vantaggio di quello dei tessuti serici. La tessitura del cotone e del lino cominciò ad incrementarsi per il largo utilizzo che ne faceva la classe media e signorile, sia per la biancheria sia per gli indumenti intimi. La sericoltura nell’isola fu sempre più potenziata, estendendosi in un primo momento a Messina e successivamente a Catania. La tessitura della seta, proprio per le sue caratteristiche merceologiche, è sempre stata legata nella modernità a una produzione essenzialmente urbana, l’unica ritenuta capace di garantire il controllo della qualità. La produzione serica siciliana, in particolar modo,era posta sotto il diretto controllo urbano. L’organizzazione del sistema manifatturiero siciliano legato al settore serico era caratterizzata da un forte accentramento nella città, la quale esercitava una sorta di monopolio commerciale e produttivo sulle produzioni rurali, limitata all’allevamento del baco, essendo le altre operazioni del ciclo produttivo svolte dentro le mura e sottoposte quindi al controllo delle autorità cittadine. In Sicilia i motivi di questa particolare divisione del lavoro tra città e campagna si intrecciavano con le complesse strutture fiscali e con i privilegi che i corpi della società isolana, quali le università, le corporazioni, il baronaggio e il clero, riuscivano a contrattare con il potere regio. Le conseguenze di ciò furono da un lato un considerevole aumento dei costi di produzione e una difficoltà ad innovare i metodi produttivi, e dall’altro l’impedimento di sviluppo delle manifatture 172


rurali. La produzione serica in Sicilia aveva origini antichissime: la coltivazione del gelso moro si diffuse a partire dall’epoca normanna soprattutto nell’estremo lembo nord-orientale dell’isola e in quelle zone, a partire dal XV secolo, la seta divenne la produzione principale. A partire dal ‘500 e per tutto il corso del ‘700 Messina divenne uno dei crocevia più importanti del commercio mediterraneo della seta grezza; la seta siciliana arrivava a Genova, Livorno e Londra per essere lavorata in loco e da li proseguiva per Marsiglia e Lione. Mercanti veneziani, toscani, genovesi, fiamminghi e francesi , a partire dal Seicento, animarono la capitale della Sicilia Orientale e ne fecero per almeno due secoli uno dei centri di maggiore interesse per i loro commerci. L’andamento delle esportazioni di seta grezza siciliana ebbe, tuttavia, un andamento discontinuo: dopo un prima fase positiva tra la fine del XVI secolo e metà del XVII secolo, si ebbe un periodo di crisi intorno agli anni della rivolta di Messina del 1674; tale fase negativa si protrasse fino agli anni ’30 del Settecento. Già a partire dal XVIII secolo, quindi, la seta siciliana aveva iniziato a subire la concorrenza delle sete piemontesi, lombarde ed orientali, che ne insidiarono, sul mercato internazionale, la posizione di tradizionale preminenza, mentre le manifatture seriche siciliane, apparivano sempre meno concorrenziali, sul mercato locale, di fronte alla sempre più massiccia invasione dei tessuti di panno e cotone di provenienza straniera. Nel ‘700 la perdita di competitività della seta siciliana sui mercati internazionali comportò, inoltre, il ridimensionamento del controllo dei grandi importatori stranieri sulla produzione. È importante notare, quindi, come lo sviluppo della produzione serica andasse di pari passo con il susseguirsi delle forme di governo fosse fortemente condizionata dalle profonde modificazioni che attraversarono 173


il tessuto economico e sociale del Regno negli anni cruciali delle riforme e delle rivoluzioni. La crisi europea della svalutazione monetaria, la bancarotta della corte spagnola e non ultima l’estenuante guerra tra la Francia e la Spagna per il possesso dell’isola, inflissero un duro colpo alla già precaria economia isolana. A Messina, la repressione che seguì la rivolta anti spagnola dal 1674 al ’78, registrò un massiccio esodo dalla città dei lavoranti e dei commercianti della seta, che furono accolti nella città di Catania. All’alba del XVII secolo la Sicilia si ritrovò afflitta dai problemi di sempre: banditismo, carestia, corruzioni, epidemie e rivolte. La capitale era infestata di ladri, assassini e sicari, perciò il viceré proibì ai cittadini di portare armi, togliendo con quell’editto agli uomini un accessorio importante al completamento dell’abbigliamento: la spada. Era questa dorata o argentata, secondo i ricami in oro o in argento della giamberga. Nel 1638 era viceré il conte d’Assumar, Francesco del Mello di Braganza (1597-1651), che è ricordato per la prammatica contro il lusso sfrenato e per aver proibito la tessitura dei drappi da parato. Di ciò si dolsero gli artigiani che vivevano di quell’industria e il loro malcontento fu manifestato durante i gravi disordini che accaddero in tutta l’isola nel 1646, quando era viceré Pietro Fuxardo, marchese di Los Velez (1644). I nobili che ormai si sentivano insicuri entro le cerchie urbane, cercavano scampo nei loro lontani feudi, mentre i rivoltosi, dopo aver messo a ferro e a fuoco le città, assaltarono i nobili palazzi, ne distrussero gli arredi e si pavoneggiarono per la città indossando i ricchi indumenti che vi avevano trovato. A Palermo, a quel tempo, la nobiltà si sollazzava con grandiose feste, si mostrava alla folla attonita con cortei di carrozze dorate e la corruzione serpeggiava, ma il popolo non aveva la forza di reagire, anzi, sembrava che gradisse, almeno tra tutte le dominazioni che si erano avvicendate, quella spagnola, sperando fiducioso in un 174


riscatto dalla propria condizione. In Sicilia le fogge furono d’importazione, e il popolo cercò di imitare l’abbigliamento aulico, almeno nell’abito domenicale o delle feste, con i limiti imposti dalla propria condizione economica e culturale. Le stampe popolari dell’epoca ci descrivono l’abbigliamento maschile caratteristico del proletariato e sottoproletariato metropolitano, un abbigliamento molto povero, semplicemente composto di una camicia e di un paio di calzoni, o, come si trova scritto, di mutande di tela grossa e ruvida e una coppola, sul capo. Molti popolani portavano alla cintura anche un coltellaccio e al collo una pezzuola o tovaglia per asciugare il sudore della fronte. L’abbigliamento delle popolane consisteva invece in una sottana piuttosto corta e in un corpetto allacciato davanti che lasciava vedere la pettorina. Le maniche, staccate, erano allacciate con nodi di nastro, attraverso i quali s’intravedeva la sottostante camicia; le calze potevano essere colorate e ai piedi portavano delle pianelle o gli zoccoli di legno. Per l’inverno era in uso la manta, sorta di coperta o scialle per proteggersi dal freddo. In verità qualcosa fece il Senato palermitano per limitare gli sprechi e gli eccessi nell’abbigliamento dei ricchi, ma ogni qual volta emetteva una legge suntuaria, subito si pensava a come aggirarla. Nella prammatica siciliana del 1640 si limitava, ad esempio, il numero dei paggi e degli staffieri che facevano pompa con le loro gallonate uniformi. Le rinnovate Prammatiche di fine Seicento tentarono, inoltre, di limitare in prima istanza l’uso di materiali preziosi e successivamente, dal 1684, il numero dei servitori e quello dei mezzi di trasporto: Che nessuno possa portare più di due Lacchè, o Staffiero, ed altri due sua moglie, o i suoi figlioli, andando però separati, ma quando usciranno uniti non possano portarne se non due. Che le Signore donne non possano portare più che due Gentiluomini, e due Paggi per ciascheduna.21

175


Molte occasioni, tuttavia, contribuivano a rinnovare l’ostentazione del lusso e rendevano ancor più difficile l’applicazione delle leggi. Le manifestazioni pubbliche in occasioni delle nozze e dei funerali reali e delle incoronazioni, e i numerosi festeggiamenti per l’ingresso dei re e dei principi, a cui si aggiunsero in età borbonica le nascite, i battesimi e le feste religiose, resero necessarie di differenti disposizioni. In molti casi le norme suntuarie furono sospese. Nelle illustrazioni dell’epoca si vedono ritratte le parate, le giostre e i cavalieri della nobiltà siciliana abbigliati in fastose armature, come il corteo in occasione dei festeggiamenti svoltisi a Palermo per le nozze del re di Spagna Carlo II con Maria Luisa di Borbone nell’anno 1680, rappresentato in un’incisione di Pietro Maggio22(fig.78 A-B). Queste scene trovano un loro riscontro iconografico in numerosi dipinti del XVII e XVIII secolo, tra i quali sicuramente spicca, per fasto e esuberanza di servitori, quello dell’Uscita del corteo vicereale dal Palazzo Reale di Napoli di Nicola Maria Rossi (fig.79), del 173023, dove si vedono i cocchieri in serpa alle carrozze, e ai fianchi i valletti con una corta casacca sul giuppone, i calzoni al ginocchio, le calze attillate e le scarpe a punta quadra con fibbie. Alla prammatica le famiglie aristocratiche si opposero sostenendo che quella piccola corte al seguito assicurava loro l’incolumità dagli sputi e dagli scherni. Di un carattere che oscillava tra il moralistico e l’economico fu un’altra legge del 1640 che esordiva ricordando che la prodigalità, la vanità, l’ostentazione e la novità erano eccessive in Sicilia più che altrove. Pertanto le proibizioni riguardavano principalmente lo spreco dell’oro e dell’argento nelle stoffe, nelle graziose scarpette di cuoio, nei ricami e nelle guarnizioni delle vesti. Nei primi anni del 1600, la linea dell’abbigliamento aulico si adeguò 176


allo stile del tempo. Lo spiegamento in senso orizzontale si rese evidente nella linea dell’abbigliamento femminile. Apparvero le acconciature basse e rigonfie ai lati del viso, le scollature ovali da spalla a spalla, i busti a punta allungata e gli immensi guardinfanti che si svilupparono ai fianchi, così da essere appiattiti davanti. La figura femminile si poteva iscrivere in un ovale giacente, tanto risalto aveva la larghezza, in confronto all’altezza. L’abbigliamento maschile era caratterizzato da una casacca lunga e svasata con maniche ed ampi passamani, calzoni da prima aderenti e poi larghissimi, scarpe a punta larga con nastri, o stivali a tromba, e, quando gli uomini uscivano, indossavano un largo mantello drappeggiato sopra una spalla e un cappello rotondo, alto e stretto, poi basso, amplissimo, e piumato. I particolari dell’abbigliamento, le parrucche maschili a riccioloni, le acconciature femminili a ricciolini o a cannelloni, le stoffe a fiori sbocciati, le piume sui feltri maschili, i ventagli di struzzo e le enormi gorgiere, trovarono un gustoso riscontro nei motivi architettonici secenteschi. La stessa rispondenza c’era nei particolari dell’arredamento. La lotta tra Spagna e Francia per il possesso dei paesi del Mediterraneo, vide una persistenza del dominio ispanico in Sicilia, e se l’Italia aveva perduto in Europa la posizione di predominio culturale mantenuto per più di due secoli, i siciliani non rinunziarono a vestirsi con un gusto proprio, anche se le nuove mode arrivavano dalla Spagna prima e dalla Francia poi. Durante la guerra dei Trent’anni ebbe inizio la moda dei pizzi: le trine potevano formare uno stretto colletto o ricoprire interamente le spalle, servire per i polsini, guarnire le calzature. La gorgiera alla corte di Luigi XIII era decaduta, gli uomini si lasciarono crescere i capelli e il vestiario femminile non fu più irrigidito da armature e imbottiture. La Controriforma aveva portato ad una diminuzione della scollatura, 177


ma durante la guerra dei Trent’anni questa tornò ad ampliarsi, fino a scoprire la parte superiore del seno. Parigi dal 1660 propagandava attivamente la sua moda: ogni mese, bambole di metà della grandezza naturale, vestite secondo gli ultimi dettami dell’eleganza, erano inviate nelle altre capitali d’Europa. Dopo il 1680 l’onda del barocco si placò e alla fantasia subentrò il fasto. Quest’epoca vide la creazione di tre fondamentali elementi dell’abbigliamento maschile odierno: la giacca a sacco detta giustacuore; il gilet detto panciotto e i calzoni detti culottes. Il giustacuore, lungo e con le maniche strette, terminanti in grandi paramani, era generalmente di broccato. I calzoni erano stretti e lunghi sino al ginocchio e nella stessa stoffa del giustacuore. Intorno al collo si portò una striscia di lino guarnito con pizzi, antenata della moderna cravatta. Le parrucche maschili, bionde o rosso fuoco raggiunsero le dimensioni maggiori verso la fine del secolo, ma per le donne, alla parrucca sostituì l’alta fantange, acconciatura di lino inamidato e piegato a canna d’organo. Il barocco francese preferì stoffe pesanti, preziose e colori intensi, soprattutto lo scarlatto, il rosso ciliegia e il blu, ma alle donne era concesso anche il rosa, il celeste e il giallo chiaro. Le mode di Spagna, prima e di Francia, poi, furono adottate dai siciliani, sempre attenti alle novità, con buon gusto, utilizzando i magnifici tessuti prodotti a Messina, sobri, ben accostati e senza nulla concedere alle esagerazioni. Pochi i fronzoli, i nastri, mentre le gorgiere, le parrucche e i guardinfanti furono ridotti di dimensione. Le dame siciliane furono però alquanto sensibili al fascino dei gioielli. L’oreficeria utilizzava le perle scaramazze, il corallo e le pietre fortemente colorate, quali i rubini e gli smeraldi, splendidamente incastonate in cornici di filigrana d’oro. Copioso l’utilizzo delle essenze: acqua di rose, estratto di bergamotto o di gelsomino per lenire l’acre odore della sporcizia. Già alla fine del XVII secolo cominciarono ad apparire in Francia, sui visi delle 178


dame, i primi nei finti, ritagliati sul taffettà inglese. Tra gli accessori indispensabili, c’era, infatti, una preziosa scatoletta contenente i nei da applicare, qualora fossero inaspettatamente caduti. Dovevano essere applicati con gusto e con cura per rendere il viso più attraente, per dare vivacità all’espressione. Le siciliane si lasciarono tentare anche da ciò, e applicarono strategicamente i loro nei, là dove desideravano che lo sguardo dei cavalieri si posasse.

III. 21 I motivi decorativi dei tessuti siciliani tra XVII e XVIII secolo In Sicilia il gusto tipico del barocco locale si rifletté anche nei tessuti e nei ricami, caratterizzati da un’esuberanza decorativa e cromatica, lavorazioni con materiali preziosi e gusti scenografici insieme a suggestioni di tipo architettonico, ispirate alle contemporanee invenzioni decorative presenti nei palazzi nobiliari che abbellivano le grandi città come Palermo e Messina. Fin dai primi anni del Seicento nelle decorazioni emersero i temi floreali. Nell’ambito tessile la novità apparve inizialmente nei tessuti d’abbigliamento, grazie alla maggiore facilità di lavorazione su rapporti di disegno a ridotte dimensioni, ma anche per la maggiore libertà interpretativa richiesta nell’invenzione costante di sempre nuovi motivi e suggestivi abbinamenti cromatici. Dalle prime composizioni “a mazze” dell’ultimo quarto del XVI secolo, caratterizzate dall’unione di elementi geometrici e naturali di piccole dimensioni, si passò, all’inizio del Seicento, all’assunzione più ampia di piccoli bouquet, rami fioriti e fiori isolati ripetuti costantemente variandone solo l’orientamento verso destra e sinistra e gli accostamenti cromatici. 179


Il motivo naturalistico invase anche i merletti. Nella produzione ad ago e a fusello si snodava un continuo susseguirsi di elementi vegetali ripiegati su se stessi e culminanti in grandi fluorescenze in rilievo. I manufatti tessili provenienti dalla zona della Sicilia centromeridionale, risalenti al XVII secolo, svelano non solo lo spessore del gusto della nobiltà e del clero, ma soprattutto la loro condizione economica. Per quanto riguarda la provenienza dei tessuti, accanto ad una produzione che può considerarsi locale, vi era anche una produzione di provenienza spagnola, francese e italiana. Ampiamente apprezzati erano, ad esempio,i ricchi velluti operati di Venezia e Firenze, i damaschi e i velluti di Genova, richiesti per arredare le dimore principesche di tutta Europa, i damaschi, i broccati e i merletti di Venezia, famosi per la lavorazione del “punto in aria” non lavorato su tela né su alcun altro supporto ma lasciato alla maestria e alla fantasia delle ricamatrici. Altri tessuti di importazione erano la canapa e la lana, proveniente dai territori abruzzesi e campani. Sino alla dominazione spagnola la presenza dei tessuti ivi prodotti è significativa per la Sicilia. È da notare, tuttavia, che la produzione tessile spagnola risentiva fortemente dell’influenza italiana; ciò si nota soprattutto nei velluti a imitazione di quelli veneziani, genovesi e fiorentini. Nei primi decenni del ‘600 maggiormente diffusi erano i disegni minuti caratterizzanti sia le fantasie dei velluti che dei damaschi. Questi motivi minuti erano in netto contrasto con la moda precedente che preferiva i rapporti di disegno molto grandi. Agli inizi del ‘600, tuttavia, una profonda crisi economica portò alla decadenza delle manifatture spagnole, tanto che si producevano tessuti con motivi che riprendevano, in maniera semplificata, quelli del passato; tessuti più pratici e robusti, ma soprattutto più economici. Le 180


leggi suntuarie, con la loro severità, favorirono inoltre, l’importazione di stoffe apparentemente simili a quelle pregiate, ma più economiche. Ha inizio, proprio in questi anni, quella politica delle apparenze tipica delle classi abbienti, che spesso trascurava la qualità e la resistenza nel tempo in favore dell’effetto. Agli inizi del ‘700 tutta l’Europa, rivalutò i propri gusti in favore di quelli imposti dalla sfarzosa corte francese di Luigi XIV. Gli abiti della nobiltà prediligevano soprattutto i tessuti francesi e quelli del Nord Italia. Per frenare le importazioni, si cercò dunque di supplire con delle imitazioni realizzate dalla manifatture di Valencia e Toledo. I tessuti spagnoli erano caratterizzati da un maggiore geometrismo nella disposizione degli elementi naturali rispetto agli analoghi prodotti francesi e italiani, inoltre i fiori erano più grandi e i colori più intensi. Alle elaborate confezioni degli abiti maschili e femminili si contrappose tra la fine del ‘600 e i primi anni ‘700 una semplificazione della foggia dell’abito a vantaggio del tessuto, che divenne il grande e unico protagonista della moda. I damaschi amatissimi nel ‘600, intorno al primo quarto del ‘700, passarono in secondo piano; i velluti, i broccati ricci d’oro e d’argento e i broccateli apparvero troppo pesanti e cederono il passo ai più apprezzati tessuti leggeri, come i taffetà, i Gros de Tour24, i rasi operati e le telette laminate. Centrale soprattutto era anche il ruolo dei ricami, i cui motivi, così come quelli delle fantasie dei tessuti, tendevano a coprire quasi completamente la superficie con disegni minuti. Massiccio era l’uso dei fili d’oro e d’argento insieme a quello delle applicazioni, delle perle, del corallo e dei granati. Caratteristica principale dei ricami nel ‘600 era il gusto per gli intrecci e gli arabeschi minuti, sebbene dalla seconda metà del secolo, essi saranno sempre più caratterizzati dalla decorazione floreale, in particolare tulipani, rose e fiori esotici. Il ricamo, tuttavia, 181


richiedeva costi elevati e tempi di lavorazione lunghi, per cui veniva usato solo in casi eccezionali o per decorare certi dettagli sia dell’abito maschile che femminile.

III.22 Il tessile europeo tra opulenza e classicismo nella Sicilia Centro-Meridionale Verso la seconda metà del Seicento si registrò la perdita da parte degli italiani dell’egemonia del mercato tessile in Europa; il primato passò quindi alla Francia. Lì il rapporto tra tessitori e disegnatori era molto forte: essi partecipavano direttamente alla produzione e molto spesso erano coinvolti come soci nelle imprese. L’operazione economica condotta da Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), che rivoluzionò il campo delle arti suntuarie fu anche dovuta all’unità politica di cui godeva la Francia, soprattutto sotto il regno di Luigi XIV, a differenza della Spagna che in quel periodo andava perdendo sempre più potere. All’interno del mercato italiano del ‘600 l’egemonia apparteneva invece a Venezia, che riuscì a dare un’importante continuità alla sua produzione tessile, che si era sempre distinta per i suoi velluti e broccati sin dal ‘500, mentre Genova, era la città che meglio si imponeva con i suoi disegni dallo schema tradizionale. Intorno alla metà del XVII secolo i motivi decorativi dei tessuti più elaborati tesero ad ingrandirsi pur rimanendo sempre ristretti a raffigurazioni vegetali. Sia i velluti, che i broccati e i damaschi erano principalmente monocromi. Maggiormente diffuso nel corse del secolo era il rosso cremisi, seppur in varie tonalità. Il damasco giocava con i contrasti dei lucidi e degli opachi, i velluti con la bordura soprariccia25 del contorno del disegno o contro tagliati a varie altezza, mentre i 182


broccati disegnavano motivi attraverso la broccatura in filo metallico, oro o argento, su una base di seta con trama elementare come il taffetas o il raso. Lo schema dispositivo era di ordine geometrico e man mano che crescevano i motivi decorativi diminuiva la ripetizione del modulo. Il nucleo di ricami siciliani tra la seconda metà del ‘600 presenti nel territorio di Caltanissetta dimostra l’importanza tecnica e iconografica di questa tendenza (figg.80-88). Come nei broccati e nei damaschi dello stesso periodo, i ricami erano caratterizzati da una schematica intelaiatura simmetrica. Il motivo centrale, spesso un vaso o un cesto di frutta, appariva sempre ingigantito; nei tessuti c’era spesso un ritorno alle forme ogivali più appuntite o ai ventagli, nei ricami invece si tendeva ad accentuare la tridimensionalità. In Sicilia, come altrove, nei vari centri di produzione dei ricami si procedeva a un lavoro minuzioso di assemblaggi dei motivi. Quelli più usati erano gli elementi decorativi strutturali come le volute, i racemi e i girali di fiori. Della metà del ‘600 ritroviamo a Caltanissetta, un finissimo esemplare di ricamo detto “a seta floscia”26 (o fili tirati e fili distesi). Questa tecnica importata dalla Cina arrivò in Europa nel XIII secolo ma si diffuse soprattutto nel ‘600 in particolar modo in Italia e nella penisola Iberica. Verso la metà del ‘600 le forme degli elementi disegnativi si ingigantirono. Alla fine del XVII secolo i ricami continuarono a sconvolgere l’ordine imprigionante lo spazio e avviano quel movimento rotatorio degli eccessi barocchi, guadagnando quella libertà e fantasia nella composizione dei motivi decorativi che nei tessuti si riconoscono come bizzarri all’inizio del nuovo secolo. Predominavano le foglie lunghe piumate o sfrangiate e i soliti fiori: rose, peonie e tulipani, che tendevano però ad essere più piccoli. Fin dalla metà del ‘600 si assistette, quindi, prima nei ricami e in seguito anche nei tessuti, a una ricerca spasmodica di volumetria nelle raffigurazioni tematiche e al desiderio 183


di una nuova spazialitĂ piĂš consona con i dettami stilistici del Barocco.

184


Note al Capitolo III 1 Cfr. Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600, pp. 241-257. 2 Castiglione, Baldesar, Il libro del Cortegiano, Venezia, presso Aldine, 1528. 3 Pastoureau, Michael, Nero. Storia di un colore; Firenze, Ponte alle Grazie ed., 2008. 4 Lampugnani, Agostino, (pubblicato sotto lo pseudonimo di Giovanni Sonta Pagnalmino), Della carrozza da nolo, overo Del vestire, et usanze alla moda, Bologna, presso Lodovico Monza, 1648, citato in Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600. 5 Maggi, Carlo Maria, I consigli di Meneghino, Atto: I, Scena: I, 1697, citato in Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600. 6 Anonimo guardarobiere della Corte Sabauda, Le ore otiose o Del vivere civile secondo l’uso di corte, dedicato a Carlo Emanuele I, conservato alla Biblioteca Reale di Torino (Varia 284), inizi del XVII secolo, citato in Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600. 7 Cit. Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600. 8 Cit. Storia Subalpina, Curiosità e ricerche di storia subalpina, pubbl. da una società di studiosi di patrie memorie, volume II, Torino,Oxford University ed., 1881, citato in Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600. 9 Melzo, Lodovico, Regole militari sopra il governo e servitio particolare della cavalleria, Anversa, presso Gioachino Trognaesio, 1611. 10 Coryat, Thomas, Crudities, Londra, presso W. Cater, J. Wilkie and E. Easton, 1611. 11 Il maresciallo Honoré d’Albert, signore di Cadenet, introdusse questa moda al tempo di Luigi XIII. 12 La gorgiera raggiunse proporzioni esorbitanti: alta fino al mento e larga sulle spal-

185


le, sostenuta da una vera e propria armatura di ferro chiamata “el rabado.” 13 Rinuccini, Tommaso, Usanze fiorentine del secolo XVII descritte dal cav. Tommaso Rinuccini., Firenze, Stamp. sulle logge del Grano ed., 1863. 14 Cit. Gigli, Giacinto, Diario del XVII secolo, Firenze, 1670, citato in Levi Pisetzky Rosita, Storia del costume in Italia, Roma, istituto dell’Enciclopedia Italiana ed., 2005. 15 Graf, titolo storico della nobiltà tedesca, definisce un particolare rango che, qualora sia adoperato da solo, equivale al titolo di Conte. 16 Nastri dai colori vivi, che si potevano disporre a rosetta rotonda, ma potevano formare anche bordi arricciati intorno ai polsi o sulla veste, o ricadere come fitta frangia sull’orlo dei calzoni maschili.

17 Nel 1680 la casacca veniva chiamata marsina nell’area settentrionale d’Italia. 18 L’ermesino, detto anche “ormesino”, è un tessuto di seta leggero e pregevole, che prende il nome da Ormus, città del Golfo Persico, da dove per la prima volta fu introdotto in Europa. 19 La teletta è un’armatura taffettà di seta, che viene “lanciata” con fili supplementari d’argento o d’oro da cimosa a cimosa cosicché questi rimangano vagamente affogati nella catena. L’effetto finale è un lieve luccichio su tutta la superficie del tessile, antesignano dei tessuti lamé. 20 Il tessuto lanciato è caratterizzato dalla presenza di una trama supplementare che lavora da cimosa a cimosa, che appare sul diritto formando un disegno. La trama lanciata poteva essere fermata al corpo della stoffa mediante l’ordito di fondo (a liage répris) o da un ordito supplementare (ordito di legatura). 21 Giustiniani, Nuova Collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli, Prammatica XIII, Napoli, presso la “Stamperia Simoniana”, 1804, pp. 50-51. 22 Maggio, Pietro, Le guerre festive nelle reali nozze de’ Serenissimi, e cattolici Re di Spagna Carlo Secondo, e Maria Luisa di Borbone, Giuseppe La Barbera, Tommaso Romolo e Angelo Orlandi, 1680. 23 Conservato a Rohrau (Vienna), presso la Graf Harrachsche Familiesammlung, è datato al 1730; Cfr. Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale 1707-1734, Catalogo della Mostra a cura di Wolfgang Prohaska e Nicola Spinosa, Napoli, Electa ed., 1994, pp. 10-12, 18-19. Notasi che la gran parte delle livree, in rosso e oro, specie

186


quelle dei Paggi e dei Volanti, sono ancora di foggia cinque-seicentesca, mentre quella del cocchiere è aggiornata al gusto del Settecento. 24 Il Gros è un intreccio derivato dal taffetà, nel quale sono state inserite due, nel caso del Gros de Tour, o più trame in ogni passo, il tessuto assume così un aspetto compatto di sottili coste orizzontali. 25 Tipo di velluto operato eseguito in riccio e taglio, in cui ogni quattro trame sono di solito inseriti due ferri, uno di taglio e uno di ricci; .l’effetto del velluto tagliato è più alto di quello del velluto riccio. 26 Nei ricami “a fili tirati”, il tipico aspetto del motivo, si ottiene tirando in maniera uniforme il filo da ricamo. Il raggruppamento dei fili del tessuto modifica la struttura del tessuto stesso, così da dare spesso l’impressione di un lavoro di tessitura invece che di ricamo.

187


fig.42

fig.43

fig.44

fig.45

188


fig.46

fig.47

fig.48

fig.49

189


fig.50

fig.51

fig.52

fig.53

190


fig.54

fig.55

fig.56

fig.57

191


fig.58

fig.60

fig.59

fig.61

192


fig.62

fig.63

fig.64

fig.65

193


fig.66

fig.67 A

fig.67 B

fig.67 C

194


fig.68

fig.69

fig.70

fig.71

195


fig.72

fig.73

fig.74

fig.75

196


fig.76

fig.77

fig.78

197


fig.79

fig.80

fig.81

198


fig.82

fig.83

fig.84

fig.85

199


fig.86

fig.87

fig.88

200




Capitolo IV IL GRAND SIÉCLE IN UN DIPINTO

I. Mazzarino: la perla del Barocco della Sicilia Centrale

Tra i più prestigiosi centri feudali del territorio della Sicilia Centrale del XVII secolo sicuramente è da annoverare la contea di Mazzarino, che assurse al ruolo di seconda città del territorio, succedendo a Mussomeli, e mantenne poi tale posizione fino alla vigilia dell’Unità d’Italia (1861) come effetto di uno sviluppo economico dovuto al fatto che i Branciforti la ritennero la capitale dei loro numerosi stati, vi risedettero a lungo e vi soggiornarono arricchendola di opere d’arte. Fu proprio la famiglia Branciforti a gestire le vicende della città, fino ad arrivare a Carlo Maria Carafa Branciforti (1651-1695), che dopo il 1676 vi risedette fino alla morte. Politico, erudito, filosofo, scrittore, umanista e mecenate portò a Mazzarino vanto e splendore, elevando il suo prestigio da contea a città, curando l’istruzione pubblica con impegno nei confronti dei cittadini e donando nuova luce alla città ampliando Chiese e palazzi, quegli stessi capolavori di architettura che ancora oggi possiamo soffermaci ad ammirare. Un consistente incremento demografico e una conseguente espansione del centro urbano si registrarono a Mazzarino tra il XVI e il XVII secolo. Tuttavia, la fase più importante della storia di Mazzarino ha inizio nella seconda metà del Seicento. A quei tempi, Carlo Maria Carafa chiamò a Mazzarino quanto di meglio si trovava nei suoi domini: nobili e facoltosi proprietari, finanzieri pisani, genovesi e di altre città, richiamati dai vivaci commerci, mercanti catalani attratti soprattutto dal 203


commercio del grano, umanisti e artisti, ma anche abili artigiani della pietra, del legno e del ferro; una piccola popolazione che operava e si muoveva dentro quel palazzo vasto come una reggia, che conferiva decoro e splendore d’arte alla cittadina, la quale, intanto, prosperava e si sviluppava, come una piccola capitale, dotata di un’immagine monumentale adeguata a rappresentare l’importanza della corte feudale che era chiamata ad ospitare. Il Carafa fu una singolare figura di principe illuminato che, avendo ereditato dallo zio materno Giuseppe Branciforti (1619-1675) i titoli di Principe di Butera, conte di Mazzarino, barone di Occhiolà, signore di Niscemi ecc., fissò la sua residenza nella cittadina e la trasformò arricchendo di opere d’arte il palazzo baronale1 costruito dai Branciforti, costruendo un sontuoso teatro e istituendo il collegio gesuitico. Nell’agosto del 1694, infatti, il principe di Butera Carlo Maria Carafa ordinò la costruzione del complesso destinato ai padri Gesuiti2, comprendente la chiesa dedicata a S. Ignazio di Loyola3 (fig.89), il collegio (in cui i padri stessi insegnavano grammatica, retorica e filosofia) e il convento. E’ probabile che lavorò al progetto Angelo Italia4, visto che in quel periodo lavorava per la realizzazione della Chiesa Madre5, voluta dal principe Carlo Maria Carafa alla fine del XVII secolo. La costruzione del complesso dei Gesuiti avvenne dopo una miracolosa guarigione del principe, in segno di gratitudine e devozione al Santo; anche dopo la sua morte, il principe ordinò che al Collegio fosse versato un vitalizio. Chiesa e convento furono oggetto di un organico progetto, tuttavia, mentre il collegio (fig.90) rimase incompiuto, la chiesa poté essere completata. La sua struttura è a croce latina a tre navate, con facciata in terracotta e pietre scolpite. Le navate sono arricchite con nove altari, compreso quello maggiore, su cui spiccano imponenti tele settecentesche come quelle raffiguranti la Madonna del Lume6 (fig.91), la Comu204


nione di S. Luigi Gonzaga e il Miracolo di S. Nicolò Magno7 (fig.92). Dalla Chiesa proviene anche il ritratto del principe, forse la sua immagine più nota, che lo ritrae convenzionalmente con parrucca e jabot in pizzo. Il dipinto La Comunione di San Luigi Gonzaga8 (fig.93), situato oggi presso il “Centro Culturale Museale Carlo Maria Carafa” di Mazzarino, è attribuibile a un ignoto pittore fiammingo tardo-novellesco9, di discreta mano e scuola, quasi sicuramente palermitana. L’opera in questione rappresenta San Luigi Gonzaga (1568-1591) che riceve la comunione da San Carlo Borromeo10 (1538-1584) accompagnato dal padre e dai cortigiani. Il dipinto, oltre ai già citati caratteri novelleschi11, presenta anche aspetti di fiamminghismo specie nel realismo di alcuni volti (San Carlo, il sagrista retrostante, ...) e in qualche particolare, come il panneggio del chierichetto che regge la candela, che molto richiama l’ancora oscuro Pietro Dimitri (di cui peraltro non si hanno più notizie dopo il 1649). Chiara reminescenza fiammingo-novellesca è, infine, soprattutto la scelta cromatica basata sui toni bruni. L’intenso verismo ritrattistico con cui vengono eseguiti i personaggi alle spalle del giovane e nobile comunicando, tuttavia, sembrerebbe indicare, non una metafora storica, ma la rappresentazione immediata di una società viva e reale, ovvero, quella della famiglia Branciforti-Carafa, committente dell’opera (fig.94). «Il dipinto è sicuramente da riferire alla committenza del Carafa; infatti i personaggi raffigurati sono vividi ritratti dei membri della famiglia Branciforti-Carafa, qui legittimati ad assistere ad un evento sacro»12. Non vi è dubbio, infatti, per il preciso riscontro con le altre immagini note, che il giovane con cappelli o parrucca bionda in fondo a sinistra, dietro l’anziano con capelli grigi, baffi e spadino, sia il Carafa stesso, qui sui vent’anni o poco meno. 205


Ed è anche quasi certo che il personaggio anziano sia lo zio Giuseppe Branciforti, morto nel 1675, e da cui il Carafa ereditò i feudi e la città; oppure, ma meno probabilmente, l’altro zio, don Gregorio Carafa13 (1615-1690) che, nell’impossibilità di rientro da Napoli del nipote, lo aveva amministrato nei primi tre anni. Questa seconda ipotesi, tuttavia, sembra essere meno credibile poiché, a parte la scarsa motivazione dell’inserimento nel quadro (stante la limitata funzione gestionale dei beni di famiglia) meraviglierebbe, se di questi si trattasse, la mancanza di insegne dell’ordine di Malta14. La compartecipazione dei due nobili locali e dei loro familiari all’evento liturgico è di fondamentale importanza dal momento che nel soggetto sacro si configurava in effetti una vera e propria auto legittimazione del ruolo mondano e sociale dei committenti, quivi compresa l’eredità del potere attraverso l’aggancio più o meno esplicito ed intenso con gli eventi sacri o ecclesiali. La presenza dei nobili locali richiama tra l’altro la compartecipazione dei cugini Branciforti di Leonforte ad un evento sacro raffigurato nel dipinto l’Elezione dell’Apostolo Mattia di Pietro Novelli della Chiesa dei Capuccini di Leonforte (fig.95). Il dipinto rappresenta l’elezione di Mattia all’apostolato dopo il tradimento di Giuda. L’opera, databile intorno al 1640, può leggersi, infatti, come una rappresentazione apologetica della famiglia Branciforti il cui stemma risalta sul pilastrino in primo piano. È noto, infatti, che la cultura figurativa, specie di un piccolo centro feudale, era quella che veniva espressa dalla committenza artistica e che questa proveniva generalmente dalle classi egemoni, nobiliari, clericali e borghesi. Così si spiegano certe presenze artistiche, certi temi iconografici, certi aspetti di cultura e di gusto, che accomunano larga parte del territorio di un centro. A Mazzarino era appunto la famiglia Branciforti-Carafa che attraverso i secoli ha condizionato con le proprie scelte 206


la maggior parte del patrimonio architettonico e artistico del luogo. Oltre a tali fini di lettura semantica, la presenza del giovane Carafa all’interno dell’opera è, inoltre, di fondamentale importanza per risalire alla datazione del dipinto; che, essendo nato il Carafa nel 1651, si può perciò collocare intorno al 1675. Caratteristico del dipinto è il caldo tono bruno-dorato del fondo, di lontana estrazione neo-veneta e novellesca, su cui si scala la composizione, che conferisce all’opera una gradevole unità totale e da cui emergono vivaci e morbide eleganze cromatiche-luministiche, come l’azzurro manto della Vergine, il rosso violaceo della tunica di San Carlo, su cui a sua volta stacca il bianco appena smorzato in grigio della dalmatica, e il manto bianco-venato di rosa antico di Luigi Gonzaga, che va a formare quasi un cardine cromatico-luministico tra i due gruppi di figure. Elemento di chiaro richiamo novellesco è la tunica del paggio reggi torcia di un bianco luminoso ma morbido e sfumato in grigio-rosato, nonché spazialmente amplificato dagli ampi piegoni intrisi d’ombra. Notevole è, inoltre, il fatto che questa figura, con il suo panneggio, si situa in rapporto con il celebrante e il paggio reggi torcia come un lato di quel triangolo pittorico e poetico attraverso la quale il pittore rende viva e pregnante la parte essenziale del contenuto dell’opera.

II. Moda ed eleganza alla corte di Mazzarino

Il dipinto La comunione di San Luigi Gonzaga ci aiuta nell’individuazione di alcuni tratti del gusto vestimentario tra i Branciforti-Carafa e delinea il ritratto di un secolo tanto complesso quanto affascinante: il Grand Siècle, un secolo caratterizzato da un’elevata ricercatezza del gusto e raffinatezza, che si esprimeva nelle fogge delle vesti. 207


Di fondamentale importanza fu l’azione svolta dai nobili siciliani nel processo di diffusione della cultura e del gusto nelle zone interne dell’isola, tanto che ancor’oggi a distanza di centinaia di anni si possono osservare i risultati di questa politica “illuminata”, visibili nelle opere architettoniche e artistiche, leggibili nei testi del tempo e rievocabili nelle testimonianze storiche. Il periodo comprendente il XVII e XVIII secolo, in particolar modo, corrispose alla fase aurea della città, contea e principato di Mazzarino, sotto Giuseppe Branciforti prima e Carlo Maria Carafa dopo. Centro che con quest’ultimo raggiunse il suo massimo splendore, essendo stato eletto dal principe come residenza privilegiata e laboratorio di cultura. «Intorno alle fonti che riguardano zio e nipote si appunta il tentativo di definizione del gusto e delle mode cortesi locali nel XVII secolo, la personalità del Carafa meglio delineata storicamente e descritta iconograficamente»15. Osservando l’opera sotto il profilo della storia della moda, molteplici sono le questioni sollevate dal dipinto. La scena ritratta rievoca delle suggestioni riconducibili alle atmosfere tipiche di una corte con a capo il nobile e intorno a lui il suo seguito. Questo tipo di impostazione, tuttavia, in questo caso viene applicata allo svolgersi di un evento sacro, quale appunto l’Eucarestia. È importante sottolineare quindi come l’evento liturgico venga preso come pretesto per magniloquare lo status symbol della famiglia nobiliare committente dell’opera. Protagonista del dipinto è Luigi Gonzaga, che spicca fra gli altri personaggi ritratti per l’ eleganza delle sue vesti (fig.96). L’abito indossato dal Gonzaga si può ricondurre alla divisa maschile tipica della moda francese, con jabot al collo, un elegante mantello clamidato sulla spalla destra16, un’ampia e morbida casacca con altrettanti ampi risvolti delle 208


maniche e merletti ai polsi, braghe strette al ginocchio dalla giarrettiera e scarpa affibbiata con tacco medio a rocchetto. La profusione dei rossi nelle vesti (la fodera del mantello, il fiocco della cravatta, le calze di seta e il tacco della scarpa17) (fig.97), richiamano infatti in maniera esplicita i dettami tipici dell’habit de court imposti da Luigi XIV all’aristocrazia francese dopo il 1660. La scelta dei colori può essere ricondotta, inoltre, a una diversa chiave interpretativa, da un lato simbolico-religiosa, dall’altro pittorico-stilistica. Nel primo caso, il bianco del mantello di Luigi Gonzaga diviene il simbolo della purezza, e il rosso il simbolo della passione e sacrificio di Cristo; il loro accostamento ne esalta ulteriormente i valori positivi. Il rosso, inoltre, è sempre stato legato alla dignità reale, tanto da diventare l’ abito tipico di re, principi e religiosi. Non a caso i cardinali indossano una tunica di colore rosso, che non solo ricorda il sangue dei martiri della chiesa, ma anche la loro regalità, tant’è vero che vengono chiamati principi della chiesa. Nel secondo caso, invece, il bianco risponde a un’esigenza stilistica tipica dello stile fiammingo-novellesco, che utilizza il colore bianco per far risaltare la figura del santo in mezzo al generale colore brunito che caratterizza il dipinto. Alle spalle del Gonzaga si trova Giuseppe Branciforti (fig.98), già anziano nel presente dipinto, il quale rimane invece aderente alla moda virile della generazione precedente, indossando una casacca tagliata in vita e dalle corte falde, aperta in centro da una lunga fila di bottoni dorati, abbottonati solo nella parte superiore e sciolti in quella inferiore, che scendono fino alla vita. Dai tagli delle maniche e dall’apertura centrale sbuffa la bianca camicia sottostante. Altri elementi tipici della predilezione per la moda d’inizio secolo si possono riscontrare, ad esempio, nell’uso del più sobrio rabat, largo e piatto,al posto del jabot. Sulla 209


spalla destra è appuntato un lungo mantello e nella mano sinistra regge un paio di guanti, lo spadino e un ampio cappello a tesa larga. Tutta la sua divisa è improntata, inoltre, ad un gusto più contenuto, tanto nelle forme sartoriali quanto nei colori, come si addice del resto a un uomo di età matura, che non rinuncia ciò nonostante all’eleganza, per quanto informale e distante dai recenti dettami della moda di corte. Nelle due figure, di Giuseppe Branciforti da un lato, e Luigi Gonzaga dall’altro, sono dunque espresse le due tendenze vestimentarie che hanno contraddistinto il XVII secolo: la moda italo-ispano-germanica che ha contraddistinto la prima metà del secolo e quella di impronta francese che ha determinato il cambiamento delle fogge nella seconda metà del Seicento. La compresenza di queste due diverse tipologie d’abbigliamento, dimostra una delle tendenze tipiche di ogni fase di passaggio, nella quale da un lato si avverte la volontà di mantenere gli antichi modelli, mentre dall’altro il desiderio di apertura verso nuove fogge e gusti. Nel dipinto è ritratto pure Carlo Maria Carafa (fig.99) che, seppur giovane, sembra già investito di funzione e rango ufficiali nelle vesti. Anch’egli è vestito secondo un gusto francese, con un enorme parrucca che copre la fronte, morbida marsina ornata da vistose passamanerie dorate, cravatta bianca al collo e un ampio cappello piumato sottobraccio. In base agli elementi forniti è possibile quindi anticipare l’arco cronologico in cui collocare il dipinto di Mazzarino, che è summa generazionale della dinastia Branciforti-Carafa, comprendendolo tra il 1660-1666, periodo di diffusione delle prime stampe di Bonacina18 dall’ originale milanese di Francesco Del Cairo (v. infra, pp. 7), ed il 16751676, biennio in cui, alla morte di Giuseppe Branciforti, successe suo nipote Carafa. Nei giorni precedenti la morte dell’anziano Branciforti, avvenuta il 15 210


aprile 1675, fu stilato il Repertorio dei beni allodiali e mobili così urbani come rusticani fatto nel Mazzarino a 8 di aprile 1675. Conservato presso l’Archivio di Stato di Palermo, nel ricco fondo Trabia. Tenendo presente che questo repertorio è limitato ai beni palatini di Mazzarino e non , a ciò che la famiglia possedeva più in generale nella capitale, è evidente che esso conferma l’impressione di una «guardaroba ricca ma compassata, in cui i colori lugubri (nero, verdone) preponderano su altre tinte più giovanili e dunque inappropriate»19. Anche la quantità delle vesti era limitata, forse a ragione di una maggiore predilezione del principe per la vita capitolina. I Branciforti-Carafa erano infatti primi del Regno di Sicilia e per le cariche pubbliche ad essi affidate non potevano risiedere in maniera stabile a Mazzarino se non che per poco tempo ed in particolari stagioni dell’anno. La loro residenza primaria era, invece, Palazzo Branciforti20 a Palermo, sede da cui svolgevano i propri uffici regi. Proprio tenendo conto di questa influenza palermitana, si può spiegare meglio il carattere aperto alle innovazioni e agli influssi culturali che caratterizzò le zone feudali della Sicilia Centrale, come Mazzarino, che assunse l’aspetto di una vera e propria capitale. Giuseppe Branciforti, quindi, teneva con sé a Mazzarino la seguente robba: sette vestiti completi21, cinque ferraioli, quattro giubboni con maniche staccabili e intercambiabili, tre casacche, una pelliccia di velluto, quattro cappelli, dodici paia di calze e poco altro ancora. La “misura” delle vesti, tuttavia, non rinunciava all’eleganza, conferita alla robba dalle opere tessili22, dai ricami23, o da alcuni finissaggi24. Particolare interesse, ad esempio, era riservato ai tessuti che, sfoggiati per lo più in situazioni celebrative, avevano da sempre partecipato a quel processo di auto sacralizzazione simbolica messo in atto dagli esponenti delle classi egemoni con il preciso ruolo di definire ed esaltare la loro immagine esteriore, sottolineando il prestigio del rango. 211


Con queste finalità le stoffe preziose erano ostentate come “simbolo di potere” o di riconoscimento, ricorrendo in questo caso all’introduzione di imprese, stemmi ed emblemi ed esibite in tutte le principali manifestazioni dell’ufficialità della vita sociale. In un sistema sociale che riconosceva soltanto nell’ostentazione il segnale visibile del prestigio e del censo, avveniva che la storia di un luogo, insieme a quella dei protagonisti che quest’ultimo avevano connotato, si intrecciasse fittamente con la storia del tessuto. Il patrimonio tessile di Mazzarino rappresenta il caso esemplare in cui le vicende storiche di un luogo e di una famiglia, strettamente connessi tra loro, hanno lasciato una marcata traccia in questo particolare settore delle arti. Sempre nuove, inoltre, erano le invenzioni che gli aristocratici elaboravano per riuscire a distinguersi e rendersi riconoscibili, ma la più diffusa era certamente quella di apporre sul bene lo stemma gentilizio del casato di appartenenza. Le classi dominanti ricorrevano a questo sistema per caratterizzare anche parati, abiti civili o religiosi e arredi tessili. In linea con tali aristocratiche abitudini anche la famiglia Branciforti-Carafa fece eseguire nel corso del tempo numerose stoffe preziose connotate da emblemi araldici. Le stoffe impiegate nel guardaroba del Carafa erano diversissime, come alburni25, scarlatte26, saie27, cammellotti28, rigatiti29, taffetà cangianti30, telette31, ermesini32, damaschi, velluti, broccati, rasi e lamè33; una varietà riscontrabile anche nell’ampia riserva dei drappi che la casa possedeva. I colori delle vesti erano estremamente variegati, tra cui bianco, perla e rosso rigati, verde e bianco rigati, piombo, turchino, verde muschio, verdone, verde oliva, giallo, nero e castagna. La ricchezza dei ricami, delle guarnizioni in oro e delle fodere (tra cui anche in ermellino) erano altri elementi che concorrevano ad abbellire le vesti. Un’opulenza che va sicuramente collegata alla funzione ufficiale del 212


principe di Mazzarino, il quale nel 1683 raggiunse l’apice della sua carriera diplomatica, anno in cui venne nominato ambasciatore straordinario del re di Spagna presso la santa sede in occasione dell’annuale consegna della chinea il 2 febbraio 1684 a papa Innocenzo XI (pontefice dal 1676 al 1689). Questo evento può essere considerato a pieno titolo uno spaccato estremamente vivo delle ambientazioni diplomatiche del tempo e del protocollo cerimoniale ad esso collegato. Un’occasione per manifestare al meglio il proprio prestigio e ruolo sociale, visibile attraverso l’estrema ricchezza, sfarzosità e sontuosità delle vesti. Nel raccoglimento della vita di provincia Carlo Maria Carafa viveva, invece, in modo sicuramente più compassato. Nei suggerimenti morali ed etici che egli dà ai principi cristiani tale moderazione e compostezza emerge maggiormente: Ai Sovrani più, che à Vassalli, per riformare con il loro esempio, gli eccessi, conviene dare un calcio alle superfluità, poiché il lusso intollerabile delle Reggie, è forse una della principali cagioni delle gravezze dei popoli con quel, che siegue. […] Gli arredi, e gli abbigliamenti, non costituiscono un principe grande, ma bensì gli apparati della virtù. Tanto egli apparisce più grande, quanto è più moderato nelle pompe.34

Carlo Maria Carafa fu una personalità di grande rilievo nel panorama politico e culturale della sua epoca. Ben nota era la sua eleganza formale che va letta attentamente tenendo conto del ruolo e della funzione diplomatica a lui assegnati e, più in generale, alla sua attitudine esegetica in tale proposito, di consiglio e orientamento ai “principi cristiani”. Un’eleganza ed uno stile particolari che si regolano razionalmente e ordinatamente nel più ampio contegno derivato dal fortissimo sentimento e devozione religiosa. In tal senso quindi, fatta eccezione delle occasioni ufficiali, in cui si poteva registrare un lusso e una pomposità 213


estremamente ricercata, la moda adottata dal Carafa e dalla sua corte rispecchiava per lo più un carattere moderato e mitigato, che rispecchiava meglio la sua personalità. La presenza del principe a Mazzarino, al contrario di quella dello zio, era stabile. Ciò ebbe la influenza nella sua guardaroba che all’atto di morte era ricca e sontuosa. Evidente appare, inoltre, a distanza di vent’anni dalla morte del Branciforti, come le fogge vestimentarie fossero mutate, segno del trapasso di un’epoca. In due bauli descritti alle cc. 110r-115r del suo inventario post mortem del 169535, sono conservate le vesti del principe, insieme ad alcuni capi femminili. Tra essi compare la giamberga, ossia sopratodo, (in spagnolo nel documento) nei suoi differenti accostamenti e varianti (giambergone e giamberghino); fa la sua comparsa anche la cravatta, detta anche croata36, che va a sostituire l’antico rabat. Testimonianza del valore internazionale della sua trascorsa carriera diplomatica, gli abiti risentono del gusto di accenti ed inflessioni straniere, come quelle tedesche37, spagnole o toscane38. Quello che ne derivava era quindi una sintesi caleidoscopica delle diverse tendenze stilistiche e vestimentarie che hanno caratterizzato un secolo tanto vario e complesso quale fu il Seicento. Questo forte atteggiamento cosmopolita era del resto insito nel ragionamento politico del Carafa, il quale in una sua opera, a tal proposito, afferma: Alessandro il Grande comparve una sola volta in Persia, vestito alla Persiana, e si obbligò tutti gli animi, et i cuori dei Persiani. Or quanto più otterrà chi degli altrui costumi si veste? S’ingegni dunque il prudente Ambasciatore osservarli, e per quanto gli sarà possibile, si studi di praticarli.39

Il Carafa prediligeva particolarmente la moda spagnola, soprattutto quella di ambientazione madrilena. Ciò si può spiegare a causa della 214


sua prossimità con la corte e del prestigio delle sue trascorse cariche diplomatiche. A rafforzare tale impressione concorre la completezza delle fogge iberiche, che assumono nell’inventario il carattere di vesti in corredo. Una moda, quella spagnola, che tra il XVI e il XVII secolo tendeva particolarmente ai colori lugubri e che aveva un carattere “severo”, come si evince del resto anche dall’inventario e dagli scritti del principe stesso. La predilezione per una moda più severa e moderata, come quella spagnola, piuttosto che una più frivola e ricercata, è un’ulteriore testimonianza della forte religiosità e sentimento cristiano del principe Carafa. È costume degli spagnuoli la gravità nel trattare; guardasi egli (se tra essi dimorerà) di esse trattato gioviale, che si accosti al leggere, o tanto affabile, che diventi troppo dimestico; fugga nel conversare gli scherzi, e procuri di usare una, ma che non sembri affettata, maturità di costumi.40 Né pensi, che quanto finora notato, sia vana, o inutile osservazione; imperocche per non aver taluno osservate cose assai minori di queste, o non ha ottenuto il suo fine, o (che è assai più) è stato rigettato con poco denaro. Qual cosa potria stimasrsi di minore considerazione, purchè di niun pregiudizio ad altri, che il vestire un Ambasciatore di quel colore, che più gli fosse il piacere? E pure dalla Porta Ottomana, furono discacciati quegli Ambasciatori, che vi comparvero vestiti di colore verde; perocche egli è quel colore a Turchi sacrosanto, non sofferendo, che da verun si vesta, per non vederlo profanato.41

L’Ambasciadore politico cristiano è una delle più belle edizioni siciliane del Seicento. Fu stampata nella tipografia impiantata nel proprio palazzo dallo stesso Carlo Carafa, principe di Mazzarino, che l’affidò prima al palermitano Giuseppe La Barbera e poi al fiammingo Giovanni Van Berg. Le incisioni furono eseguite da Andrea Magliar, Jacques Blondeau e dai fratelli di origine siciliana Giacomo e Teresa Del Pò. 215


Tali incisioni sono estremamente importanti in quanto testimonianza delle fogge e della moda del tempo. Tra queste spiccano Ritratto di ambasciatore con allegorie e Carlo Maria Carafa incoronato da Minerva al cospetto di Hermes (fig.100), che ritraggono il Carafa con l’abbigliamento maschile tipico della moda francese della seconda metà del Seicento, con un enorme parrucca che copre la fronte e ricasca sulle spalle in due bande arricciate, una morbida marsina lunga fino al ginocchio dagli enormi paramani alle corte maniche, ornata di vistose allacciature di carattere ornamentale, jabot ,stretto da un fiocco al collo, di finissimo lino e trina, calze a guggia e scarpe con tacco medio a rocchetto, fibbia e punta lunata. La presenza di Minerva ha una forte valenza simbolica, essendo quest’ultima dea della sapienza e della scienza, ma anche protettrice delle istituzioni e delle arti, certamente trasfigurazione emblematica delle qualità intellettuali e morali del nostro principe.

III. San Luigi Gonzaga

Soggetto d’interesse da parte dell’iconografia tra il XVII e il XVIII secolo è, appunto, la scena che ritrae la Prima Comunione di San Luigi. Tra gli esempi più significativi possiamo annoverare, ad esempio, l’opera San Luigi Gonzaga riceve la Comunione da San Carlo Borromeo, attribuibile al pittore Francesco Del Cairo (1607-1665), dipinta tra il 1650 e il 1660 per la Chiesa gesuita di Santa Maria di Brera a Milano (fig.101), che assume a modello iconografico per il dipinto mazzarinese. In esso si vede Luigi inginocchiato mentre riceve l’Eucaristia, e, dietro di lui, sua madre, mentre, con le mani giunte, lo offre al Signore nell’Eucaristia. Accanto alla madre si inginocchia anche il padre mentre 216


i due fratelli di Luigi, Rodolfo e Francesco, il suo preferito, sono più indietro, per far denotare la supremazia del suo rango. Verso il centro del quadro c’è la figura intera di San Carlo Borromeo che, chinandosi verso il giovane, pone l’Ostia nella bocca semiaperta di Luigi. Entrambi i santi, in questo quadro, sembrano guardarsi, riconoscendo uno la santità dell’altro. Altro dipinto che ritrae la Comunione di San Luigi è quello di Francesco Trevisani (1656-1746), databile tra il 1700 e il 1712, e conservato presso la Chiesa di Sant’Ignazio a Roma (fig.102). Una questione irrisolta è comunque rappresentata dall’ aderenza al vero o meno del Luigi Gonzaga di Mazzarino, essendo stato riscontrato un evidente anacronismo tra l’agiografia e l’iconografia del santo e la sua rappresentazione pittorica nel nostro dipinto (giovane sì, ma pur sempre adulto); Luigi Gonzaga, infatti, ricevette la Comunione dal Borromeo nel 1580, a soli dodici anni. Una possibile interpretazione a tal riguardo, a mio avviso, sarebbe dunque quella che vede nella figura di Luigi Gonzaga un collegamento e un parallelo con la figura di Carlo Maria Carafa, committente del dipinto. Secondo tale teoria, quindi, il giovane santo, invece che essere rappresentato come un bambino, quale in realtà era e come viene del resto anche descritto dall’iconografia, viene in questo caso raffigurato, invece, come un giovane principe. In tal senso si può spiegare anche il suo abbigliamento, che richiama le mode seicentesche di stile francese della seconda metà del secolo, piuttosto che un abbigliamento tipico cinquecentesco, come è invece raffigurato dai tradizionali modelli iconografici, essendo Luigi Gonzaga vissuto nella seconda metà del XVI secolo. Da qui dunque la scelta di questo preciso motivo iconografico: Carlo Maria Carafa, principe, ambasciatore, e mecenate, nonché uomo di cultura e di fede, nel commissionare il presente dipinto per la Chiesa 217


dei Gesuiti, trova una conferma e una rappresentazione dei suoi ideali cristiani e culturali nella figura del giovane santo. Luigi Gonzaga (fig.103), figlio del marchese Ferrante Gonzaga42 (15071557) e di Marta Tana di Santena (1550-1605), nacque il 19 marzo 1568 nel castello di famiglia a Castiglione delle Stiviere. Primo di otto figli, e quindi erede al titolo di marchese, fin dalla prima infanzia fu educato alla vita militare, tanto che a cinque anni indossava già una mini corazza ed un elmo e rischiò di rimanere schiacciato sparando un colpo con un cannone. La madre, donna di cultura e di fede, lo educò, invece, alla preghiera e alla carità. All’età di dieci anni, Luigi aveva deciso che la sua strada sarebbe stata un’altra: quella che attraverso l’umiltà, il voto di castità e una vita dedicata al prossimo l’avrebbe condotto a Dio. Nel 1580, a dodici anni, ricevette la prima comunione da San Carlo Borromeo, venuto in visita a Brescia (fig.104). Il giovane Luigi studiò lettere, scienze, filosofia e teologia, lesse testi spirituali e relazioni missionarie, pregò e maturò la sua decisione di farsi gesuita e, nonostante l’opposizione del padre inizialmente contrario, all’età di diciassette anni, il 25 novembre1585, ceduto il marchesato al fratello Rodolfo, entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù a Roma. Libero ormai di seguire Cristo, rinunciò al titolo e all’eredità ed entrò nel Collegio romano dei Gesuiti, dove si dedicò agli umili e agli ammalati, distinguendosi soprattutto durante l’epidemia di peste che colpì Roma nel 1590. In quell’occasione, trasportando sulle spalle un moribondo, rimase contagiato e morì il 21 giugno 1591, quando aveva solo ventitré anni. Venne beatificato quattordici anni più tardi da papa Paolo V (pontefice dal 1605 al 1621) il 19 ottobre 1605. Il 31 dicembre 1726 venne cano218


nizzato da papa Benedetto XIII (pontefice dal 1724 al 1730); lo stesso papa lo dichiarò “protettore degli studenti” nel 1729. Nel 1926 fu proclamato patrono della gioventù cattolica da papa Pio XI (pontefice dal 1922 al 1939).

219


Note al Capitolo IV

1 Palazzo risalente alla prima metà del XVI secolo e successivamente oggetto di rimaneggiamenti, che a partire dal XVII secolo l’hanno anche notevolmente accresciuto. 2 La Compagnia di Gesù è un istituto religioso maschile di diritto pontificio, fondato da Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) nel 1534, i cui membri sono detti gesuiti. Sant’Ignazio e i suoi compagni fecero voto di predicare in Terra Santa e di porsi agli ordini del papa; tale programma venne approvato da papa Paolo III (pontefice dal 1534 al 1549) con la bolla Regimini militantis ecclesiae il 27 settembre 1540. Espulso da vari paesi europei nella seconda metà del XVIII secolo, l’ordine venne soppresso e dissolto da papa Clemente XIV (pontefice dal 1769 al 1774) nel 1773; nel 1814 venne ricostituito da papa Pio VII (pontefice dal 1800 al 1823). 3 La Chiesa è attualmente in stato di abbandono ed è chiusa al culto. Il convento, dotato di due grandi chiostri, ha ospitato negli anni scuole, caserme ed anche il Municipio. Oggi è sede delle suore salesiane. Il Collegio,invece, dal luglio 2010, è sede del museo dedicato a Carlo Maria Carafa e ospita il Museo cittadino di Arte Sacra, dove sono esposti una raccolta di opere e oggetti di interesse storico e artistico (argenti, paliotti, paramenti sacri, statue ecc.) di proprietà del Comune e della Curia di Piazza Armerina, sia pezzi archeologici rinvenuti a Dessueri (XII-IX secolo a.C.), a Bubbonia (VI-V secolo a.C.) e a Phliosophiana (V-VII secolo d.C.) tutti in territorio di Mazzarino. 4 Angelo Italia (1628-1700) è stato un gesuita, urbanista e architetto italiano, uno dei protagonisti della stagione barocca in Sicilia nella seconda metà del Seicento. Tra il 1685 e il 1692 fu al servizio del potente e colto Carlo Maria Carafa, principe di Butera, per la realizzazione della Chiesa di S. Maria della Neve (Chiesa Madre) di Mazzarino. 5 La Chiesa Madre fu eretta verso la fine del XVI secolo sull’area dove prima sorgeva una chiesetta dedicata a Santa Maria della Neve, su progetto dell’architetto Angelo Italia, modificato successivamente su disposizione testamentaria del Principe Carlo Maria Carafa. La costruzione della Chiesa fu avviata grazie al lascito di mille scudi disposto a tale scopo dal principe Carafa. 6 Olio su tela (230x136 cm). Il dipinto, attribuibile a un ignoto pittore siciliano della prima metà del XVIII secolo, rappresenta la Vergine che libera dalle fiamme eternali un suo devoto, mentre un angelo offre al Divin fanciullo un canestro dove sono raccolti i cuori dei devoti. Il culto della Madonna del Lume fu promosso a Palermo proprio dai Gesuiti nei primi decenni del Settecento.

220


7 Il Cavalier Giuseppe Vinci, che firmò l’opera nel 1764, si ispirò nella realizzazione del dipinto alla tela omonima di Luca Giordano (1634-17’5), desumendola sicuramente per qualche disegno o stampa acquisiti durante il suo soggiorno napoletano. Probabilmente questo dipinto costituì l’ultima committenza pittorica del collegio gesuitico di Mazzarino, prima dell’espulsione dell’ordine avvenuta nel 1767. 8 Ignoto pittore, Comunione del beato Luigi Gonzaga, ultimo quarto del XVII secolo, Mazzarino, Centro culturale “Carlo Maria Carafa”, già nella Chiesa di S. Ignazio, olio su tela (250x170 cm). 9 Scuderi, Vincenzo in La Pittura nel Nisseno. Dal XVI al XVIII secolo, catalogo della mostra a cura di Elvira D’Amico, Caltanissetta, 2001, cat. N. 35. pp. 188-189. 10 Carlo Borromeo è stato un arcivescovo cattolico e cardinale italiano. Terzogenito di Gilberto, conte di Arona, e di Margherita de’ Medici, apparteneva ad un’antica e ricca famiglia originaria di Padova.Le dignità ecclesiastiche e la fulminante carriera le dovette d’altronde alla famiglia e soprattutto allo zio materno, il cardinale Gian Angelo Medici, eletto papa con il nome di Pio IV (pontefice dal 1560 al 1565). Il Borromeo fu da lui nominato cardinale e segretario privato quando aveva poco più di vent’anni. In tale veste,dando esecuzione alle direttive dello zio, il giovane Carlo ebbe la singolare occasione di contribuire a riaprire, concludere e attuare il Concilio di Trento (1563).Attuando nella diocesi ambrosiana la riforma tridentina, vivendo costantemente in ascetica povertà, Carlo Borromeo dedicò la sua azione pastorale alla cura delle anime e alla riforma dei costumi, promuovendo oltre al culto “interiore” anche il culto “esteriore”, riti liturgici, preghiere collettive, processioni, ravvivando in tal modo la fede, l’identità e la coesione sociale soprattutto dei ceti più popolari. Fondò seminari, edificò ospedali e ospizi. Utilizzò le ricchezze di famiglia in favore dei poveri. Durante la peste del 1576 assistette personalmente i malati e morì consumato dalla malattia il 3 novembre 1584. Nel 1610 fu canonizzato da papa Paolo V (pontefice dal 1605 al 1621). 11 Cerchia artistica riunitasi intorno alla figura di Pietro Novelli (1603-1647), detto “il Monrealese”, pittore e architetto italiano, nominato “pittore reale”, nonché il più importante e influente artista del Seicento in Sicilia.Novelli ebbe una determinante influenza sulla via intrapresa nel quarto decennio del XVII secolo dai pittori attivi a Napoli e in Sicilia. Egli, infatti, con il suo stile capace di coniugare istanze classiche, morbidezze vandyckiane e indagine realistica, determinò la svolta pittoricistica e la crisi del naturalismo. 12 Cit. Rizzo, Salvatore, Percorsi di Archeologia e Storia dell’Arte. Centro Culturale “Carlo Maria Carafa” Mazzarino, Mazzarino, Paruzzo Editore, 2009.

221


13 Gregorio Carafa fu Gran Maestro Generale della flotta dell’Ordine di Malta dal 1680 al 1690. 14 L’Ordine di Malta, è un ordine religioso cavalleresco di origine medievale canonicamente dipendente dalla Santa Sede, con finalità assistenziali. È il principale successore dell’antico ordine dei Cavalieri ospitalieri, fondato nel 1048, anno in cui alcuni mercanti dell’antica repubblica marinara di Amalfi ottennero dal Califfo d’Egitto il permesso di costruire a Gerusalemme una chiesa, un convento e un ospedale nel quale assistere i pellegrini di ogni fede o razza. L’ordine fu reso sovrano il 15 febbraio 1113 da papa Pasquale II (pontefice dal 1099 al 1118). La natura cavalleresca spiega e giustifica il mantenimento del carattere nobiliare dell’Ordine, molti dei cui cavalieri religiosi provenivano, infatti, dalle famiglie aristocratiche del mondo cristiano. 15 Cit. Vicari, Vittorio Ugo, Moda, eleganza e gusti cortesi a Mazzarino nel XVII secolo, in Rizzo, Salvatore, Percorsi di Archeologia e Storia dell’Arte. Centro Culturale “Carlo Maria Carafa” Mazzarino, Mazzarino, Paruzzo Editore, 2009, pp. 204. 16 La cappa clamidata con ampio colletto, detta anche ferraiolo, era una sopravveste molto in voga nell’ abbigliamento maschile del Cinquecento, ma nella moda francese affermatasi dagli anni Trenta del XVII secolo essa assunse un rilievo maggiore e una maggiore morbidezza di panneggio, con colletto ampio e riverso sulle spalle. 17 Si veda a tal proposito uno dei più famosi dipinti della ritrattistica di Luigi XIV: Hyacinthe Rigaud, Ritratto di Luigi XIV, Parigi, Museo del Louvre, 1701-1702. 18 Già nel 1666 il dipinto San Luigi Gonzaga riceve la Comunione da San Carlo Borromeo di Francesco Del Cairo era riprodotto a stampa da Cesare Agostino Bonacina (1634-?). 19 Cit. Vicari, Vittorio Ugo, Moda, eleganza e gusti cortesi a Mazzarino nel XVII secolo, in Rizzo, Salvatore, Percorsi di Archeologia e Storia dell’Arte. Centro Culturale “Carlo Maria Carafa”, Mazzarino, Mazzarino, Paruzzo Editore, 2009, pp. 205. 20 Il Palazzo Branciforti a Palermo risale alla fine del XVI secolo, quando vi dimorò Nicolò Placido Branciforte Lanza conte di Raccuja, cui succedette il figlio Giuseppe Branciforte che si investì del Principato di Pietraperzia e di Butera; per tale motivo il palazzo fu denominato “Palazzo Pietraperzia e Butera”. Intorno alla metà del XVII secolo il palazzo fu ampliato, fino a raggiungere quasi il doppio della sua superficie e divenire una delle più sontuose dimore nobiliari della città. 21 1) Un vestito completo color verdone; 2-3) due altri vestiti completi in panno d’Olanda in tinta unita, composti di ferraiolo, calzone, casacca e giustacuore; 4) un altro vestito di raso operato nuovo, composto di due paia di calzoni e una casacca; 5)

222


un altro vestito in ermesino di seta marezzata, corredato di due calzoni; 6) un altro vestito in ermesino di seta nera di Lucca; 7) un altro vestito di tela colorata, composto di casacca, calzoni e ferraiolo. 22 «Un vestito di raso lavorato nuovo», c. 6v (ossia: “operato”). «Un gippone di aspolino con maniche guarnite di guarnitione di seta nera», c. 7r (ossia: un giubbone in drappo di seta spolinata; broccato in trama, ottenuto con piccole navette speciali (spolini), in cui le trame supplementari formanti il disegno agiscono solo nell’ambito del disegno stesso, quindi senza nessuno spreco di filato). 23 «Un vestito verdone raccamato d’argento passato con lavori grandi con butto addritto», c. 6v (ossia: ricamato in fili d’argento passati con motivi di grande rapporto). «Un paro di maniche ricamati di argento e filigrana», c. 7r. 24 «Un vestito di armesino ondiato», c. 7r (ossia: “marezzato”, tessuto di seta, nel quale piccole coste trasversali più o meno rilevate sono schiacciate sotto pesanti mangani, creando così effetti vari di riflessione di luce, mediante la deformazione delle trame. L’effetto risultante è quello di macchie di diverso colore, ovverosia zone irregolari chiare alternate con altre più scure, o zone lucide alternate con altre opache. 25 L’alburno è la parte più esterna e quindi più giovane del legno degli alberi e degli arbusti; è chiara, più leggera e più umida della parte interna, che è detta durame. 26 Lo Scarlatto è un panno di lana rosso di nobilissima tintura, di origine antichissima. 27 La Saia è un tipo d’armatura tessile caratterizzata da andamento diagonale ottenuto dall’intreccio di nervature oblique date dallo scarto delle legature , dove per legatura si intende il passaggio di un filo di ordito sopra un filo di trama. Il rapporto ottenuto è 1:2, dove un filo di ordito passa sopra un filo di trama e poi sotto due. 28 Il Cammellotto è un tessuto fatto con pelo di cammello o di capra, normalmente utilizzata nel colore rossiccio naturale. 29 Tessuto di lino o di cotone vergato, ossia a verghe o righe piuttosto sottili e di vario colore. 30 Tessuto di seta leggero caratteristico per il suo colore iridescente e lucentezza metallica, causato dalla diversità di colore dei fili d’ordito da quelli di trama. 31 Tessuto ricamato in oro o argento. La tela indica un qualsiasi tessuto di lino, cotone o canapé, caratterizzata da un intreccio estremamente minuto, il cui rapporto di armatura è composto da due soli fili e due sole trame. Poiché ogni filo di ordito si intreccia con ogni filo di trama, le briglie risultano minime e il tessuto serrato e resistente. In questo tipo di tessuto il diritto risulta uguale al rovescio, la superficie un po’ opaca. Le tele possono avere diversi aspetti: piene e compatte, come la tela olona, molto fitta,

223


robusta, grossa e impermeabile; ma anche aperte e rade, come le garze leggerissime e voile. 32 L’ermesino, detto anche “ormesino”, è un tessuto di seta leggero e pregevole, che prende il nome da Ormus, città del Golfo Persico, da dove per la prima volta fu introdotto in Europa. 33 Tessuto composto di fili di seta o di lana intrecciati con filati di oro e argento impiegati in ordito o in trama come fili supplementari, che gli conferiscono una caratteristica rigidità e lo rendono sostenuto e brillante. 34 Cit. Carafa, Carlo Maria, Instruttione cristiana per i principi e regnati, Mazzarino, presso Giuseppe La Barbera, 1687, cap XXIV, pp.365-66. 35 Archivio di Stato di Palermo, Archivio Trabia, serie I, vol. 180, Notaio Vincenzo Triolo, Mazzarino, Inventario post mortem dei beni di Carlo Maria Carafa e Branciforti, Principe di Butera, 25 giugno-16 luglio 1695. 36 «Item due corvati di punta. Item tre corvati di pezzulli. Item sette corvati senza pezzulli. Item altre quatto corvate senza pezzulli». Ibidem, c. 110v (per “corvata” si intenda croata e per “pezzulli” i merletti a pizzi). 37 «Item un giammericone alla todesca di scarlatone con ciappe e bottoni d’oro foderati d’Armellino». Ivi, c.110r. 38 «Una sottana ed un gippone di raso turchino guarnito di paglia». Ivi, c. 155r (la lavorazione a ricamo in paglia era tipica fiorentina). 39 Cit. Carafa, Carlo Maria, L’Ambasciadore politico cristiano, Mazzarino, presso Giovanni Van Berghe Fiamengo 1690, § 4, p. 94. 40 Ivi, § 6, pp. 94-95. 41 Ivi, § 9, p. 96. 42 Ferrante Gonzaga è stato un abile condottiero italiano. Egli fu uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo V (regnante dal 1519 al 1556), che lo nominò viceré di Sicilia dal 1535 al 1546 e governatore di Milano dal 1546 al 1554; dal 1539 fu sovrano della Contea di Guastalla.

224


fig.89

fig.90

fig.91

fig.92

225


fig.93

fig.94

fig.95

fig.96

226


fig.97

fig.98

fig.99

fig.100

227


fig.101

fig.102

fig.103

fig.104

228




Capitolo V IL PROGETTO Il progetto di tesi è da considerarsi il presupposto di un futuro progetto culturale, che sarà denominato Il Grand Siécle in Sicilia, pensato dal Prof. Vittorio Ugo Vicari. Esso prevede l’elaborazione di un abito maschile della seconda metà del XVII secolo, appartenente ad un contesto relativo allo studio delle mode e dei costumi del periodo così denominato “Grand Siècle”, ovvero sia l’età che va da Luigi XIII (1601-1643), fino, e soprattutto, all’assolutismo di Luigi XIV, il così detto “Re Sole” (1638-1715). Nello specifico, un particolare interesse è rivolto all’abbigliamento e alle mode della Sicilia Centrale, attraverso lo studio di una delle famiglie più ricche e note del panorama nobiliare della Sicilia del XVII secolo: i Branciforti-Carafa di Mazzarino, perla del Barocco del territorio nisseno. Attraverso lo studio della suddetta famiglia, è stato possibile risalire alle mode e usanze della Sicilia barocca, nonché alle forti connessioni che tale famiglia ebbe col resto d’Italia e d’Europa, comprensibili grazie all’ affascinante ruolo di mecenate e principe illuminato svolto dal principe di Mazzarino, Carlo Maria Carafa (1651-1695), che ebbe il merito di abbellire e arricchire la cittadina siciliana e trasformarla in un affascinante centro culturale. Di fondamentale importanza è stato in tal senso l’osservazione del dipinto di un ignoto pittore dell’ultimo quarto del XVII secolo La Comunione di San Luigi Gonzaga, conservato un tempo presso la Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola di Mazzarino e situato oggi presso il “Centro culturale-museale Carlo Maria Carafa” della stessa città. Partendo dall’osservazione diretta del suddetto dipinto, si è deciso di realizzare delle tavole iconografiche, per analizzare più da vicino ogni singolo elemento dell’abbigliamento cortese del XVII secolo, deducibile dall’opera. Molto evidenti apparivano dunque, nell’abbigliamento e negli usi e costumi della sua corte, i caratteri di frivolezza e ricercatezza tipica francese, sensori di un’ingente ricchezza e prestigio, moderati, tuttavia, da un gusto tipicamente italiano. 231


TAVOLA 1

A

B


TAVOLA 2

A

B


Nelle corti siciliane del Seicento i costumi si erano raffinati come non si era mai visto in precedenza e si era sviluppata una vita sociale che affascinava e conquistava gli stranieri: gli artisti, le opere, i modelli, lo stile italiano, si diffusero in breve tempo in tutta Europa. Il signore, in particolar modo, con il suo stile di vita sempre più raffinato ed elitario, tendeva in tutti i modi a distinguersi dalla folla dei notabili locali:attraverso il colore dei suoi vestiti, il suo incedere elegante, lo stuolo di paggi e cortigiani, la decorazione del suo palazzo. Il lavoro di tesi è stato affiancato da un periodo di tirocinio svolto, sotto la direzione della Prof.ssa Francesca Pipi, presso la “Sartoria costumi teatrali di Pipi Francesca & f.lli sas”, una sartoria che opera nel campo della realizzazione e del noleggio di costumi teatrali. Lo scopo del suddetto tirocinio è stato, appunto, studiare approfonditamente e da vicino le tecniche sartoriali relative alla costruzione di un abito maschile del XVII secolo. Il modello dell’abito che si è scelto di realizzare è stato ricavato dal volume The Cut of Men’s Clothes 1600-190 1di Nora Waugh2. Questo libro traccia l’evoluzione dello stile dell’abbigliamento maschile attraverso una sequenza di diagrammi accuratamente ridimensionati da modelli di indumenti effettivi, molti dei quali sono esemplari rari di musei. I plat sono stati selezionati con lo stesso scopo. Alcuni di essi sono stati ricavati da fotografie di abiti, per i quali sono stati forniti i diagrammi, altri, riprodotti da dipinti e stampe antiche, mostrano il costume completo con i suoi accessori. L’allure che si andrà a ricreare è quella caratteristica dell’abbigliamento maschile tipico della moda francese della seconda metà del Seicento, con un enorme parrucca che copre la fronte e ricasca sulle spalle in due bande arricciate, una morbida marsina, lunga fino al ginocchio dagli enormi paramani alle corte maniche, che lasciano in vista quelle gonfie della camicia, strette tuttavia da un nastro al polso che arieggia la finizione di trina; jabot ,stretto da un fiocco al collo, di finissimo lino e trina, calze a guggia e scarpe con tacco medio a rocchetto, fibbia e punta lunata. Tutta la veste è decorata da una profusione di vistose allacciature di carattere ornamentale e passamanerie, galani e infiocchettature. Compongono l’abito un’inquartata e delle braghe, nonché la camicia, e i vari accessori, quali cravatta, calze, scarpe, cappello e parrucca. 234


TAVOLA 3

A

B

C

D


I. Realizzazione del modello di prova

Partendo da questo specifico modello, risalente al 1680-90, la prima fase della realizzazione è stata lo sviluppo del cartamodello in scala reale. Prendendo come punto di riferimento l’unità di misura in scala, fornita dal modello, e convertendo quindi la misura da pollici a cm (1 pollice = 2,54 cm) con un apposito metro, che presenta al suo interno entrambe le scale di misura, è stato riprodotto il cartamodello dell’inquartata e delle braghe su specifica carta da cartamodello. Successivamente sono state segnate sul cartamodello le varie tacche, i punti di appiombo e l’abbottonatura. Realizzato il cartamodello, si sono assemblate le varie parti per verificare l’esatta combinazione delle varie parti tra di loro. Dopodiché si è passati allo sviluppo del modello di prova, partendo inizialmente dalla realizzazione della manica dall’ampio paramano. Essa è composta da due parti, che unite insieme, vanno a comporre la manica nella sua interezza. In un primo momento è stato realizzato il paramani, la cui forma definitiva è stata ottenuta per mezzo della chiusura di pences su entrambi i lati. La parte finale della manica è stata infine rimboccata internamente e cucita insieme al paramani, realizzato in precedenza.

A

236


TAVOLA 4

B

C


A

B

Successivamente si è passati alla realizzazione dell’intera inquartata unendo tra di loro le parti del centro-davanti e del centro-dietro. A quest’ultima è stata unita la manica realizzata in precedenza. Un passo fondamentale è stata la prova del modello sul manichino, per verificarne la vestibilità e la caduta del tessuto. In questo modo è stato possibile notare l’andamento della parte inferiore dell’inquartata, che naturalmente va a creare una caratteristica sinuosità. Durante questa fase è stato inoltre possibile effettuare delle eventuali modifiche e correggere le imperfezioni.

238


TAVOLA 5

C


TAVOLA 6

A

B


A questo punto si è passati alla realizzazione del modello di prova delle braghe. Anche per queste il procedimento di realizzazione è stato lo stesso di quello utilizzato in precedenza per l’inquartata, ovvero sia il taglio delle singole parti, centro-avanti e centro-dietro, e la loro unione tramite imbastitura. In più, però, in questo caso è stata realizzata l’apertura nella parte inferiore per l’abbottonatura e l’arriccio nella parte superiore e inferiore della braga. In corrispondenza dell’arriccio sono stati aggiunti due cinturini, realizzati con delle fasce di tessuto. Il tutto è stato rifinito attraverso l’uso del “punto nascosto”, che non essendo per l’appunto visibile all’esterno, ha permesso di realizzare un lavoro più preciso e pulito. II. La scelta del tessuto da utilizzare

Conclusa la realizzazione del modello di prova, la seconda fase del lavoro è stata caratterizzata dallo studio delle stoffe e dei decori tessili che usualmente erano utilizzati nella realizzazione dell’abbigliamento maschile della seconda metà del XVII secolo attraverso una ricerca su libri specifici e attraverso l’osservazione diretta dei tessuti e paramenti sacri tipici della zona del cento Sicilia, e in particolar modo di Mazzarino, conservati presso il “Centro culturale-museale Carlo Maria Carafa”. Si è passati dunque allo studio diretto di tali tessuti riproducendoli in un primo momento in disegni ed acquerelli, e successivamente in formato digitale. Dopo una serie di prove si è giunti quindi alla scelta dell’elemento decorativo definitivo, di motivo floreale, e alla creazione di un pattern 30x30 cm da riprodurre in tutta la superficie della stoffa. Sono state effettuate varie prove di stampa su tessuto3 mediante serigrafia sia ad uno che a due colori, dove si è riscontrato che, mentre nel caso di stampa ad un solo colore il tessuto manteneva una certa morbidezza, nel caso di stampa a due colori, invece, la morbidezza veniva bene, rendendo il tessuto più difficile da lavorare. Il tessuto è stato in seguito rifinito mediante un’ombreggiature in oro dipinto a mano con colore per stoffe. In entrambi i casi, tuttavia, la realizzazione dell’intero tessuto stampato era impossibile a causa del limite massimo di grandez241


TAVOLA 7

A

B

C

D


za imposto dal telaio (100x70 cm). A questo punto è stata contattata una seconda ditta, che produce stampe su stoffe di ampiezza maggiore e si è realizzata un’ulteriore prova di stampa su del cotone pesante. In questo caso, il tessuto si presentava per nulla morbido e i colori meno brillanti rispetto alle precedenti prove di stampa;la perdita di colore è stata registrata soprattutto in seguito al lavaggio della stoffa. Sono state effettuate comunque delle prove di rifinitura dell’elemento decorativo mediante ricamo in filo d’oro e pittura a mano. Abbandonata dunque l’idea di realizzare un tessuto stampato, si è deciso di utilizzare un tessuto a tinta unita, nello specifico del taffetas di seta, su cui poi apportare l’elemento decorativo a mano mediante diverse tecniche. È stata realizzata così una matrice del pattern in linoleum e una mascherina per lo stencil in acetato;in entrambi i casi, tuttavia, si avvertiva una mancanza di precisione e definizione del tratto. Dato lo scarso risultato riscontrato nelle prove precedenti, si è pensato di utilizzare un’ulteriore tecnica, realizzando una stampa a mano con matrice (15x15 cm) realizzata con una particolare gomma intagliata a laser e montata su un supporto in legno. In questo caso si è ottenuto così un elemento decorativo maggiormente definito e preciso, sicuramente di qualità migliore rispetto alle prove precedenti. Per quanto riguarda la scelta del colore da utilizzare sono state fatte anche in questo caso diverse prove. Dopo una prima scelta orientata sui toni del verde nelle sue varie sfumature, si è optato un blu di fondo con gli elementi decorativi in giallo ocra, rifiniti da punti luce e ombreggiature in oro, che conferiscono al tessuto un aspetto cangiante e una maggiore lucentezza. Particolare attenzione è stata dedicata, inoltre, allo studio degli accessori, gioielli, acconciature e copricapi tipici del tempo. In questo modo è stato possibile ritrovare tutti quegli elementi indispensabili a ricreare l’allure tipica del gentiluomo del 1600. Si è deciso di realizzare a tal proposito la parrucca, elemento fondamentale della figura maschile tra XVII e XVIII secolo.

243


TAVOLA 8

A

B

C

D


E

F

G

H


TAVOLA 9

A

B

C

D


E

F

G


III. Descrizione del vestito

Il vestito è stato realizzato in taffetà di seta color blu marino con stampa ad effetto damascato in similoro. Esso presenta una morbida marsina leggermente svasata lunga fino al ginocchio dagli enormi paramani alle corte maniche. L’allacciatura è posta nel centro-davanti tramite una lunga fila di bottoni. Le braghe sono, invece, a tinta unita; strette sotto il ginocchio da bottoni e decorate con nastri. Da sotto lo giacca sbuffano le ampie maniche della camicia bianca, realizzata in battista leggera e impreziosita da merletti. Il collo è chiuso da un morbido jabot, anch’esso in merletto. Nell’allure finale spiccano, infine, i “rossi” del tacco della scarpa, delle calze e degli ampi nastri e infiocchetta ture. Per rendere la marsina più consistente, si è deciso di infustirla all’interno con uno strato di silesia blu; i pettacci del centro-davanti sono stati inoltre ulteriormente irrobustiti dall’uso di uno strato di pelo cammello, unito al sottostante strato di silesia per mezzo del “punto mosca”. Il tutto, infine, è stato chiuso e fissato da uno strato di fodera saglia, anch’essa blu. Per agevolare il sinuoso andamento della veste, sono stati realizzati dei piegoni a fisarmonica nel retro della marsina. Per il rivestimento degli ampi paramani, essendo quest’ultimi a vista, si è scelto di utilizzare del taffetà blu. I pantaloni, invece, sono stati semplicemente infustiti da della silesia blu. Per l’abbottonatura della giacca sono stati rivestiti dei bottoni con il tessuto utilizzato in precedenza nella realizzazione della veste. Le scarpe sono state realizzate prendendo delle vecchie scarpe nere di teatro e rivestendole con la stessa stoffa del vestito. Il tacco, infine, è stato laccato in rosso, secondo la moda del tempo.

248


Note al Capitolo V 1 Waugh, Nora, The Cut of Men’s Clothes 1600-1900, New York, Theatre Arts Book ed, 1964. 2 Nora Waugh nel 1930 è stata responsabile del costume presso il Teatro Studio di Londra. 3 Per la prova di stampa è stata utilizzata una tela pidocchio, conosciuta anche come tela da scenografia.

249


TAVOLA 10

A

B

C

D


E

G

F









Apparati


Indice delle illustrazioni Fig.1

Fig.2

Fig.3

Fig.4 Fig.5 Fig.6 Fig.7 Fig.8 Fig.9 Fig.10 Fig.11 Fig.12 Fig.13 Fig.14 Fig.15 Fig.16 Fig.17 Fig.18 Fig.19 Fig.20 Fig.21 Fig.22 Fig.23

Mappa della zona di effettivo commercio della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, 1665, Amsterdam, Nationaal Archief of the Netherlands. Mappa della zona di effettivo commercio della Compagnia Britannica delle Indie Orientali, 2006, Philadelphia, University of Pennsylvania. Mappa della zona di effettivo commercio della Compagnia Francese delle Indie orientali, 2006, Philadelphia, University of Pennsylvania. Nicolaes Visscher II, Indiae Orientalis, XVII sec., Amsterdam, Het Geheugen van Nederland. Nicolaes Visscher II, Map of New Netherland and New England, 1685, Londra, Library of Congress. Mappa della Guerra dei Trent’Anni Mappa sulla situazione religiosa dell’Europa Centrale intorno al 1618 Mappa della Fase Boema della Guerra dei Trent’Anni Mappa della Fase Danese della Guerra dei Trent’Anni Mappa della Fase Svedese della Guerra dei Trent’Anni Mappa della Fase Francese della Guerra dei Trent’Anni Mappa dell’Europa dopo la Pace di Vestfalia Mappa della Francia prima di Luigi XIV Mappa della Francia ai tempi di Luigi XIV Charles Colbeck, Mappa dell’Europa dopo la Pace di Utrecht, 1905, Austin, University of Texas. Charles Colbeck, Mappa dell’Inghilterra e del Galles dal 1642 al 1649, 1905, Austin, University of Texas. Mappa dell’Inghilterra durante la rivoluzione inglese Mappa della durante il XVII secolo Mappa della Svezia durante la Seconda Guerra del Nord Mappa dell’Impero Ottomano dopo la Pace di Passarowitz Mappa dei domini stranieri in Italia Ioannem Janbonium, “Siicilia regnum”Mappa della Sicilia del XVII sec, 1664. Biagio Aldimari, Historia Genealogica della Famiglia Carafa, Napoli, presso Bulison, 1691.

260

p.12

p.12

p.12

p.12 p.13 p.13 p.13 p.14 p.15 p.15 p.16 p.17 p.37 p.38 p.44 p.45 p.46 p.48 p.49 p.49 p.51 p.56 p.85


Fig.24 Fig.25 Fig.26 Fig.27 Fig.28 Fig.29 Fig.30 Fig.31 Fig.32 Fig.33 Fig.34

Fig.35 Fig.36

Fig.37

Fig.38 Fig.39 Fig.40 Fig.41 Fig.42 Fig.43

Stemma dei Carafa della Spina, Napoli, Palazzo Carafa dei duchi di Forlì e conti di Policastro. Stemma dei Carafa della Stadera Stemma usato da Carlo Maria Carafa Stemma dei Branciforti Ritratto di Francesco Branciforti, olio su tela, Militello, Museo Civico Comunale Albero genealogico delle famiglie Branciforti e Carafa Ritratto di Nicolò Placido Branciforti, scultura, Leonforte, Palazzo Branciforti Ritratto di Fabrizio Carafa, incisione. Ritratto di Carlo Maria Carafa, incisione. Ritratto del Gran Maestro Gregorio Carafa, 1680-90, olio su tela, la Valletta, Palazzo dei Gran Maestri. Carlo Maria Carafa, Opere Politiche-Christiane:il Principe politico-cristiano, cioè istruzione cristiana per i principi e regnanti, 1692, incisione, Mazzarino. Carlo Maria Carafa, Il Cammino sicuro del Cielo, 1689, Mazzarino. Ignoto, Ritratto di Carlo Maria Carafa, tratto da Carlo Maria Carafa, I.M.I. Ordini, Pandette e Costituzioni d’osservarsi negli Stati di Butera, Mazzarino, Niscemi, Barrafranca, Occhiolà, Militello &c. Per la retta Amministrazione della Giustitia, 1686, incisione, Palermo. Ignoto pittore siciliano, Ritratto del principe Carlo Maria Carafa, seconda metà del XVII sec., olio su tela, Mazzarino, Chiesa di S. Maria di Gesù. Fra’ Michel da Ferla, Piano urbanistico della città di Grammichele, 1693, Grammichele, Municipio. Pianta della città di Grammichele Statua di Carlo Maria Carafa, Grammichele, Piazza Comunale. Lapide funeraria di Carlo Maria Carafa, 1695, Mazzarino, Chiesa di S.Maria di Gesù. Philippe de Champaigne, Ritratto di Richelieu in piedi, 16331640, olio su tela, Parigi, Chancellerie des Universités. Hyacinthe Rigaud, Ritratto di Luigi XIV, 1701-1702, olio su tela, Parigi, Museo del Louvre.

261

p.86 p.86 p.87 p.88 p.92 p.93 p.95 p.98 p.98 p.100 p.103

p.103 p.104

p.105

p.107 p.107 p.107 p.109 p.132 p.133


Fig.44 Fig.45 Fig.46 Fig.47 Fig.48 Fig.49 Fig.50 Fig.51 Fig.52 Fig.53 Fig.54 Fig.55 Fig.56 Fig.57 Fig.58 Fig,59 Fig.60 Fig.61 Fig.62 Fig.63 Fig.64 Fig.65

Abito maschile,fine del XVI-inizi del XVII-sec.,Reggio-Emilia,Galleria-Parmeggiani. Abito di-Gustavo Adolfo il Grande Re di Svezia, 1620, Stoccolma, Livrustkammaren. Daniel-Mytens, Ritratto di Henry Rich, 1632-1633, olio su tela, Londra, National Gallery. Daniel-Mytens, Ritratto di Carlo I d’Inghilterra, 1631, olio su tela, Londra,National Gallery. Gerrit Van Honthorst, Ritratto di Carlo I d’Inghilterra, 1628, olio su tela, Londra, National Gallery. Jacob Heinrich Elbfas, Ritratto di Gustavo II Adolfo di Svezia, 1630, olio su tela. Ritratto di Mattias de Medici, 1630, Firenze, Palazzo Pitti,Museo degli argenti. Rembrandt, Autoritratto, 1634, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi. Ignoto, Ritratto di gentiluomo, secondo quarto del XVII sec., Firenze, Palazzo Vecchio. Diego Velazquez, Ritratto di Marianna d’Austria, 1652-1653, olio su tela, Madrid,Museo del Prado. Marcus Gheeraerts il Giovane, Ritratto della Regina Anna di Danimarca, 1607. Framz Porbus Il Giovane, Ritratto Di Margherita di Savoia, 1600-1610, Olio Su Tela, Firenze, Galleria Palatina. Matteo Loves, Ritratto di Maria Farnese,1631-1646, Ginevra, Museo delle Arti e della Storia. Henri Bonnart, Ritratto della Contessa di Mailly, 1698, incisione. Giacomo Franco, Cortigiana in Habiti delle donne venetiane, 1610, incisione. Acconciatura Cadenette Jacob Ferdinand Voet, Ritratto di dama, 1670-1675, olio su tela. Pierre Mignard, Henrietta Anne Duchessa d’Orleans, 1665-70, olio su tela, Londra, National Gallery. Manifattura italiana, guanti maschili, 1600-1630, Firenze, Museo Stibbert. Modello di Rhingrave, 1650. Modello di Marsina, 1660-1680. Carlo Ceresa, Ritratto di Gentiluomo 1660, Milano.

262

p.134 p.134 p.135 p.135 p.135 p.135 p.135 p.138 p.138 p.139 p.139 p.139 p.140 p.141 p.142 p.143 p.144 p.144 p.144 p.155 p.155 p.156


Fig.66 Fig.67 Fig.68 Fig.69 Fig.70 Fig.71 Fig.72 Fig.73 Fig.74 Fig.75 Fig.76 Fig.77 Fig.78

Fig.79 Fig.80 Fig.81 Fig.82 Fig.83 Fig.84 Fig.85 Fig.86 Fig.87 Fig.88 Fig.89 Fig.90 Fig.91

Ritratto di Luigi XIV in piedi, ultimo quarto del XVII sec., incisione. Modelli di cravatte Henri Bonnart, Un uomo, 1693, incisione. Manifattura francese, Merletti e pizzi Valenciennes. Modello di scarpa maschile, seconda metà del XVII sec. Ignoto illustratore francese, Dama di Francia, 1690, incisione. Acconciatura à la Fontange Abbigliamento tipico dell’ultimo quarto del XVII sec. Esempi di gioielli, XVII sec. Esempi di tagli di diamanti e incastonature, XVII sec. Gioiello con motivo a nastro, XVII sec. Orologi a cipolla, XVII sec. Nicola Maria Rossi, Uscita del corteo vicereale dal Palazzo Reale di Napoli, 1730, Rohrau (Vienna), Graf Harrachsche Familiesammlung. Pietro Maggio, Le guerre festive, 1680, incisione, Palermo. Damasco Classico, metà XVII sec., Enna. Pianeta, taffetas laminato lanciato. a liage, metà del XVII sec., Caltanissetta. Pianeta, taffetas laminato lanciato. a liage, seconda , metà del XVII sec., Caltanissetta. Gros de Tous broccato a liage répris, fine XVII - inizi XVIII sec, Mazzarino. Pianeta, fine XVII - inizi XVIII secolo, Mazzarino. Damasco Gros de tour a liage repris, 1710-15, Pietraperzia. Damasco classico broccato a liage répris, inizi XVIII sec., Sutera. Pianeta, Raso liseré a liage répris, inizi XVIII sec., Mazzarino. Damasco Gros de tour broccati a liage repris, primo quarto XVIII sec., Caltanissetta. Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola, Mazzarino. Collegio dei Gesuiti, Mazzarino. Ignoto pittore siciliano, Madonna del Lume, prima metà del XVIII sec., olio su tela, Mazzarino, Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola.

263

p.156 p.157 p.157 p.157 p.158 p.161 p.162 p.163 p.164 p.164 p.165 p.167 p.174

p.174 p.181 p.181 p.181 p.181 p.181 p.181 p.181 p.181 p.181 p.202 p.202 p.202


Fig.92

Fig.93

Fig.94 Fig.95 Fig.96 Fig.97 Fig.98 Fig.99 Fig.100

Fig.101

Fig.102 Fig.103 Fig.104

Ignoto pittore siciliano, Miracolo di San Nicolò Magno, prima p.203 metà del XVIII sec., olio su tela, Mazzarino, Chiesa di Sant’Ignazio da Loyola. Ignoto pittore siciliano, Comunione di San Luigi Gonzaga, pri- p.203 ma metà del XVIII sec., olio su tela, Mazzarino, Centro culturale “Carlo Maria Carafa”. Dettaglio della famiglia Branciforti-Carafa, committenti dell’o- p.203 pera. Pietro Novelli, Elezione dell’Apostolo Mattia, prima metà del XVIII sec., olio su tela, Leonforte, Chiesa dei Cappuccini. Dettaglio Luigi Gonzaga Dettaglio rosso della veste e delle scarpe Dettaglio Giuseppe Branciforti Dettaglio Carlo Maria Carafa Andrea Magliar, Jacques Blondeau, Carlo Maria Carafa incoronato da Minerva al cospetto di Hermes, 1692, incisione, Mazzarino.

p.204

Francesco del Cairo, San Luigi Gonzaga riceve la Comunione da San Carlo Borromeo, 1650-60, Milano, Chiesa gesuita di Santa Maria di Brera. Francesco Trevisani, Comunione di San Luigi, 1700-12, Roma, Chiesa di Sant’Ignazio. Ritratto di San Luigi Gonzaga, Mantova, Galleria Castiglione delle Stiviere, Museo Storico Aloisiano. Comunione di San Luigi, Mantova, Santuario di San Luigi Gonzaga.

p.214

264

p.206 p.207 p.207 p.208 p.214

p.215 p.216 p.216


Bibliografia Adorno, Piero, L’Arte italiana. Dal classicismo rinascimentale al barocco, Firenze, G. D’Anna ed., 1997, Il Barocco, vol. II, tomo II, pp. 1045-1280. Aymard, Maurice, Storia d’Europa - L’età moderna: secoli XVI-XVIII, Torino, Giulio Einaudi ed., 1995, cap. I: Tradizione dell’Espansione, pp. 5-15, cap. II: Scoperta e conquista, pp. 16-43. Baldi Guido, et alii, Il Piacere dei testi. Dal Barocco all’Illuminismo, Milano, Paravia ed., 2012, vol. III, cap. I: L’Età del Barocco e della Scienza Nuova, pp. 4-284. Barbieri, Roberto, Uomini e tempo moderno, Milano, Editoriale Jaca Book spa, 1986, cap. V: Un poliedro dai mille volti: il Seicento, pp. 121-147. Brancati Antonio, Pagliarani Trebi, Dialogo con la Storia. Dalla metà del Seicento all’Ottocento, Milano, La Nuova Italia ed., 2006, tomo II, cap. I: L’Età dell’assolutismo, pp. 2-23. Brockett, Oscar G., Storia del Teatro, versione italiana a cura di Claudio Vicentini, Venezia, Marsilio Editori, 1988. Candura, Giuseppe, Le 42 Città Demaniali nella Storia della Sicilia, Catania, Vito Cavallotto Editore, 1973. Cantelli Giuseppe, D’Amico Elvira, Rizzo Salvatore, Magnificenza dell’arte tessile della Sicilia Centro-Meridionale. Ricami, sete e broccati della Diocesi di Caltanissetta e Piazza Armerina, Caltanissetta, Giuseppe Maimone ed., 2000, vol. I-II. Cardinal, Catherine (Conservatore del “Musée International d’Horlogerie di La Chaux-de.Fonds”), L’orologio e la moda dal 600 ai giorni nostri, Vicenza, Mazzotta ed., 1994.

265


Carmignani, Marina, Tessuti, ricami e merletti in Italia, Dal Rinascimento al Liberty, Firenze, Electa Mondadori ed., 2005. Cioffi Fabio, et alii, Il Testo filosofico. Storia della filosofia: autori, opere, problemi, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori ed., 1997, vol. 2, cap. 2: La Filosofia del Seicento, pp.292-336. Correnti, Santo, Storia della Sicilia, Roma, Pubblicazione a fascicoli settimanali delle Periodici Locali Newton ed., 1997, Anno I, Volume II, Fascicolo 20: La Sicilia del Seicento, pp. 381-400. D’Amico, Elvira, La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, Caltanissetta, Salvatore Sciascia ed., 2001. Fregnac, Claude, Jewellery: from the Renaissance to Art Noveau, Londra, Octopus Book Limited ed., 1973. Galasso, Giuseppe, Storia d’Europa, Roma, Laterza ed., 1996, vol II: Età Moderna. Kybalová, Ludmila, et alii, Enciclopedia illustrata del Costume, La Spezia, Fratelli Melita ed., 1988. Laudani, Simona, Dai Mangani alle Filande. Trasformazioni produttive e modificazioni colturali in Sicilia, XVII-XIX secolo, Acireale, Bonanno ed., 1991. Levi Pisetzky, Rosita, Il Costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi ed., 1995, cap. IV: Abbigliamento del 600, pp. 241-257. Eadem, Storia del costume in Italia, Roma, istituto dell’Enciclopedia Italiana ed., 2005, vol. 1, cap. 1: Il Seicento, pp.3-81. Macchiarella, Brunella, Cultura decorativa ed evoluzione barocca nella produzione tessile e nel ricamo in corallo a Messina (sec. XVII-XVIII), Messina, Società Messinese di Storia Patria ed., 1985.

266


Mannella, Saverio, I Carmelitani a Mazzarino e i principi Giuseppe Branciforti e Carlo Maria Carafa, Caltanissetta. Edizioni Lussografica, 2010. Mode società e cultura nella Sicilia del Secolo d’Oro, a cura di Michelangeli Licia, Vicari Vittorio Ugo, Palermo, Mimesis Edizioni, Milano, 2013. Miller Kenneth. Levine Joseph, Il Mondo della natura. Il punto di vista della biologia. Il punto di vista della materia, Milano, Paravia Bruno Mondadori ed., 2000, tomo A, cap. 6: Il corpo umano, pp. 247-250, tomo B, cap. 2: Il metodo sperimentale, pp 24-27. O’Kneeffe, Linda, Zapatos: Un tributo a las Sandalias, Botas, Zapatillas…, Könemann, Workman Publishing Company ed.,1996. Piccolo Paci, Sara, Parliamo di Moda. Manuale di storia del costume e della moda, 3 voll., Bologna, Cappelli Editore, 2004, vol. 2, cap.4: Il Seicento (I): La Francia prende il sopravvento. Luigi XIII, cap.5: Il Seicento (II): 16541714. Luigi XIV e l’economia della moda, cap. 6: Il Seicento (III): L’area fiamminga, pp. 112-177. Pugliatti Teresa, Rizzo Salvatore, Russo Paolo, Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, Caltanissetta, Giuseppe Maimone ed., 2012.

Rizzo, Salvatore, Percorsi di Archeologia e Storia dell’Arte. Centro Culturale “Carlo Maria Carafa” Mazzarino, Mazzarino, Paruzzo Editore ed., 2009. Tilman, Emile, Le Bijou – Les arts décoratifs, Parigi, Flammarion ed., 1961. Turner, Wilcox, The Mode in Hats and Headdress: Including hair styles, cosmetics and jewelry, Londra, Charles Scribner’s Sons New York and London ed., 1959.

267


Zaffuto Rovello Rosanna, Miraglia Patrizia, Le pretiose merci della sapientia, Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali Ambientali e della Pubblica Istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali dell’educazione permanente, 2005. Zaffuto Rovello Rosanna, Vitellaro Antonio, Cumbo Giacomo, Signori e Corti nel cuore della Sicilia, Catania, Fondazione Culturale “Salvatore Sciascia”, 1995, cap. 2: Carlo Maria Carafa un principe siciliano della Controriforma, pp. 43-85.

268


Sitografia https://archive.org/stream/archiviostorico http://www.esteticadellacitta.it/cityimage/schizzi/ http://forum.termometropolitico.it http://www.francescomorante.it/cap_IV/IV.2.htm http://www.grifasi-sicilia.com/cittademaniali.htm http://www.homolaicus.com/storia/moderna/riforma_protestante/anglicanesimo.htm http://www.ilportaledelsud.org/ http://www.il-rinascimento.it http://ilveltro.blogspot.it/2010/04/storia-nicolo-placido-branciforti-e-la.html http://libroblog.altervista.org/mappe-storia-eta-moderna-assolutismo-nelxvii-e-xviii-sec/ http://www.pbmstoria.it http://pocobello.blogspot.it http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/bibliotecacentrale/ http://www.scuolabook.it http://www.storiafilosofia.it/litalia-tra-1500-e-1600/ http://www.trapaninostra.it/libri www.treccani.it http://vitadibruno.filosofia.sns.it

269


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.