Metamorfosi di Natale

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Metamorfosi di Natale

Laboratorio di scrittura creativa Università popolare Mestre 2022

Patrizia

Sogno di una notte di inizio inverno Flash, luce; Flash, buio. Flash luce; Flash, buio. “Muuuffole, tu hai proprio bisogno di muuuffole, con manette accluse. Possibile tu debba sempre giocare?”

A questa esternazione concitata, agitata, convulsa, risponde con ingenua ilarità una vocina strozzata da una risata mal trattenuta:

“I-O, I-O, scusami, ma questo ti vedo e non ti vedo mi fa proprio ridere” Flash, luce. Lo sguardo truce rivolto al compagno. Flash, buio.

“Non guardarmi così. I-O non ho fatto nulla di male”

“Davvero? Muuucchio di peli grigi infeltrito. Chi ha espresso il desiderio di cambiare ruolo e di uscire dalpresepe? AlsignorMuuuflonenonandavabene alitare calore anche quest’anno. Nooo, lui voleva cambiare muuusica, sgranchirsi i muuuscoli”

Quanto appena dichiarato da quello strano personaggio, ritto impettito davanti al presepe, vi lascerà a bocca aperta, magari proprio spalancata, perché nel XXI secolo certi fatti magici non fanno parte della vita di tutti i giorni. Ma, increduli lettori, partiamo dall'inizio. Il presepe è preparato dal vecchio parrocco del vecchio paesino, sperso in un vecchio paesaggio montano. Ogni anno le statuine, tutte rigorosamente intagliate in legno di abete rosso, vengono posizionate con cura nel medesimo

angolo della piazzetta sotto l'ampio sporto del tetto che dal filo muro della chiesa arriva alla gronda, dando vita a un piccolo e decoroso presepe. A fianco, ma in secondo piano, l’unico albero di Natale del paesino, ché bisogna unire sacro e profano checché ne pensi il grande Capo. Fin qui, mi direte voi, nulla di particolare. Concordo, ma quest'anno è successo un fatto molto strano: qualche notte fa, da un cielo bucherellato da milioni di stelle (in quel paesino non hanno problemi di inquinamento luminoso), è scesa una neve piuttosto insolita. Raggiunto il suolo si è radunata in una sorta di nembostrato, e si è avviata verso il presepe, dove, dopo aver conversato amabilmente con le varie statuine, si è sciolta in un intricato e variopinto disegno acchiappasogni. Curiosoni, no, non è dato sapere di cosa avesse discusso con le statuine, ma è certo che la sera

successiva nel presepe, al posto del bue e dell'asinello, c'erano le pecorelle. Che fine hanno fatto il bue e l'asinello?

"Ma Bue, I-O cosa ne sapevo che quella cosa era magica?"

Flash, luce. I-O guarda Bue con due occhioni che vogliono intenerire, e quasi ci riesce, non fosse per il sorriso che a cinquemila denti gli percorre il viso da orecchio a orecchio.

Flash, buio. "Chiudi quella muuuseruola. E magari cerca l'interruttore per spegnere quel coso indisponente che continua ad abbagliarmi a intermittenza. Cribbio, ma cosa ho fatto di male per dovermi accompagnare a un simile muuultiplo di idiota?”

Flash, luce. I-O inizia a ridere, dapprima sottovoce perché non vuole irritare Bue, poi chissà cosa ha visto o cosa si immagina, inizia a ridere sempre più sguaiatamente, tanto che il suo corpo non abituato

alla posizione eretta inizia a vibrare, poi ballonzolare e in fine - flash, buio - zompettare perdendo l'equilibrio in una rovinosa caduta addosso a un… irritato? Meglio arrabbiato? O forse addirittura senza voler esagerare, furente… Bue.

Flash, luce. Certo la scena che si presenta al pastorello seduto su una piccola collinetta ai margini del presepe, non è edificante. Per fortuna lui è rimasto là dove la mano del vecchio parroco lo aveva collocato, sperando che la magia promessa possa compiersi: avere vicino vicino la contadinella che viene collocata ogni anno sul lato opposto del presepe.

Flash, buio. "Mi spiega cosa suscita tanta ilarità? E se la mia richiesta non le pesa, sua muuuunificenza potrebbe sollevare il suo deretano dal mio povero

stomaco? Magari senza muuuuulinare in aria quelle assurde zampe senza zoccoli"

Flash, luce. "Scusa Bue, I-O, sai, vedi…con quel vestito pezzato e quella campana al collo sei, ehm come dire, ridicolo".

Flash, buio. Dalle nari di Bue inizia a uscire un vapore torrido che investe I-O ancora preda della tremarella ridanciana che l'immagine di Bue ha sollecitato.

Flash, luce. "Senti Bue, non fare così" "Così come?" Il ringhio emesso da Bue è una lingua di fuoco degna di un capitano dei draghi. "Sei ammuuuuutolito I-O?”

Flash, buio. È proprio buio, nessuna lucetta dell'albero di Natale avrebbe voluto riaccendersi, tanta era la paura della collera di Bue. È un buio silenzioso, nessun bisbiglio si alza dalle statuine del presepe, ancora stordite dal cambiamento dei loro compagni. È un buio risoluto a non intervenire

nella vita delle antiche statuine. È un buio che si fa da parte, per lasciare ai primi raggi di un sole invernale i compiti di inglobare le luci dell'alberello e di ripristinare l'ordine nel piccolo presepio.

Il mattiniero parroco esce molto presto la mattina, vaamungerelamuccanellastalla,inquestopaesino sperso tra i monti tutti devono svolgere l'attività assegnata dalla piccola comunità. Claudicante, spettinato, con un occhio ancora addormentato e con le ossa che reclamano il calduccio della trapunta, passa a fianco del presepe. Poi torna sui suoi passi incerti, gli pareva di aver calpestato l'arcobaleno. Indirizza uno sguardo di sfuggita verso il presepe. Sguardo che presto diventa indagatore. Cosa ci fanno il Bue e l'Asinello fuori dalla capanna? Chi si è permesso di mettere al loro posto le pecorelle? Ma poi, perché no, ci sono comunque tutti, il Capo non si accorgerà di nulla.

Lastranapozzangheraaisuoipiediiniziaavorticare veloce, sempre più veloce, fino a diventare un nembostrato che lo avvolge in un caldo abbraccio. Nel sogno di una notte di inizio inverno, il sipario si chiude sulla favola,mentrenelpresepe una nuova statuina cerca di dirimere la controversia tra il Bue e l'Asinello.

Mirto METAMORFOSI NATALIZIA

Sei, o meglio eri, un nastro per confezionare i pacchi regalo, quelli che vengono avvolti in una carta colorata, magari metallizzata lucida e riflettente per dare più nell’occhio, o con i disegni colorati sopra.

Non un nastro di lusso, di tela che sembra seta, largo due dita e col fiocco in coda, ma un nastro

comune, sottile, giallo oro, buono per essere abbinato con tutte le carte, tutti i colori, disposto ad essere annodato e arricciato in tutti i modi, a formare asole o code a ricciolo, ad accettare fiocchi diversi.

Ricordi che all’inizio eri usato in tutta la tua lunghezza di tanti metri per ornare scatoloni di case di bambole, di tricicli o macchine a pedali? Poi, tagliato nelle parti usurate, dato che il tuo padrone è un tradizionalista e ricicla tutto, carte e nastri compresi, eccoti ad avvolgere giochi di società, scatole di puzzle, bambole e peluche di gran formato… e l’anno dopo libri, buste per maglioni e foulard firmati, bottiglie o regali ancora più piccoli.

Davvero una caduta in basso! L’anno scorso, poi, hai fasciato profumi e agende…

“Quest’anno, così corto, chissà cosa avvolgerò?” pensavi e, invece, ecco che vieni preso con una mano, avvolto in spire strette e numerose attorno alle dita unite, tutto fino a che non sei finito. “Mi userà per un fiocco” pensavi “un’arricciatura. Servirò ancora un poco.” E invece, ecco che ti libera dalle dita, ti stringe a metà con un cordoncino d’oro sottile sottile, che annoda, e poi ti “spampana”, ti attacca della colla a metà spremendola da un tubetto (oddio,cosa vorràfare?) e ti piazza sul dorso di un angioletto di carta, malamente tagliato. E dopo un po’ vi appende tutti e due sull’albero di Natale, bene in alto. Che fine ingloriosa! Ridotto così non ti riconosci neppure, non avvolgerai più nulla; come potresti, ora che non puoi più scioglierti ed allungarti? Nessuno sarà più contento, ricevendo un regalo, per merito tuo! Che fine misera per un nastro

dignitoso, dopo una vita di lavoro! Usato fino alla fine e poi buttato via! Ma no, non abbatterti! Ora sei diventato le ali, finte, di un angioletto appeso in alto. Ti vedono tutti. Chissà che di notte, quando tutto è spento e tutti dormono, a voi due insieme non venga voglia di prendereilvoloe posarvi sul presepio, qui sotto, davanti alla grotta o in mezzo alle pecorelle. Lì c’è bisogno di voi.

Ci sono i pastori da svegliare per avvisarli che il bambino è nato.

Quanto dovrai allora muoverti, agitarti, battere l’aria per consentire una discesa lenta e sicura e poi per tornare in alto, al vostro posto, prima del

mattino. A Natale, queste cose succedono, di nascosto magari, ma succedono. Quanto sarai indispensabile allora e, alla fine, orgoglioso del lavoro compiuto!

È dicembre. Per le strade si respira aria di Natale. Anche in un periodo di austerità come questo, nessuno rinuncia alle luci sulle porte, agli alberi addobbati con palline, stelle filanti e luci di tutti i colorichesiintravedono dall’internodellecaseesui balconi. Nei giardini sono comparse renne con slitte stracariche di pacchi, il tutto perfettamente

sagomato da luci e alberi che protendono i rami come tante braccia alzate verso il cielo, invisibili fino a ieri, e ora illuminati quasi a voler toccare le stelle. C’è chi ha la Sacra Famiglia, e chi ha dovuto accontentarsi di quegliorrendi Babbo Natale appesi alle finestre lungo scale di corda, che sembrano intenzionati più a portare via che a lasciare qualcosa. Ma c’è anche chi si è limitato a travestire Biancaneve e i sette nani e, in una sorta di magia di cui Disney era il re e questi solo degli illusi imitatori, li ha trasformati in contadina e pastori senza gregge. Quante Stelle in cima agli alberi, sulle case, nei giardini. Sembrano indicare tutte la strada ma nella confusione della festa, a ognuno è consentito un cammino diverso seguendo la propria stella. Chissà, quella volta, se i Re Magi avessero lasciato perdere di seguire la scia luminosa nel cielo e non si fossero fatti notare con tutto quell’oro, incenso e mirra in groppa a cammelli ricoperti da preziosi drappi,

autorizzando così i profeti a confermare quello che da tempo si diceva, forse oggi non saremmo in questo mondo di guerra e eccidi, in nome di questa o quella religione. Forse. IlComunehaaccesodadomenical’alberoinmezzo alla piazza principale. Nell’aria risuonano le solite note di Jingle Bells e i bambini stanno col naso all’insù, gli occhi catturati dalle luci e le orecchie dalla musica, in attesa che la magia dei regali si compia sotto l’albero di casa.

Il conto alla rovescia è iniziato. È un conto che mi

fa pensare alla partenza di un razzo verso il cielo infinito, che avverrà inderogabilmente per tutti lo stesso giorno. Chissà che confusione e che scontri. Ieri sera vagavo per la città fermandomi tra una vetrina illuminata a festa e l’altra, osservando la capacità che hanno i negozianti di invogliare ad acquistare quella maglia o quella mutandina rossa. Rosso è il colore dominante. Anche i negozi di fiori non sanno farne a meno, con il verde spesso usano luci gialle ma le stelle filanti restano rosse, e le stelle di Natale sono fiorite, in una stagione che non è la loro nel mio paese, splendidamente rosse. Mi chiedo perché il rosso. Chi ha pensato per la prima volta che rosso volesse dire Natale allegria festa attesa. Eppure rosso è il colore del sangue e di sangue ne è stato versato a fiumi nei secoli in nome della religione e il rosso, per chi non crede come me, riempie solo gli occhi di lacrime trattenute a stento.

Ecco i negozi di dolciumi, pure loro hanno addobbato le vetrine anche se c’è ancora qualche San Martino ritardatario che cammina tra panettoni e croccanti con fare incerto alla ricerca di un poverello a cui cedere la metà del mantello o di un cioccolatino sfuso da sgranocchiare.

Hanno aperto un nuovo bar. È incredibile. Sembra che la gente pensi solo a mangiare e bere. È stracolmo. Fuori c’è un gran cartello: INAUGURAZIONE. Offrono da bere a tutti e a tutti regalano qualcosa. Non sono nello stato

d’animo giusto per avvicinarmi, anzi, a dirla tutta non lo sono mai. Eppure mentre sto per allontanarmi, un improbabile Babbo Natale mi si avvicina e mi offre un sacchetto. Cerco di allontanarmi facendo cenno di no ma lui insiste, ha due occhi profondi con i quali sembra volermi leggere l’animo, chiudo la zip della giacca in modo automatico mentre lui mi fa l’occhiolino e mi dice “prendilo, resterai stupita” e allora per buona educazione accetto. Lo saluto ma è già scomparso inghiottito da tutta quella gente. Non ci penso più finché non arrivo a casa e scarico dall’auto le spese e il sacchetto. È un calendario dell’avvento fatto a forma di albero di Natale. Ah ecco. Facile dare via qualcosa che è già iniziato. Oggi è il tre dicembre e dovrò aprire di corsa tre finestre. Va bene. È stato gentile e non ne ho mai avuto uno tutto per me. Lo poggio sul tavolo in cucina insieme alla spesa e vado a togliermi le

scarpe quando sento un fragoroso botto. Torno indietro di corsa e trovo a terra i formaggi e la carne:” Cosa ci fate a terra, adesso vi devo pulire prima di mettervi in frigo. Non potevate aspettare un attimo.” Mi rivolgo a loro come a tutte le cose che vivono con me. Ho trovato la maniera di giustificare il fatto che parlo da sola, perché sono da sola. Mi giro verso il tavolo e trovo il calendario tutto storto, come se avesse mal di schiena, o come se fosse un ulivo centenario. “Ah sei stato tu! Sei una fregatura quindi. Per fortuna che al 25 mancano pochi giorni. Se non ti spiace gradirei stessi fermo e dritto mentre vado a cambiarmi”. Non risponde. Lo metto al centro della tavola, ma quando torno è a terra. Uff. Ceno tenendolo d’occhio. Poi mi decido e apro i tre giorni di arretrato pregustando qualcosa di dolce. Adoro il cioccolato. Ma… Cosa… Che è? Dal giorno 1 tiro fuori un vermetto

color cioccolato che si dibatte, mi sfugge di mano striscia schifoso lasciando una scia marrone e si fionda negli avanzi del mio piatto, facendomi fare un salto indietro. Butto tutto in pattumiera di corsa. Apro con cautela il 2 e trovo un cioccolatino rosicchiato e bucato da parte a parte in tutte le direzioni. Rabbrividisco pensando al verme e butto via. A questo punto prima di aprire il tre mi metto dei guanti di gomma, e già penso che domani andrò in quel bar a reclamare. Apro, guardo, scuoto, riguardo. Nulla. Che razza di calendario mi hanno dato. È la conferma di quanto penso di queste feste. Tutto un imbroglio, come ho scoperto a otto anni quando mia madre si è presentata la notte di Natale con i regali in mano. Quanto ho pianto nel silenzio della mia stanza. Da allora ho smesso di credere, aspettare, sognare e il Natale è diventato un giorno come tanti.

Prendo l’albero calendario per cestinarlo, nel farlo casca a terra qualcosa. La raccolgo. È un carretto senza una ruota, è di legno tutto tarlato e mangiucchiato, chissà dove si era incastrato. Appoggio nuovamente l’albero sul tavolo, domani

glielo riporto. Guardo nelle immondizie alla ricerca del verme e del cioccolatino mangiucchiato però la sola idea di questo e quello mi fa desistere. Lavo i piatti. Spengo la luce e vado in sala. A un certo punto vedo un bagliore venire dalla cucina. Mi alzo

incuriosita. Osservandolo al buio mi accorgo che il calendario è come fosforescente, accendo la luce e vedo che in cima c’è una stella, è da lei che emana la luce. Il carretto è lì inclinato, come l’albero.

È mattina, mentre faccio colazione mi colpisce il fatto che il calendario sia sul ripiano della cucina vicino alla piantina che mi sono comprata. Eppure avrei scommesso di averlo lasciato sul tavolo. Se non fosse finto mi verrebbe da pensare che è andato a fare due chiacchiere. Apro il 4 usando la punta di un coltello, scuoto a testa in giù l’albero, esce un pastorello con una pecora in braccio, senza una zampa. Provo ad assaggiarla ma è dura e così spezzo anche l’altra zampa. Butto lì e me ne vado furente a lavorare. Sono passati i giorni e ormai la curiosità si è impossessata di me, ho aperto diligentemente giorno dopo giorno le finestrelle ma la mia voglia di

dolce è restata tale. Dalle caselle sono usciti pastori senza braccia, zampognari senza zampogna, angeli senza ali e pecore senza zampe, sedie con la paglia distrutta, tavoli storti tazzine sbeccate, casette piccolissime senza porte né finestre. Cani senza orecchie,unasortadiGiuseppesenzabastoneeuna Madonna con il pancione ancora alto che chissà se ce la farà a partorire alla mezzanotte del 24 ma è l’unica sorridente e lieta. E poi animali da cortile senza piume, recinti microscopici rotti. L’albero è sempre a terra. Oramai non ci faccio nemmeno più caso, quando entro in cucina al mattino mi limito a tirarlo su e a chiedergli che giornata ha. Siamo al 24 di dicembre, le feste incombono sempre più sfavillanti di luci e di gente frettolosa piena di pacchetti, non penso ad altro se non chi può aver dimenticato nella lista. Non sono più passata dal bar. L’ultima finestra la aprirò stasera. Così ho deciso. Passerò la Vigilia aspettando la

mezzanotte e poi prima di andare a dormire aprirò l’ultima finestrella. Non ho regali da fare, le figlie abitano lontane, mamma e papà se ne sono andati da tempo e gli amici festeggeranno in famiglia. Domani finalmente sarà Natale e anche quest’anno quest’odissea sarà finita e per fortuna ci vorrà un altro anno perché ritorni. Sono a casa, ho cenato. Davanti a me l’albero sempre più curvo, lo guardo, mi è persino simpatico.Èunpo'chepassolamanosul24perché è l’ultima sorpresa di questo buffo e assurdo calendario. Guardo i pezzi malandati tutti in fila, mi fanno una tenerezza infinita. Adesso mi spiace tanto aver buttato via il vermetto e il cioccolatino mangiucchiato. Pazienza. Apro. Non c’è niente. Non è possibile, voglio il mio ultimo pezzo rotto, malandato, sgangherato ma lo voglio, è mio. Scuoto con ancora più forza, esce svolazzando un foglietto ripiegato su sé stesso. Lo apro. Non c’è

scritto nulla. Provo a passare una matita sopra. Nulla. Il calore di una candela. Nulla. Scoppio in un pianto assurdo quanto stupido, in fin dei conti è solo un inutile calendario figlio di quell’imbroglio che è il Natale. Ma il mio pianto non si ferma è come se mi avessero negato anche questa ultima, piccola gioia. Trovare un piccolo pezzetto rotto di qualsiasi cosa, un pezzo di stella, una montagna franata, tutto meglio di niente. Nemmeno quello, solo un foglio bianco su cui con rabbia scrivo: datemi ciò che è mio, rivoglio i miei sogni, il mio Natale! Non so quanto ho pianto seduta davanti all’ennesima delusione, mi sveglio che è mattina, tutta indolenzita e ancora vestita. Mi metto gli occhiali, il tavolo su cui ho tenuto la testa poggiata tutta la notte è vuoto, non c’è più nulla. È scomparso anche l’albero, ormai senza più sorprese. Bevo il caffè.Oggi è il 25 dicembre. Vado

in sala, accendo la luce e sono tutti lì, hanno solo cambiato posto. Sono tutti i pezzi in fila indiana, c’è perfino il vermetto immobile e il cioccolatino bucherellato che credevo di aver buttato via. Tutti sempre mancanti di qualcosa ma tutti con vicino un pacchetto, sembrano sorridermi, dio come sono felice di vederli, ma lo stupore è l’abete verde, a terra ancora una volta ma adesso è dritto, meraviglioso, tocca quasi il soffitto con una gigantesca stella con una lunga coda. Dell’albero storto gravato dal peso dei suoi anni e di duemila anni di storia non facili, non c’è più traccia. Mi guardo intorno, nella grotta è nato il Bambino e Maria è senza pancia, sprizza gioia pura. Io, io mi sento nuova, diversa, libera dal

peso della negazione dei sogni. Eccolo il mio Natale. Adesso devo solo aprire i regali che ognuno dei miei piccoli amici mi ha fatto e poi ricostruirli insieme al mio cuore.

Ivana Natale

Non è giusto che la partecipazione di noi tre al presepe duri solo un giorno. La nostra festa ce l’ha usurpata quella vecchiaccia. Il 6 gennaio è oramai conosciuto come “il giorno della Befana”, non è possibile che una carampana che viaggia di notte a cavallo di una scopa abbia oscurato le nostre autorità.

Sono Baldassarre di Babilonia, con i miei colleghi Gasparre di Persia e Melchiorre di Fenicia ho deciso di dare nobiltà alle nostre figure. Abbiamo viaggiato a lungo e di certo non per piacere, mettersi d’accordo per arrivare a Betlemme in quel periodo, a dorso di cammello, fu una faccenda difficoltosa e poco confortevole. Non avevamo a disposizione i mezzi di comunicazione e trasporto del vostro secolo.

Ci affidammo un po' alle doti divinatorie di Gasparre che sapeva qualcosa di astrologia, non sempre ci azzeccava, però quella volta lì era sicuro di non sbagliare. Dallecarte astrali aveva intuito che si sarebbe verificato un evento straordinario, sarebbe bastato seguire una cometa che ci avrebbe guidato a destinazione. Ci organizzammo per la partenza con largo anticipo e fu un’avventura

attraversare territori impraticabili per asperità naturali o per rissosità umane.

Non sapevamo con precisione a quale accadimento eccezionale ci avrebbe condotto la Stella ma seguire quel fascio luminoso ci dava tranquillità e sicurezza. In uno dei tanti nostri bivacchi notturni ci fermammo in Cappadocia e fu in quell’occasione che Gasparre guardando le suecarte esclamòa voce alta: un Re, andiamo a fare omaggio a un grande Re. Tutti e tre convenimmo che non potevamo presentarci al

cospetto di un re a mani vuote, avevamo venduto tutti i nostri beni e decidemmo di acquistare dei doni. Mi duole dirlo ma iniziammo a litigare. Io sostenevo che non sapendo esattamente chi andassimo a ossequiare potevamo senza formalizzarci troppo riempire un piccolo scrigno con delle monete d’oro e poi questo “Nuovo Re” avrebbe deciso lui il da farsi. Melchiorre voleva essere lui l’unico a portare l’oro e dovemmo lasciargliquestoprivilegioaltrimentiavrebbetenuto il broncio per tutto il tragitto! Io e Gasparre stabilimmo di fermarci qualche giorno a Smirne, noto centro di commercio di generi esotici e ricercati per farci consigliare dagli scaltri mercanti. Per non essere da meno del collega, acquistammo profumi ed essenze preziose che erano molto usati a quel tempo e riprendemmo il viaggio con i nostri omaggi: oro, incenso e mirra. Sapevamo che ci stavamo dirigendo verso la

Palestina, una terra travagliata da guerre e conflitti interni. So che è rimasta così anche ai vostri giorni! Eravamo già molto stanchi quando giungemmo in Galilea e calò una fitta nebbia su tutta la regione. Fummo costretti ad accamparci nei pressi di un lago. Io e Melchiorre pensammo di chiedere indicazioni ai poveri pescatori che attendevano di poter uscire con le barche, ma nessuno di loro sapeva alcunché di un nuovo re che sarebbe arrivato da quelle parti. Al rientro nella nostra tenda notammo uno strano comportamento da parte di Gasparre, era come in trance, parlava tra sé e sorrideva beato! Pensammo che avesse fumato troppo, da quando si era comprato il narghilè ogni momento che lo lasciavamo da solo lui ne approfittava. Si girò verso di noi e ci disse a bassa voce: - Dobbiamo andare in Giudea. - NeseisicuroGasparre,tivediamounpo'stranito.

Chi te l’ha detto? - ma lui ci ammonì di fare silenzio e di non parlare con nessuno. - Non avete visto il ragazzino vestito bianco? È appena uscito, avreste dovuto incontrarlo!

Ecco, ci risiamo, si è fumato le erbe di Sidone!

Per assecondarlo e dato che era lui il capo comitiva ci affrettammo a ripartire per la Giudea, in silenzio come ci raccomandò, non dovevamo dire ad anima viva le ragioni della nostra presenza nei territori di Roma. Pareva una notizia talmente sconvolgente da soverchiare l’impero.

La nostra buona Stella riapparve e con grande apprensione ci avviammo verso Betlemme e più ci si avvicinava alla meta più essa splendeva, Gasparre ci aveva preso con le sue magie!

Ci fermammo nei pressi del villaggio a rifocillarci e

cambiarci d’abito, dopo un così lungo viaggio le nostre tuniche erano logore e sporche, eravamo indegni di presentarci di fronte ad un re. Ci preparammo con cura e discutemmo tra noi su come qualificarci al suo cospetto. Melchiorre disse che dovevamo annunciarci come filosofi di vita, studiosi del cielo, cultori delle tradizioni e delle arti magiche... Io lo interruppi: - Troppa pomposità caro amico! Gasparre, quasi senza ascoltarci ribadì:

- Magi, noi siamo i più grandi esperti di magia di tutto l’Oriente. Melchiorre sembrò soddisfatto: - Re Magi allora. Avevamo raggiunto l’accordo e riprendemmo il cammino seguendo Stella.

Rimanemmo increduli quando vedemmo che essa

andò a posarsi su una modesta casupola, era un rifugio di attrezzi per pastori e viandanti che si trovassero a passare da quelle parti e che abbisognassero di un riparo. Faceva piuttosto freddo, vedemmo una coppia con un bimbetto di pochi giorni, la giovane mamma stava cercando di proteggerlo dagli spifferi di vento gelido che entravano dalle vecchie travi mal riposte. Era gente molto povera, ma la donna aveva una parvenza di regalità e ringraziava con un sorriso di gratitudine contadini e pastori che si recavano presso la capanna per portare loro un po' di cibo e qualche panno. Gasparre alla vista del bimbo si inginocchiò e noi imitammo il suo gesto.

Quel bambino sembrava non avere nulla di speciale ma a noi ci parve di sentire una mano posarsi sulle nostre spalle mentre una voce soave mormorava: - È lui il Re dei Giudei, prostratevi e adoratelo!

Furono attimi indescrivibili e noi tre, persone con esperienza e conoscenza di gran parte dello scibile umano dell’epoca, ci sentimmo così anonimi da arrossire nel mentre porgevamo i nostri doni scelti con tanta cura che, seppur preziosi, in quel momento ci parvero così mediocri dinnanzi alla grandiosità della scena a cui stavamo assistendo.

Ripartimmo pieni di speranza e fiducia per le nostre terre sempre seguendo la fedele Stella che ci indicò un percorso alternativo perché le autorità del luogo, che stavano dando la caccia al Bambino, cercavano anche noi tre per interrogarci e avere informazioni.

In questo modo abbiamo contribuito alla narrazione della nascita del Re dei Giudei e meritiamo considerazione e riguardo. “Epifania” è la nostra festività, la manifestazione a noi tre re magi di un’altra più grande divinità. Noi chiediamo un posto d’onore nel presepio e che le nostre statuine vengano posizionate con cura fin dai primi giorni a indicare il nostro straordinario cammino.

Marilena

Il personal trainer è proprio un lavoro che mi si confà.

Qui in Florida ci sono tanti bellocci tartarugati che a una prima svista mi assomigliano: simpatici, ben disposti, amichevoli, falsamente trasandati, cultori del controllo delle calorie e della disciplina equilibrante muscolo - ciccia - scheletrica.

Ma per essere un personal trainer come me bisogna fare un salto di qualità. Bisogna entrare nella hit

parade di quelli che hanno avuto una “vita precedente” e, merito di scelte sofferte o di rocamboleschi avvenimenti, si sono trasformati in quello che sono diventati: salutisti integerrimi, cultori dello sport, dell’aria aperta, del benessere fisico. Siamo una schiera di Santi con le nostre regole che promettono miracoli, e ci doniamo a una moltitudine di Martiri pronti ad emularci: sofferenza, rinunce e testardo allenamento è quello che promettiamo per il premio finale di una vita: mens sana in corpore sano. Mi guardo allo specchio e sorrido compiaciuto: mi piacciono i capelli bianchi che ho mantenuto a dispetto del fisico da atleta che vedo riflesso.

I miei allievi mi idolatrano e mi imitano, perché io ho loro raccontato come vivevo e qual è stata la trasformazione che mi ha portato a quello che sono adesso.

Per fortuna non mi sono rimasti angoli bui nella mente, né manie ricorrenti. Devo dire però, che la vista sia del colore rosso che della neve mi inquieta ancora.

Sulla mia storia non mi soffermerò più di tanto. È una storia fatta di inverni perenni, di tempo investito in un duro lavoro scandito da ordini arrivati per lettera, i cui mittenti erano niente po’ po’ di meno che: bambini!

Sì, bambini, innocenti creature... piccoli mostri di superbia e di deliberata arroganza, che con le loro

richieste assurde facevano lavorare i miei Elfi come schiavi, sottoponendoli ai capricci di pretese impossibili. E io ero là, sempre pronto a giustificare e a calmare gli animi: il sindacato non mi faceva più vivere, specie verso la fine dell’anno, quando il lavoro aumentava a dismisura.

E poi c’erano le Renne: creature sensibili e delicate, con cui io ho sempre avuto un bel rapporto, ma che gli animalisti, con il passare del tempo, avevano aizzato contro di me, per il fatto che mi servivo di loro per trasportare merce pesante, e questo non si confaceva al benessere e al mantenimento degli ultimi esemplari di una specie ormai quasi estinta. Mi ricordo che un anno la slitta era pronta, carica di pacchi dai mille colori, ed io stavo per prendere le redini e dare il via al consueto viaggio notturno, quando un gruppo di scalmanati, con tanto di cartelli, si è disteso sui dorsi delle mie amiche, sfidandomi a decollare con loro sopra, a mo’ di

scudi umani, e io non ho più potuto alzarmi in volo. Solo firmando un accordo che mi costringeva ad appaltareleconsegnedeidonialleBefane(categoria contrattualmente regolata) ho evitato per quell’anno il fallimento.

Tutto questo stress continuo mi aveva fatto invecchiare precocemente e ingrassare a dismisura: i miei trigliceridi e il colesterolo erano ormai avalori stellari, ero vicino al tracollo. Nonostante questo dovevo continuare a calarmi con grosse difficoltà dai camini, e mangiare concentrati di grassi e carboidrati che i terribili bambini mi preparavano come merenda, ringraziandomi dei doni.

A un certo punto qualcosa scattò dentro di me. Ne andava della mia vita. Un atavico

senso di sopravvivenza prese il sopravvento e io, complice la lunga notte polare, scappai da dove ero sempre vissuto, entrando un giorno, di nascosto e con premeditazione, dentro un voluminoso scatolone già confezionato, che doveva essere ritirato da Amazon come reso.

La presa del corriere fu perfettamente in orario, e io mi ritrovai nella stiva di un aereo, verso la libertà. Da quel momento la mia vita cambiò radicalmente, ed escludendo tutto ciò che prima ero obbligato a fare, cominciai un duro cammino, impegnandomi a raggiungere forma fisica e benessere: cosa che, come vedete, ha dato degli ottimi risultati.

È questo che io racconto ai miei allievi: mai adattarsi a un ruolo che altri hanno deciso sulla tua pelle.

Ciò che è stato fino a quel momento bisogna lasciarlo dietro le spalle: con coraggio trovare la propria strada e vivere l’esistenza secondo una

personale convinzione, che faccia guardare avanti con serenità e soddisfazione.

Io faccio il personal trainer, di nome e di fatto, e quando finisco di raccontare ciò che ho vissuto “prima”, i miei ragazzi mi guardano, come i bambini guarderebbero Babbo Natale, sbalorditi e fiduciosi.

Io sorrido loro dal mio metro e novanta fasciato di muscoli, con la testa leggera e i corti capelli bianchi: forse è per questo che qui a Miami Beach il mio soprannome è Daddy.

Una notte davanti al caminetto È una notte lunga e fredda, non ho voglia di dormire, mi piace l’idea di starmene raggomitolato davanti al caminetto, gli occhi chiusi ad ascoltare lo scoppiettio del fuoco, il calore mi accarezza le guance e le mie adorate cuffiette sono appiccicate alle orecchie con la musica preferita, non la lagna delle solite nenie natalizie che ogni anno mia madre mi ripropone. È mezzanotte, sto entrandoin una dimensione fatta di immagini che vanno e vengono, sento la stanchezza che sta prendendo la strada di Morfeo ma non ho vogliadi spostarmi finoal mio letto. Qui sto bene, magari più tardi.

Prima di fluttuare nel mondo dei sogni osservo quelle quattro calze appese al camino, un vizio che mia madre non ha ancora perso.

“Sono grande mamma, dammelo direttamente il regalo.”

Ma a lei piace così.

Da piccoli, con mia sorella, i giorni precedenti l’epifania, ci divertivamo a fare la nostra personale caccia ai dolci nascosti nei posti più impensati della casa. E mai siamo stati scoperti.

Alla storia di quella vecchietta che di notte arriva con la scopa a riempire le calze ho smesso di crederci molto presto, prima ancora di iniziare la scuola.

Ne uscivamo sempre vincitori, io e mia sorella, rubavamo qualche dolcetto, giusto quel che bastava per arrivare alla mattina dell’epifania.

Il fuoco si sta spegnendo e con lui anche quella fioca luce che proviene dal riverbero delle fiamme. Il salotto che si affaccia al corridoio ora è completamente buio.

Ancoranonhovogliadispostarmi,lecuffiettesono scivolate sopra le coperte, comincio a sentire freddo, raccatto il plaid che uso come cuscino e lo aggiungo alla trapunta che mi copre le spalle.

Al piano superiore tutti stanno dormendo, lo capisco dal silenzio.

Le palpebre si chiudono e mi perdo nelle mie fantasie notturne.

Il ticchettio dell’orologio, appeso alla parete di lato, mi sveglia, o forse no, è qualcos’altro.

Un botto, strano rumore, un rantolo, un sospiro, uno strusciare inconsueto sul pavimento del corridoio.

Il corpo si irrigidisce, vorrei alzarmi, accendere la luce, dire “chi va là?”, ho paura.

La lampada del corridoio si accende, un’ombra si dilegua velocemente alla mia vista. Nascosto dalla spalliera del divano, rigido, immobile cerco di capire. La forma si palesa ma subito indietreggia.

Abbasso la testa. Rumore di cassetti che si aprono e si chiudono.

Un ladro, non può essere che un ladro.

Ora mi alzo, mi faccio vedere, urlo, no, potrei innervosirlo, ha qualcosa tra le mani vedo la sua ombra proiettata sulla parete, magari ha una pistola. La sagoma si avvicina allo specchio che riflette un viso deforme, un urlo mi si gela in gola.

Non stacco lo sguardo, vorrei fuggire, un odore conosciuto arriva alle mie narici, mi ricorda qualcosa o qualcuno. Ho una tale confusione in testa, non può essere, scaccio il pensiero. Sento una voce, alta quel tanto che basta per riconoscerla e comprenderne le parole “Che stanchezza, anche quest’anno è finito tutto, il prossimo anno passo la mano”.

Uno dopo l’altro cadono i vestiti sul pavimento, un corpo raggrinzito,

delle unghie retrattili, occhi sporgenti, naso aquilino. Con la mano rinsecchita apre una borsa appoggiata sul pavimento e ne estrae una colla appiccicosa e trasparente, la osservo mentre la spalma sul suo viso e su tutto il corpo.

La pelle è di nuovo liscia, il naso regolare, le unghie normali, i capelli soffici e gli occhi azzurri come sempre. Quell’orribile essere è mia madre, o forse mia madre è quell’orribile essere.

La sento avvicinarsi, mi rimetto sotto le coperte, non posso fare altro. Sta per passare oltre quando mi vede, si ferma. Con la mano mi sfiora i capelli, mi guarda e sbuffa. “Che fai qui?” dice “Subito a letto che è tardissimo”. Fingo di svegliarmi ora. “Mamma...” balbetto come fossi assonnato e contengo con fatica un turbine di emozioni, per fortuna lei non può sapere quello che

ho visto, come allora non sapeva della nostra caccia ai dolcetti.

Mi alzo e mi avvio verso il letto ripetendo mentalmente un orribile mantra: “Mia madre si è trasformata in una befana” “La befana si è trasformata in mia madre”. “Ma quando è successo?” mi chiedo.

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