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a cavallo tra il XIX e il XX secolo

3.2. Modulo interdisciplinare: Lo sviluppo della teoria della razza a cavallo tra il XIX e il XX secolo

Enrico Pozzi

Il modulo che viene qui presentato è pensato per una classe V del Liceo economico-sociale e si caratterizza per essere un modulo interdisciplinare, nel quale intervengono a pari titolo diverse discipline dell’indirizzo. È un modulo interdisciplinare perché prevede non soltanto l’intervento in parallelo delle diverse discipline, ma esige il continuo coordinamento dei diversi insegnanti, al fine di permettere agli alunni di avere una consapevolezza del quadro d’insieme dell’argomento trattato, nonché la proposta di prove di verifica in cui siano coinvolte diverse discipline, sia in sede di verifiche formative, che in quella delle verifiche sommative.

L’unità didattica tiene conto della particolare struttura delle discipline del Liceo economico-sociale, nella quale non esiste una materia d’indirizzo con un peso maggiore delle altre, dal punto di vista del numero delle ore e dell’impostazione dei programmi. Perciò si punta a coinvolgere la maggior parte delle materie in un lavoro di stretta collaborazione, sia nella costruzione della ricerca scolastica, sia in sede di verifica, per la quale dovrebbero essere progettate prove pluridisciplinari.

I contenuti sono relativi allo sviluppo della teoria delle razze che ha avuto il suo culmine nel corso del XX secolo, di pari passo con la definizione e poi della affermazione della teoria dell’evoluzione darwiniana.

La scelta di sviluppare la conoscenza delle teorie “scientifiche” sulle razze, trascurando le suggestioni legate ad altri approcci al razzismo, pur presenti nel pensiero filosofico, nella letteratura e nelle arti del XX secolo, è motivata dal fatto che i provvedimenti legislativi e amministrativi di diversi Stati relativi alla discriminazione razziale e alla persecuzione di importanti settori delle popolazioni sono stati adottati sulla base di presunte teorie di carattere scientifico.

Il modulo può essere inserito nella programmazione annuale delle diverse discipline del Consiglio di classe, ma può essere anche utilizzato per sviluppare la programmazione annuale di Educazione Civica.

La presentazione dell’unità didattica si compone da diverse sezioni che qui elenchiamo velocemente: A. Contenuti, nei quali sono presentate le schede-guida per il lavoro didattico. B. Materiali di lavoro, nel quali si indicano le fonti bibliografiche, relative alle schede proposte. C. Tabella dei contenuti relative alle diverse discipline. D. Indicazioni di carattere metodologico sullo svolgimento del modulo.

A. Contenuti

Gli argomenti trattati possono essere suddivisi in 6 unità didattiche presentate da 4 schede (S. 1-S. 4), da considerarsi come introduzione dell’intero lavoro e da una più corposa, relativa alla legislazione italiana nella colonia Eritrea tra il 1896 e il 1938 (S. 5). Nelle prime quattro schede si cerca di inquadrare il processo storico attraverso cui il razzismo diviene una teoria utilizzata nel corso dei primi decenni del novecento da diversi Stati europei e non.

Le schede, tuttavia, non esauriscono l’attività didattica, ma sono solamente spunti di analisi per i diversi docenti e per l’approfondimento da parte degli alunni. Pertanto sono da considerare come linee guida su cui gli insegnanti delle diverse disciplini possono intervenire per implementare l’attività didattica. 213

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I titoli delle schede sono i seguenti: S-1: ORIGINE E SIGNIFICATO DEL TERMINE “RAZZA” S-2: IL RAZZISMO: ARENDT, FOUCAULT E IL RAZZISMO SETTECENTESCO S-3: LA NASCITA DEL RAZZISMO COME IDEOLOGIA S-4: DA DARWIN A GALTON, LA NASCITA DELL’EUGENETICA S-5: UN ESEMPIO DI RAZZISMO ISTITUZIONALE, IL CASO DELLA COLONIA ERITREA

Schede orientative

S-1. ORIGInE E SIGnIFICATO DEL TERMInE RAZZA

Si tratta di una scheda che funge da introduzione all’intero Modulo. In essa si trattano alcuni aspetti del concetto di razza alla luce del dibattito contemporaneo e alla luce dei risultati della ricerca sulla base dei risultati della descrizione del genoma umano. Per i testi di approfondimento si vedano i Materiali di lavoro posti in calce alla scheda stessa.

Il termine “razza”, che oggi sembrerebbe di uso comune e di origine antica, in realtà ha una storia abbastanza recente. Infatti tale parola è pressoché inesistente sia in greco che in latino. Nei vocabolari greci e latini, piuttosto che razza si utilizzano termini segati alla discendenza del gruppo familiare e alla genealogia che ai caratteri specifici fisiologici-culturali di una popolazione: genus, stirpe, lignaggio, famiglia, in ebraico, nella Bibbia, era usato il termine “zerah”, spesso tradotto con “razza”, ma che in realtà si avvicina per significato al senso di discendenza, seme.

Ciò che va rilevato è che nel mondo antico non sono accoppiati alla discendenza caratteri fisiologico-psicologici ben definiti, come avverrà nel corso dei periodi storici successivi.

Da un punto di vista etimologico, il termine “razza pare derivare dalla parola “haraz”, dell’antico francese, probabilmente introdotta dai normanni per designare l’allevamento dei cavalli, e usata successivamente per distinguere le diverse discendenze delle tipologie equine, dei cani e dei bovini. Si può notare anche un uso estensivo e del tutto impreciso della parola nella letteratura e nel discorso parlato. Ciò permane in espressioni di uso corrente anche oggi, in espressioni quali: “che razza di uomo!”, “cortigiani vil razza dannata” ecc. che qualificano il termine con un generico significato di “tipo” o “categoria”, senza una più precisa identificazione.

È nell’Ottocento che, con lo sviluppo più intenso della selezione di diversi tipi di animali domestici, la parola si diffonde maggiormente e diventa uno dei termini che solleva i più ampi interrogativi, non solo tra gli allevatori e i contadini, ma anche tra i naturalisti.

Prima di incentrare l’interesse sull’uso scientifico della parola razza, occorre, però, fare il punto su quanto oggi molti scienziati rilevano sulla definizione e l’uso del termine.

Secondo il biologo e studioso dell’evoluzione umana Guido Babujani, le nostre conoscenze relative alle “razze” umane sono ormai abbastanza precise, sicuramente più precise di quelle che si potevano possedere nel corso della prima parte del Novecento, grazie allo sviluppo della genetica e alla ricostruzione del genoma umano (il progetto genetico internazionale che ha avuto per fine di ricostruire l’intera sequenza genetica dell’uomo, iniziato nel 1990 si è concluso nel 2003 da parte di un’équipe di genetisti internazionali), le conclusioni che si possono trarre dalle ricerche sono le seguenti: 1. Dal punto di vista della maggioranza degli scienziati evoluzionisti, esistono due tipi di specie: le popolazioni in cui le differenze biologiche cambiano gradualmente, senza soluzione di continuità, senza grandi salti relativamente dalle zone geografiche di insediamento e quelle in cui le differenze biologiche sono accentuate e segnate dai confini delle zone e degli ecosistemi in cui abitano. Le popolazioni del secondo tipo sono in genere chiamate “razze”, cioè diversi gruppi, localizzati geograficamente, ciascuno discendente da antenati comuni, che possono essere distinti dagli altri perché i componenti della popolazione condividono varianti genetiche altrove rare o assenti del tutto.

2. Il concetto di razza, come si vede è un po’ vago, tanto più che con lo sviluppo della genetica, anche il concetto di” specie” oggi, talvolta non risulta abbastanza definito.

Dal punto di vista dei grandi naturalisti “tassonomi” del Settecento (si pensi a Linneo o Buffon), nella maggior parte erano “creazionisti”, pensavano che gli animali fossero stati creati con in atto unico divino già differenziati per specie, così come si potevano osservare in natura. Fu con Lamarque e Darwin (ci ritorneremo più avanti) che queste convinzioni crollarono. A partire dalle loro teorie divenne comune la idea che gli esseri viventi di una stessa specie discendono da antenati comuni di specie diverse, e che si sono mutati nel corso di tempi più o meno remoti. Secondo questa visione evoluzionista, quindi, si potrebbe dire che una “razza” non sia altro che la successiva modificazione di due gruppi di viventi, che a un certo punto diventeranno due specie diverse. Potremmo allora definire che due razze non sono altro che due diverse specie in via di formazione. 3. I criteri per definire il processo di formazione di specie diverse non sono però sempre chiari. In alcune specie è possibile individuare i diversi componenti delle razze sulla base del loro aspetto e del loro DNA. Ad esempio ciò accade per i gorilla e per le lumache. Non così è per gli uccelli e per i pesci, che non mostrano gruppi di individui legati a specifici territori, ma che si muovono in modo molto più fluido e veloce. Perché si possa parlare di razza nel regno animale, occorre che vi siano delle barriere che impediscano o rendano poco frequente l’incrocio tra gruppi diversi. 4. Nonostante tutte queste controversie, l’uso del concetto di razza è (e più ancora è stato) molto diffuso soprattutto per l’uomo. Da un punto di vista generale, schematizzando, si possono individuare due posizioni: alcuni credono che dal punto di vista biologico vi siano tra gli uomini distinzioni di razze e che queste, biologicamente accertate, comportino anche delle differenze ereditarie anche dal punto di vista cognitivo e intellettivo. Altri ritengono la definizione delle razze umane una semplice convenzione sociale, senza alcun rapporto con le differenze biologiche interne alla nostra specie. 5. Lasciando stare la storia più antica (l’idea dei “semi-uomini” dei greci, quella dei “barbari” sempre greca e latina, quella della “limpidezza del sangue” cristiano della riconquista spagnola ecc.), nel Settecento si radica l’idea che la differenza razziale stia nel “sangue”, così come oggi si ritiene, che essa si trovi nel DNA.

Dal Settecento in poi assistiamo a decine di tentativi di classificare gli uomini attraverso le razze, ma ogni catalogo tendeva a smentire l’altro. Col tempo le stesse incongruenze nelle classificazioni dei naturalisti hanno portato a mettere in discussione la validità stessa della classificazione razziale.

Alla fine la maggior parte degli scienziati ha accettato di parlare di “gradienti” d diversità tra gli uomini, piuttosto che di razze. 6. Nessuno, però è riuscito a definire i parametri per stabilire i gradienti di diversità tra le diverse popolazioni umane. Perché?

Innanzitutto, con una popolazione mondiale di 7 miliardi di uomini, ci si aspetterebbe, dato che l’elevato numero, che ci siano grandi variabilità. Così non è: siamo molto più omogenei che i nostri antenati gorilla e scimpanzé, i nostri parenti più vicini, nonostante vivano in un’areale molto più ristretta di quella nella quale viviamo noi uomini. Esistono variazioni molto minori tra uomini che vivono e discendono da popolazioni vissute in continenti anche molto distanti, di quelle che esistono tra scimpanzé che vivono nella stessa area.

L’85% delle biodiversità umana (cioè le differenze tra i diversi genomi), sono presenti in tutta la umanità. O, in altri termini: la diversità di popolazioni che vivono in continenti molto diversi è, sì, maggiore in media di quella di due persone della stessa comunità geografica, ma solo del 15%.

Per chiarire meglio il problema, si potrebbe citare quello che successe all’epoca della 215

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scoperta della struttura a doppia elica del DNA. Tra gli scopritori del DNA figuravano Craig Venter e James Watson, ricercatori statunitensi, insieme a loro si può citare anche lo studioso coreano Seong-Jin King. Quando si andò a verificare il genoma dei primi due statunitensi, entrambe di origine europea, si scoprì che il loro genoma era meno simile tra loro, di quanto lo fosse del loro collega coreano. In altri termini, Seong-Jin King rappresentava un tipo intermedio trai due europei. Questo ovviamente non significa che in generale gli europei siano più vicini ai coreani che questi ultimi tra di loro, ma indica come le classificazioni razziali siano grossolane e non spigano molti aspetti della nostra diversità biologica. Altrimenti detto: le popolazioni vicine mediamente contengono caratteristiche abbastanza simili, ma, entro una stessa popolazione si incontrano tipi tra loro molto differenti, talvolta più differenti di popolazioni tra di loro molto distanti. 7. In generale le popolazioni umane sono al proprio interno più differenti di quanto avvenga per altri gruppi animali, per i quali si usa più facilmente il concetto di razza. Ciò avviene per i cani, gatti, bovini, ovini, ecc. a maggior ragione perché per millenni gli incroci di queste specie sono stati forzati in una direzione ben precisa dall’allevamento umano. 8. La conclusione di questo discorso, allora, è che siamo tutti uguali dal punto di vista biologico?

No! Semmai la conclusione sarebbe che siamo tutti diversi. Di 6 miliardi di “basi” che compongono il nostro genoma, parecchi milioni sono variabili nell’umanità. Però le differenze più diffuse, nel complesso, sono minori di quelle che notiamo entro i due gruppi dei nostri parenti prossimi: gorilla e scimpanzé. 9. Il colore della pelle e altri caratteri somatici, possono essere criteri per identificare le diversità razziali? No. A parte che esistono tantissime sfumature nel colore della pelle che non è possibile stabilire in astratto dei gradienti della pigmentazione, spesso l’attribuzione del colore viene fatta sulla base di criteri politici amministrativi e non biologici. Ad esempio, ai tempi dell’apartheid in Sudafrica, i giapponesi erano considerati bianchi, i cinesi mulatti, oppure nella colonia della Eritrea italiana, gli arabi erano considerati “assimilati” ai bianchi europei, gli “indiani” invece ai sudditi africani; in USA negli anni Venti, gli italiani immigrati erano assimilati agli arabi, mentre i tedeschi e i francesi agli inglesi, e così via.

Ma soprattutto, oggi sappiamo che molti tratti somatici (il colore della pelle, degli occhi ecc.) non dipendono da uno o pochi fattori, come il gruppo sanguigno, ma da un minimo di almeno 70 geni che interferiscono tra loro in maniera complessa.

Inoltre, sappiamo che il colore della pelle è in stretta relazione con l’esposizione ai raggi solari e perciò popolazioni che vivono in Africa sub-sahariana, in Australia, in generale attorno ai tropici, presentano pigmentazioni più scure, anche se il loro DNA è mediamente piuttosto differente, e anche talvolta più differente in rapporto a popolazioni “bianche”. Da un punto di vista genetico, ad esempio, le popolazioni africane subsahariane sono tra di loro più differenti di quanto non siano differenti di molte popolazioni europee. Le differenze del colore della pelle non dicono molto sulle nostre origini e sullo sviluppo evolutivo delle popolazioni. 10. Qualcun ha proposto l’idea che le razze umane sono solo popolazioni che semplicemente differiscono tra loro in qualche modo le una dalle altre. In questo caso l’uso del termine “razza” è del tutto improprio, perché non si capisce quale sia il limite entro il quale si rintraccia la cesura. Secondo tale ragionamento, dovremmo distinguere ogni popolazione (la razza di Brescia, quella di Verona, di Vicenza ecc.…) il che contrasta nettamente con la prassi tassonomica adottata per le altre specie viventi. In più, tutti i gruppi umani definiti sulla base di criteri geografici (europei africani, asiatici ecc.), sociali (gli artigiani, i dentisti ecc.) o arbitrari (chi porta le scarpe, chi le pantofole, chi non porta calzature ecc.) differiscono nella media in molte altre caratteristiche biologiche (velocità nella corsa, peso

corporeo, massa muscolare ecc.). Questo non permette di definire alcunché, poiché, conoscendo la zona geografica possiamo identificare la velocità, o il peso corporeo, se si tratta di un dentista o di un artigiano, e così via… La questione non è tanto se siamo diversi, ma, se lo siamo, quanto lo siano oggetti o cose o animali tra di loro differenti, secondo classi che non ammettono sfumature intermedie (come avviene per oggetti di marche diverse: se un telefonino è un Nokia non è un Siemens, ecc.). 11. La questione razziale è solo una questione più di buone maniere, di linguaggio, che di altro?

No. Il razzismo ha avuto ed ha conseguenze catastrofiche nella storia dell’umanità (schiavismo, discriminazione, genocidio, sterminio ecc.). Ma la questione è che se continuiamo a parlare i termini di razza, non riusciremo mai a comprendere la nostra diversità biologica e quindi la nostra storia evolutiva: le vicende che un piccolo nucleo di nomadi africani che viveva di caccia e raccolta ha vissuto, arrivando a colonizzare l’intero pianeta, esplorare il cosmo, prevedere la parità di genere o inventare lo stato sociale.

In secondo luogo il razzismo ha portato e porta a progetti scientifici scadenti o talvolta demenziali. Un esempio, il progetto è stato negli anni passati quello di applicare il razzismo alla farmacologia. Tutti sappiamo che ci sono persone che hanno risposte differenti all’uso di determinati farmaci. Ad esempio l’aspirina, ad alcuni individui fa bene, per altri è un fattore che scatena reazioni negative, per altri ancora non ha nessun effetto. Vi sono state case farmaceutiche che hanno investito somme enormi per applicare le medicine a diversi tipi umani a seconda delle aree geografiche e della discendenza. In tal senso si è indagato se tutti o quasi gli asiatici metabolizzassero in modo diverso (ad esempio per velocità) un principio attivo di una medicina, rispetto a diversi gruppi umani.

Ebbene, un famoso studio degli anni Novanta, voleva indagare gli effetti della codeina e altre sostanze, comparativamente fra gli svedesi e i cinesi. Furono somministrati a cura di case farmaceutiche e centri di ricerca, principi attivi del medesimo farmaco a tutti i pazienti coinvolti e, dopo un certo numero di ore si andò a misurare il residuo del farmaco nelle urine. Il risultato fu che, mediamente, i cinesi assorbono i principi più velocemente che gli svedesi. Ma il dato più importante fu che in tutte e due le popolazioni è presente una grande variabilità: in tutti e due i gruppi si va da individui con un metabolismo lentissimo a quelli con uno velocissimo, con tutti i gradi intermedi. Dunque non ha senso cercare il dosaggio medio, perché molti cinesi assomigliano più agli svedesi di quanto non assomigliano ai propri connazionali e lo stesso vale per gli svedesi. Ha invece senso cercare di scoprire il dosaggio migliore per ciascuna persona, cinese o svedese che sia. Insomma la medicina “razziale” si è dimostrata finora del tutto inadeguata agli scopi prefissi, l’alternativa possibile è una medicina personalizzata. 11. Insomma, finché c’è libertà di parola, ognuno può usare il termine che vuole, basta che sappia di cosa sta parlando. Per parlare in maniera più corretta possibile, tuttavia bisogna cercare di essere il meno ambigui possibile. E il termine razza, abbiamo visto è estremamente vago.

Sia che usiamo il termine razza, che quelli di tribù, etnie, gruppi etnici, popolazione, ecc., pensando ad insiemi biologicamente omogenei, sbagliamo di grosso: tutte queste parole infatti presuppongono censure intrinseche, nel senso in cui mediamente si usano. Non è tanto importante censurare l’uso della parola (c’è chi ha proposto di espungere il termine dalla Costituzione il termine “razza” dove si afferma il fatto che il nostro paese condanna e combatte ogni tipo di discriminazione), quanto respingere il concetto che si cela dietro di essa. In ogni caso sarebbe meglio usare il termine più lineare e semplice di popolazione e, se si vuole essere più precisi, aggiungere locuzioni aggettivali o avverbiali, perché il termine popolazione è più neutro di tutti gli altri citati sopra. 217

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(Testo rielaborato tratto da: G. Barbujani, Alla ricerca delle introvabili razze umane: tredici domande e qualche risposta, in Marco Aime, La macchia della razza, Eleuthera, Milano 2017).

S-2. IL RAZZISMO: AREnDT, FOUCAULT E IL RAZZISMO SETTECEnTESCO

In questa unità si accenna a due pensatori: H. Arendt e M. Foucault che hanno tematizzato il concetto di razza in relazione alle organizzazioni degli Stati contemporanei. Si tematizza lo svilupparsi del razzismo come disciplina “scientifica” e come ideologia, a partire dalla seconda metà del 1700.

Come abbiamo detto, il termine di razza entra nell’uso comune tra i naturalisti nella seconda metà del Settecento. Ma di quale razzismo stiamo parlando?

Per aiutarci a rispondere a questa domanda è importante fare ricorso a due pensatori della seconda metà del Novecento: Hannah Arendt e Michel Foucault.

La prima scrive la sua opera più corposa: Le origini del totalitarismo, nel 1948, ma aveva già sviluppato il tema del razzismo già nel 1943, con la guerra mondiale in corso, nel breve saggio: Il razzismo prima del razzismo, del 1943, diventato poi parte integrante del libro più noto. In quello scritto, tra le altre cose, Arendt cerca di definire il razzismo come “ideologia” tipica del “secolo breve”. La sua tesi è che la distinzione tra le razze, o meglio gli atteggiamenti discriminatori, le tesi contro coloro che si consideravano diversi da noi (“noi” come le società bianche, occidentali, moderne e sviluppate), sono stati presenti da lungo tempo, prima delle esplosioni delle persecuzioni razziali del novecento. Due esempi di questo tipo sono: - le teorie dei nobili francesi controrivoluzionari che attribuivano le origini della nobiltà francese ai discendenti dei franchi (popolazione germanica), contrapposti ai più deboli celti (i Galli) delle campagne e alle popolazioni miste Gallo-romane delle città. - le teorie che opponevano nel Medioevo gli autoctoni sassoni agli invasori normanni nell’antica Inghilterra, prese in prestito sia dai sostenitori dei diritti della nobiltà discendente da Guglielmo il Conquistatore, sia, all’opposto, dalle popolazioni rurali, desiderose di impossessarsi delle terre fertili espropriate dalla nobiltà.

Queste due antiche narrazioni opponevano tra loro stirpi (razze) diverse, ma costituivano una delle tante argomentazioni possibili, assunte dai diversi gruppi sociali contro le altre: erano utilizzate da borghesi cittadini contro contadini dei borghi, da nobili contro la nuova monarchia borbonica, considerata come usurpatrice delle stirpi nordiche, da nobiltà di corte contro nobiltà militare, e viceversa, ecc. Insomma costituivano uno dei tanti motivi di contrapposizione tra diversi ceti sociali e popolazioni locali e si confondevano con altre narrazioni. Esse, secondo Arendt, si muovevano entro il quadro di una dimensione leggendaria, di cui erano testimonianza le leggende popolari (i cicli carolingi) e le grandi epopee cavalleresche (i cicli arturiani).

Diverso, secondo Arendt, è il razzismo come “ideologia”: con la fine dell’Ottocento, il razzismo passa da trama mitico-leggendaria a vera e propria ideologia, quando diviene l’elemento cardine per la spiegazione del mondo, capace di organizzare e spiegare tutti gli altri conflitti sotto la propria prospettiva, esso diventa abbastanza semplice e forte da coinvolgere la maggioranza di una popolazione, organizzata in associazioni, partiti e infine anche in strutture amministrative e statali, come avviene nel nazismo, in buona parte del fascismo o nell’ideologia “grande russa” o anti armena, prima sotto lo zarismo e il nazionalismo turco e poi anche per certi versi nello stalinismo.

Michel Foucault, in una serie di conferenze presso il Collège de France negli anni Settanta del Novecento, pur non citando mai Arendt direttamente, giunge a una prospettiva per certi versi simile. Secondo questo autore esisterebbero due fasi nella produzione del discorso razzista e nelle pratiche che lo accompagnano. La prima fase viene chiamata dall’au-

tore della “guerra delle razze”, nella quale si registrano scontri anche di carattere razziale, ma l’amministrazione dello stato spesso si erge come garante super partes delle differenze entro i diversi paesi. In questa fase il razzismo è un discorso frammentario e parziale, che non giunge mai a costituirsi come discorso e pratica pubblica; laddove emerge, il razzismo si colloca entro una prospettiva che, nel complesso, è ancora estranea alle pratiche razziste totalitarie della moderna pratica amministrativa.

Solo nel momento in cui l’amministrazione statale assume delle “pratiche discorsive” direttamente ispirate alla discriminazione razziale, si passerebbe a definire il vero e proprio razzismo. Tutto ciò avviene solo entro il clima dello stato imperialista e dei modelli di dominazione di amministrazione della fine dell’ottocento e del novecento, entro il quadro delle nascenti società di massa.

Quando si parla di razzismo, dunque, seguendo questi due autori, ci si riferisce non tanto a leggende o atteggiamenti discriminanti o xenofobi, da sempre presenti nelle pieghe nelle società, ma a un discorso che è in grado di leggere quanto avviene nella società sulla base della razza. Il razzismo giunge a divenire istituzionale e si organizza in forma politica e giuridica, in partiti, movimenti, associazioni capaci di entrare in possesso della macchina amministrativa, l’ideologia razziale è in grado di trascinare dietro di sé settori importanti della società organizzati, fino a trasferirsi entro la stessa amministrazione dello stato.

Due aspetti importanti sono sollevati dagli autori in questione: a un certo punto le teorie razziali si coniugano con il discorso scientifico e ciò le rafforza grandemente, dotando le teorie della razza di quell’universalismo e di quella parvenza di certezza che le teorie della razza leggendarie non erano state in grado di garantire.

Le teorie dominanti delle razze si sono quindi intrecciate con lo sviluppo delle scienze naturali, che è parte integrante della concezione del mondo dell’illuminismo.

È proprio la mania tassonomica del Settecento, che si coniuga con lo spirito enciclopedico, che permette al razzismo di passare da semplice narrazione poetica o mitica a teoria con una forte pretesa di verità.

Non è un caso che le prime teorie che pretendono di essere esaustive e di applicare alle razze la strumentazione e il metodo delle scienze naturali sorgono proprio del secolo dei lumi.

I primi studiosi delle razze sono prevalentemente tassonomisti, “osservatori” della natura, scienziati che praticano l’arte della medicina, i quali guardano con sospetto e ironia alle narrazioni favolose sulle origini dei popoli e delle stirpi. Una buona parte dei primi naturalisti razzisti, tuttavia, sono ancora legati alla teoria creazionista (quella teoria che si basa, come assioma incontrovertibile, sul dogma della creazione immediata e tutta in una volta di tutte le specie animali) e al fissismo (alla credenza, cioè che le specie animali erano state create fin dall’origine identiche a quelle del mondo contemporaneo).

I più importanti classificatori delle razze del Settecento furono Buffon, Linneo e Blumenbach. Anche lo scienziato svedese Carlo Linneo, che aveva cercato di applicare i metodi classificatori aristotelici agli esseri viventi, era in sostanze un fissista, proponendo una classificazione univoca degli esseri viventi, che ancora oggi è utilizzata in botanica e zoologia.

Nella decima edizione del suo Systema naturae del 1758 aveva posto l’uomo nell’ordine dei primati, nel quale sono presenti gli uomini, secondo due specie: l’homo sapiens e l’homo troglodites. A quest’ultima specie appartengono le scimmie antropomorfe, tra cui l’orangutan. La specie Sapiens, a sua volta, si suddivide invece in diversi sottogruppi o razze: l’homo europeus, e quelli asiaticus, americanus, afer, monstruosus e ferus (o uomo degenerato, ritornato allo stato selvaggio). Come scegliere i caratteri che sono distintivi delle diverse razze? I criteri sono prevalentemente morfologico-somatici, ma tra di essi Linneo inserisce ad esempio anche il modo di vestire. 219

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Il famoso anatomista Georges-Louis conte di Buffon, per decenni a capo dei giardini reali dei re francesi, nel 1749, nella sua monumentale Histoire Naturelle, dedica il decimo libro alla Histoire de l’Homme. Al contrario di Linneo, che era creazionista, pur non contraddicendo apertamente i dogmi religiosi, egli prospetta una tesi che richiama l’evoluzionismo al di là da venire, sostenendo che: «dopo essersi moltiplicati e diffusi sull’intera superficie terrestre (gli uomini), andarono incontro a diversi cambiamenti dovuti all’influenza del clima, del cibo, dei modi di vita, delle malattie epidemiche e della mescolanza continua tra individui più o solo simili. All’inizio questi cambiamenti non erano così marcati e determinavano soltanto differenze individuali; in seguito queste differenze divennero varianti individuali; in seguito queste varianti divennero varianti della specie, perché l’azione di queste stesse cause le rese più generali e più permanenti».

Buffon non si limita a comparare i tratti somatici e fisiologici, ma trova nell’ambiente la causa anche dei tratti psichici e culturali e indica una gerarchia tra le diverse civiltà umane. «Le caratteristiche dei bianchi sono derivate dai tratti fisici, ma anche sono quelle che richiamano alla bellezza, mentre i neri sono i più brutti e anche quelli più incivili».

Quali che siano i limiti evidenti delle teorie razziali di Buffon e Linneo, essi sono forse i più importanti esponenti della loro epoca che legano la teoria della razza alle scienze naturali.

Fu però il giovane medico tedesco Johann Friedrich Blumenbach a costruire una classificazione delle razze umane considerata per circa un secolo la più completa. Nel 1775 pubblica il De generis humani varietate nativa, basandosi su criteri prevalentemente quantitativi. Egli è considerato il capostipite della nuova antropologia fisica, che introdusse diversi parametri per la classificazione delle diverse razze, ad esempio il calcolo dell’angolo facciale o la dimensione dell’occipite. Egli considera quella umana un’unica specie a sé stante, divisa in cinque razze: la caucasica (Europa, Africa settentrionale e India), quella mongolica (orientali, finni e lapponi), quella etiopica (Africa sub sahariana), quella americana (indiani del nord America e parte del sud America), malese (Oceania e sud est asiatico). Accanto a ciò egli sostiene che l’uomo è originario del Caucaso e che la discendenza degli uomini è monogenetica (ossia che tutti gli uomini derivano da una sola coppia di uomini primitivi). Le differenze tra le razze sono dovute alla “degenerazione” dalla prima razza originaria, ovviamente bianca, che risultava anche la razza più bella e più civile.

Nello stesso periodo, tuttavia, erano presenti alcuni teorici e naturalisti che sostenevano la poligenesi degli uomini, che sarebbero stati oggetto di successive creazioni per atto libero di Dio, tra di essi lo statunitense Morton e lo svizzero Agassiz.

A Blumenbach seguirono due importanti studiosi: il primo fu Franz Joseph Gall, che sviluppò l’apparato di misurazione dei crani del suo maestro, a cui aggiunse le misurazioni delle forme dei crani, delle dimensioni e delle capacità craniche, correlandole sistematicamente con le capacità intellettuali, nonché a quelle morali, stabilendo nuove classificazioni. Il secondo fu lo svedese Anders Retzius che introduce gli studi di quella che cominciava a essere chiamata “biometria”, cioè la disciplina che riduceva lo studio dell’uomo alla meticolosa raccolta di rilevazioni geometrico-numeriche, come l’indice cefalico, ossia il rapporto esistente tra la lunghezza e la larghezza del cranio, sulla base delle quali si indicavano le categorie di “brachicefalia” e di “dolicocefalia”, parametri a lungo usati fino ai primi decenni del novecento, quando si cominciò a sospettare che tali indici hanno poco a che fare con l’ereditarietà dei tratti specifici e che sono strettamente correlati a situazioni ambientali e di breve termine.

S-3. LA nASCITA DEL RAZZISMO COME IDEOLOGIA

La seguente scheda illustra le tesi di Arthur de Gobineau, individuato da H. Arendt come il primo autore che ha posto il tema della razza come l’elemento fondamentale per leggere la storia dell’umanità e propone un paragone con le tesi avanzate da Darwin che scrisse il suo L’origine delle specie soltanto cinque anni dopo il Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane.

H. Arendt indica in un testo del XIX secolo, l’inizio del razzismo come ideologia. Si tratta dello scritto di Arthur de Gobineau: e, scritto tra il 1853 e il 1855 e che è stato per un tratto del XIX secolo il testo di Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane, riferimento per molti movimenti reazionari e razzisti in tutta Europa. Il testo non è tanto interessante per il metodo o le teorie che avanza, che cercheremo descrivere brevemente, ma perché non si presenta come un pamphlet a favore di una specifica frazione politica o sociale, bensì cerca di dare una spiegazione globale della storia dell’intera umanità sulla base della nozione di “razza”.

Beninteso, de Gobineau è ben lontano dal dare una definizione di cosa sia una razza (ammette di non saperlo, chiamando in causa anche inspiegabili “fluidi psico-somatici”), semplicemente parte dall’assunto che tutta l’umanità abbia trovato origine da una “protorazza” originaria dell’Asia centrale: la razza ariana. Sulla base di questo assioma, egli si scaglia contro tutte le tesi “poligenetiste” dell’umanità, che bolla come tentativi dei naturalisti per contraddire la parola dei testi sacri, mentre si dimostra dubbioso anche di tutte le teorie di linguistica storica, che gli appaiono poco certe.

Gli ariani preistorici sarebbero il prototipo di tutta l’umanità, spostatisi in epoca arcaica da un lato verso l’India, dall’altro verso la Persia e l’occidente europeo.

Ma nessuna delle razze attualmente presenti sulla terra sarebbe la diretta discendente degli antichi ariani. Tutti i popoli attuali sono frutto di commistioni razziali più o meno complesse (che de Gobineau enumera: di primo, secondo, terzo grado, e così via). I caratteri degli antichi ariani sono la pelle bianca, gli occhi chiari e i capelli biondi, uniti a un carattere tenace e conquistatore, legato alla bramosia per la propria autoaffermazione, piuttosto che per la conquista di nuovi territori o per la soggezione crudele di altri popoli. Lo stesso de Gobineau risponde in modo evasivo alle domande sulla origine delle popolazioni di stirpe “semitica” o “camitica”, sostenendo che esse sono solo il prodotto di incroci duplici o triplici, sono i popoli più “meticci” e decadenti tra le diverse razze venute dopo quella ariana e si distaccano dagli ariani prevalentemente per non essere capaci di produrre caratteri della civiltà originali, ma di limitarsi al massimo di scimmiottare le conquiste degli ariani.

Egli da un lato rimane fedele al dettato della Bibbia, per cui tutti gli uomini sono discendenti da una sola stirpe creata da Dio, dall’altra vuole dimostrare che le “razze umane “diverse da quelle bianche indo-iraniche, sono solo l’ultimo grado della decadenza dell’umanità, destinata a perire se non sarà in grado di custodire gelosamente gli ultimi caratteri che ancora rimangono delle prime lontane popolazioni ariane.

Essenzialmente pessimista sul futuro dell’umanità, che mostra attualmente il predominio delle borghesie internazionali e dello sviluppo moderno del mercati, crede che il compito delle popolazioni che, benché degenerate, attingono ancora, almeno in parte, ai caratteri più simili degli antichi ariani, il compito dei discendenti dei più antichi ariani in Europa è di difendersi dall’avanzare del meticciato e conservare il tesoro della propria origine privilegiata, contro ogni degenerazione legata alla confusione tra le diverse razze.

Ritroviamo nelle parole di de Gobineau molte suggestioni che porteranno in Europa al nascere di partiti nazionalisti e imperialisti (le tesi pangermaniste, quelle panslaviste, le teorie del primato britannico, le tesi che giustificavano il colonialismo sulla base del “fardello dell’uomo bianco”, cara ad autori come l’anglo indiano Kipling, ecc. ) nonché a suggestioni tardo romantiche sulla “purezza” delle tradizioni dei popoli di origine nordica, molto apprezzate, ad esempio dal circolo nazionalista di Wagner in Germania. 221

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Il saggio di de Gobineau viene pubblicato soltanto quattro anni prima del capolavoro di Darwin del 1859: L’origine delle specie. Non vi può essere lontananza più grande tra quest’ultimo scritto e quello di de Gobineau. Il libro di Darwin si presenta come un testo di scienze naturali, costruito nel corso di decenni di viaggi, sulla base di un enorme accumulo di dati e di informazioni raccolte in corrispondenze con studiosi di tutte le parti del mondo.

D’altra arte va ricordato che nella famiglia di Darwin, il padre e lo zio facevano parte di importanti associazioni antischiaviste, mentre già nei suoi diari di viaggio compiuti in età giovanile, si trovano riflessioni personali del tutto contrarie alle discriminazioni razziali.

Sulla questione delle razze Darwin è sempre molto prudente, egli è ben attento a evitare compromettenti discussioni relative al monogenetismo e al poligenetismo degli uomini, evita di chiamare a sostegno delle sue affermazioni i testi sacri. È sicuro, comunque che, pur sottolineando alcune differenze fondamentali rispetto alla sua teoria della selezione naturale, il punto da cui partire sia quello del francese Lamarck, che, prima di lui, aveva ipotizzato che la specie umana, come tutte le altre specie, non fosse “fissa” o frutto di una “creazione speciale”, ma che avrebbe subito tutte le mutazioni intervenute per tutti gli animali.

È nel testo del 1871, quello sullo sviluppo della specie umana (L’origine dell’uomo e la selezione in rapporto al sesso), tuttavia, che Darwin mostra le sue perplessità sul fatto che la parola razza abbia un significato chiaro e univoco e ciò non solo per l’uomo, ma per tutte la specie “naturali”. Dopo aver introdotto un nuovo elemento che opera nella selezione naturale delle diverse specie animali, quello della selezione dei caratteri sessuali infraspecifici, fa un lungo elenco degli studiosi settecenteschi che avevano cercato di costruire una tassonomia delle razze umane e si dichiara del tutto insoddisfatto di tutte queste classificazioni.

La posizione di Darwin sembra essere chiara:

I: in primo luogo egli sostiene che su tutte le popolazioni umane hanno agito le stesse forze concomitanti che hanno determinato le attuali conduzioni degli altri animali (selezione naturale, selezione sessuale, agenti geografici fisico-chimici ecc.) e che una cosa ben diversa è la creazione volontaria di certi tipi di animali (tutti gli animali di allevamento di cui si cercano di conservare alcuni caratteri speciali) e la selezione spontanea degli animali in natura. ani del suo tempo: egli non ha dubbi, ad esempio, della superiorità della civiltà britannica su quella delle altre nazioni (siamo nei tempi del dominio mondiale dell’Impero Britannico su tutti i mari ), sostiene una certa prevalenza e superiorità del genere maschile su quello femminile, non è molto chiaro sul rapporto che esiste tra la selezione sessuale e quella naturale, non sa spiegare come avvenga la trasmissione dei caratteri attraverso le relazioni sessuali (sostiene la famosa questione della ipotesi della “pangenesi”), accenna al fatto che, parallelamente allo sviluppo dei caratteri delle specie, si sia verificata, nella storia dell’umanità, un’evoluzione anche dei comportamenti morali degli uomini; infine accenna, nelle ultime pagine dell’Origine dell’uomo, ad alcune misure “eugenetiche” avanzate dal cugino Galton, per migliorare le diverse popolazioni umane. Ma tutto questo appare un dettaglio, di fronte allo sviluppo delle dottrine razziste di taglio “scientifico” che si svilupperanno alla fine del XIX secolo.

Tuttavia è proprio sulla base di questa ultime incertezze che si svilupperà una sorta di revisione dell’evoluzionismo da parte di alcuni teorici delle popolazioni, antropologi, medici e studiosi e che prenderà piede una sorta di teoria razziale di tipo “scientifico”: la “eugenetica”.

S-4. DA DARWIn A GALTOn, LA nASCITA DELL’EUGEnETICA

Nella seguente scheda si vuole illustrare la fondazione dell’“eugenetica” da parte del cugino di Darwin, Francis Galton (1822-1911), che cercò di piegare le tesi evoluzionistiche alle necessità di dominio

da parte della Gran Bretagna. L’eugenetica fondata da Galton fu per diversi decenni considerate una disciplina “scientifica” che molti stati coloniali accettarono per giustificare leggi e provvedimenti amministrativi che permettessero la supremazia e il controllo dei territori d’oltremare.

Ai primi del Novecento i programmi galtoniani si diffusero in tutto il mondo (il primo congresso internazionale di eugenetica si tenne a Londra nel 1912), indirizzando le politiche governative sia nel senso di un maggior dominio sui popoli soggetti all’imperialismo, sia verso un maggior controllo dei gruppi umani e degli individui considerati “devianti” e “tarati” e quindi pericolosi all’interno dei singoli stati.

Francis Galton era cugino di Darwin. Meno portato di quest’ultimo nel campo delle scienze naturali, fu invece un apprezzato studioso delle allora nascenti scienze statistiche, nonché un grande promotore di associazioni internazionali parascientifiche.

Egli mostra di voler partire dalla teoria darwiniana, ma ha dei fini ben diversi da quelli del cugino. Il suo problema non è quello di giungere a svelare le leggi più profonde dello sviluppo delle specie viventi e dell’umanità, ma quello di migliorare il primato della nazione britannica e della sua popolazione, di fronte alle minacce che appaiono nei conflitti coloniali ed europei alla fine del XIX secolo.

Il suo testo più importante sulla questione della “razza” britannica è l’Ereditary Genius, un testo nel quale egli cerca di applicare il metodo statistico per dimostrare tre cose: - che la popolazione della Gran Bretagna rischiava di entrare in un processo degenerativo, come già si mostrava per alcune altre nazioni europee, se non si fossero prese misure dirette espressamente a rafforzare la selezione della sua classe dirigente. - che se non si fossero prese misure per favorire lo sviluppo e il rafforzamento delle élite dirigenti, il suo paese sarebbe stato condannato a una degenerazione sia dal punto di vista della quantità della popolazione (come stava avvenendo in Francia dopo le guerre napoleoniche, nella quale la popolazione stava vistosamente diminuendo), sia dal punto di vista della qualità dei ceti dominanti. - che la guerra e la competizione tra le nazioni più forti non fossero che le prosecuzioni della selezione naturale, presente in tutte le specie animali, ma sotto una forma più avanzata e perciò bisognava porre mano a un programma generale di miglioramento delle qualità del popolo inglese.

Per sviluppare le sue tesi egli si appoggia anche sulle tesi di Malthus, studioso (peraltro conosciuto e apprezzato anche da Darwin) che aveva cercato di spiegare le carestie e le guerre in termini di rapporto tra le risorse naturali e la crescita numerica delle popolazioni.

Secondo Galton il “genio” britannico doveva essere sostenuto e aiutato con drastiche misure di contenimento della “degenerazione” e di promozione premiale dei “migliori” (o dei “più adatti” come aveva detto un filosofo inglese Spencer, coevo di Darwin, prima ancora che l‘autore dell’Origine delle specie pubblicasse la sua opera più nota).

Le misure da adottare erano molteplici: in primo luogo vi erano quelle “negative”: la reclusione degli individui portatori di malattie trasmesse tra le diverse generazioni, l’“eliminazione” dei caratteri “tarati” attraverso la proibizione dei matrimoni di persone appartenenti a famiglie colpite da alcuni tipi di malattie (ad esempio l’epilessia e altre forme di “follia”) , la soppressione degli enti caritatevoli che si occupavano di sostenere i poveri, gli emarginati, i malati e i devianti, la limitazione delle nascite e dei matrimoni precoci tra i poveri e gli emarginati e tra coloro che si rivelavano incapaci di elevare la propria posizione sociale, la condanna di qualsiasi pratica monastica e di clausura negli ordini religiosi.

Da un punto di vista positivo, occorreva favorire la procreazione tra le famiglie nelle cui fila si presentavano individui particolarmente capaci, migliorare la conoscenza dei caratteri familiari dei giovani che intendevano sposarsi, attraverso una sorta di quaderno delle malattie familiari, favorire gli sposalizi dei laureati e di coloro che erano iscritti ai college più prestigiosi, abbassare la media di età degli sposalizi tra le persone di ceto superiore e più 223

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capaci, e così via.

Tutte queste misure erano da considerarsi, secondo Galton, come una sorta di “aiuto” alla selezione naturale e alla sopravvivenza del più adatto, teorie che egli attribuiva a Darwin.

L’“eugenetica” esplose nel 1912, in un famoso congresso tenutosi a Londra e che vide l’adesione di intellettuali, naturalisti, politici, giuristi di tutto il mondo soprattutto dalla Gran Bretagna, paese organizzatore, dalla Germania, dagli USA e dall’Italia.

Il razzismo, coniugato con la nuova scienza eugenetica si era diffuso con grande velocità in molti paesi europei e non, e aveva influenzato la condotta di molte amministrazioni statali. Per diversi motivi sembrò la soluzione migliore di fronte a impellenti questioni che rischiavano di mettere in crisi gli equilibri politico-sociali di molte nazioni.

Negli USA programmi eugenetico-razziali furono impiegati per controllare e selezionare la grande massa di cittadini che vi si trasferivano dall’Europa. Essi furono impiegati nei confronti degli immigrati dell’est europeo, ma anche verso gli italiani, i greci e le popolazioni mediterranee. L’eugenetica, d’altra parte, forniva una buona base d’appoggio “scientifica” a favore delle discriminazioni razziali in atto nel sud del paese. Insieme alla nuova psicologia sperimentale fu utilizzata, inoltre, per sviluppare programmi contro i “degenerati” e i poveri in tutto il paese.

In Europa l’interpretazione galtoniana del darwinismo servì a sviluppare campagne scioviniste e xenofobe, soprattutto in Francia, dopo la cocente sconfitta di Sedan per mano dei prussiani, in questo caso prese piede nel paese la tesi secondo cui la sconfitta era da attribuirsi anche alla presenza nel paese della “razza” più degenerata di tutte: gli ebrei. In Germania la tesi contraria alla degenerazione per commistione razziale, portò ad azioni restrittive contro gli immigrati polacchi, turchi e russi. Ovunque crebbe l’odio e il rancore per le popolazioni di religione ebraica, considerate come le più degenerate di tutte.

Va da sé che il darwinismo galtoniano ebbe la massima applicazione nelle gestioni dei territori coloniali, durante quello che venne definito lo “scramble for Africa”, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Sulla base anche delle teorie “evoluzionistico-galtoniane”, ad esempio, nelle colonie britanniche furono costruiti campi di concentramento, che si rivelarono campi di sterminio per le popolazioni boere, considerate come portatrici di “degenerazione” per il loro stretto contatto con gli indigeni del Natal e del Transvaal. Si applicarono le indicazioni degli eugenisti, adottando politiche di stretta discriminazione razziale in molti territori coloniali. Nelle colonie tedesche si giunse a teorizzare e applicare lo sterminio delle popolazioni Herero e Nama, nell’Africa Occidentale Tedesca (attuale Namibia). Misure eugenetiche furono prese in Australia nei confronti degli aborigeni e in Nuova Zelanda contro i Maori. Nelle colonie italiane, fin dalla creazione della colonia Eritrea, e poi anche nella Somalia italiana, con la scusa della differenza razziale e civile, gli indigeni furono soggetti a una legislazione speciale, diversa da quella adottata per gli italiani. Inoltre furono prese misure di segregazione razziale di diverso genere e per evitare la “commistione razziale” tra cittadini italiani e indigeni. Misure di controllo delle nascite e dell’immigrazione furono prese anche in altri paesi dell’Europa centro settentrionale: Danimarca, Svezia ecc.

Per quanto riguarda il nostro paese, va detto che le teorie di Darwin giunsero un po’ in ritardo rispetto ad altri paesi europei, a causa dell’opposizione più o meno palese della chiesa alle idee dell’evoluzionismo che sembravano contraddire quanto riportato nei testi sacri. Ma esse giunsero insieme alle interpretazioni distorte del darwinismo di Galton e dei suoi seguaci.

In ogni caso, già prima dell’esplosione del movimento eugenetico, tra diversi esponenti del positivismo scientifico italiano erano entrati in uso alcuni concetti tipici del galtonismo, come quello di “degenerazione”, di “decadenza della razza”, a opera di Cesare Lombroso, con-

temporaneo di Galton e di diversi suoi discepoli. Lombroso non aveva letto Galton e probabilmente aveva letto in maniera superficiale Darwin stesso, secondo quanto appare chiaramente da tutti i suoi studi, ma si dichiarava d’accordo con la teoria ella selezione naturale e dell’evoluzione. Il suo interesse era prevalentemente rivolto allo studio della “degenerazione criminale” e alla cosiddetta “igiene mentale”, cosicché aveva cercato di fornire una descrizione basata sulla antropologia medica dei comportamenti devianti, consigliando l’adozione da parte della pubblica amministrazione, di misure di contenimento detentivo e di isolamento per i degenerati (estensione dei manicomi, creazione dei manicomi criminali, introduzione di norme giuridiche atte a prevenire e contenere la follia degenerativa ecc.). Tuttavia aveva anche scritto alcuni pamphlet, dove cercava di individuare i segni delle degenerazioni nelle popolazioni “negre”.

Una volta cadute in discredito le teorie lombrosiane sul “tipo criminale “e venuto a mancare il maestro, molti suoi seguaci si erano rivolti al galtonismo, come Sergi, Morselli, Lauria ecc., e avevano fatto parte del contingente italiano al congresso di eugenetica del 1912.

Il dibattito sulla razza e sui provvedimenti eugenetici da applicarsi in Italia assunse un particolare carattere, soprattutto perché, da parte di un certo numero di “naturalisti” e antropologi fisici positivisti, si sostenne la presenza nel nostro paese di due razze ben differenziate: la prima, residente al nord, influenzata dai tratti tipici delle popolazioni “ariane” del nord Europa, la seconda nel meridione, discendente dall’incrocio con razze “semitichenegroidi”. Una particolare attenzione fu rivolta poi alla popolazione sarda, ritenuta di ceppo “razziale” differente da tutte le altre e più primitiva del resto del paese. La conseguenza di tutto ciò doveva essere, a detta di alcuni di questi studiosi, una politica diversificata capace di contenere il diffondersi dei caratteri “indesiderabili” dei meridionali da un lato e di permettere dall’altro uno sviluppo armonico del settentrione del paese.

Intanto un banco di prova delle teorie eugenetico-darwiniane furono, come abbiamo accennato, le colonie. In Eritrea, la “colonia primigenia”, ad esempio erano nettamente distinti i “cittadini” coloniali, ossia gli italiani ed europei, dai “sudditi” ossia gli eritrei e le altre popolazioni africane e asiatiche, distinte su due criteri: la differenza somatica e fisiologica della “razza” e la differenza culturale e morale della “civiltà”. Esistevano giurisdizioni, pene e sanzioni separate, residenze separate, reparti dell’esercito separati, istituti d’istruzione (quando vi erano per gli indigeni) separati, locali pubblici separati, ecc. I sudditi eritrei non potevano diventare cittadini italiani se un giudice non avesse accertato che i loro caratteri razziali erano compatibili con una discendenza da genitori di razza bianca, mentre se erano di genitori entrambi eritrei non potevano neppure presentare la domanda di naturalizzazione italiana, ecc.

Sappiamo tutti che il culmine del razzismo istituzionale in Europa furono le leggi di Norimberga in Germania e le leggi razziali del 1938 in Italia, nelle quali si presentano esplicitamente alcune suggestioni derivanti dal razzismo “scientifico” ( l’affermazione della purezza delle stirpi, l’idea della supremazia “naturale” di alcune razze su altre, la necessità di operare per “conservare” i tratti migliori della razza e di combattere le commistioni e il “meticciato” ecc.), ma la storia dell’intreccio tra razzismo, politica e amministrazione proviene da lontano. L’azione violenta sulla base della determinazione della razza culmina con gli orrori dei campi di sterminio degli ebrei, dei rom e degli slavi da parte del fascismo e del nazismo, ma è preparata da una lunga fermentazione nel corso nei regimi liberali a partire dalla fine dellOttocento. Proprio questo radicamento storico delle teorie razziste e eugenetiche fa sì che ancora oggi non si possa ritenere passato tutto l’apparato retorico e argomentativo delle teorie della razza.

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226 S-5. Un CASO DI RAZZISMO ISTITUZIOnALE: LA COLOnIA ERITREA.

Excursus sul passaggio dallo status di suddito a quello di cittadino1

Con questa scheda si intende dare un’idea di come le idee razziste ed eugenetiche trovarono un’applicazione nelle politiche coloniali a cavallo tra la fine del 1800 e la prima metà del 1900.

È stato scelto l’esempio della Colonia italiana dell’Eritrea per almeno tre motivi: in primo luogo perché la questione eritrea riguarda direttamente la storia e la cultura del nostro paese, in secondo luogo perché l’Eritrea fu la sola colonia che l’Italia occupò per un periodo sufficientemente lungo per poter sviluppare una politica razziale di un certo respiro (non si trattò, come per l’Etiopia e in buona parte la Somalia, di una occupazione di breve periodo e legata al susseguirsi continuo di stati di emergenza di carattere bellico, né, come la Libia, di un’occupazione parziale e controversa, stabilizzatasi solo a partire dagli anni Trenta del Novecento). In terzo luogo perché le pratiche amministrative e giuridiche coloniali anticiparono, in qualche misura, i provvedimenti razziali e xenofobi adottati nella madre patria con la discriminazione razziale, le leggi xenofobe e le limitazioni dei diritti di espressione e di libera associazione dei cittadini italiani stessi.

L’Ordinamento giuridico per l’Eritrea del 1908 (R. D. 2/07/1908, N°325) fu quello che stabilì la sudditanza della stragrande maggioranza degli eritrei. Tale inquadramento era definito principalmente in termini negativi. Era suddito della colonia chi non era cittadino italiano o di altri stati europei considerati “civili”. Tale situazione doveva accompagnarsi alla residenza stabile nel territorio coloniale o al collegamento diretto con “tribù” o “stirpi” della colonia (queste ultime caratteristiche erano legate all’incertezza nella determinazione dei confini in molte zone del territorio e ai legami clanici, religiosi o di lignaggio che resistevano al di là delle definizioni confinarie).

Vi erano inoltre altre attribuzioni necessarie, di tipo geografico/razziale, per poter essere considerati sudditi della colonia italiana: infatti, nell’articolo 2 del decreto, erano considerati sudditi anche gli appartenenti a “popolazione africana o di altre zone del Mar Rosso” che avessero la qualità positiva di risiedere ininterrotti in colonia, oppure prestassero servizio stabile nell’amministrazione italiana (tutti considerati appartenenti a una civiltà “non simile” a quella italiana o europea).

Nella legge del 1908 era presente anche la determinazione degli “assimilati”, quei sudditi che per motivi razziali (fisiologici, anatomici, culturali, di discendenza e psicologici) erano considerati simili ai sudditi eritrei (a quest’insieme appartenevano ad esempio, tutti i nativi africani, ad eccezione dei nordafricani, buona parte dei cittadini asiatici, come gli indiani). Esistevano anche gli “assimilati” ai cittadini delle colonie italiane, secondo un elenco che comprendeva i membri di molti paesi europei e delle Americhe.

Le conseguenze dell’ordinamento riguardavano sia la giustizia civile che penale.

Un’altra fonte, ufficiosa, ma non meno importante per la condotta dell’amministrazione coloniale italiana, erano i codici redatti per volere del governatore Martini, tra il 1905 e il 1909, ma mai effettivamente divenuti operativi in colonia, a seguito dell’ostruzionismo che ricevettero, per diverse ragioni, da parte dell’amministrazione coloniale.

Nonostante non fossero mai effettivamente operativi, essi fornirono un quadro di riferimento importante sui comportamenti dei giudici e degli amministratori italiani, nonostante la loro “ufficiosità”. In essi vi sono diversi importanti riferimenti per comprendere la ratio generale del rapporto sudditi/cittadini nella colonia eritrea.

A partire dall’art 19 nel Codice Civile coloniale proposta dal governatore Martini, era prevista la cosiddetta “piccola naturalizzazione” dei sudditi. Essa consisteva in una natu-

1. Il testo riprodotto è parte di un libro sulla colonia eritrea, scritto da Enrico Pozzi nel 2021 e ancora in attesa di pubblicazione.

ralizzazione soggetta a forti penalizzazioni, rispetto a quella della madrepatria. In primo luogo l’acquisizione della cittadinanza era ottenibile attraverso una domanda, e quindi non era un diritto automatico, valido erga omnes, ma si trattava di una “concessione” anche per i cittadini europei “assimilati” ai cittadini italiani. Inoltre, riguardo ai sudditi che desideravano accedere alla cittadinanza italiana, essa andava valutata caso per caso per motivi eccezionali, aveva quindi una dimensione fortemente “premiale” (vi era chi parlava dell’ottenimento della cittadinanza italiana come “un onore” che doveva essere ben meritato). La piccola cittadinanza, al contrario di quanto succedeva per i cittadini a tutti gli effetti, poteva essere “revocata”, fatto inaudito per chi avesse la cittadinanza “naturale”. Inoltre non era trasmissibile alla propria progenie, né al o alla coniuge. Nello stesso codice, inoltre, era introdotta una norma che in qualche modo si riferisce ai meticci (art. 17). Infatti si ammetteva la “piccola naturalizzazione” anche per la donna eritrea sposata a un italiano e in genere per i figli di una coppia mista. Anche qui, la naturalizzazione non era automatica, ma era la conseguenza di un’autorizzazione del Governatore, che doveva valutare caso per caso e poteva riguardare anche il caso di una relazione concubinaria.

D’altro lato, nello stesso codice (art. 7), si ribadiva che l’autorizzazione governamentale a matrimoni misti cittadini/sudditi, doveva essere concessa dall’autorità solo in casi del tutto eccezionali, ciò valeva anche nel caso di unione tra un suddito coloniale e una cittadina straniera.

Nell’art 7 si affrontava poi il problema dei figli di genitori “ignoti”, ma nati in colonia, per lo più, si sottintende, di figli di padri italiani e di madri eritree, abbandonati nel corso dell’infanzia. In questo caso i richiedenti dovevano sottoporsi a una serie di verifiche e accertamenti, alla ricerca dei caratteri fisici che dimostrassero la loro vicinanza alla razza bianca e di altri requisiti, che nel tempo, comprenderanno anche il possesso di un titolo di studio elementare minimo.

Il passaggio da suddito a cittadino, sia per i figli di ignoti, sia per i figli di una coppia “mista”, rispondeva ad esigenze di due tipi diversi, ma aventi una finalità ultima unica. La prima esigenza era quella di esercitare il controllo più pieno possibile sull’intera popolazione eritrea, in secondo luogo si cercava di far rientrare tutta la popolazione in due semplici categorie: sudditi e cittadini, ma, in sostanza, si aveva di mira di eliminare l’elemento di disordine che poteva comportare una nuova ambigua categoria: quella dei “meticci”, che metteva in pericolo la netta separazione tra indigeni ed europei.

Non può essere un caso che, proprio nel periodo che stiamo considerando ( i primi decenni del Novecento), da parte di tutta la antropologia fisica e della “biometria”, da parte di studiosi di fama internazionale e italiani (per l‘Italia si ricordino soltanto le tesi di Lombroso sui “negri”, la discussione dell’origine della popolazione o “razza” italiana di Niceforo, Sergi o Morselli2), si assisteva alla condanna del “meticcio”, come elemento “degenerato” e “ decadente” della razza, che avrebbe compromesso la generale buona disposizione della popolazione. Paradossalmente, seguendo queste suggestioni, per l’amministrazione poteva essere meglio riconoscere come cittadino metropolitano qualche figlio di genitore italiano e di un’eritrea, che ammettere l’esistenza ufficiale di un numero elevato di individui “fuori casta”, come preferisce definire gli appartenenti al meticciato anche Tekeste Nagash3 .

Oltre agli Orientamenti del 1909, che cercarono di definire l’opposizione netta tra sudditi e cittadini, pochi furono i provvedimenti apertamente ed esplicitamente dedicati ai “meticci”. Come se il solo fatto di nominare la condizione di mezzosangue, potesse rendere

2. Vedi E. Pozzi, La teoria della razza tra il 1850 e il 1912, Maratta, Roma 2020. 3. T. Negash, Italian Colonialism in Erirea 1882-1941, Uppsala, 1997, II edizione. 227

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più problematica e sfumata la contrapposizione tra italiani ed eritrei.

Una norma che può più facilmente far comprendere la situazione, può essere quella del 1914 (R. D. 10/12/1914, n°1510), emanata sotto Salvago Raggi, successore di Martini alla carica di Governatore eritreo, sulle Modificazioni del trattamento del personale civile nella Colonia Eritrea4. Benché sotto il governatorato di Salvago Raggi, fosse palese la carenza di lavoratori e funzionari da inserire nella pubblica amministrazione e nonostante che il governatore fosse stato propenso a costruire istituti d’istruzione per formare dipendenti e impiegati eritrei i quali fossero in grado di collaborare nei gradi più bassi dell’amministrazione coloniale, il decreto chiudeva tutte le porte all’arruolamento di impiegati italiani che avessero rapporti con donne di origine indigena. Come dire, l’attestazione della classificazione razziale andava oltre e si dimostrava più forte delle necessità di potenziare tutta la macchina amministrativa. Il decreto non condannava tanto le relazioni “irregolari” (cioè “extraconiugali”, occasionali e non stabili) tra italiani e indigene, quanto la commistione tout-court, tra cittadini e sudditi. La pena per gli impiegati che si fossero “mischiati” con donne di altra “casta” arrivava fino alla immediata destituzione.

Riguardo allo stato giuridico del suddito coloniale, va detto anche che non in tutte le colonie la condizione sia stata la stessa. Infatti, mentre in Eritrea la differenza giuridica fu sempre profonda e marcata da una certa continuità nel tempo, in altre colonie il pregiudizio razziale, da questo punto di vista, fu meno forte. Con gli Statuti libici, della Cirenaica e della Tripolitania (R.D. 31/10/1919, N°391 e R.D. 31/10/1919, n° 2041) ad esempio, erano stati introdotte a favore delle popolazioni libiche, alcune prerogative del tutto assenti nelle colonie del Corno d’Africa, come il diritto ad eleggere rappresentanti a livello regionale e la proclamazione dell’eguaglianza di fronte alla legge dei libici e dei coloni italiani, nonché una più ampia possibilità di accedere alla cittadinanza italiana. Per non parlare degli abitanti delle isole egee colonie italiane, che potevano accedere alla cittadinanza italiana de jure, sulla base dell’arruolamento nell’esercito italiano, cosa che proseguirà fino agli anni Trenta.

Soltanto durante gli anni della grande guerra vi fu un certo allentamento nella concessione della cittadinanza italiana per gli eritrei e nel del rigido controllo sui “meticci”. Così si può dedurre da alcune circolari emanate nel corso del periodo bellico, come quella del 22/09/1917 ad Asmara5, che permetteva l’iscrizione all’anagrafe civile a un certo numero di figli di coppie miste e di figli di genitori ignoti. Anche qui, ovviamente, il cambiamento di status poteva avvenire solo in seguito a una valutazione sanitaria-antropometrica e culturale, ma ciò fu probabilmente il frutto delle necessità occasionali di aumentare il contingente militare.

Come abbiamo avuto modo di vedere, la pratica di segregazione degli indigeni fu sempre battuta dai diversi governatori della colonia Eritrea, fin dalle origini. A livello di teoria e negli ambienti accademici, tuttavia, la difesa della purezza della razza italica come misura di igiene razziale non fu completamente egemone nelle discussioni tra antropologi, medici, naturalisti e demografi, almeno fino alla prima metà degli anni Trenta.

Va segnalato, ad esempio, che alcuni settori accademici, pur legati in seguito alla ideologia del regime, fino agli anni Venti del Novecento, avanzavano delle ipotesi sul valore eugenetico del mescolamento del sangue. Sebbene contrario a una incontrollata mescolanza del germe generativo tra “popoli molto diversi tra loro”, ad esempio, Corrado Gini, docente di

4. Vedi G. Barrera, Colonial affaires: Italian Men, Eritrean Women and the construction of racial Hierarchies in Colonial Ertrea, Notrhwestern Un. Dept. of History, 2002. Anche in «Quaderni Storici», n° 109, a.

XXXVII, n° 1, aprile 2002. G. Barrera, Patrilinearità, razza, identità. 5. N. Camilleri, La cittadinanza negata nella Colonia Eritrea (1882-1941), in «Altreitalia», 2014.

Statistica dell’Università di Roma, nonché fondatore e presidente per un certo periodo dell’ISTAT, con benestare e incoraggiamento di Mussolini stesso, riteneva ancora nel 1924 che in qualche caso la storia dimostrasse che le popolazioni di maggior successo eugenetico avessero ricevuto vantaggi da un processo di mescolamento limitato6. Un suo allievo e assistente, Domenico Simoncelli, sulla linea del maestro, si era spinto ad illustrare esempi positivi di meticciato che aveva migliorato la composizione generale di alcune stirpi (come ad esempio quella “mediterranea”, che aveva accolto attraverso una non eccessiva quota di incroci, i caratteri migliori delle popolazioni a lei vicine). Certo, tutto ciò comportava un attento e attivo controllo da parte dello stato. Una politica di saggia e regolata mescolanza avrebbe portato a migliorare le razze più deboli e “degenerate” anche nelle colonie africane. Tutto ciò tenendo conto che gli eritrei non erano considerati vere e proprie razze “negre”. Le affermazioni di Simonelli prevedevano che una controllata quota di misgenerazione avrebbe potuto “migliorare” il patrimonio ereditario dei nativi della colonia.

Queste blande aperture igienistico-eugenetiche non furono più accettate negli anni Trenta, neppure a livello di pura ipotesi accademica, mentre dal punto di vista politico-amministrativo non ebbero mai alcun effetto sostanziale. La direzione in cui il governatorato si sarebbe mosso sarebbe stata del tutto differenti.

Nel 1933 fu introdotta la Nuova Legge Organica per l’Eritrea e la Somalia, che aveva l’intento di rendere più omogenee le legislazioni delle due colonie che, fino a quel momento, tendevano a percorrere strade parallele, ma non sistematicamente coordinate. Con essa scompare definitivamente la controversa e ambigua figura del suddito “assimilato”, semplificando la dicotomia tra sudditi e cittadini coloniali. Secondo i dettami della legge, la sudditanza poteva acquisirsi per decreto del Ministro delle Colonie per gli individui che erano immigrati nella colonia in modo definitivo o potevano essere considerati tali, oppure attraverso un atto del Governatore delle rispettive colonie, anche per coloro che erano nati in paesi terzi dell’Asia o dell’Africa e risultavano residenti continuativamente in colonia per almeno due anni, sempre dietro istanza dell’interessato.

Inoltre si accordava il permesso di richiedere la cittadinanza anche alla persona di origine somala o eritrea, legittimata dal genitore cittadino italiano. Anche i figli di genitori ignoti potevano richiedere la cittadinanza, quando il giudice coloniale attestava in loro i caratteri somatici tipici della razza bianca, insieme ad altri caratteri secondari. In tal caso il giudice poteva emettere un’ordinanza che permetteva di raggiungere il nuovo status. Anche il figlio di un genitore/suddito poteva richiedere l’accesso alla cittadinanza metropolitana quando, al compimento del 18° anno, il giudice ne accertava i tratti somatici, che richiamassero il fatto che almeno uno dei genitori fosse di razza bianca. Nel caso uno dei genitori fosse effettivamente di razza bianca, risultava però impossibile l’acquisizione della cittadinanza nel caso in cui il genitore fosse poligamo, condannato per reati gravi, e avesse perduto l’esercizio dei diritti civili. In questi casi il concetto di “degenerazione” legato alla delinquenza o all’irregolarità dei comportamenti, diventava preminente rispetto al diritto dato dalla discendenza (è questo uno dei rari casi in cui la situazione giuridica acquisiva la prevalenza rispetto al criterio più importante determinato dallo ius sanguinis). Anche nel caso ricorressero tutte le circostanze favorevoli alla possibile formulazione della domanda di cittadi-

6. Si veda a tal proposito il testo di Gini del 1924, Nascita, evoluzione e morte delle Nazioni, Libreria del Littorio del 1930. Su tale argomento e il dibattito sulla questione del meticciato che vide tra i protagonisti Gini: F. Cassata, Molti, sani e forti, Bollati Boringhieri, soprattutto il cap. IV su Eugenica e fascismo.

Vedi anche: D. Simoncelli, La demografia dei meticci, 1929; inoltre le osservazioni di G. L. Patriarca:

Colonists and “demographic” colonists. Family and society in Italian Africa, in «Annales de demographie historique», 2011, n° 122, pp. 205-223. 229

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nanza, il candidato per l’ottenimento della cittadinanza, doveva mostrare di aver raggiunto un grado di istruzione equiparabile a quello della terza elementare, e ciò limitava di molto l’effettiva possibilità di acquistare il nuovo status7, dato che le scuole per gli indigeni erano poche, riservate ai figli delle élites locali, di solito di basso livello e prevalentemente professionalizzanti.

Oltre a questi limiti generali per l’accesso alla cittadinanza, è stato osservato che esso, possibile de iure anche agli indigeni, nei fatti diventava pressoché impossibile per la volontà politica dell’amministrazione di escludere gli indigeni stessi dalla vita civile della madrepatria. Secondo l’analisi di N. Camilleri8, la maggior parte dei processi di naturalizzazione accolti dall’amministrazione coloniale e andati a buon fine, non riguardavano tanto i sudditi indigeni, ma cittadini di paesi orientali, ex sudditi ottomani, o di altri paesi europei. Anche quando le naturalizzazioni avvenivano, per il ristretto numero di persone di cui abbiamo parlato poco prima, le rigide norme che dall’epoca di Martini in poi si susseguirono contro l’accesso in colonia di persone non abbienti e incapaci di provvedere a un proprio dignitoso sostentamento, diminuirono il numero totale dell’acquisizione della cittadinanza metropolitana. Infatti, oltre ai criteri “razziali” e di “civiltà” permanevano tutti gli altri criteri di opportunità e di convenienza a diminuire nei fatti la possibilità di divenire cittadini italiani, cosicché i casi effettivamente andati a buon fine, per l’intera stagione coloniale, relativamente alla piena acquisizione della cittadinanza (e non per la “piccola naturalizzazione”) non furono che poche decine9 .

Prima di aggiungere altre osservazioni riguardo al rapporto tra meticciato, cittadinanza e sudditanza, riteniamo importante fare accenno ad alcune conseguenze di carattere sociale e culturale determinate dalla rigida dicotomia della segregazione suddito/cittadino. Ci riferiamo a un importante e suggestivo scritto di G. Barrera10 che in primo luogo richiama alcuni dati quantitativi sulla situazione del rapporto numerico tra uomini e donne, bambini meticci e bambini italiani in colonia.

Dagli inizi del Novecento, gli anni in cui la politica del “raccoglimento” tendeva a diminuire il numero degli immigrati italiani in colonia; fino al 1931, il numero degli italiani presenti fu sempre piuttosto modesto. Esso va rapportato al numero totale degli abitanti dell’Eritrea che, secondo i dati di Tegeste Negash erano 330.00 nel 1912 e 500.000 nel 1928. Ebbene, gli italiani bianchi maschi in colonia non aumentarono di molto, in rapporto alla crescita della intera popolazione: anzi, essi calarono tra i militari, da 854 nel 1905 a 500 nel 1931. I civili invece crebbero da 1.493 a 3.688 nello stesso periodo. L’aumento della popolazione italiana, visti i numeri ristretti almeno fino agli anni Trenta, quindi, non fu il frutto di un fenomeno migratorio più o meno accentuato, ma di una crescita “spontanea” e naturale avvenuta in colonia nel tempo. Circa il 40% degli italiani erano nati in colonia e di essi, sempre secondo la Barrera, 515, un terzo circa dell’intero numero dei nuovi nati, erano figli di un

7. L’articolo in questione dello Statuto recita: “Il nato nell’Eritrea o nella Somalia italiana da genitori ignoti quando i caratteri somatici facciano fondatamente ritenere che uno dei genitori sia di razza bianca , può chiedere entro il 18° anno d’età, di assumere la cittadinanza italiana nei registri dello stato civile, dopo aver accertato che il richiedente stesso: 1° per i suoi stessi caratteri somatici e altri indizi, sia con fondamento da ritenere nato da genitore di razza bianca, (…), 5° possegga un’educazione prettamente italiana.” Crf. N. Camilleri, La cittadinanza negata nella Colonia Eritrea (1882-1941), cit. 8. N. Camilleri Oltre i confini della cittadinanza. Appartenenza ed esclusione negli imperi coloniali italiano e tedesco, In M. Aglietti, Finis Civitatis, Le frontiere della cittadinanza, ed. di Storia e Letteratura, Roma 2019. 9. Cfr. ancora: N. Camilleri, cit. 10. G. Barrera, Patrilinearità, razza, identità, cit.

italiano e di un’eritrea; rarissimi, invece erano i casi opposti. A questi che sono i numeri dei bambini registrati all’anagrafe, andrebbero aggiunti poi tutti coloro che non erano stati registrati, su cui si possono fare delle ipotesi più o meno sensate, ma probabilmente importanti per numeri percentuali.

Questa situazione, è facilmente intuibile, era attribuibile in primo luogo al grande squilibrio tra il numero dei maschi e delle donne in colonia, a favore dei primi (secondo Barrera, nel 1905 il rapporto tra uomini e donne italiane in colonia era di 5,5 ad 1, rapporto che si modifica nei primi anni Trenta, raggiungendo la quota di 1,2).

Anche se a cavallo del nuovo secolo, lo stesso governatore Martini, ad esempio, provava disprezzo e paura per il connubio sessuale tra italiani e indigeni, non vi erano stati i mezzi per riequilibrare il rapporto. Il rapporto tra donne e uomini italiani in colonia cominciò a mutare seriamente soltanto quando, agli inizi degli anni Trenta, il regime fascista mise mano a una più forte politica di immigrazione degli italiani in colonia.

Prima del 1933, tutto induce a sostenere che i padri che intendevano riconoscere un figlio per permettergli di divenire cittadino italiano fossero prevalentemente coloro che avevano scelto di rimanere in colonia per un lungo periodo di tempo, al contrario di quanti si trovavano in Eritrea per un periodo di tempo determinato e più ristretto. Coloro che rimanevano meno tempo, come ad esempio i militari inviati in colonia in concomitanza con particolari campagne militari, in genere risolvevano le proprie relazioni concubinarie, una volta comandati ad altro incarico o tornati in patria, affidando gli eventuali figli derivati dalla relazione con una indigena, a collegi e convitti, gestiti nella maggior parte alle missioni cattoliche. Ma anche qui, abbiamo visto, le disponibilità di accoglienza erano limitate per numero di posti effettivamente esistenti e gestiti al di fuori delle strutture educative pubbliche. In molti casi si provvedeva al pagamento della retta degli istituti religiosi fino al diciottesimo anno d’età, spesso nella speranza che i bambini potessero diventare in seguito cittadini italiani. Negli istituti cattolici per lo più i bambini erano sottratti alle proprie famiglie eritree, nei casi di bambini più piccoli si cercava di sradicare il più possibile i tratti culturali della famiglia eritrea, vietando anche l’uso della lingua materna. È stato fatto notare11 che spesso i padri dei bambini abbandonati negli istituti, avevano degli atteggiamenti e dei sentimenti duplici e contrastanti nei confronti della madre-concubina e dei figli. Una volta abbandonata la colonia, alcuni cittadini italiani mostravano una qualche forma di sollecitudine per i propri figli e, abbiamo detto, provvedevano almeno in parte alla loro sopravvivenza, mentre spesso abbandonavano la madre alla propria sorte, talvolta cercando di coprire o far dimenticare in qualche modo, le proprie “scappatelle” alla famiglia italiana e alle eventuali mogli o fidanzate rimaste nella madre patria.

Soltanto nel 1928, sotto il governatorato Zoli, l’amministrazione coloniale cominciò a occuparsi sistematicamente dei bambini eritrei indigenti presenti nelle strutture di accoglienza caritatevoli. Cominciò un’opera volta a rintracciare anche in patria i padri presunti o reali dei bambini italo-eritrei, per spingerli a provvedere al loro sostentamento in Eritrea. Questo interessamento, comunque, non sembra essere stato frutto di una motivazione umanitaria, ma, oltre che di prosaiche ragioni di cassa, era il prodotto anche della ansia che procurava il pensiero di dover controllare minuziosamente il numero dei meticci in colonia, considerati elementi poco affidabili, forieri di atti di vandalismo e di ribellione12, a dispetto di quanto in effetti era avvenuto fino ad allora.

Le condizioni delle donne/madri eritree, già solo per l’orientamento della struttura fa-

11. G. Barrera, cit. 12. G. Barrera, cit. 231

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miliare nella quale erano inserite, comportavano gravi difficoltà. Ad esempio in molte zone del Tigraj o del Tigré l’importanza del lignaggio paterno aveva la preminenza rispetto alla attribuzione della singola paternità. Spesso poteva accadere che l’attribuzione della paternità da parte di una donna fosse legata a una semplice e chiara dichiarazione pubblica della madre, di fronte ai dignitari del villaggio. La denuncia della paternità comportava l’assunzione della responsabilità nell’allevamento del bambino da parte di tutto il gruppo di discendenza della famiglia paterna.

Pur essendo entrambi prevalentemente patrilineari e patriarcali, gli orientamenti delle famiglie tradizionali italiane ed eritree, essi si dirigevano verso direzioni molto diverse. Dal lato italiano la paternità era collegata al singolo individuo, e il dato preminente che veniva preso in considerazione era l’assunzione personale della responsabilità da parte del padre. Poteva accadere, quindi, che la famiglia non fosse coinvolta nel riconoscimento del figlio da parte del padre, che poteva anche non trasmettere il proprio cognome al bambino (si pensi a quei padri che, anche nella madre patria, riconoscevano la paternità, pur facendola rimanere “naturale”, maturata al di fuori del matrimonio, senza attribuire al bambino il proprio cognome, né coinvolgere il parentado della donna sposata e convivente). Ciò non era concepibile per buona parte delle famiglie eritree, per le quali il riconoscimento del figlio faceva tutt’uno con la sua cooptazione entro la famiglia allargata paterna, mentre la donna non perdeva mai il legame con la sua famiglia patriarcale di origine. La conseguenza era che in ambiente tradizionale, i figli di padre ignoto erano piuttosto rari, dovuti a casi particolari, comunque più rari di quelli che si potevano incontrare in Italia. In ogni caso per un ragazzo eritreo l’essere ritenuto “figlio di una madre” poteva trasformarsi in un grave stigma, più grave che nei casi simili italiani, alludendo al fatto che la propria madre fosse stata rifiutata sia dalla famiglia paterna che dal proprio lignaggio, trovandosi in una condizione di emarginazione e di esclusione sociale assoluta, isolata dalla fitta trama familiare che si intrecciava nei villaggi e nelle zone agricole.

La donna/madre eritrea spesso, anche se non ufficialmente sposata, manteneva il proprio ruolo nella propria famiglia patrilineare, ereditandone anche le tradizioni culturali. Questo potrebbe almeno in parte spiegare il fatto che le madri indigene di bambini avuti con un italiano, da un lato spesso favorivano il fatto che i bambini assumessero la religione e altri tratti culturali “stranieri” paterni, facendo così esse potevano acconsentire all’acceso dei bambini nelle scuole italiane e che conoscessero e usassero la lingua dei colonizzatori, ma mantenevano le proprie regole di vita e l’uso della propria lingua. D’altra parte la convinzione che il figlio “appartenesse” al gruppo parentale del padre, poteva rendere meno traumatico tutto ciò, oltre, ovviamente, alla speranza materna di vedere i propri figli migliorare la propria posizione sociale. Peraltro le donne eritree, nella maggior parte dei casi, (soprattutto nel caso del “madamato” ), erano consapevoli che i rapporti con un civile o militare italiano fossero transitori, mantenevano comunque le proprie tradizioni religiose copte ortodosse, osservandone i riti ( non era raro che le donne eritree e i loro figli celebrassero due festività religiose, quando non coincidevano nelle due differenti religioni, ma non altrettanto avveniva per i padri italiani), rispettando le festività comandate. Le donne in genere tenevano fermi i limiti imposti dalla tradizione culturale nell’alimentazione (ad esempio il divieto di mangiare maiale e coniglio, o altri animali non macellati secondo la tradizione copta), nella propria condotta, nella cura del corpo e nel vestiario, ma non quelli dei figli, che seguivano i comportamenti paterni. Mentre le donne frequentavano senza scandalo le proprie famiglie patriarcali di origine, ciò spesso non avveniva per i figli, sottratti alla tutela parentale tradizionale.

Infine, dopo la guerra di aggressione all’Etiopia del 1935-36, la legislazione sulla segregazione razziale e contro il meticciato si fece sempre più dura ed esplicita in tutto l’Impero

coloniale, anticipando i contenuti delle leggi razziali italiane del 1938. Secondo alcuni autori, ciò che cambiò con il rafforzamento del dominio fascista, non fu tanto l’impostazione di fondo che voleva rendere impermeabile la linea di confine tra italiani e indigeni, o il generale orientamento favorevole alla segregazione e al dominio completo da esercitare sulla popolazione indigena, ma il peso relativo attribuito alle condizioni richieste per l’accesso alla cittadinanza italiana. In sostanza divennero man mano più importanti i requisiti legati alla purezza, all’onore della razza e alla conservazione del patrimonio ereditario della razza italica, vicini a una visione eugenetica dei rapporti tra le diverse “etnie”, rispetto a quelle che si riferivano al livello di “civiltà” raggiunto per via evolutiva dalle popolazioni dei colonizzatori e dei colonizzati.

Nel 1937 la legge 29/04/1937, n° 880, rinforzava le sanzioni per il cittadino italiano che intrattenesse rapporti di indole coniugale con i sudditi, ma anche qui non si trattò che di un’accentuazione di quanto avveniva già, cioè del fatto che l’autorità preferiva chiudere un occhio sulle pratiche della prostituzione, diffusa in colonia, puntando il dito accusatore sulle relazioni affettive durature, matrimoniali o di lungo concubinato, concepite come “innaturali”, piuttosto che intervenire sulla piaga della prostituzione e della violenza sessuale contro le donne e le bambine indigene, concepite talvolta come “naturale sfogo” della pulsione sessuale maschile, espressione della virilità dei colonizzatori. La norma citata si componeva di un solo articolo che penalizzava con sanzioni pesanti (da 1 a 5 anni di reclusione) specialmente quelle relazioni nelle quali si potesse riconoscere un legame affettivo simile a quello tra i coniugi in una relazione stabile13. Ciò che continuava a spaventare era la presenza di relazioni stabili tra italiani e indigene, ben più della prostituzione occasionale o delle condotte “immorali e barbare” delle eritree, somale o etiopi.

Dopo la conquista dell’Etiopia il regime spinse per una politica di popolamento, sia verso le colonie più antiche, come l’Eritrea, che verso le nuove terre conquistate. Incrementò le raccomandazioni ai funzionari anche di medio e alto livello, perché si imbarcassero verso i territori dell’impero insieme alle mogli, per le quali era prevista una vita sociale e domestica spesso di maggior prestigio di quella che si svolgeva nella madre patria. Ma l’effettiva presenza delle mogli italiane fu sempre minore di quella che il regime sognava, per sgombrare il campo dalle relazioni degli italiani con le donne indigene.

Conseguenza di ciò fu che le norme e le minacce contro soprattutto le relazioni more uxorio con le donne indigene, continuarono ad essere prodotte e aumentò anche il flusso di prostitute italiane da inviare in colonia, nella speranza che soppiantasse il disonorevole commercio sessuale con le donne indigene, passate in pochi anni da “belle abissine” disponibili e lascive, ma pur sempre conturbanti, a sentina di tutte le malattie, sessuali e non, trasmissibili.

Tra il 1936 e il 1937, quindi un anno prima delle leggi razziali italiane, il razzismo istituzionale era stato ben evidenziato dal Ministro delle colonie Lessona. Nelle istruzioni che il Ministro delle colonie impartiva al vicerè Graziani erano presenti delle indicazioni assolutamente chiare14: si trattava di tenere distinte le abitazioni degli italiani da quelle degli indigeni, impedire qualsivoglia familiarità tra le razze, impedire la frequentazione di pubblici ritrovi per gli indigeni da parte degli italiani, sorvegliare attentamente tutti i casi che pote-

13. M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissinia. Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia, in «Humanities»,

Anno I, n°2, giugno 2012. 14. Vedi A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3, pp. 237-243, cit. Si tratta della lettera inviata da

Lessona a Graziani il 5/08/1936, al momento della sua partenza per l’A.O.I. 233

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vano essere considerati come “madamismo” o “sciarmuttismo”15. In particolare, nella stessa occasione, Lessona consiglia il Viceré dell’Africa Orientale Italiana, Graziani di adottare i seguenti provvedimenti relativi agli italiani: obbligare gli italiani a richiamare in colonia le proprie famiglie, impegnare le forze di polizia per interrompere le possibili relazioni, anche occasionali, con le straniere, promuovere case di tolleranza con donne italiane.

Vanno ricordate, inoltre, le norme relative ai meticci del 13/05/1940 (n° 882, Sanzioni per la difesa del prestigio della razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana), e quella n°1004 dello stesso anno, che coronarono la lunga campagna razzista contro “la piaga del meticciato”: finalmente esse introdussero la proibizione per gli italiani di riconoscere comunque i figli avuti con una donna indigena. Nell’articolo n°1 della legge 882 si richiamava ogni cittadino alla responsabilità penale di fronte alla conservazione del prestigio della propria razza, per cui ogni atto che trasgrediva la superiorità innata nei comportamenti degli italiani (e non tanto la pratica di comportamenti violenti nei confronti di ragazze e bambine indigene) doveva essere punito. All’art. 2 si ribadiva come fattispecie di tipo penale la convivenza con un’indigena, con la possibile erogazione di una pena da 1 a 5 anni. Anche le relazioni più superficiali potevano essere oggetto di inquisizione giudiziaria, poiché il giudice doveva indagare se, nel caso di un figlio nato da una coppia mista, vi fosse stata una relazione di tipo occasionale, o la nascita fosse frutto di una relazione più stabile e profonda tra i genitori, che diventava un’aggravante comportante un dolo maggiore. Ma anche nel caso della frequentazione di postriboli, all’art. 12, il cittadino italiano che avesse frequentato case dedicate agli indigeni, poteva essere arrestato, oltre che pagare una forte ammenda. Nelle “Norme relative ai meticci” (L. 13/05/1940), infine, era risolto il problema dei fuori casta: i figli di un genitore indigeno erano comunque ritenuti sudditi coloniali, senza possibilità di produrre una domanda per la loro naturalizzazione italiana; al bambino era proibita l’acquisizione del nome del genitore italiano e finalmente si liberavano i padri dalla noiosa incombenza del mantenimento del bambino, che ricadeva invece completamente sulle spalle del genitore indigeno.

T. Negash svolge un’interessante riflessione sullo sviluppo crescente della legislazione fascista e razzista in Italia nella seconda metà degli anni Trenta16, quando sostiene che, nella sostanza, la linea intrapresa del vicereame fascista di Graziani non era, dal punto di vista della concezione della struttura della società, molto differente di quelle che erano state di Martini durante il suo governatorato, riguardo agli intenti politici nella gestione amministrativa.

Certamente, dal punto di vista puramente ideologico, con il liberale Martini si assisteva a una oscillazione tra un pragmatismo cinico volto a trarre i maggiori vantaggi politici dalla colonizzazione con il prezzo più basso possibile, e la concezione eugenista-evoluzionistarazzista della inferiorità civile degli eritrei. Con il Viceré Graziani e l’antropologo Cipriani il discorso sulla necessità della dominazione razziale era ammantato da più roboanti e pericolose dichiarazioni sull’onore e la eccellenza della razza italica, mentre a ogni piè sospinto si ricordava l’eterna incapacità degli abissini a diventare adulti e l’impossibilità ereditaria a competere con gli italiani.

Tuttavia la politica della cancellazione dei meticci e della discriminazione degli indigeni era piuttosto simile e permetteva di ottenere due risultati importanti: da una lato il

15. Lo “sciarmuttismo” è “l’affitto” temporaneo, in modo esclusivo o parziale, di una donna indigena che si qualifica come prostituta. 16. T. Negash, Italian colonialism in Eritrea, 1882-1941, cit., specialmente nel capitolo Dal paternalismo all’apartheid, 1932-1941.

continuo richiamo della minoranza bianca a una instancabile opera di mobilitazione contro gli “abusi” dei “neri” e dei loro figli di sangue misto, dall’altro l’esercizio del dominio nella sua forma simbolica più esplicita: quella dell’uomo bianco adulto, armato e italiano, contro il suo reciproco inverso: la donna nera lasciva, giovane e infida. Quest’ultima era dipinta come la perenne “ragazzina” che sognava di esser preda del maschio italico e al tempo stesso come parte di un’umanità quasi ferina, conturbante e incivile, che riassumeva in sé il più alto significato della dominazione coloniale. Il rapporto tra la perenne infanzia della donna eritrea e la piena maturità dell’uomo bianco non faceva che duplicare e elevare di grado la polarizzazione sociale, divenendo un simulacro del rapporto tra il colonizzato e il colonizzatore. Il fascismo, al contrario del colonialismo liberale, rese più cruda e drammatica la polarizzazione della società, tuttavia non andò molto oltre alla linea di direzione dei governatori liberali, i quali ritenevano che una forte immigrazione di coloni italiani non sarebbe stata possibile fino a quando il paese non fosse stato pienamente “pacificato”, attraverso la netta separazione delle due popolazioni. Il fascismo, dalla metà degli anni Trenta, cominciò una politica più aperta verso l’immigrazione dei cittadini italiani nella colonia, ma ciò sulla base del fatto che la separazione razziale si fosse in sostanza già realizzata. Solo allora si aprì la strada per una nuova politica di popolamento dei contadini italiani e delle loro famiglie che avrebbero tracciato il solco di una nuova genia di uomini.

Un discorso a parte va riservato al movimento inverso, quello dei sudditi delle colonie verso la madrepatria, poiché il suolo italiano risultò molto più impenetrabile per gli indigeni del Corno d’Africa, di quanto era avvenuto per altri paesi colonizzatori europei; questo anche in relazione alla rigidità della distinzione tra sudditi e cittadini di cui abbiamo parlato precedentemente. Anche in momenti particolari, l’Italia fu una meta irraggiungibile per i sudditi coloniali in virtù della legislazione sempre più orientata a preservare la purezza della razza. In Francia, ad esempio, al contrario di quanto avveniva in Italia, durante la prima guerra mondiale, quando divenne fondamentale l’apporto di manodopera coloniale per sostituire le braccia utilizzate al fronte. Nel 1919, furono più di 100.000 i migranti ufficiali algerini che si trasferirono nel paese e nel 1946 erano circa 13.000 le persone provenienti dall’Africa sub sahariana, senza contare coloro che si trovavano nel paese in maniera irregolare. In Gran Bretagna si contava una importante colonia di marinai d’origine africana e orientale, presente nelle città portuali fin dagli inizi del novecento, mentre risale agli anni ottanta dell’ottocento l’elezione alla Camera dei Comuni del primo rappresentante di origine indiana17 .

In Italia questo non avvenne e con il crescere della legislazione segregazionista, gli episodi di immigrazione dei sudditi coloniali, di per sé già molto limitati, furono sempre più rari. Sta di fatto che non esistevano in Italia associazioni e comunità di sudditi coloniali riconosciute dal governo italiano, anche in forma non ufficiale la legge proibiva le forme di associazione, per il fatto che i sudditi non erano cittadini e quindi non potevano costituire comunità sotto nessun titolo18. Nel 1938 un primo censimento fatto dei sudditi coloniali in Italia, riuscì a contare soltanto settantadue persone, al fine, non di accoglierle, ma di provvedere a una rapida espulsione.

17. Vedi V. Deplano, La madrepatria è una terra straniera, «Quaderni di storia», Le Monnier, Milano 2017, pp. 24-27. 18. Diverso discorso, ovviamente, va fatto per i prigionieri deportati in Itala per reati gravi, come il tradimento o la partecipazione alle rivolte anticoloniali. Anche qui, però, il numero fu assai limitato, rispetto ai prigionieri rinchiusi e deportati nei campi in colonia. Ad esempio, dopo l’attentato a Graziani e nel periodo delle operazioni di polizia contro i ribelli etiopi, nel 1937, furono solo intorno alle duecento le persone deportate in Italia e confinate in diverse aree del paese: Roma, Asinara, Ponza,

Mercogliano, Longobucco, Torre del Greco, Palermo e Torino. Vd. V. Delplano, cit., p. 26. 235

Un caso interessante fu quello della situazione degli studenti etiopici ospitati presso il Pontificio Collegio Etiopico di Roma, che era stato trasformato da ostello per pellegrini, in luogo di residenza degli studenti che erano considerati cittadini dello Stato della Chiesa. Ebbene, secondo il Concordato tra Stato e Chiesa del 1929, i cittadini della Città del Vaticano avevano il riconoscimento automatico della cittadinanza italiana, se si fossero stabiliti per un certo periodo di tempo in Italia. Furono diverse le rimostranze del governo verso il Vaticano perché non permettesse la libera circolazione degli studenti africani sul territorio nazionale. Il Ministro delle Colonie Teruzzi, nel 1941, puntava il dito contro il pericolo che i sudditi etiopici avrebbero potuto costituire un pericolo, approfittando della loro ospitalità presso il Collegio, per accedere automaticamente alla cittadinanza italiana, contravvenendo alle leggi sulla razza19 .

Un avvenimento che illustra molto bene l’insieme delle restrizioni a cui dovevano essere soggetti i sudditi coloniali in Italia sotto il fascismo, fu quello delle persone “invitate” in Italia per partecipare alla Mostra triennale delle Terre d’Oltremare a Napoli, nel 1937. Tra il 1938 e il 1940 il regime aveva realizzato una grande area attrezzata per esaltare il ruolo delle colonie italiane che sarebbe stata inaugurata il 9/05/1940. Essa avrebbe dovuto mostrare ai visitatori le condizioni di vita degli abitanti delle colonie, con la ricostruzione dei villaggi indigeni, dei manufatti e delle loro condizioni di esistenza, secondo la moda diffusa in Europa, a partire dalla fine dell’ottocento, della esibizione degli “zoo umani”. Gli “indigeni” (libici, somali, eritrei ed etiopi) erano in tutto 57 persone, che dovevano animare il “villaggio indigeno” di fronte ai visitatori italiani.

Come sorveglianti degli indigeni erano stati poi trasferiti 55 membri della PAI (Polizia dell’Africa Italiana), i quali dovevano impedire qualsiasi contatto tra i sudditi coloniali e gli italiani. Durante l’esposizione i sudditi coloniali e i loro custodi dovevano risiedere nel villaggio appositamente costruito presso i padiglioni della mostra. Il destino dei figuranti e anche dei membri della PAI, assomigliò sempre più a una vera reclusione, soprattutto per le persone del Corno d’Africa italiano, che nel frattempo era crollato di fronte all’avanzata britannica. Mentre i libici, alla fine della esposizione, furono rispediti in Libia, subito prima dello scoppio della guerra, gli altri rimasero in Italia. Era vietato loro qualsiasi spostamento dal campo nel quale erano limitati, non era loro consentito esercitare alcun lavoro fuori del campo. Qualsiasi spostamento doveva avvenire sotto sorveglianza della polizia africana e dell’OVRA. La sopravvivenza era affidata al vitto fornito dalle autorità locali, così come alla paga, ma che divennero sempre meno sufficienti per le esigenze dei reclusi con l’avanzare della guerra. Alla fine, la gran parte dei sudditi africani, anche per l’intensificarsi dei bombardamenti sulla città di Napoli, fu deportata nei pressi di Treia nelle Marche nel gennaio del 1942, a villa Spada, un edificio precedentemente utilizzato per rinchiudere detenute straniere. Il 28 aprile del 1943 la villa fu attaccata dalla “banda Mario”, un raggruppamento partigiano appartenente alla Brigate Garibaldi che operava nella zona di Macerata, in cerca di armi, avvertiti della situazione probabilmente da alcuni degli stessi reclusi. Tre di questi ultimi approfittarono della situazione per evadere e unirsi alle formazioni partigiane20; il resto dei prigionieri fu liberato dagli alleati nel luglio 1944 e riuscì a tornare in patria dopo quattro anni di detenzione di fatto all’estero21 .

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19. Vd. V. Delpiano, cit., p. 33 e 27. 20. Si trattò di Nurù Tahar, Aden Scirè e Abbabuglù Abbamegal. 21. Su tutta a vicenda e sugli ulteriori sviluppi si veda sempre il testo di V. Delpiano, cit.

B. Materiali di lavoro

Come premessa vorremmo consigliare le scuole, le singole classi, i dipartimenti disciplinari, i consigli di classe, i docenti o gli alunni, d’iscriversi, come istituzioni o come singoli a siti quali Academia.edu o altri, dedicati alla condivisione di materiali di ricerca di carattere scientifico, secondo diversi contenuti. In tal modo diventa più semplice, rintracciato l’argomento e l’ambito disciplinare desiderato, procedere per lavori di approfondimento, riconoscendo le fonti e gli autori rintracciati, confrontare i risultati ottenuti per metterli a disposizione dei gruppi di lavoro, selezionare i contenuti più seri e adatti e avere un panorama più ampio e diversificato riguardo alle ricerche che si vuole svolgere.

Detto questo, indichiamo qui di seguito alcune fonti, cartacee o informatiche, che potrebbero fornire un aiuto per inquadrare i diversi temi correlati alle diverse schede (S-1, S-2, S-3 ecc.).

Abbiamo cercato di privilegiare le fonti scaricabili dalla rete gratuitamente e quindi più facilmente accessibili e condivisibili da docenti e studenti.

S-1 Non essendoci nel quadro disciplinare del Liceo economico-sociale, tra le materie del corso, le Scienze Naturali, crediamo necessario proporre alcune letture abbastanza recenti e divulgative che illustrino riflessioni sul concetto di razza dal punto di vista della biologia, della paleoantropologia e della demografia contemporanee.

A tal proposito indichiamo il testo di G. Barbujani, L’invenzione delle razze, capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2006 che permette di mettere in relazione le teorie razziali con la descrizione del genoma umano. Sempre di Barbujani consigliamo: Gli Africani siamo noi che, in maniera facile e divulgativa, permette di rendersi conto della dispersione della specie umana nel nostro pianeta, fin dalle sue origini.

Aggiungeremmo due testi dell’antropologo Marco Aime che sposta l’accento dall’ambito delle scienze naturali a quello delle scienze umane: Classificare, separare escludere. Razzismi e identità, Einaudi, Torino 2020. Specialmente utile potrebbe risultare il Cap. 1: L’invenzione delle razze, che indaga sulle diverse tassonomie delle razze in epoche e culture diverse, secondo diversi paradigmi. Inoltre proporremmo un testo molto più agile e veloce (si tratta solo di una novantina di pagine in tutto), sempre di Marco Aime: La macchia della razza, Eleuthera, Milano 2017, che presenta una veloce postfazione di Barbujani e in Appendice il testo del Manifesto della razza del 1938.

Interessante anche, soprattutto per Diritto ed economia politica, potrebbe essere il testo a cura di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi: No razza, sì cittadinanza. Cellule e genomi. Collegio Ghislieri, Pavia 2017. Si tratta di un testo miscellaneo di vari autori che prende spunto dal relativamente recente dibattito sull’opportunità o meno di eliminare dal testo dell’art. 3 della Costituzione Italiana il termine “razza”.

S-2. Come inquadramento storico generale sulla storia del razzismo si può consultare il testo non recentissimo, ma comunque abbastanza articolato e utile di George Mosse, che risale al 1978, ma è stato riedito più volte: Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto Laterza, Bari.

Altro testo consultabile è: Enrico Pozzi: La teoria della razza, Maratta, Roma 2020 anche in versione elettronica su Kindle.

Un testo, anch’esso un po’ datato, ma interessante, è quello di Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, del 1981, edito in italiano nel 2016 da Il Saggiatore, Milano. Specialmente utili possono essere il capitolo 2: La poligenesi e la craniometria in America prima di Darwin (pp. 59-104), il capitolo 3: La misurazione delle teste, su Paul Broca (pp. 105-144) e il capitolo 4: La misurazione dei corpi (pp. 145-180). 237

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Per il significato del razzismo scientifico e le strutture degli Stati moderni, indirizzerei le consultazioni a due testi di Arendt citati nella Scheda 2, L’origine del Totalitarismo, del 1948, edito e ripubblicato numerose volte in Italia per i tipi di Einaudi e il testo più breve (si tratta di sole 77 pagine) e Il razzismo prima del razzismo, edito da Castelvecchi nel 2018. Quest’ultimo testo è stato poi inserito completamente e con poche variazioni da Arendt stessa nella prima parte dell’Origine del totalitarismo.

Per quanto riguarda M. Foucault, come indicato nella scheda, si possono tenere in considerazione le lezioni al Collège de France del 1976, riunite in seguito nel volume dal titolo italiano: Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998. In particolare di interesse per il discorso sulla razza sono le lezioni del 21/01/1976, sul discorso della lotta delle razze e le sue trascrizioni; quella del 28/01/1976, sulla trasformazione del razzismo nei tempi moderni; quella del 11/02/1976 sulla figura di Boulainvilliers e la nascita dello Stato francese moderno; infine quella del 17/03/1976, in cui si articola la relazione tra “bio-potere” e razzismo negli stati novecenteschi.

Per quanto riguarda le classificazioni delle razze settecentesche e dei primi dell’Ottocento, esiste la possibilità di attingere gratuitamente nella rete a opere originali di importanti scienziati naturalisti settecenteschi che si sono occupati d’individuare e classificare le diverse tipologie delle “razze” umane. Ne citiamo alcune: George Louis Leclerc de Buffon (1707-1788): Histoire naturelle de l’Homme et de la Femme (ed. del 1834), presso il sito della biblioteca Gallica francese, scaricabile gratuitamente in lingua originale.

Il testo di Blumenbach: De generis humani varietate nativa liber craniometria (ed. di Gottinga del 1775), scaricabile gratuitamente attraverso il Progetto Gutemberg. Purtroppo, però, a quanto io sappia, è possibile scaricare soltanto l’edizione in lingua latina e non esiste in rete una traduzione scaricabile in traduzione francese o inglese, tantomeno in italiano.

Per quanto riguarda le tesi della poligenia umana, è rintracciabile in rete e scaricabile gratuitamente il testo di George Gliddon e Jsaiah Nott: Types of Mankind or Ethnological Researches in memory of Morton (ed. del 1854). Si tratta dell’omaggio dei due studiosi statunitensi al loro maestro, uno dei fondatori dell’etnografia statunitense, Samuel George Morton, le cui tesi sono fedelmente riportate. Il testo è completamente e gratuitamente scaricabile attraverso http://books.google.com. Il testo offre un particolare interesse perché gli autori sostengono la tesi del poligenismo dei differenti “tipi” umani, soffermandosi anche sulla definizione del concetto di “tipo”, in relazione a quello di “razza” e di “specie”, sulla descrizione dei diversi tipi umani nelle diverse regioni del mondo, sia dal punto di vista anatomico e fisiologico, ma anche da quello psicologico e culturale. Il testo è interessante anche perché contiene, tra i contributi scientifici, anche quello del botanico e naturalista svizzero/statunitense Jean Louis Rodolphe Agassiz (1807-1873), rigoroso poligenista, le cui opere Darwin conosceva bene e citò sia nell’Origine delle specie che nell’Origine dell’uomo. Il saggio di Agassiz (pag. LVII-LXXVI dell’Introduzione) si intitola Stretch of the natural provinces of animal world and their relations to the different types of Mankind.

S-3 Di de Gobineau (1816-1882) si può rintracciare e scaricare gratuitamente on-line il testo integrale in lingua francese originale dell’Essai sur l’inegalité des races humaines, in diversi siti, tra queste, quello da http://books.google.com. Si tratta dell’edizione francese del 1853-55. Data l’ampiezza del testo di de Gobineau, indichiamo alcuni capitoli del Libro I del testo che possono essere particolarmente utili per la ricerca: Capitolo IV: Sul significato del concetto di “degenerazione”. Cap. V: Le ineguaglianze etniche non sono il prodotto delle istituzioni. Capitolo X: contro il poligenismo. Cap. XI: Le differenze etniche sono permanenti. Cap. XII sulla separazione della fisiologia umana. Cap. XIII: Le razze umane sono intellettualmente ine-

guali, l’umanità non è perfettibile all’infinito. Cap. XIV: Ricapitolazione dei caratteri rispettivi delle tre grandi razze. Effetti sociali della misgenerazione. Superiorità del tipo bianco e, in questo tipo, della famiglia ariana. Esiste anche una versione inglese del testo, con annotazioni di H. Host, dal titolo: The man and intellectual diversity of races (ed del 1856), sempre sullo stesso sito. Da sottolineare in questo testo è la presenza in appendice di uno scritto di Nott sulle ultime tavole di Morton, sugli ultimi esperimenti sulle leggi dell’ibridazione e sulle connessioni del testo biblico e sulla pluralità delle razze umane.

Di Ch. Darwin esiste anche un’edizione elettronica in italiano in: http//e-test.it, www. liberliber.it. Si tratta della edizione della traduzione italiana dal titolo: L’origine dell’uomo e la scelta rispetto al sesso, di M. Lessona, del 1920. Esistono diverse edizioni del testo originale inglese scaricabili gratuitamente nella rete. Del testo in questione, si consiglia la lettura del Capitolo IV sulla evoluzione dell’uomo, quella del Capitolo VI: sulle affinità e la genealogia dell’uomo e del Capitolo VII: sulle razze umane.

S-4.

I lavori di Galton possono essere scaricati gratuitamente in lingua originale dal sito dell’Archivio Galton in: http://galton.org. In particolare si potranno trovare i testi: Hereditary Genius del 1865 e: Inquiries into Human Faculty and its Development del 1883 (ed. del 1907) nel quale si trova la prima definizione della disciplina che qui sotto riportiamo.

«cioè, con domande e richieste che riguardano ciò che è definito in lingua greca “eugenes”, cioè buon assortimento (discendenza), caratteri ereditari dotati di più nobili qualità. Questo, e le parole simili, eugeneia ecc., sono altrettanto applicabili agli uomini, ai cani e alle piante. Desideriamo molto utilizzare questa breve parola per esprimere la scienza del miglioramento della discendenza umana, che non è affatto limitato a questioni di accoppiamento giudizioso, ma che, soprattutto nel caso dell’uomo, prende coscienza di tutte le influenze che tendono comunque a distanziarsi di un certo grado per poter concedere alle razze o ai ceppi più adatti di sangue, una migliore possibilità di prevalere rapidamente sul meno idoneo rispetto a quello che altrimenti avrebbe ottenuto. La parola eugenetica esprimerebbe sufficientemente l’idea; è almeno una parola più complessa e più generalizzata della “viricoltura” che una volta mi ero avventurato a usare». Tradotto da F. Galton, Inquiries into Human Faculty and its Development, Macmillan, 1883, pag. 17.

Le Inquiries risultano interessanti anche perché, accanto alle sue tesi, Galton si diffonde sulla applicazione del metodo statistico alle scienze eugenetiche e su alcuni caratteri del calcolo biometrico (vedi: Osservazioni sulla misurazione delle iperboli, pp. 33-39, Registri antropologici, pp. 28-30, Esperimenti psicometrici, pp. 133-145). Esse potrebbero permettere incursioni della ricerca in territorio matematico e statistico. Sullo sviluppo dell’eugenetica e sul primo Congresso internazionale del movimento eugenetico internazionale, si rimanda ai testi di Mosse e di Pozzi, indicati per la S-2. Infine sul movimento eugenetico in Italia si indica il testo di Francesco Cassata: Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006. Si possono trovare gratuitamente online anche gli atti del primo congresso internazionale di eugenetica tenutosi a Londra nel 1912 sotto il titolo: Papers communicated to the first International Congress (ed. originale del 1912) presso il sito: https://wellcomecollection.org.

S-5. Sul colonialismo italiano si indicano come testi generale di consultazione il monumentale Gli italiani in Africa Orientale in quattro volumi, di A. Del Boca, Laterza, Bari, 1982, ripubblicato anche negli Oscar Mondadori, a partire dal 1992 e Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore. 1860-1922, dello stesso autore. Molto più maneggevole è il testo di G. P. Calchi Novati: L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma, 2011. 239

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Un testo interessante e abbastanza succinto, scaricabile gratuitamente in inglese, in particolare sul colonialismo italiano in Eritrea, è: Italian Colonialism in Eritrea. 1882-1941, Un. Di Uppsala, 1997, di Tegeste Negash, scaricabile, tramite iscrizione presso il sito www.jstor.org. Il libro offre una lucida e veloce descrizione di alcuni caratteri sociali, economici, sociologici e culturali della colonia eritrea, dalla sua fondazione ufficiale, fino alla occupazione britannica. Sulla politica della razza nel corso degli ultimi anni del regime fascista, è utile consultare il testo: La difesa della razza. Antologia 1938-43, di Valentina Pisanty, Bompiani, Milano, 2007. Si tratta di un’antologia ragionata dei principali articoli della rivista La difesa della razza, edita dall’agosto del 1938, sostenuta dal regime fascista dopo la svolta delle leggi razziali a cui diede sostegno economico il Ministro dell’Educazione Nazionale, Bottai. Particolarmente utili potrebbero essere sia il capitolo relativo alla definizione di razza (capitolo 2, pp. 65-140), gli esempi di catalogazione delle razze (Capitolo 3, pp. 141-161) e la definizione della “razza italiana” (pp. 213-252).

C. TABELLA 1 Spunti e argomenti da svolgere nelle diverse discipline relativamente al modulo sulla teoria della razza

La seguente tabella indica alcuni argomenti (tra gli infiniti possibili) che potrebbero offrire il destro per sviluppare la didattica interdisciplinare attraverso temi e materiali differenti che sono parti integranti della programmazione disciplinare oppure che possono essere introdotti ad hoc nel corso dello sviluppo del modulo sulla teoria della razza.

I testi indicati, sia in edizione cartacea sia quella informatica, sono indicati nella sezione Materiali di lavoro.

Discipline Argomenti

Fonti L’epoca dell’Imperialismo. Manuale in adozione. Il colonialismo italiano Tegeste Nagash: Italian colonialism in Eritrea (1882-1941).

da Assab alla fine delle colonie.

G. P. Calchi Novati: L’Africa italiana.

Storia

Filosofia Il Congresso di Berlino dal 13/06/1884 al 19/07 del 1878 e quello dal 15/11/1884 al 26/02/1885. Il fascismo e il regime nazista in Germania. Manuali in adozione e fonti diverse su internet.

Manuale in adozione.

Le guerre anglo-boere. Manuale in adozione. La filosofia di Spencer. Manuale in adozione. Hannah Arendt e le Origini del totalitarismo. Manuale in adozione.

H. Arendt: Il razzismo prima del razzismo.

M. Foucault: da Sorvegliare e punire a Bisogna difendere la società. Manuale in adozione.

M. Foucault: Corso al Collège de France del 1976: Bisogna difendere la società. Osservazioni

In particolare le lezioni del 25/2/1976 e del 3/3/1976.

Scienze Umane

Lingua inglese

Lingua francese

Diritto ed economia Le teorie economiche di Malthus.

A. Smith: teorie economiche e teorie morali.

Il totalitarismo Cesare Lombroso e le teorie della degenerazione.

Migrazioni e società multietniche. E. Screpanti, S. Zamagni: Profilo di storia del pensiero economico, dalle origina a Keynes. Manuale in adozione.

Manuale di Filosofia. Manuale in adozione. C. Lombroso: L’uomo bianco e l’uomo di colore. Letture sull’origine e la varietà delle razze. Testo in adozione.

La sociologia del positivismo. Testo in adozione. Differenze e discriminazioni economiche, sociali, culturali, sessuali. Testo in adozione.

Victorian age. Charles Darwin. Testo in adozione. Testo in adozione. Lettura di alcuni passi in lingua originale

Le guerre anglo boere. Manuale di storia. F. Galton and Ch. Darwin. F. Galton: Inquiries into human faculty and its development.

Ch. Darwin: The descent of man and selection in relation to sex.

Si tratterebbe di leggere in lingua originale alcuni passi delle due opere a scelta dell’insegnante. L’Africa Occidentale francese. Manuale in adozione. Eventuali ricerche on-line

A. de Gobineau. Essai sur l’inegalité de les races humaines.

L’impero di Napoleone III. Manuale di lingua e civiltà in adozione. Letture di alcuni passi in lingua originale a scelta dell’insegnante.

Il concetto di Cittadinanza. Manuale in adozione. Le leggi di Norimberga. Ricerca guidata su internet. La legislazione razziale in Italia. Il manifesto della razza del 1938. Ricerca guidate su Internet.

Acquisizione del diritto di cittadinanza in Italia. Manuale in adozione.

D. Indicazioni didattiche

Data l’ampiezza dei temi e dei riferimenti il Modulo presentato si presta facilmente a un’attività didattica laboratoriale nella quale gli alunni divengano parte attiva nello sviluppo dei 241

temi indicati. Si potrebbero facilmente sviluppare solo parti degli argomenti indicati, oppure suddividere la ricerca in diversi anni di corso. In ogni caso gli studenti potrebbero essere chiamati a una serie di azioni di diverso tipo, dalle più semplici alle più complesse, secondo la seguente classificazione: - lettura e/o traduzione di brani o passi dal francese e dall’inglese; - estrapolazione dei concetti-base delle letture svolte; - composizione di mappe ideali; - composizione di mappe concettuali che sintetizzino quelle di singoli gruppi; - ricerche tematiche individuali o di gruppi su singoli aspetti, utilizzando tutte le opportunità che offre la rete; - composizione di presentazioni e slides; - ricerca di materiale iconografico, realizzazione di filmati; - redazione di report o di relazioni individuali, di gruppo o dell’intero gruppo classe; - scrittura di testi argomentativi sui problemi emersi nelle indagini; - composizione di tesine, anche in vista degli esami di Stato. Il consiglio è, ovviamente quello di procedere, nelle verifiche, dalla redazione di prove più semplici (estrazione dei concetti fondamentali di un brano) ai più complessi, attivando momenti di riflessione autonomi da parte di gruppi di alunni.

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3.3. L’utilizzo di eTwinning nelle classi del Liceo Economico Sociale

Cinzia Cotti

Questo contributo riguarda l’utilizzo di eTwinning nelle classi del Liceo Economico sociale, per realizzare ricerche sociali in un contesto autentico, anche a livello internazionale, sfruttando le potenzialità del web.

L’uso di questa piattaforma consente ai docenti europei di entrare in contatto e «collaborare in modo semplice, veloce e sicuro […]», producendo «un miglioramento dell’offerta formativa […] attraverso l’internazionalizzazione e l’innovazione dei modelli didattici e di apprendimento» favorendo la «dimensione comunitaria dell’istruzione e la creazione di un sentimento di cittadinanza europea condiviso nelle nuove generazioni»1 .

Durante il primo lockdown, nel marzo 2020, catapultata insieme ai miei studenti in una situazione senza precedenti, ben oltre alla nostra zona di comfort, mi sono trovata a dover impostare l’attività di ricerca che avevo programmato per la classe terza. Chiusi nelle nostre case, alle prese con una tecnologia ancora da addomesticare, avevamo comunque voglia di fare scuola e di farlo nel modo migliore. Abbiamo così pensato di scegliere come argomento della nostra indagine proprio la situazione che stavamo vivendo, l’isolamento, lo stravolgimento della quotidianità, le paure, le incertezze e la sofferenza. I ragazzi dovevano costruire un questionario, dopo aver studiato come organizzarlo, somministrarlo a campioni di età differenti e poi analizzare le risposte, incrociando le variabili, per scoprire quello che emergeva2. Tutto doveva essere realizzato soltanto online, per l’assoluta impossibilità di incontrarci fisicamente in quanto Piacenza, la città in cui si trova il nostro Liceo, è stata purtroppo da subito nell’occhio del ciclone.

Ci è quindi venuta l’idea di andare a vedere come andavano le cose anche fuori dell’Italia ed ho proposto alla classe di realizzare un progetto eTwinning, proposta alla quale i ragazzi hanno risposto con entusiasmo e che ci ha portato a risultare vincitori del premio nazionale per la secondaria superiore3, insieme alle scuole partner della Repubblica Ceca, della Francia e di Tahiti.

I ragazzi divisi in gruppi internazionali misti, in cui erano presenti studenti di tutte le nazioni coinvolte, hanno filmato sé stessi e le loro famiglie e, senza potersi mai incontrare nemmeno con i compagni di classe, hanno prodotto dei videogiornali4 in cui rappresentavano la vita quotidiana al tempo del Covid-19 in quattro angoli d’Europa.

L’anno seguente con la stessa classe, già più esperta, abbiamo invece lavorato sullo stigma relativo alla malattia mentale. I partner erano nuovamente le scuole della Repubblica Ceca e di Tahiti. Il questionario, già strutturato e in lingua inglese5, prevedeva anche una scheda con dati oggettivi per contrastare i pregiudizi. I ragazzi hanno tradotto le do-

1. Dal sito indire https://etwinning.indire.it/cose-etwinning/. 2. I report della classe 3ESD del Liceo Colombini sono consultabili all’indirizzo https://twinspace. etwinning.net/114426/pages/page/1004064. 3. Il progetto “Lost&Found in Pandemia” è consultabile all’indirizzo https://www.youtube.com/ watch?v=k-DN7ACYkWA&t=40s. 4. I videogiornali prodotti dai team sono consultabili agli indirizzi https://twinspace.etwinning. net/114426/pages/page/957198; https://twinspace.etwinning.net/114426/pages/page/957206. 5. Il testo del questionario, realizzato con Google moduli, è consultabile all’indirizzo https://docs.Google. com/forms/d/e/1FAIpQLSfwlQEQO4q1JOiKJgIQMKd-FkWfvIhdTOWVtsKXnGodUCnJHQ/viewform. 243

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mande nelle diverse lingue nazionali e lo hanno somministrato a campioni di età diverse, poi nei gruppi internazionali misti hanno analizzato i risultati per rilevare analogie e differenze6. A ogni gruppo erano state assegnate alcune delle domande, relativamente alle quali sono stati prodotti i report finali.

Ma vediamo ora in dettaglio quali sono concretamente i vantaggi che apporta l’uso di eTwinning.

Primo fra tutti quello di uscire virtualmente dalle mura scolastiche per entrare in una dimensione europea.

Gli studenti incontrano partner di altre scuole europee, con i quali iniziano a collaborare e a realizzare prodotti comuni. Nei progetti per la secondaria superiore, a mio parere, l’organizzazione in team internazionali è fondamentale. I ragazzi imparano a organizzarsi, a costruire il gruppo, a sostenere l’impegno di tutti per arrivare a un obiettivo comune e i risultati a cui giungono sono sorprendenti.

Le competenze acquisite, in un contesto autentico e con compiti di realtà, sono fondamentali per i cittadini del ventunesimo secolo e assolutamente spendibili in ogni ambito lavorativo.

Anche l’uso delle lingue straniere, uno degli assi portanti del Liceo Economico Sociale, diventa totalmente naturale: per collaborare con i partner europei gli studenti sono costretti a utilizzare una lingua comprensibile a tutti, per noi è stato l’inglese ma può essere una qualunque delle lingue comunitarie, e in questa devono parlare, scrivere, progettare, pensare. Tuttavia, tuttavia per chi non se la sentisse di affrontare progetti in lingua, è comunque possibile collaborare su eTwinning anche solo tra scuole italiane: è di estremo interesse indagare la differenza tra le varie regioni, un esempio potrebbe essere quello di valutare l’impatto della pandemia sia a livello scolastico che per quanto riguarda il welfare, oppure l’atteggiamento assunto dai cittadini nei confronti dei vaccini. La piattaforma europea potrebbe diventare un prezioso strumento per rafforzare la Rete Nazionale, mettendo direttamente a contatto docenti e studenti delle varie parti d’Italia e dando vita a gemellaggi fra i LES.

Quando il team lavora a chilometri di distanza, uno dei nostri partner si trova in mezzo all’Oceano Pacifico ma lo stesso vale per due scuole poste in parti diverse del nostro paese, carta e penna non sono più sufficienti: bisogna imparare a padroneggiare gli strumenti informatici. Così i ragazzi hanno iniziato a utilizzare smartphone, tablet e computer non solo per giocare o incontrarsi sui social ma come strumenti di lavoro, anche se in questo siamo stati in parte favoriti dall’iniezione di competenze originate dalla DaD. Si sono serviti di WhatsApp, Instagram e MEET per comunicare e per le riunioni dei team, hanno usato il forum di eTwinning per organizzare i gruppi, i questionari sono stati realizzati con Google moduli7per poterli somministrare a distanza e per poter condividere i risultati da analizzare, i report invece con Google slide8 che si presta a essere editato da più persone contemporaneamente e si integra con facilità nelle pagine online. I progetti comprendevano poi anche parti non inerenti alla ricerca sociale, nelle quali ogni volta vengono proposti strumenti digitali nuovi, per disegnare, scrivere o realizzare ebook9 .

6. Esempi di report finali si possono reperire agli indirizzi https://twinspace.etwinning.net/132058/ pages/page/1377489; https://twinspace.etwinning.net/132058/pages/page/1377486; https:// twinspace.etwinning.net/132058/pages/page/1377487; https://twinspace.etwinning.net/132058/ pages/page/1377488. 7. Il testo del questionario, realizzato con Google moduli, è reperibile all’indirizzo https://docs.Google. com/forms/d/e/1FAIpQLSfwlQEQO4q1JOiKJgIQMKd-FkWfvIhdTOWVtsKXnGodUCnJHQ/viewform 8. A questo indirizzo l’esempio di un report finale, realizzato con Google slide e ben integrato nella pagina: https://twinspace.etwinning.net/132058/pages/page/1377488. 9. Un ebook creato con Book creator https://twinspace.etwinning.net/114426/pages/page/992636.

Nella ricerca sociale e quando si naviga il web è fondamentale la cura della propria e altrui sicurezza10, per non diffondere dati sensibili, e anche il rispetto dei diritti d’autore per il materiale di cui ci si serve. I ragazzi hanno imparato a esempio ad inserire nei propri lavori solo immagini autoprodotte o provenienti da raccolte creative commons11 cioè messe a disposizione di tutti dagli autori stessi cosa di cui non sempre si tiene conto nella prassi scolastica quotidiana. La riflessione sulla privacy, oltre a potenziare le competenze di cittadinanza digitale, ci ha fornito lo spunto anche per riflettere sull’etica dei ricercatori sia durante l’esecuzione degli esperimenti che durante l’osservazione o le indagini.

Non è da trascurare nemmeno l’opportunità di utilizzare eTwinning per realizzare moduli CLIL, cosa che noi abbiamo fatto solo parzialmente in quanto la riflessione sulla lingua è rimasta un po’ in secondo piano. Si potrebbe anzi dire che i progetti eTwinning sono per natura predisposti alla metodologia CLIL, in quanto gli studenti imparano nuovi contenuti disciplinari usando una lingua straniera ma al tempo stesso migliorano le loro competenze linguistiche lavorando sui contenuti. Questo è reso più facile dal fatto che sono molti i docenti di lingue attivi sulla piattaforma e che possono dare il loro contributo, come nel caso delle mie partner sia della repubblica Ceca che di Tahiti.

Infatti eTwinning è anche originariamente interdisciplinare, perché più docenti di discipline diverse lavorano allo stesso progetto, ognuno con le sue competenze specifiche. A questo scopo è importante che il progetto venga condiviso dal Consiglio di Classe e inserito nella programmazione: in questo modo anche gli altri docenti avranno la possibilità di dare il loro apporto, l’insegnante di matematica per l’elaborazione statistica dei dati, quello di lingue per tutti gli aspetti comunicativi e così via.

La comunità eTwinning offre numerose opportunità di formazione per i docenti, sia online che in presenza, buona parte sono in inglese ma non mancano anche quelle in italiano. Per i neofiti che accedono per la prima volta e si trovano un po’ disorientati, consiglio di scriversi al gruppo interno Virgilio12 che fornisce ottimi suggerimenti ma di italiano ha però soltanto il nome.

Per concludere vorrei tornare al punto da cui sono partita: eTwinning è un modo per oltrepassare le mura delle nostre aule ovunque si trovino. L’utilizzo del web ci permette di dare visibilità al lavoro che facciamo, scegliendo di rendere pubbliche alcune parti del progetto, avremo la soddisfazione di rendere visibili i risultati raggiunti dai nostri ragazzi. La piattaforma è molto sicura e protetta, possono accedere solo insegnanti e operatori scolastici accreditati, tuttavia è possibile una o più pagine se lo si ritiene opportuno, oppure si possono creare account per i visitatori da condividere con i genitori, il dirigente o altri colleghi.

Le pagine pubbliche sono visibili anche da tutti gli altri utenti di eTwinning, quindi da un gran numero di docenti di tutta Europa, e in questo modo i lavori svolti talvolta danno origine a nuove collaborazioni.

Per ogni progetto completo e ben realizzato è possibile, ma non automatico, ricevere il certificato di qualità sia nazionale che europeo, cioè una valutazione ufficiale del raggiungimento degli obiettivi fissati e della qualità del processo. Per quelli ritenuti eccellenti può arrivare anche un premio, di nuovo a livello nazionale oppure europeo.

Per chiunque fosse interessato ad approfondire l’argomento e a sperimentare la ricerca

10. Alcune indicazioni per la sicurezza online sono reperibili all’indirizzo https://twinspace.etwinning. net/114426/pages/page/1002954. 11. Suggerimenti per trovare immagini e musica liberi dal copyright si possono trovare all’indirizzo https://twinspace.etwinning.net/114426/pages/page/1004041. 12. https://groups.etwinning.net/7821/home. 245

online attraverso eTwinning con una delle sue classi, lascio a disposizione il mio indirizzo email: cinzia.cotti@liceicolombini.edu.it. Non esitate a contattarmi, sarò lieta di collaborare e condividere l’esperienza fatta.

Le mie preziose partner e le loro scuole:

Obchodní akademie Prostějov - Prostějov, Czech Republic: Mrs. Petra Pajtlová

Collège-lycée La Mennais - Papeete, Tahiti: Mrs. Catherine Ly Tsoi and Mrs Melody Hearten-Johnson.

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4. Le collaborazioni della rete dei LES

Elenco delle istituzioni e dei soggetti intervenuti nei Convegni

Associazioni disciplinari Associazione Italiana Architettura del Paesaggio Associazione Europea per l’Educazione Economica Associazione Italiana di Sociologia Società Italiana di Sociologia Società Italiana di Statistica Società Italiana Economisti Società Italiana Scienze Umane e Sociali

Comitati COMITATO SCIENTIFICO MATERA 2019

Musei Fondazione Museo Egizio, Torino Museo del Risparmio, Torino

Istituti e centri di ricerca Consiglio Nazionale delle Ricerche Istituto Bruno Leoni Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione Istituto Nazionale di Statistica Istituto Nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche Istituto per le tecnologie didattiche- CNR, sezione Palermo

Fondazioni Fondazione Agnelli Fondazione Luigi Einaudi Fondazione Scuola Compagnia di S. Paolo -Torino Fondazione Matera-Basilicata 2019 Fondazione Patrimonio UNESCO-Sicilia Fondazione per l’Educazione Finanziaria e al Risparmio

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Partner Istituzionali COMITATO PER L’EDUCAZIONE FINANZIARIA – Ministero Economia e Finanze Ministero della Cultura

Università Institute for Advanced Study di Toulouse Libera Università Internazionale degli Studi Sociali “Guido Carli” di Roma MIP-Politecnico di Milano Sapienza-Università di Roma Scuola Superiore di Studi Universitari Sant’Anna-Università di Pisa Università degli Studi di Palermo Università degli Studi del Piemonte Orientale Università degli Studi di Pisa Università degli Studi di Tor Vergata-Roma Università degli Studi di Torino Università degli Studi Roma Tre Università di Friburgo

Altri soggetti Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo Associazione Mercato Storico Ballarò di Palermo Camera di Commercio di Pistoia Campus Orienta, Salone dello Studente Cassa di Risparmio di Pistoia e Lucchesia Consulta delle Culture di Palermo Cooperativa Turistica Terradamare di Palermo Rappresentanza in Italia della Commissione Europea Regione Emilia Romagna StartNet

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note biografiche dei relatori intervenuti al Convegno, degli autori dei testi e dei moderatori di sessione

Ida Marina Adami Docente di Scienze Umane presso il Liceo Economico-Sociale Quadri di Vicenza, dove svolge l’incarico di coordinatrice dell’indirizzo Economico-Sociale e dove è referente per la Valutazione di Sistema. È referente per la Rete territoriale dei LES per il Nord-Est.

Luca Franco Azzollini Dirige l’IIS PAOLO FRISI di Milano dal 2004. Tra il 2009 e il 2011 ha fatto parte della Cabina di Regia incaricata del riordino dei Licei; in quel contesto, si è occupato soprattutto del Liceo delle Scienze Umane e dell’Opzione Economico-Sociale. Tra il 2014 e il 2018 ha coordinato i lavori della Rete LES Nazionale. Dal 2019 ha contribuito a organizzare le Olimpiadi Italiane di Economia e Finanza.

Greta Balliu Laureata in economia dell’innovazione e cooperazione internazionale all’Università di Bergamo. Nel 2016 ha conseguito una tesi di dottorato intitolata “L’approccio basato sui diritti dell’uomo in sviluppo. Caso dell’Albania” à l’Università di Bergamo e Friburgo. Dal 2014 al 2017 ha lavorato come esperta dei diritti umani, specialmente il diritto dell’educazione, al Consiglio d’Europa. Dal 2014 è ricercatrice all’Istituto interdisciplinare d’etica e dei diritti dell’uomo dell’Università di Friburgo. Le sue ricerche e i suoi insegnamenti sono orientati alle questioni di etica economica, diritti umani ossia la governance inclusiva.

Renella Bandinelli Dirigente Scolastico in pensione, coinvolta nel percorso di preparazione e studio del nuovo ordinamento LES, membro da sempre della Rete nazionale dei LES, coordinatrice del TAVOLO TECNICO DI STUDIO DEL LES istituito nel novembre 2016. Curatrice e relatrice al Primo Convegno Nazionale LES a Pistoia nel 2017, ha presentato nel Secondo Convegno Nazionale LES a Palermo il Libro Bianco del LES. È stata relatrice in diversi convegni internazionali tra cui: - 20th Conference of the Association of European Economics Education Research and debate on the teaching of Economics and Social Sciences (ENSECOSS) Teaching Economics in a Europe in Crisis: Workshop 1.4 Communications Curricula & Teaching: Il Liceo Economico Sociale in Italia - 22nd AEEE Conference “to change or not to change: that is the question! Economics and business education a transforming society”: - A new challenge in education “What’s worth fighting for when learning economics” - IACSEE (International Association for Citizenship, Social and Economics Education) 11th International Conference University of Goettingen, “Political and economic systems under challenge – assessing the role and potential of citizenship education” presentando la relazione “To look inside larger questions we need larger lenses. Values and identity of the Liceo Economico Sociale”. - Università Bicocca Dipartimento di Scienze Economico Aziendali e diritto per l’economia – Finanza Economia, Impresa – insegnare nel contesto europeo: “Per che cosa vale la pena confrontarsi quando si impara l’economia”.

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Gennaro Boggia Dirigente Scolastico dal 2007 e fino al 31.08.2021, Dirigente Scolastico della Direzione Didattica 1° Circolo “C. Collodi” di Fasano (Brindisi) – collocamento in quiescenza dal 01.09.2021. Referente nazionale (in regime di proroga) per le attività della Rete nazionale dei licei economico-sociali orientamento in ingresso e la diffusione della cultura giuridico-economica per le scuole del primo ciclo dal 2016 a oggi. Cultore della materia presso il Dipartimento di scienze della formazione, psicologia, comunicazione dell’Università degli Studi di Bari per l’insegnamento di Teorie e metodi della progettazione educativa, dal 2018 a oggi. Ha fatto parte dei nuclei ispettivi del U.S. Regione Puglia per la valutazione dei Dirigenti Scolastici. Si è occupato di formazione docenti e dirigenti scolastici. Ha fatto parte di diversi gruppi di lavoro presso il MIUR - Direzione Generale degli Ordinamenti Scolastici e l’USR Puglia. Autore di diverse pubblicazioni e ricerche per il MIUR. Attualmente si occupa di Economia dell’Istruzione e valore educativo del capitale umano nelle azioni di orientamento scolastico e permanente. Moderatore della sessione: Cosa fare da grandi

Giulietta Breccia Dirigente scolastica di Scuola Secondaria di secondo grado, autrice di testi e corsi di Lingua Inglese per la Scuola Primaria e Secondaria di primo e secondo grado, formatrice in materia Europea per la mobilità studentesca,è referente per le attività della Rete nazionale dei licei economico-sociali concernenti il potenziamento dell’insegnamento di discipline non linguistiche in lingua straniera secondo la metodologia CLIL e l’internazionalizzazione del liceo economico-sociale, coordinatore gruppo tecnico MIUR per la redazione delle tracce della II prova degli Esami di Stato per i licei musicali e coreutici e Presidente dell’ Università della Terza Età di Castelfidardo.

Franca Burzigotti Laureata in Matematica nel 1978 presso l’Università di Perugia, ha frequentato la Scuola Superiore di Fisica Teorica ad Arcetri (Firenze), nell’a.a.1981/82, è stata docente di Matematica e Fisica nelle Scuole Superiori. Oggi dirige l’ISS Leonardo da Vinci, capofila della RETE LES Regione Umbria, e Scuola Polo di Avanguardie Educative di INDIRE. L’Istituto guida, a livello regionale, lo sviluppo della metodologia debate, Service Learning, la realizzazione di nuove architetture per gli spazi didattici e la sperimentazione della metodologia MLTV proposta dall’ Università di Harward. L’Istituto è stato individuato dal MIUR, per le innovazioni digitali e metodologiche d’avanguardia, come sede di uno dei 28 FUTURE LABS nazionali, Poli di Formazione per tutto il personale della scuola sulle competenze digitali (PNSD) e inserito nel Programma Nazionale di FORMARE AL FUTURO per il quale ha presentato un articolato Progetto di Formazione biennale.

Benedetto Camerana Architetto, paesaggista, PhD in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica. Nel 1997 avvia a Torino lo studio Camerana&Partners, con cui porta avanti una ricerca progettuale incentrata sull’integrazione tra architettura e paesaggio, nella direzione di una “green architecture” di chiara matrice ambientale, con l’utilizzo anche sperimentale di tecnologie innovative e sistemi naturali di risparmio di energia. Tra le opere principali la Technocity Environment Park di Torino (1997-1999), il Bicocca Village a Milano (1998-2004), il centro commerciale Auchan a Cuneo (2001-2004), il Villaggio Olimpico per i XX Giochi Olimpici Invernali Torino 2006, premiato con la Medaglia d’Oro dell’architettura Italiana, la ristrutturazione dell’Auditorium RAI di Carlo Mollino (Torino,

2000-2006), la riqualificazione del centro storico di Trino Vercellese (2004-2008), il Juventus Museum all’interno del Juventus Stadium di Torino (2010-2012), il nuovo allestimento (20142015) del Museo Alfa Romeo di Arese. Tra i progetti in corso, la riqualificazione dell’area De Agostini (Novara, 2017-2021, progetto di fattibilità e variante urbanistica), il Parco pubblico pensile sul Lingotto (Torino, 2020-2021, progetto, esecuzione in avvio).

Gavina Cappai Dirigente scolastico presso il Liceo “G. Galilei” di Macomer (NU), capofila della rete regionale Sardegna dei LES, dall’anno scolastico. 2007/2008. Laureata in Materie letterarie presso l’Università degli studi di Sassari, ha conseguito: - Specializzazione scientifica in “Storia del Novecento” (A.A. 1998/1999 e 1999/2000) – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” - Specializzazione scientifica in “Funzione docente” (A.A. 2000/2001 e 2001/2002) – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” - Corso di perfezionamento a distanza (A.A. 1996/1997) in “Didattica Generale e sperimentale” – Università degli Studi di Ferrara - Corso si perfezionamento a distanza (A.A. 1997/1998) in “Comunicazione multimediale e didattica” – Università degli Studi di Ferrara Moderatore della sessione: L’identità di un indirizzo: il punto di vista delle famiglie e degli studenti

Evelina Christillin Presidente Museo Egizio di Torino, è stata Presidente della Filarmonica ‘900 del Teatro Regio di Torino e della Fondazione Teatro Stabile di Torino, oltre che dell’ENIT. Elisabetta Cigognini Esperta di tecnologie educative e dei processi di apprendimento mediati dalle tecnologie, Ph. D in Pedagogia Sperimentale, dal 2004 svolge attività accademica e di ricerca educativa (Università di Firenze, Università di Trieste) sull’efficacia delle proposte innovative didattiche e pedagogiche. È ricercatrice presso INDIRE dal 2014, per le linee di ricerca sullo sviluppo e formazione della professionalità docente, per lo sviluppo delle competenze per la gestione dei processi di acquisizione e gestione delle conoscenze e per la differenziazione e personalizzazione nei processi di apprendimento; collabora con i gruppi di lavoro per la Didattica Laboratoriale (ambienti immersivi, coding e robotica, movimento maker) e per Avanguardie Educative (referente per Apprendimento Differenziato).

Paolo Corbucci È stato prima docente di lettere nelle scuole secondarie di secondo grado, quindi dirigente scolastico e poi responsabile al Ministero dell’istruzione di progetti e iniziative rivolte alla promozione dell’italiano, alla valorizzazione di “Cittadinanza e Costituzione”, allo sviluppo dei nuovi ordinamenti scolastici e delle relazioni tra scuole e istituzioni. Ha insegnato nel Master in Management dei Beni culturali dell’Università di Roma Tre. È giornalista pubblicista e co-curatore del volume Le Olimpiadi di italiano. Un osservatorio sulle competenze logico-linguistiche degli studenti delle scuole superiori (il Mulino, 1917) e del volume Diventare cittadini europei. Idee, strumenti e risorse per un’educazione consapevole all’Europa («I Quaderni della Ricerca» #39, Loescher, 2018). Moderatore della sessione: Educazione alla cittadinanza globale

Cinzia Cotti Laureata in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Insegna Filo- 251

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sofia e Scienze Umane al Liceo Giulia Molino Colombini di Piacenza. Coordinatrice ERASMUS ed eTwinning per il proprio Istituto, si occupa di formazione dei docenti. Nell’anno 2020 ha vinto, insieme alla classe 3D del LES, il Premio Nazionale eTwinning. Referente Regionale LES per l’Emilia Romagna, ha partecipato ai lavori della Rete Nazionale sia per il CLIL che per l’Orientamento.

Maria Cozzolino Esperta di sistemi di protezione sociale e mercato del lavoro. L’aspetto qualificativo della sua professionalità è la competenza trasversale in aspetti giuridici accanto a quelli di analisi economica, competenze sviluppate grazie alle esperienze lavorative presso amministrazioni ed enti pubblici alternate a quelle in istituti di ricerca pubblici e privati. È stata responsabile della direzione Analisi e studi del sistema di protezione sociale in Inps (2016-2019); membro del pool del Commissario della Revisione della Spesa, Dott. Carlo Cottarelli con responsabilità sulle aree previdenza, lavoro, pubblico impiego, partecipate locali; economista senior presso il Gabinetto del Ministro dell’Economia e delle Finanze dal 2014 al 2016 come esperta di valutazione di impatto delle riforme strutturali, con particolare riguardo ai temi della protezione sociale, del lavoro, della sostenibilità delle finanze pubbliche; capo della segreteria tecnica del Ministero della Pubblica Amministrazione (20092011); componente dello staff tecnico della Sotto Segreteria di Stato all’Economia e Finanze nel biennio 2007-2008 con compiti di consulenza a supporto del Ministro dell’Economia sui temi della previdenza, della sanità e su quelli fiscali.

Francesca De Petrillo Ricercatrice presso l’Istituto di Studi Avanzati di Tolosa in Francia, si occupa dello studio dell’origine evolutiva e dello sviluppo dei processi decisionali umani. Dopo il Dottorato in Biologia Ambientale ed Evoluzionistica con indirizzo in Antropologia all’Università Sapienza di Roma, ha svolto periodi di ricerca prima all’Università di Harvard e poi all’Università del Michigan negli Stati Uniti. Nel suo lavoro di ricerca analizza la propensione al rischio e la capacità di self-control in bambini in età prescolare e in alcune specie di scimmie, come i cebi dai cornetti e i macachi reso.

Patrizia De Socio Già docente di storia dell’Arte negli Istituti secondari di secondo grado, poi in comando presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dove è stata coordinatore nazionale del Centro per i servizi educativi del museo e del territorio. Dal 2012 in distacco presso il MIUR. È stata docente a contratto per l’insegnamento di Didattica del museo e dei beni culturali in master tenutisi presso la Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale dove ha insegnato anche Comunicazione museologica e svolto docenza di Educazione al patrimonio e comunicazione museale in corsi di alta formazione. Autore di pubblicazioni scientifiche nell’ambito della didattica del patrimonio culturale. Referente della rete nazionale dei LES presso la Direzione generale ordinamenti scolastici e valutazione del sistema nazionale di istruzione Moderatore della sessione: Turismo sostenibile e lettura del territorio

Francesca Diliberti Laureata in Lingue e letterature moderne presso l’Università di Palermo, dopo essere stata docente di lingue e civiltà straniere, francese e inglese, è attualmente dirigente scolastico del Liceo Regina Margherita di Torino, scuola Capofila per la Rete dei Licei Economico Sociali del Piemonte- Val d'Aosta, è Promotrice e capofila della rete di scopo «Green Lab Schools» e

Presidente della commissione “Orientamento e dispersione scolastica” della Conferenza Cittadina delle Autonomie Scolastiche di Torino. Moderatore della sessione unica: Les in progress

Massimiliano Fiorucci Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, insegna Pedagogia generale, sociale e interculturale. Nello stesso Dipartimento è Coordinatore scientifico del CREIFOS (Centro di Ricerca sull’Educazione Interculturale e sulla Formazione allo Sviluppo) (www.creifos.org) e Direttore del Master in “Educazione interculturale”.

Mara Frascarelli Professoressa Ordinaria di Linguistica Generale presso l’Università degli Studi Roma Tre. I suoi principali interessi di ricerca includono la struttura dell’informazione, l’analisi d’interfaccia (sintassi-prosodia-semantica) delle categorie del discorso, l’interpretazione del soggetto nullo e l’acquisizione di fenomeni correlati alla grammatica del discorso in lingue tipologicamente diverse. Da sempre interessata a tematiche e strumenti relativi alla certificazione delle competenze e all’elaborazione di materiali e metodi per la risoluzione delle criticità, dal 2013 è responsabile e coautrice delle prove di valutazione per i test di ingresso e i corsi OFA per i CdS della Scuola di Lettere Filosofia Lingue dell’Università Roma Tre. Ha pubblicato quattro volumi, tre monografie e diversi articoli in volumi miscellanei e riviste internazionali quali Natural Language and Linguistic Theory, The Linguistic Review, Lingua, Syntax, Probus e Studies on Chinese Linguistics. Dal 2012 ha diretto diversi progetti di ricerca in ambito dipartimentale e partecipato a progetti nazionali (PRIN, SIR) e internazionali (Progetti di Eccellenza).

Michela Freddano È responsabile dell’Area Valutazione delle scuole all’INVALSI, Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, ove è ricercatrice dal 2013. Ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Valutazione dei processi e dei sistemi educativi nel 2012 presso l’Università degli Studi di Genova, con cui collabora da diverso tempo; è docente a contratto di Metodologia della ricerca azione. Colloquio clinico e intervista nei contesti organizzativi e docente di Master presso l’Università Telematica degli Studi IUL.

Antonio Guida Ex dirigente dell’IISS Marco Polo di Bari (scuola fondatrice del Movimento delle Avanguardie Educative). Attualmente Ambassador per le Avanguardie Educative e collaboratore strutturato del Goethe Institut per StartNet, network che si occupa di facilitare i processi di transizione scuola lavoro. Collabora con la rete di scuole pugliesi GET (green education & training) per progetti di orientamento rivolto ai docenti (Building Futures) e di imprenditorialità giovanile (Proactive Training). Progettista e coordinatore di Before, percorso di orientamento online per diplomandi finanziato dal Goethe Institut e dalla Regione Puglia. Ha realizzato la sceneggiatura di Le storie di Davide e Francesca”, una serie di video a supporto delle scelte post diploma in Puglia, tuttora in fase di lavorazione.

Debora Infante Dirigente scolastico con l’incarico di dirigente dell’Ufficio III – Ambito Territoriale di Potenza dal 2015. Nel 2020, per quattro mesi, è stata dirigente reggente anche dell’Ufficio IV - Ambito Territoriale di Matera. Laureata in Lingue e Letterature straniere con lode presso 253

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l’Università degli Studi della Basilicata, ha conseguito un dottorato di ricerca in Pedagogia Sperimentale presso la “Sapienza” Università di Roma e ha frequentato un master in “Management e leadership in educazione” presso l’Università di Roma Tre e l’Executive Master in “Management e Innovazione nella Pubblica Amministrazione - MIPA” presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ha svolto attività di ricerca negli Stati Uniti e presso vari atenei italiani. Ha insegnato a contratto presso l’Università degli Studi della Basilicata per 14 anni accademici nell’ambito della didattica delle lingue straniere. È autrice di diverse pubblicazioni nel campo dell’educazione, in Italia e all’estero (Finlandia, Spagna e Stati Uniti). Ha partecipato a numerosi convegni in Italia e all’estero e ha visitato le scuole di quindici diversi Paesi europei.

Maria Teresa Ingicco Dirigente Tecnico presso l’Ufficio Scolastico del Piemonte dal 2020; nell’ambito del suo incarico, si occupa dell’area economico-giuridica, dell’Educazione Civica, del supporto ai LES e dello sviluppo sostenibile. Dal 2013 ha coordinato, come Dirigente Scolastico della scuola capofila, la rete territoriale dei Licei Economico-Sociali del Piemonte e della Valle d’Aosta. Dal 2018, in qualità di Dirigente Scolastico della scuola capofila, ha coordinato la rete nazionale dei Licei Economico-Sociali, come stabilito dal Decreto del MIUR-DGOSV. Ha maturato un’esperienza ventennale nell’insegnamento delle discipline giuridiche ed economiche. Moderatore della sessione unica: Les in progress

Domenico Ioppolo Direttore del Salone dello Studente; insegna Comunicazione presso l’Università telematica Pegaso e presso il master di Web communication dell’Università di Parma; ha insegnato all’Università della Svizzera italiana di Lugano e presso il Politecnico di Torino.

Marco Mannucci Docente presso il Liceo “Eugenio Montale” di Pontedera, è coordinatore della Rete Regionale LES della Toscana. Si occupa di progettualità Europea e di innovazione didattica realizzando progetti in ambito internazionale. È autore di numerose pubblicazioni in ambito pedagogico e didattico ed è docente a contratto di Pedagogia Generale presso l’Università di Pisa.

Fabrizio Martire Professore associato di Sociologia Generale presso il Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale della Sapienza Università di Roma, insegna materie metodologiche e si occupa di temi connessi alla valutazione, alla metodologia della ricerca sociale e alla storia della sociologia.

Enrico Montaperto Laureato in lettere classiche, già Dirigente scolastico, collabora con funzioni di supporto alle attività di progetto anche con Enti/Istituti di ricerca (INDIRE) ed è attualmente in servizio (2021) presso gli Uffici centrali del Ministero dell’Istruzione. Moderatore della sessione: Cosa collega cosa separa

Marco Palmieri Collaboratore di ricerca presso il Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale della Sapienza Università di Roma. È docente a contratto di Metodologia della ricerca sociale presso il Dipartimento di Scienze umane dell’Università dell’Aquila. Tra i suoi principali interessi vi è la metodologia applicata allo studio di atteggiamenti e valori, e ai temi della valutazione.

Rosanna Papapietro Laureata in Lingue e letterature straniere, docente di inglese nelle scuole secondarie di secondo grado, ha maturato esperienze lavorative anche nel settore privato. La duplice esperienza professionale acquisita nel settore commerciale prima e poi, da docente, nell’ambito educativo e formativo l’hanno portata ‘naturalmente’ a percorrere la strada della dirigenza scolastica dove unisce l’esperienza maturata come docente e quella acquisita nella conduzione di un’azienda. È da alcuni anni dirigente del Liceo Tommaso Stigliani di Matera, un istituto superiore di secondo grado molto radicato sul territorio e nel quale il potenziamento del processo di digitalizzazione in corso e l’ottimizzazione della didattica costituiscono due degli obiettivi primari. Moderatore della sessione: Autovalutazione

Alessandra Pelloni Professoressa ordinaria di Economia politica presso l’Università degli studi di Roma, Tor Vergata. Ha pubblicato i suoi studi pubblicazioni su riviste internazionali tra cui Economic Journal, Journal of Public Economics, Oxford Economics Papers, Economic Letters, Kyklos, Social Indicators Research.

Roberto Perotti Sedici anni, salernitano, frequenta la 3 sezione A del Liceo Alfano I. È uno studente sordo bilingue che ha fatto il progetto assieme altri 5 sordi in unica classe e quest’anno è diventato anche rappresentante d’istituto. Ama seguire la politica e impegnarsi nel sociale. Gli piace molto leggere e scoprire la storia. Al momento si definisce un aspirante saggista.

Michelle Pieri Phd, è specializzata in “Analisi e gestione della comunicazione pubblica e d’impresa”, “Insegnamento Secondario Indirizzo Linguistico letterario” e “Tecnologie per l’autonomia e l’inclusione sociale delle persone con disabilità”. Dal 2014 è ricercatrice presso INDIRE. Come ricercatrice in INDIRE i suoi interessi di ricerca sono volti all’analisi di metodologie e pratiche didattiche innovative e alla trasformazione del modello organizzativo e didattico della scuola andando a indagare le modalità secondo cui l’innovazione, da evento episodico legato all’esperienza del singolo docente, diviene elemento strutturale che si radica e si diffonde nella scuola e diventa patrimonio culturale della comunità dei docenti in grado di superare i confini stessi del singolo istituto scolastico.

Enrico Pozzi Già docente di Scienze umane e Filosofia nei Licei Economico Sociali, di cui è stato tra i primi sostenitori e promotori, ha insegnato per un lungo periodo presso il Liceo Regina Margherita di Roma, scuola capofila della rete regionale Lazio. Ha pubblicato saggi di antropologia culturale, filosofia. Si è occupato a lungo dell’analisi sul concetto di razza elaborato tra l’Ottocento e il Novecento. Attualmente si occupa della Storia del Colonialismo italiano e del suo impatto nel pensiero post-coloniale.

Oliva Quasimòdo Nata a Palermo, trasferitasi a Trieste negli anni Settanta, svolge nella città giuliana i suoi studi, laureandosi, dopo il diploma di maturità classica conseguito al Liceo Dante, con il massimo dei voti e la lode in Lettere classiche e in seguito in Filosofia. Docente per molti anni di Latino e Greco, diventa Dirigente Scolastico nel 2012 del Liceo Carducci Dante, una scuola con cinque indirizzi: classico, linguistico, scienze umane, economico sociale e musicale. L’Istituto ha registrato negli ultimi sei anni un continuo aumento di iscrizioni anche 255

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grazie all’introduzione del cinese come lingua di insegnamento curricolare nell’indirizzo linguistico e nell’indirizzo economico sociale. Moderatore della sessione: Economie avanzate

Giacomo Sillari Professore Associato nel Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli, si è laureato in logica all’Università di Firenze e ha conseguito il PhD presso il Dipartimento di Filosofia della Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Dal 2006 al 2010 ha insegnato alla University of Pennsylvania di Filadelfia. È stato ricercatore alla Scuola Normale Superiore di Pisa, docente alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione presso la Presidenza del Consiglio, consulente per Unicef in Kenya e in Perù, Visiting Professor alla University of Pennsylvania. I suoi interessi di ricerca giacciono all’intersezione tra filosofia ed economia e vertono sui fondamenti epistemici della teoria dei giochi, sulle norme sociali e sull’economia comportamentale.

Orietta Sonaglia Docente di Matematica e Fisica nelle scuole secondarie di secondo grado, è docente referente per il LES presso il Campus Leonardo da Vinci di Umbertide, scuola capofila regionale LES per l’Umbria in cui riveste l’incarico di collaboratore vicario e dove insegna. Da sempre interessata ai temi della ricerca per il miglioramento delle strategie didatticoeducative e delle valutazioni per competenze, è autrice di numerose pubblicazioni sui temi delle sperimentazioni della Metodologia CLIL, il bilinguismo, la metodologia orientativa alle discipline STEM.

Filippo Tantillo Ricercatore territorialista, esperto di politiche del lavoro e dello sviluppo, lavora da più di 15 anni con Istituti di ricerca e università italiane ed europee alla messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio e dei fenomeni sociali. È responsabile di Officine Cultura- aree interne e ricercatore INAPP. Ha sviluppato modalità innovative di storytelling delle politiche pubbliche. È fondatore di Shortonwork, festival internazionale di webdocumentari presso la Fondazione Marco Biagi di Modena. È stato coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne.

Federica Zalabra Direttore di due luoghi della cultura afferenti alla Direzione regionale Musei Lazio: Palazzo Altieri a Oriolo Romano (VT) e di Villa Giustiniani a Bassano Romano (VT) e responsabile dell’Unità organizzativa Promozione e diffusione del patrimonio italiano all’estero presso la Direzione generale Musei. È in servizio al MiBACT dal 2010 come funzionario storico dell’arte e tra i numerosi incarichi ha ricoperto quello di responsabile delle collezioni della Galleria Nazionale dell’Umbria, di ispettore storico dell’arte del territorio di Terni, Narni e Amelia e di funzionario dell’Istituto Centrale per il Restauro. Svolge attività di progettista e direttore dei lavori per il restauro di opere d’arte e tra i molti interventi spicca la direzione dei lavori per il restauro dello Stendardo di Tiziano alla Galleria Nazionale delle Marche, le tavolette di scuola raffaellesca dell’Ambasciata d’Italia a Lisbona, la Galleria delle Grottesche della Villa Farnesina. Dal 2015 insegna Storia dell’arte moderna alla Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Centrale per il Restauro seguendo progetti di ricerca e tesi. Fa parte della redazione tecnico-scientifica del Bollettino ICR.

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