Atessa e i fichi secchi 'Li caracine'

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Innocenza Chessa Lucia di Cintio - Marilisa Laudadio Vincenzo Menna - Francesco Minonne

‘Li caracine’

La storia, le tradizioni, l’economia di un territorio viste attraverso un frutto



A nome di tutti gli autori, ringrazio la Banca di Credito Cooperativo Sangro Teatina, per il patrocinio concesso, dimostrando grande sensibilitĂ verso la cultura e verso tutto il territorio in cui essa opera. Vincenzo Menna

Panorama di Atessa fine secolo XIX, fotovideo Pizzi

Finito di stampare nel mese di gennaio 2014 Casa Editrice Tinari contrada Fonte Grande, 30 66010 Villamagna (Ch) info@casaeditricetinari.it Š di Vincenzo Menna ISBN 987-88-88138-24-4


Innocenza Chessa Lucia di Cintio - Marilisa Laudadio Vincenzo Menna - Francesco Minonne

Atessa e i fichi secchi ‘Li caracine’ La storia, le tradizioni, l’economia di un territorio viste attraverso un frutto


Manifesto della Festa de li SquacciafichĂŠre del 2013 Momenti della festa agosto 2008, fotovideo Pizzi

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Saluto

è motivo di orgoglio e soddisfazione per la Banca di Credito Cooperativo Sangro Teatina aver patrocinato negli ultimi decenni la pubblicazione di conoscenze sul passato delle nostre comunità. Con questa ultima pubblicazione, Atessa e i ‘fichi secchi’, la nostra banca continua il suo impegno di riscoperta e valorizzazione del suo patrimonio storicoculturale ed è anche un’occasione per rinsaldare il nostro rapporto con il territorio in cui viviamo. Il libro contiene un studio e la descrizione dei fichi secchi e in esso vengono approfonditi alcuni aspetti molto interessanti della storia delle tradizioni di Atessa, accrescendo l’orgoglio di appartenere alla comunità atessana. Agli autori del libro, Innocenza Chessa, Francesco Minonne, Marilisa Laudadio, Lucia di Cintio, Vincenzo Menna, responsabile del progetto “Atessa, città del fico”, nonché a Giulio Borrelli, già Presidente dell’Associazione ‘Atessa XXI Secolo’, vanno i meritati ringraziamenti per l’approfondita ricerca storica locale, alla nostra Banca la soddisfazione di aver sostenuto questo valido progetto. Pier Giorgio Di Giacomo Presidente della BCC Sangro Teatina

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Introduzione di un amico È con grande piacere che accogliamo questa pubblicazione che ci parla del “fico” di Atessa. Molti paesi come i nostri, che hanno una grande tradizione agricola, sono conosciuti per importanti produzioni, nel caso di Carmignano il vino, che nel 2016 festeggerà i 300 anni dal riconoscimento di Cosimo III de’ Medici che lo riconobbe nella prima “DOCG” della storia. Ma queste grandi produzioni sono spesso accompagnate anche da produzioni minori, che sono state sostentamento per intere famiglie per secoli. Produzioni di grande tradizione, di grande tecnica, che hanno rischiato negli anni di crisi della nostra agricoltura di essere dimenticate per sempre. È stato solo grazie alla volontà dell’Amministrazione Comunale di Carmignano e di pochi, volenterosi produttori che questa produzione di nicchia è tornata ai fasti di un tempo fino a raggiungere il riconoscimento di SlowFood oramai 10 anni fa. Il Fico Secco di Carmignano, essiccato al sole e mantenuto dall’aroma dello zolfo, dell’anice e delle foglie di alloro, alimento energetico per eccellenza degli etruschi e nei secoli fino a noi, è tornato ad essere la produzione principe delle nostre terre, utile all’economia ed alla promozione del nostro territorio per gente attenta alla tradizione ed alla qualità di quello che mangia. Grazie all’Associazione Ficusnet, da noi fondata insieme al Comune pugliese di San Michele Salentino, le produzioni di qualità del fico secco hanno superato i confini territoriali per dare loro il massimo risalto e riconoscimento. Auguro, adesso, la stessa fortuna e lo stesso percorso per il fico secco di Atessa, perché torni ad essere quello che era, perché ridiventi produzione di spicco di quella terra abruzzese, testimone di una grande tradizione e di una storia antica, che unisce Atessa e Carmignano insieme a gran parte dei paesi nella nostra penisola e dell’intero Mediterraneo. Fabrizio Buricchi Assessore alla Cultura e promozione del territorio del Comune di Carmignano

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Gaetano Minale, Cesto di fichi, olio su tela (2014). Cesto di fichi, foto di Francesco Minonne

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Progetto ‘Li Caracine’, il recupero di una nobile ed antica tradizione Vincenzo Menna

Il testo, che mi accingo a introdurre, costituisce parte di un progetto ampio, volto alla riscoperta di alcuni prodotti tipici di Atessa, in specifico i fichi secchi. Si è sempre saputo che ad Atessa i fichi secchi rappresentano una sorta di passione per noi cittadini, ma forse ci saremmo solo immaginati la sua antichità, se non si fossero trovati i resti di un fico secco nella villa di epoca romana rivenuta ad Acquachiara in territorio atessano. Sono passati quasi cinque anni, da quando la Prof. ssa Susan Kane mi disse che in Acquachiara era stato rinvenuto un frutto essiccato e carbonizzato che forse avrebbe potuto interessarmi, destando, così, subito la mia curiosità. Mi sembrò quasi un segno del destino apprendere che il ritrovamento, grazie alle ricerche dell’equipe ‘Sangro Valley Project’ , consistesse proprio in un fico essiccato di epoca romana. La produzione di fichi secchi nel territorio atessano è, pertanto, antichissima, ed ha rappresentato una voce importante nell’economia locale per molti decenni, se non secoli. Un legame, quello tra Atessa e i suoi ‘caracine’ (così sono chiamati da noi i fichi secchi), dunque, ricco di una lunga storia che sarà ricordata nelle pagine seguenti. Basti già pensare che nei secoli scorsi tra le merci del ‘paniere’ atessano, ai fini delle rilevazioni economiche, vi era proprio la voce ‘fichi secchi’; ed essa era ulteriormente specificata in fichi secchi al sole e fichi secchi al forno, così come si può vedere da alcuni documenti originali del IX e XX secolo qui di seguito riprodotti. Atessa vantava anche delle varietà tipiche come la ‘Reale bianca di Atessa; tanto che nel 1829, i Professori del tempo a proposito del fico reale scrivevano:1 «Il Fico reale, o di Versailles è quasi rotondo, bianco. È abbondantissimo, ma non buono se non secco: i terreni asciutti meglio convengono a questo». 1 AA.VV., Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, 11, ed. italiana, Napoli, 1829, p. 218.

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Inventari ufficiali per il Ministero dell’agricoltura datati tra il 1949 e il 1956. Si può vedere come i fichi secchi siano menzionati sia nella forma di essiccazione al sole sia in quella al forno. Si noti come il mese in cui il prezzo saliva maggiormente era quello di gennaio. Su gentile concessione dall’Archivio comunale di Atessa. 10


Rendiconti antichi del Distretto di Vasto di cui Atessa faceva parte nel XIX secolo. I fichi compaiono come prodotti in larga scala, per il tempo, e di un certo valore. Su gentile concessione dell’Archivio di Stato di Chieti.

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In corrispondenza di questi caratteri, gli atessani chiamavano in dialetto questi fichi ‘cicule’ – ce lo dice Bartoletti – che vuol dire appunto ‘piccoli’. Si ricorda che nel regno di Napoli, di cui Atessa faceva parte, questi fichi avevano delle varianti e il nome mutava da luogo a luogo2. Oltre alle elencazioni delle varietà fruttifere, nell’antico testo troviamo anche una nota polemica dell’autore che, con grande lungimiranza, sembra anticipare la ‘Ficusnet’; affermava, infatti, il Professore: «Utile sarebbe e desiderata da lungo tempo la compilazione d’una Pomona […]. Sopra queste tracce lavorar dovrebbero le società economiche del Regno … Si allontanerebbero i prestigi per le cose straniere». Già due secoli fa, dunque, si era capito che si deve rivalutare ciò che di buono abbiamo piuttosto che cercare al di fuori.

Gaetano Minale, Sapori della nostra terra, olio su tela (2002). 2 Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, cit., p. 219 nt. 8.

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I fichi non costituivano solo una fonte di reddito, ma rappresentavano anche una vera passione, (come accennato in apertura) tant’è che a tutt’oggi, in un certo senso, identificano noi atessani, soprannominati appunto “squacciafichére” ossia schiacciafichi. Sebbene i fichi secchi fossero usati come alimento, merce di scambio, dono, medicinale per tanto tempo, improvvisamente la loro produzione in Atessa è stata soppiantata da altre forme di coltivazioni intensive, rimanendo una tradizione di nicchia nelle famiglie contadine che, nelle loro case, non hanno mai smesso di essiccare i fichi locali. E li consumavano nei mesi invernali al calore di un fuoco accesso con gli amici, insieme ad un po’ di mosto cotto magari farciti con le noci. La repentina industrializzazione del territorio ha ‘messo nel dimenticatoio’ i frutti che portavano con sé il ricordo di valori antichi, che io, da atessano “squacciafichére”, ho interiorizzato sin da piccolo. Non meraviglia, perciò, come abbia pensato che il fico avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto del nostro territorio. Un pensiero che, nonostante le apparenze, risulta incredibilmente attuale, rafforzato dalle mie conoscenze tecniche, specifiche. Infatti, lavorando nel mondo dell’enogastronomia e, confrontandomi attraverso manifestazioni di settore, ho avuto modo di apprendere, ad esempio da Carmignano e San Michele Salentino, come dalla riscoperta della tradizione dei fichi possa trarsi un’economia integrativa, innovativa e sostenibile. È stato, così, quasi automatico, alla luce di quel retroterra cui prima accennavo e che fa parte di me, chiedermi, come mai noi atessani, pur vantando una tradizione plurisecolare, avessimo dimenticato un prodotto, il fico appunto, che ci caratterizza, ci identifica, e che affonda, quindi, le radici nella nostra storia. Ebbene, proprio il desiderio di recuperare un’antica usanza guardando, però, al futuro, ha suscitato in me l’idea di realizzare nell’immediato una manifestazione legata al frutto di Bacco e chiamarla proprio in quel modo che caratterizzava noi cittadini di Atessa agli occhi dei paesi vicini appunto, “La festa de li Squacciafichére”. Fondamentale, nella realizzazione pratica dell’idea, è stato il contributo del Consorzio Commercianti del centro storico di Atessa prima, e dell’Associazione culturale ‘Atessa XXI Secolo’, poi. Insieme abbiamo costituito un gruppo di amici (Nino, Giocondo, Sergio, Tonino e Anna Rita) dotati di poche risorse economiche, ma tanta buona volontà, unita a un po’ di sana follia; abbiamo dato inizio all’avventura di realizzare una manifestazione più complessa di una semplice festa, per far riemergere l’importanza del fico come fattore economico, gastronomico e culturale. Così, nel 2005 ebbe luogo la prima “Festa de li Squacciafichére”, una manifestazione identitaria, di tutti gli atessani che, partecipando numerosi, sono tornati improvvisamente a riscoprire la bontà dei fichi secchi e freschi, grazie ad un percorso gastronomico. 13


L’enorme e inaspettato successo della manifestazione mi incoraggiò ad andare avanti in quella direzione; tant’è che nel 2013 si è svolta, nel centro storico di Atessa, l’VIII edizione. Per rendere la festa ricca e interessante, è stata istituita la ‘Banca del Fico’, ossia una cassa dove era possibile convertire il conio corrente con i ‘ficheri’, una sorta di buoni per acquistare prodotti tipici a base di fichi e offerti in chioschetti tipici. Oltre a dolci e salati, è stato possibile assaporare i fichi freschi che facevano bella mostra di sé in una delle postazioni del percorso gastronomico. È stata tanta la meraviglia nel verificare che per molti giovani il sapore del fico rappresentava una piacevolissima novità: incredibile! Gustare i fichi, passeggiando per il bellissimo centro storico, con i suoi sapori e odori. Si è rivelata un’incredibile soddisfazione vedere il numero di persone divertite e coinvolte in un meccanismo, in fin dei conti, così semplice. Dopo le sue prime edizioni, ho realizzato che, oltre alla festa, si sarebbe potuto riproporre la produzione di questo prodotto locale: un’impresa che sembrava impossibile, un sogno, che però in modo graduale, ha trovato corpo grazie alla conoscenza di una rete di amici che avevano il medesimo obiettivo: trasformare la tradizione in una fonte integrativa di reddito, oltre che in un veicolo culturale. Anche grazie ai fondatori della rete, ‘Ficusnet’, Carmignano e S. Michele Salentino, nel territorio di Atessa, il fico è tornato ad essere un simbolo di riscatto della cultura gastronomica, che porta con sé storie antiche e, speriamo, nuove.

Panorama di Atessa, fotovideo Pizzi 14


Valorizzare il prodotto “Fico secco di Atessa” significa oggi, non solo aggiungere una prospettiva economica e commerciale in un settore, quale quello dell’agricoltura, in espansione negli ultimi tempi (a differenza degli altri che, purtroppo sappiamo essere in contrazione), ma attraverso di esso promuovere anche la conoscenza di un intero territorio, quello atessano, uno vero scrigno di cultura, storia, cucina che vale la pena di scoprire. Per i fichi secchi potrebbe passare anche il rilancio del cosiddetto indotto sostenibile, ossia di quei lavori artigianali funzionali al consumo e alla conservazione dei fichi secchi, come quello della costruzione di canestri, cestini, raccoglitori ecc. Le esperienze altrui hanno dimostrato che tutto ciò non è un desiderio astratto, ma può trasformarsi facilmente in una realtà concreta, alla luce anche della facilità con cui il fico attecchisce nelle nostre terre, non necessitando normalmente di trattamenti antiparassitari. In altri termini, si tratta di una pianta che può essere coltivata in modo biologico, biodinamico. Gli elementi essenziali alla buona riuscita dell’essiccazione dei fichi sono, perciò, la pazienza, la cura costante, che sono ricompensati dalla soddisfazione di produrre in modo sostenibile ma anche da un riscontro economico, avendo il fico secco un valore commerciale ben maggiore del prodotto fresco. Abbiamo interesse a recuperare e rilanciare un’antica tradizione del nostro paese e allo stesso tempo valorizzare l’intero territorio attraverso un lavoro di sinergia tra i vari produttori, attraverso un’azione di collaborazione, tutelando non solo il prodotto finale, ma tutto il territorio. Inoltre l’adesione a Ficusnet (rete mediterranea delle città del fico) ha fatto sì che ci si confrontasse con le altre città, non solo sul prodotto “fico secco“ ma anche su altri aspetti di tipo culturale, folkloristico e commerciale. Esempio concreto, nato appunto dall’adesione al progetto e dalla frequentazione dei soggetti rappresentanti le varie città e associazioni, è stata la mostra dedicata ad Aligi Sassu, con le opere che sono conservate presso il museo di Atessa, e prestate per l’occasione al comune di Carmignano. ‘Ficusnet’ collega le varie città che hanno riscoperto la produzione e commercializzazione di fichi, (S. Michele Salentino, Carmignano, Atessa, Domus De Maria, Xaghara- isola di Gozo) non solo attraverso la rete, ma anche tramite scambi culturali. Ogni anno, così, i rappresentanti delle varie città associate si recano vicendevolmente nei luoghi del fico, dove si tengono manifestazioni ad esso dedicate. La speranza è, non solo quella di migliorare ed incrementare la produzione, oltre a tutto ciò che ad essa è legato, ma anche di trovare sempre più amici disposti ad investire un po’ di passione nella riscoperta del frutto del fico. Oggi possiamo dire che siamo orgogliosi di essere ‘Squacciafichére’e che, allo stesso tempo, apparteniamo ad una cultura più vasta; infatti il valore del frutto abbraccia da sempre l’intero bacino del mediterraneo, oltre che il nostro territorio. 15


Spero, perciò, che sia interessante ricordare come il fico si sia sviluppato nell’antico Occidente e Oriente prima e come, poi, si sia inserito nella realtà di Atessa.

Antica mappa catastale risalente al 1865 di un terreno in Atessa con piantagione di fichi. è molto interessante notare che i fichi, a differenza degli altri frutti, sono specificati, segno della loro importanza. Su gentile concessione dell’ Archivio comunale di Atessa. 16


Rendiconti antichi del Distretto di Vasto di cui Atessa faceva parte nel XIX secolo. I fichi compaiono come prodotti in larga scala, per il tempo, e di un certo valore. Su gentile concessione dell’Archivio di Stato di Chieti. 17


Gaetano Minale, Atessa e i fichi, olio su tela (2014). 18


La domesticazione del fico Innocenza Chessa

Il fico (Ficus carica L.) è uno degli elementi identificativi della storia, della cultura e del paesaggio dei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo, dove sin dai tempi più antichi la forma selvatica vegetava nelle aree a macchia mediterranea eliofila, occupando gli ambienti termofili e in particolare le zone rocciose e ruderali. Così, presso le popolazioni che abitarono quei territori divenne, nel corso dei secoli, oggetto di leggende, superstizioni e simbolismi, mentre nei poemi e nelle liriche si decantavano le sue pregevoli qualità. Era altresì apprezzato quale fonte di zuccheri con il frutto, e per un uso fitoterapico assicurato dalle altre parti della pianta: foglie, corteccia e radici. Da millenni utilizzato, domesticato e coltivato, insieme alla triade che sta alla base della cultura alimentare mediterranea - l’olivo, la vite e il grano –costituisce una caratteristica fondante delle identità locali delle aree in cui il fico è da tempo anche una risorsa economica. Insieme a diverse specie arboree da frutto mediterranee, il fico è tuttora parte integrante degli agroecosistemi mediterranei caratterizzati dal persistere di sistemi colturali tradizionali, dall’uso di varietà locali, da una ricchezza di specie in consociazione e dall’uso di pratiche agricole sostenibili (Chessa e Nieddu, 2005; Chessa, 2006). La dinamicità di cui tali agroecosistemi sono dotati può consentire la conservazione della diversità biologica della specie, con l’adozione di metodiche di salvaguardia in situ e più in particolare all’interno delle aziende, assicurando al contempo lo sviluppo di nuova variabilità genetica. Approfondire le conoscenze sulla diversità genetica della specie è indispensabile per meglio comprendere i processi evolutivi che stanno alla base della domesticazione, avvenuti in passato e in tempi più recenti, e della successiva diversificazione. Inoltre, l’univoca identificazione delle varietà, la conoscenza della variabilità morfogenetica e della struttura genetica delle popolazioni di fico e caprifico, sono elementi necessari per l’attivazione di strategie di conservazione e valorizzazione, per l’impostazione di programmi di miglioramento genetico e per l’individuazione degli ecotipi più idonei ai diversi tipi di utilizzo. La storia evolutiva delle colture domesticate è strettamente connessa con l’origine dell’agricoltura e con lo sviluppo delle antiche civiltà del Mediterraneo. Le ricerche in tal senso hanno individuato nell’area medio orientale, cosiddetta “mezza luna fertile”, il centro dei processi di domesticazione delle specie vegetali sulla base delle interrelazioni con le specie progenitrici selva19


tiche presenti nella regione (Abbo et al., 2011). Le indagini di Zohary (1996) hanno portato al riconoscimento di otto principali specie fondatrici (i cereali Triticum monococcum e T. diccocum, orzo, lenticchia, cece, pisello, veccia e il lino), tuttora in coltivazione, domesticate essenzialmente nel medesimo periodo e luogo dalla civiltà locale che da nomade divenne così stanziale. Si identifica, quindi, nelle popolazioni del medio oriente un gruppo culturale avanzato e ben distinto, quale unico responsabile dell’invenzione dell’agricoltura. L’ipotesi di una domesticazione pressoché istantanea e involontaria, inoltre, implica una rapidità dei processi di acquisizione dei caratteri che distinguono la specie domesticata da quella selvatica e un’origine delle varietà da un unico capostipite progenitore (Zohary, 2004). Questo scenario sembrava ben adattarsi alle specie arboree da frutto che, in quanto longeve e propagate prevalentemente per via vegetativa, dovrebbero aver dato origine a varietà, oggi molto antiche e in numero esiguo, rappresentative dell’intero pool genetico della popolazione progenitrice. Se le informazioni scientifiche a disposizione potevano, sino ad un decennio fa, dimostrare che la coltivazione delle prime specie vegetali fosse avvenuta nel medesimo luogo e tempo, le recenti e numerose evidenze archeologiche e genetiche su un gran numero di specie coltivate hanno rappresentato un nuovo e più convincente scenario. Un lungo processo evolutivo, che ha comportato la selezione degli individui migliori nell’ambito delle specie selvatiche in aree ecologicamente rispondenti, sarebbe il risultato di attività antropiche più o meno intenzionali, ma sicuramente dirette alla sopravvivenza di culture in ambiti geografici diversi. In sostanza, l’evoluzione in senso biologico delle specie vegetali sarebbe stata accompagnata da un’altrettanto intensa evoluzione delle popolazioni umane che traevano beneficio dall’uso dei prodotti ottenibili con la coltivazione. Pertanto, sembra più opportuno considerare i processi di domesticazione-coltivazione-agricoltura come un insieme di modificazioni - biologiche, culturali ed economiche – avvenute in un lasso di tempo esteso, piuttosto che riferirsi ad un’unica invenzione. Così, è ormai evidente che eventi multipli di domesticazione abbiano caratterizzato il percorso evolutivo di specie economicamente rilevanti come la vite e l’olivo (Breton et al., 2006, Lopes et al., 2009). Per quest’ultimo, ad esempio, si è dimostrato che l’olivo selvatico non sia originario esclusivamente del Mediterraneo orientale e che la nascita delle varietà coltivate sia avvenuta, non solo per domesticazione diretta dai selvatici delle medesime aree geografiche, ma anche per successivi incroci tra gli individui domesticati locali e d’introduzione (Erre et al., 2010). Se la domesticazione dei cereali, iniziata circa 10.500 anni fa, è stata oggetto di numerose indagini, le specie perenni legnose, soprattutto quelle 20


Stemma di Atessa, su gentile concessione di ‘Frentania Stamperia d’Arte’, Atessa. 21


da frutto a minore diffusione, hanno ricevuto sinora scarsa attenzione (Miller et al., 2011). L’origine della specie Ficus carica e della sua forma selvatica appare molto complessa e ancora non del tutto svelata, né esistono indicazioni sulla cronologia degli eventi di domesticazione e sulle aree geografiche di origine delle numerose varietà create nel tempo. Con il ritrovamento di fichi eduli carbonizzati, databili 11.200-11.400 anni fa, sono state poste le basi per ipotizzare che la coltivazione intenzionale di una pianta domesticata di fico sia antecedente (Kislev et al., 2006) a quella di colture annuali come grano e orzo, o di specie clonali quali il melograno, la vite e l’olivo. È indubbio che l’evoluzione del fico coltivato abbia avuto origine dalle popolazioni naturali del selvatico presenti nelle diverse aree geografiche. Recenti ricerche fitogeografiche, basate sull’analisi dei geni trasmessi per via materna, hanno dimostrato che il fico selvatico cresceva spontaneamente in tutti i paesi del Mediterraneo, prima ancora della comparsa del fico coltivato e presumibilmente prima dell’ultima glaciazione (khadari et al., 2005). Inoltre, la netta differenziazione tra le popolazioni di caprifico del Mediterraneo occidentale e orientale ha consentito l’identificazione di due gruppi genetici nell’area orientale: Libanese e Siriano-Turco, e di quattro in quella occidentale: Italiano, Franco-Spagnolo, Corso, Marocchino (Achtak et al., 2010). Risulta, quindi, possibile che nella strutturazione genetica dell’ampio patrimonio varietale oggi esistente, fortemente diversificato e consistente anche in termini numerici, abbia avuto un ruolo importante la riproduzione per via sessuale, con un contributo parziale delle mutazioni somatiche. Considerata la particolare e complessa modalità riproduttiva del fico, la produzione di nuove varietà necessariamente richiede l’ibridazione tra le due forme. Infatti, il fico è specie definita ginodioica (che presenta fiori ermafroditi e fiori femminili su individui distinti) con alberi femminili che producono i siconi, con i fiori femminili longistili, infruttescenza edule contenente semi fertili, e il caprifico che porta siconi contenenti fiori maschili e femminili brevistilo. Poiché solo il caprifico produce polline il sistema riproduttivo della specie è definito funzionalmente dioico (Kjellberg et al., 1987). Infine, la simbiosi strettamente necessaria per l’impollinazione con la Blastophaga psenes ha sicuramente influito sulla distribuzione della diversità genetica intraspecifica e sul flusso genico tra popolazioni diverse. Un’ulteriore opportunità di mantenimento del livello di variabilità è l’esistenza di gruppi varietali in grado di produrre, oltre ai forniti non partenocarpici, frutti partenocarpici detti fioroni, risultanti dal lungo processo di selezione e domesticazione. Le caratteristiche riproduttive della specie differenziano le varietà in relazione alla necessità o meno della caprificazione, alla presenza di frutti partenocarpici e di una o più produzioni. Su tali basi, Storey nel 1976 ha stilato la classificazione commerciale delle varietà coltivate del fico, tuttora valida, che individua i seguenti tre gruppi: Smyrna, fioroni rari 22


Veduta e stemma di Atessa, su gentile concessione di ‘Frentania Stamperia d’Arte’, Atessa.

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o assenti, necessaria la caprificazione per la produzione dei forniti; San Pedro, fioroni partenocarpici presenti, produzione dei forniti tramite caprificazione; Comune, produzione di fioroni e forniti partenocarpici, la caprificazione aumenta la produzione dei forniti. In sintesi, le dinamiche di sviluppo del fico risultano molto più complesse di quanto previsto dall’ipotesi della domesticazione immediata e inconsapevole. In primo luogo, recenti analisi condotte in Marocco ci consentono di ipotizzare che la forma coltivata e quella selvatica possano essere considerate come una singola unità evolutiva. Inoltre, la longevità delle specie arboree limita l’ampiezza di acquisizione dei caratteri tipici delle forme domesticate, considerato il basso numero di generazioni che separano la forma coltivata dalla specie progenitrice (Zeder et al., 2006). La frequenza dei fenomeni d’ibridazione tra le forme selvatica e coltivata, nel medesimo habitat naturale, e l’ampia diffusione operata dall’uomo, hanno sicuramente prodotto la comparsa d’individui con struttura e origine genetica variabile. Di conseguenza, possiamo individuare nell’ambito dello stesso territorio geografico la coesistenza del selvatico, di antiche varietà, di forme naturalizzate e non più coltivate, di selezioni dirette dai selvatici locali e di popolazioni locali ibridate con varietà introdotte. L’applicazione di metodiche sperimentali avanzate basate sull’analisi diretta del DNA (Chessa et al., 2001; Ikten et al., 2010), potrà fornire un quadro più completo, individuando l’apporto dei selvatici locali nella costituzione delle varietà tradizionali in ciascuna regione italiana. Una delle conseguenze della domesticazione, intesa nel senso dell’acquisizione dei caratteri che distinguono la specie domesticata da quella selvatica, è lo sviluppo di una nuova variabilità genetica che si manifesta nelle varietà coltivate. Grazie all’opera degli agricoltori, che attraverso un’azione di selezione e miglioramento delle caratteristiche del frutto e della pianta, si sono nel tempo affermate le diverse varietà, adatte ad accrescersi e a produrre in ciascuna area di coltura. Così, gli individui che man mano venivano utilizzati nei campi subivano modificazioni della morfologia, definite caratteri della domesticazione, che li rendevano idonei alla coltivazione e, dopo un lungo periodo, si fissavano nel patrimonio genetico della popolazione coltivata. Tali caratteri distintivi, riconducibili all’adattabilità alle condizioni ambientali, alle maggiori dimensioni del frutto, ai caratteri qualitativi e alla produttività più elevata, si ritrovano spesso richiamati nella denominazione locale. Con la graduale diffusione delle varietà in altre aree, diverse denominazioni locali si aggiungevano, creando i molti casi di sinonimia (nomi diversi per indicare la stessa varietà) e di omonimia (lo stesso nome per indicare varietà diverse). Un ulteriore incremento della diversità è dovuto alla diffusione della specie dall’area di origine del Bacino del Mediterraneo alle diverse parti del mondo, soprattutto del subcontinente Indiano, America latina, Texas e California, dove il fico ha trovato idonee condizioni di crescita. 24


Il fico, selvatico e coltivato, ha quindi sviluppato un livello di diversità biologica e genetica molto ampio, ancora inesplorato e parzialmente descritto. Le attività di conservazione di tale biodiversità, sono principalmente orientate alla realizzazione di collezioni ex situ, strategia di base che prevede l’allestimento di campi dove gli alberi, mantenuti in vivo, possono essere valutati per i caratteri agronomici, morfologici e qualitativi della produzione nel medesimo ambiente. Purtroppo, la documentazione e le informazioni oggi disponibili sono spesso frammentarie e ci forniscono un quadro parziale della reale consistenza della biodiversità del fico nel mondo. Una prima azione coordinata in ambito Mediterraneo per la conservazione e valorizzazione delle risorse genetiche di specie da frutto minori, incluso il fico, è stata realizzata grazie al progetto comunitario “Conservazione, valutazione, utilizzazione collezione di specie da frutto minori”. Attraverso l’elaborazione di una lista descrittiva delle caratteristiche morfologiche della pianta e dei suoi organi, sono state descritte 432 accessioni provenienti dalle collezioni esistenti presso alcune istituzioni dell’Italia, della Spagna e Francia. Il secondo rapporto della FAO sullo Stato delle Risorse Genetiche Vegetali nel mondo per l’Agricoltura e l’Alimentazione, presentato nel 2010, riferisce che in Italia sono mantenute in conservazione 194 varietà di fico, quasi esclusivamente di origine italiana, di cui solo il 13% è duplicato. La Turchia, paese dove la coltura del fico è fortemente radicata, include nella collezione nazionale 250 accessioni. Inoltre, in numerosi paesi le collezioni sono soggette a forte rischio di perdita del materiale genetico in esse conservato, come in Marocco dove, per contro, è stata svolta un’attività di miglioramento genetico che ha portato alla costituzione di 6 nuove varietà di fico, con adattabilità del frutto all’essiccamento. Le indagini condotte in questo paese (Khadari et al., 2004) riferiscono sulla presenza di circa 200 varietà locali, diffuse in coltivazione. La letteratura scientifica riporta, poi, la presenza di un’ampia collezione in Spagna, localizzata a Badajoz in Estremadura, che comprende circa 350 accessioni, per la gran parte di origine locale (Giraldo et al., 2008). Un’importante e storica collezione, poi, è quella presente a Porquerolles, in Francia, dove sono presenti più di 800 alberi riconducibili a circa 400 accessioni (Khadari, 2012). Le attività di conservazione condotte negli Stati Uniti hanno portato alla realizzazione della collezione nazionale comprendente 367 accessioni di Ficus carica, provenienti da 17 paesi, alle quali si aggiungono 15 ibridi valutati per le caratteristiche morfologiche e agronomiche. Allo stato attuale, il perdurante disinteresse verso questa coltura mette in serio rischio di erosione genetica l’ampio patrimonio varietale del fico, risultato del percorso evolutivo che la specie ha seguito nel tempo e nelle diverse aree di coltura. Con la rivalutazione delle antiche varietà, l’uso delle pratiche 25


tradizionali di coltivazione e utilizzazione del frutto, ma anche con il supporto di nuove tecniche innovative, il fico potrebbe garantire una buona redditività delle risorse impiegate (Chessa e Barberis, 2003). Il recupero della biodiversità finalizzato alla reintroduzione delle varietà tradizionali locali, rafforzando il legame tra identità delle produzioni agricole e territorio, rappresenta oggi una delle possibili strategie di promozione del comparto. Molte varietà locali, rese disponibili per l’inserimento negli impianti, consentirebbero un ampliamento dell’offerta di prodotti per i consumatori più esigenti e attenti agli aspetti ambientali o salutistici. In sintesi, promuovere la tipicità dei prodotti e dei territori a cui essi sono legati significa rivitalizzare il settore agricolo, non solo nel suo ruolo meramente produttivo di beni, ma anche nelle funzioni di cura, tutela, protezione, conservazione e gestione del territorio rurale.

Chiesa di Santa Croce, essicazione 1940, fotovideo Pizzi 26


IL PROGETTO DELLA RETE MEDITERRANEA DELLE CITTà DEL FICO scheda tecnica

Vincenzo De Leonardis

Soggetti promotori Comune di San Michele Salentino (Brindisi); Comune di Carmignano (Prato); Provincia di Prato; Provincia di Brindisi; Camera di Commercio di Prato; Camera di Commercio di Brindisi . Tra i soggetti promotori, dopo le necessarie iniziative per estendere il partenariato, vi sono anche: Città, Camere di Commercio, Istituzioni locali dei Paesi dell’area del Mediterraneo previsti dai nuovi programmi comunitari di Cooperazione Territoriale Europea da imprese o associazioni rappresentative nel campo dell’Agricoltura, dell’Artigianato, del Commercio, del Turismo. Obiettivi del progetto Attualmente la produzione di fichi destinati alla essiccazione ed alla successiva farcitura con mandorle o altro è molto limitata e, rispetto a tanti altri prodotti tipici, potremmo dire residuale. Pur essendo molti apprezzati, i fichi secchi fanno registrare livelli di produzione molto limitati. Il Progetto Ficusnet si propone di riportare alla luce il profondo legame e i profondi significati del fico secco rispetto alla storia di diversi popoli dal punto di vista dell’alimentazione e ad intercettare l’interesse di fasce sempre più ampie di cittadini che, nel recupero delle tradizioni dei popoli, del loro rapporto con la natura e i relativi prodotti, hanno costruito le motivazioni di nuovi flussi turistici. Sul piano tecnico il progetto si propone i seguenti obiettivi: a) sviluppare e rendere adeguata la rete telematica che colleghi non solo le città e i territori coinvolti nel progetto, ma che offra anche risposte adeguate alla crescente domanda di acquisizione di questi prodotti, di partecipazione agli eventi che si svilupperanno nel tempo; b) recuperare, valorizzare, accrescere la produzione di fichi nei vari territori anche attraverso progetti di intervento incentivato di salvaguardia delle piante esistenti o di reimpianto col pieno coinvolgimento di imprese agricole o di associazioni di categoria; c) risensibilizzare il mondo della produzione artigianale per recuperare le tradizionali produzioni di contenitori per il confezionamento dei fichi secchi (cestini, canestri, panieri, contenitori di ceramica ecc.); d) costruire nuovi rapporti con tutte le imprese del settore turistico e commerciale come punti di riferimento per la diffusione di prodotti tipici. 27


Messa in opera del progetto Il Progetto, dopo aver ultimato a fase di individuazione dei partners, ha avviato la fase di attuazione attraverso una serie di incontri nelle varie città per mettere a punto uno studio delle realtà coinvolte relativo alle tradizioni, agli usi e costumi, alle caratteristiche tradizionali della produzione e del confezionamento dei fichi secchi. In ogni località saranno realizzati, in locali appositi, mostre ed esposizioni del prodotto e delle confezioni provenienti da tutti i territori coinvolti. Nella fase conclusiva del progetto saranno prodotte delle guide e delle pubblicazioni in due lingue: lingua inglese e lingua dei paesi interessati contenenti brevi cenni sulle tradizioni popolari con particolare riferimento a usi e costumi alimentari. Saranno inoltre prodotte delle pubblicazioni relative agli eventi organizzati di volta in volta nelle varie città. Integrazione e complementarietà con altri programmi Il Progetto Ficusnet si pone certamente su un piano di integrazione e complementarietà rispetto ad altri progetti in corso, finanziati con fondi dei programmi comunitari, nazionali e regionali di Cooperazione Territoriale Europea, che perseguono l’obiettivo di valorizzare i prodotti tipici locali, preservando tecniche e modalità di produzione, di confezionamento e di commercializzazione proprie della tradizione dei singoli paesi. Esiti previsti La creazione della Rete mediterranea delle città del fico attraverso il progetto Ficus-net, superata la fase di iniziative interessanti e qualificate ma circoscritte a due ambiti territoriali e con quantitativi di prodotto molto limitati, rende concreta l’aspettativa dei seguenti risultati: 1) realizzazione di rapporti e scambi culturali duraturi tra diverse realtà e diversi popoli contribuendo alla diffusione delle azioni positive di costruzione della nuova Europa allargata; 2) crescita significativa della produzione dei fichi e di tutte le attività ad essa connesse (Agricoltura, Artigianato, Turismo, Commercio) con la creazione di opportunità, per le imprese, già esistenti o nuove, di affacciarsi sui mercati internazionali; 3) crescita delle opportunità per la crescita dei flussi turistici particolarmente sensibili al recupero del rapporto con la natura e con i prodotti tradizionali e tipici; 4) significative ricadute occupazionali anche trasversali alle diverse opportunità offerte dal progetto nei vari campi.

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Atessa e ‘li caracine’ un legame antico Lucia di Cintio

Acquachiara Atessa vantava, sino a non molto tempo fa, una lunga tradizione nella produzione e commercializzazione dei fichi essiccati; quanto antico sia questo legame, lo si è scoperto solo di recente, grazie ad un ritrovamento archeologico di primaria importanza. Durante l’estate 2013 ho avuto la fortuna e l’onore di diventare amica della Prof.ssa Susan Kane, archeologa docente presso l’Oberlin College in Usa, la quale, mentre mi mostrava un ritrovamento importantissimo sotto il profilo culturale e scientifico (di cui tra breve darò conto), mi parlò di una scoperta di un frutto di fico secco risalente all’epoca romana, raccontandomi di come nel 2009, diversi anni or sono dunque, Vincenzo Menna fosse, per primo, venuto a conoscenza e avesse colto l’importanza del ritrovamento. Difatti lo stesso Vincenzo si era attivato per far sottoporre il resto archeologico ad analisi, i cui risultati sono molto interessanti ed innovativi. Nonostante fossero trascorsi cinque anni, tuttavia l’importante scoperta era passata sotto silenzio; ed è stata per questa ragione che Susan mi ha invitato a divulgare la novità scientifica per iscritto. Non potevo non accettare. A partire dall’anno 2005, sono stati condotti da un’équipe, ‘Sangro Valley Project’, di studiosi e volontari, presieduta dalla Prof.ssa Susan Kane3 dal Prof. Edward Bispham (docente ad Oxford, UK) degli scavi in località Acquachiara, nel Comune di Atessa. Gli scavi hanno portato alla luce resti di antichi insediamenti sannitici, tombe e abitazioni, proprio nel territorio atessano. Gli scavi confermano quanto le numerose fonti storiche ci hanno trasmesso, ossia che il Sannio ricomprendeva l’alta valle del Sangro. Proprio grazie all’archeologia e agli scritti antichi, sappiamo che i nostri avi sanniti conoscevano e impiegavano il fico. Del legno di fico erano modellati gli scudi di questi guerrieri, in quanto legno poco scalfibile, compatto e duro. Ma i Sanniti erano la risultanza dell’unione di vari aggregati, clan, tra cui, quello che abitava le nostre terre, i Carracini, ossia proprio la denominazione dialettale dei fichi secchi (come si dirà meglio avanti). Purtroppo ad oggi, i ritrovamenti non ci consentono di andare oltre nelle ipotesi. 3 Che si ringrazia per il contributo apportato, inestimabile.

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Infatti, proprio accanto all’insediamento sannitico è stata trovata una villa romana con terme annesse. Le operazioni archeologiche hanno condotto ad un risultato strabiliante ed inaspettato, ossia al ritrovamento di un’antica costruzione. La raffinatezza con cui i lavori risultano eseguiti e la loro complessità lasciano credere agli esperti che si tratti di un’antica fattoria, in grado di essere autosufficiente, ma ove si producevano, forse, beni anche ad uso commerciale, risalente almeno al I secolo a. C.

Piantina raffigurante il ritrovamento di Acquachiara con segnatura della fossa in cui è stato ritrovato il fico. Foto tratta da C.P. Shelton, Food, Economy, and Identity in the Sangro River Valley, Abruzzo, Italy 650 B.C.-A.D. 150, unpublished Ph.D. dissertation, Boston, p. 191. Accanto ai resti sannitici, come anticipato, in Acquachiara di Atessa è stata rinvenuta quella che gli antichi Romani chiamavano villa, ossia un complesso ubicato in campagna, ma dotato, allo stesso tempo, di ogni comodità tipica della casa annessa. 30


Benché gli scavi siano in una fase iniziale, molti indizi e prove conducono all’ipotesi per cui, oltre alla villa, nascosto dal tempo, vi sia un intero villaggio rurale, vicus4, che si estenderebbe nel territorio circostante. La scoperta, che il mondo ci invidia, rivela varie stratificazioni murarie, le quali coprono un grande intervallo storico, dal I a.C. al VII sec. d.C.5, segno del resistere e dell’espandersi, non solo del complesso romano, ma anche della vita che in esso si svolgeva. In particolare, v’è un aspetto di notevole interesse per noi, consistente nel ritrovamento di alcuni resti di frutta carbonizzata, tra cui uno di fico secco. I frammenti sono stati analizzati a Boston dalla dott.ssa China Shelton6, con l’ausilio delle più avanzate tecnologie. Le indagini hanno rivelato la presenza oltre che di un fico secco antichissimo e di semi dello stesso (oltre che la presenza di una prugna e di un grappolo di uva). Tale frutto è stato rinvenuto nel basamento della costruzione, corrispondente proprio alla sua parte più antica, ascrivibile al I sec. a. C. 4 Il fatto che la villa romana sia stata trovata tra resti sannitici, a mio avviso, può suffragare l’ipotesi per cui i Sanniti non sarebbero stati assorbiti del tutto dai Romani, come vuole la comune storiografia, anche perché le fonti su cui essa si basa provengono per lo più da Tito Livio (Ab Urbe còndita) che aveva, come noto, una prospettiva romanocentrica. Anche di stampo retorico deve essere la pulizia etnica che si era proposto Silla per punire i Sanniti della loro ribellione ai Romani. Pur vinti, a mio parere, i Sanniti avrebbero coesistito con i Romani e avrebbero mantenuto una loro autonomia, tanto che anche sotto il Principato la regione sannitica continuò ad esistere, anche se frazionata dall’imperatore Augusto. Ciò combacia con il modo di gestire le terre sottomesse da parte dei Romani, che lasciavano una certa libertà ai popoli vinti, specie se particolarmente ostili, evitando di esasperarli e condurli a delle rivolte, come nel caso dei Sanniti. Ad esempio, non sono rari i casi di contratti tra privati in lingua e regole del diritto locale (osco) e non romano (mi permetto, sull’argomento, di rinviare al mio L’Interpretatio Visigothorum al Codex Theodosianus, Milano, edizioni universitarie, 2013). Ma, vi è un dato particolarmente significativo che si trova in una legge emanata dagli imperatori romani Velentiniano e Valente nel 364 d.C., che parla in quell’epoca storica, del Samnium come provincia romana, Exceptis senatoribus atque honoratis, sed et his, qui provincias administrant, Veteranis etiam, qui Sub armis militia functi sunt, et decurionibus ceteris omnibus per picenum atque flaminiam nec non etiam Apuliam et Calabriam, Brittios et Lucaniam atque Samnium habendi equi vel equae copiam praeclusam esse sancimus. ii vero, qui minime animos ab huius modi usurpatione deflectunt, abactorum supplicio teneantur. La norma impone un divieto quanto meno curioso; poiché era molto diffuso l’abigeato nell’Italia centro meridionale, l’imperatore, - eccezion fatta per alcune regioni e categorie di persone elencante, senatori, amministratori, veterani, decurioni e simili-, proibisce agli abitanti di possedere cavalli o cavalle. Tra queste province, ossia porzioni di impero con proprio centri amministrativi, giurisdizionali, commerciali, è menzionato il Sannio, che sarebbe stata istituita solo nel 346 d. C. dopo un terremoto. Quindi, se i Sanniti identificavano ancora una provincia, ciò significa che non erano estinti e non erano stati romanizzati del tutto. Sarà solo con i Longobardi e con il Medioevo che i Sanniti spariranno dalla storia. 5 I risultati del ritrovamento sono pubblicati, in www.Sangro.org, Quaderni di Archeologia d’Abruzzo. Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, I, 2009, p. 245 ss. 6 Sia le metodiche impiegate sia i risultati dell’accurata analisi sono pubblicati da C.P. Shelton, Food, Economy, and Identity in the Sangro River Valley, Abruzzo, Italy 650 B.C.-A.D. 150, unpublished Ph.D. dissertation, Boston, 2009.

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Reperto del fossile di fico al microscopio tratta da C.P. Shelton, Food, Economy, and Identity in the Sangro River Valley, Abruzzo, Italy 650 B.C.-A.D. 150, unpublished Ph.D. dissertation, p. 191. Inoltre, altri esami scientifici hanno riscontrato, all’interno del nostro frammento di fico, un’alta densità di carbone di legna bruciato. Alla luce di tali dati, gli esperti americani credono che il fico sia stato carbonizzato, così come il resto della frutta ivi rinvenuta. Un ulteriore fattore molto importante per la ricostruzione della storia de li ‘caracine’ nel nostro territorio è rappresentato dalla combinazione di due elementi sopra ricordati, ossia l’alta densità del carbone di legna unitamente al buono stato di conservazione della frutta7. Questa concomitanza ha suggerito l’ipotesi che la combustione del fico secco sia avvenuta in situ in una piccola fossa con mancata rideposizione dello stesso. Gli scienziati hanno evidenziato che tutti i dati empirici (presenza del fico, dei semi risalenti al I sec. a. C., essiccazione e carbonizzazione in fossa) sono suscettibili di varie interpretazioni: una prima di tipo sacro-religiosa, legata al mito della fondazione di Roma. Come si vedrà avanti, infatti, la leggenda vuole che Romolo e Remo fossero stati allattati dalla lupa sotto un fico nei pressi del Palatino8. Per rievocare tale episodio, ritenuto benaugurante, i Romani solevano bruciare un fico con altri frutti sacri, tra cui l’uva, a ogni nuova fondazione di città. Dal momento che la frutta, fico e uva, come detto, è stata rinvenuta 7 Inoltre, attraverso l’applicazione di una metodica comparata, è stato prospettato come sia altamente probabile che il fico, prima della sua carbonizzazione, fosse stato sottoposto ad essiccazione, nel I sec. a.C., datazione presunta ottenuta con l’AMS radiocarbon, dunque proprio l’epoca a cui risalirebbe il primo nucleo della villa. 8 Sull’episodio si veda avanti nella parte successiva.

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proprio all’interno dei basamenti della fattoria, allora si potrebbe ritenere che il fico sia stato bruciato nel corso del rito propiziatorio. Nonostante il fascino dell’idea, è stata, però, affacciata un’ulteriore ipotesi più prosaica, ossia che la carbonizzazione fosse stata accidentale. In altri termini, sarebbe avvenuta durante un processo usuale nell’antica Roma, attraverso cui i Romani solevano essiccare i fichi, tramite la loro esposizione al sole, o tramite calore artificiale. Può darsi che qualcuno, alle prese con l’essiccazione per induzione, avesse lasciato il frutto troppo esposto al calore prodotto dalla combustione di legna e il fico si fosse banalmente bruciato9. Questa ipotesi sembra la più attendibile, in quanto gli esami rilevano l’alta possibilità che il fico, prima di essere bruciato, fosse già secco. La presenza del fico essiccato è rivelatrice, perciò, dell’antichità della tradizione locale di essiccare i fichi. Invero, la peculiarità della scoperta può essere prova anche di altro. Si deve considerare che Acquachiara è ubicata in territorio montano, non gode di un clima molto favorevole per la maturazione dei fichi, a differenza delle zone meno interne del territorio di Atessa più calde. Quindi è probabile, a mio avviso, che il fico fosse giunto lì già essiccato da un luogo di produzione diverso da quello ove è stato trovato. L’idea affacciata non si basa solo sull’osservazione climatica, ma su diversi altri parametri. Si è detto che Acquachiara risulta essere un antico insediamento romano o romanizzato10; allora si può dedurre, in modo logico, che il contesto di riferimento per capire come ed in che misura i fichi secchi fossero diffusi nel nostro territorio, è quello dell’antica Roma. In tal senso un primo dato, approfondito meglio in seguito, è che i fichi nel periodo storico che a noi interessa erano senz’altro coltivati ed essiccati ed erano oggetto di commerci anche marittimi e fluviali, dopo che i frutti erano posti, come dicono le fonti, in orci di terracotta. Queste considerazioni generali trovano riscontro a livello specifico proprio ad Acquachiara. Infatti, nel sito sono stati trovati ulteriori resti quali prove proprio di un commercio marittimo e, a mio avviso, anche fluviale (lungo il Sangro un tempo navigabile). In particolare sono stati rinvenuti, molto vicino alla frutta carbonizzata, i dolia, ossia vasi di terracotta chiusi, quindi atti alla conservazione delle merci. E poiché su alcuni orci si può leggere una numerazione indicante la loro capacità, si può pensare che essi servissero per il commercio da e per la fattoria. Inoltre, che il commercio avvenisse via mare può essere dedotto dalla presenza di alcuni bassorilievi su terracotta raffiguranti delfini. 9 Tutte le ipotesi sono riportate, con dovizia, da Shelton, Food, cit., passim. 10 Infatti, gli studi non sono stati ancora in grado di rivelarci se quello di Acquachiara facesse parte di un municipio o colonia romana, oppure fosse un territorio sannitico controllato, assorbito dai Romani. Per queste differenze si veda U. Laffi, Colonie e municipi nello Stato romano, Roma, 2007.

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C.P. Shelton, Food, Economy, and Identity in the Sangro River Valley, Abruzzo, Italy 650 B.C.- A.D. 150, cit. A questo punto ci si potrebbe chiedere quale sia il ‘filo rosso’ che collega il fossile di fico con il commercio all’interno dell’antica abitazione: la risposta è proprio, credo, nell’essiccazione precedente la combustione dello stesso. Intersecando i dati ora menzionati, – villa romana, fichi essiccati prima della carbonizzazione, vasi e oggetti atti al commercio – , si potrebbe pensare ad un mercato di fichi secchi nell’attuale zona di Acquachiara di Atessa risalente ad epoca romana e, ad avviso di chi scrive, si potrebbe ipotizzare ulteriormente che il commercio avvenisse via fiume, il Sangro11, e poi eventualmente via mare. Aldilà delle modalità con cui il fico sia arrivato ad Acquachiara, in definitiva, si può affermare come la scoperta archeologica dimostri che un semplice frutto abbia rivestito un grande valore nell’economia, ed ora, anche nella conoscenza della storia della nostra terra romanizzata. Il frutto di fico essiccato, il ‘carracine’, può essere valutato, in tale ottica, dunque un fattore conoscitivo per ricostruire la nostra storia. Questo cibo risulta un elemento identitario, un veicolo cognitivo.

Manoscritto di T. Bartoletti del suo vocabolario atessano-italiano, ove si legge l’etimo di ‘caracin’. Su gentile concessione dell’Archivio comunale di Atessa. 11Per un approfondimento sulla navigazione fluviale nell’antica Roma cfr. F.M. De Robertis, La responsabilità contrattuale nel diritto romano, Bari, 1994, p. 48 ss.

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‘Li caracine’ a Roma

1. Origine del nome, un’ipotesi ‘atessana’. Come si è accennato nell’Introduzione, il territorio in cui è posta Atessa e le zone circostanti, è stato abitato sin dall’antichità più remota. Una testimonianza di prim’ordine, in tal senso, è costituita proprio dai ritrovamenti di Acquachiara e della frutta essiccata. Gli scavi hanno dimostrato che il fico risale a un’epoca in cui quel luogo era romanizzato, abitato da cittadini di Roma, che ne seguivano le leggi, gli usi e costumi, anche per quanto riguarda la produzione, il consumo dei fichi. Infatti, si è visto che tutto del ritrovamento evoca Roma: tecniche e materiali costruttivi, le suppellettili, gli arredi e le attività che si svolgevano in quell’area, nonché il fico carbonizzato, ulteriore testimonianza. Le sue caratteristiche rispondono alle modalità di utilizzo che ne facevano i Romani, i quali essiccavano o arrostivano i frutti, oggetto di ampio consumo alimentare, nonché di uso commerciale. Dunque, si può capire quale sia stato il legame tra il territorio di Atessa e i fichi nei tempi antichi, se si conosce la relazione più ampia tra Roma e i fichi. Così, varrà la pena ricordare qualcuna delle numerosissime notizie in merito, iniziando dalla denominazione con cui gli atessani indicano i fichi secchi, ossia ‘caracine’. Ad avanzare un’ipotesi originale, sulla derivazione del nome, è proprio uno studioso atessano, l’abate Tommaso Bartoletti autore di un dizionario italiano-atessano, pubblicato nel 180612, ove alla voce «carracin» scrive di un’origine araba del nome che vorrebbe dire ‘secco’, ‘essiccato’. Lo stesso autore, però, altrove, descrivendo i commerci di Atessa, sostiene l’ipotesi per cui il termine caracine (quindi scritto in modo un po’ diverso rispetto al precedente ‘carracin’) avrebbe avuto “la sua origine dal latino carica, carices, fico secco”. Questa ultima ipotesi si allinea a quella comune13, secondo cui, l’espressione atessana, ‘caracine’ deriverebbe dal latino carices, ossia ‘proveniente dalla Caria’. La spiegazione della metonimia va ricercata nel fatto che, pur essendo un fenomeno naturale, l’essiccazione, affinché il frutto di fico sia indenne da microrganismi che lo deteriorerebbero, richiede una certa abilità. 12 T. Bartoletti, Memorie di Atessa, 1806, vol. I, pars I, p. 232. 13 Per tale derivazione si veda F. Giustizia, Homines de Carapellas: storia e archeologia della baronia di Carapelle, L’Aquila, 1988, p. 26.

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Proprio la tecnica adatta sarebbe stata appresa nella Caria una regione sottomessa dai Romani. I suoi fichi essiccati, detti carices, (aggettivo che significa appunto ‘della Caria’), erano così pregiati che l’uso del termine, nel tempo, avrebbe indicato di per sé i fichi secchi. Emblematico, in tal senso, è l’episodio ricordato da vari autori, tra cui Cicerone14, Plinio15. Quindi carices e da qui caracine (non si può escludere, per ricordare quanto sopra detto circa l’etimo, che il termine sia penetrato anche nella lingua araba). A mio modesto avviso, tuttavia occorre notare come la denominazione caracine sia tipica, anzi esclusiva dell’Abruzzo; se derivasse dal latino è molto probabile che il suo uso, magari con varianti, apparterrebbe ad un’area più vasta, come di solito accade. In effetti, si potrebbe ritenere che tale modo di chiamare i fichi secchi non derivi dai carices, bensì dai Carracini16, ossia una delle quattro tribù dell’antica stirpe dei Sanniti17, che abitavano una zona in cui, come si vedrà anche meglio avanti, si faceva ampio uso di fichi locali. Inoltre, a conforto di tale ipotesi, mi pare che possa essere evidenziata anche la maggiore similarità dei nomi, che sono persino sovrapponibili, identici ‘carracini’ appunto. In tal senso, vale la pena ricordare che, in modo analogo, Plinio18 chiamava una qualità pregiata di fichi proprio ‘Marrucini’ in riferimento alla popolazione presso la quale erano coltivati, popolo che come si sa, abitava il nostro attuale Abruzzo vicino dei Carracini. Oltre all’etimo, le pagine seguenti ci ricordano come quasi tutto il sapere, che attiene ai fichi secchi, sia passato indenne nei secoli e come dagli antichi Romani sia giunto sino a noi. Infatti, nell’antica Respublica, il fico non era solo un semplice frutto, ma un simbolo sacro, una pregiata merce di scambio, un nutrimento completo, un veicolo culturale.

14 Cic., De Divinatione, 2.84, Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens “Cauneýs” clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum, caveret ne iret; non fuisse periturum, si omini paruisset. Quae si suscipiamus, pedis offensio nobis et abruptio corrigiae et sternumenta erunt observanda. Un venditore di fichi secchi, proveniente da una città della Caria avrebbe gridato, per vendere la propria merce, “Caricas Kauneas”, ma sarebbe stato inteso dai soldati che avrebbero capito: “Cave ne eas”, cioè “attenti a quelle”, un presagio a cui Crasso non prestò la dovuta attenzione, intraprendendo un’azione militare del tutto infondata e scellerata. 15 Nella sua Naturalis Historia, 15.83, nel ricordare lo stesso episodio, menziona l’aggettivo caricas in senso metaforico per indicare i fichi secchi. L’uso nell’antica Roma di denominare i fichi secchi carices è testimoniato anche da Apicio (come in 7.9, Polyteles: Pernam, ubi eam cum caricis plurimis elixaveris). 16 S. Govi, L’Universo, 57, Roma, 1977, p. 864, dava per certa questa specifica etimologia. 17 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 3.106. 18 Su cui si veda avanti nel testo.

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Fichi Reali di Atessa, foto di Marco Ramundo 2. I fichi come simbolo. Prima che a Roma, il frutto del fico era diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo e in Asia Minore, colorandosi di un alone di sacralità e magia tipiche del mondo romano, greco e orientale in genere, che ne denotano l’importanza. Difatti, già secondo una leggenda induista, il dio Vishnu era nato sotto un fico. Esso rappresentava anche l’asse del mondo, che collega la terra al cielo; coltivato mille anni prima del grano, anche i sarcofagi egizi erano realizzati con legno di fico, perché potente talismano che aiutava le anime nella metempsicosi, ossia la transmigrazione. Il suo potere esoterico si estrinsecava anche attraverso la sicomazia, un metodo di divinazione attraverso le foglie di fico; dalle foglie del fico gli antichi sacerdoti visionari prevedevano il futuro. Nell’antico Testamento è considerato simbolo di fertilità, essendo il gran numero di semi associato alla capacità riproduttiva. Le fonti ci parlano dei fichi diffusi presso i popoli etruschi e greci, da cui i Romani avrebbero appreso l’arte della coltivazione e della essiccazione19. Così secondo i Greci, Dioniso si sarebbe innamorato di una ninfa, la quale si sarebbe trasformata in fico. Il nome dell’amata era Sykeia e Bacco avrebbe indossato ghirlande di fichi per ricordarla. Proprio dal nome dell’amata, Sykeia, sarebbe derivato quello del fico Sykos. 19 Per questa parte si rinvia a AA. VV., I fichi secchi di Carmignano, Prato, 2008; AA. VV., Fichi di Puglia, Lecce, 2011, contenenti notizie dettagliate in merito.

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Le leggende legate a Dioniso20 sono più di una; tra queste, varrà la pena di ricordare anche la seguente: secondo Sosibio Lacone, poiché i Lacedemoni adoravano Bacco Sycito, avrebbero, allora, conferito lo stesso nome Sykos al frutto dell’albero che gli era sacro. Oltre alla sacralità, secondo gli antichi scrittori, la prosperità dei fichi era associata alla democrazia, rivestendo un senso politico; per conseguenza, in Atene, ove era sviluppata una forma democratica di governo, i fichi crescevano rigogliosi, mentre a Sparta i fichi erano piccoli e non così buoni, segno del mal governo. Per gli Ateniesi il fico era il primo alimento, di buon auspicio, così importante, che sui loro scudi è stata trovata l’incisione del fico. Anzi, si narra che gli ateniesi fossero tanto ghiotti di fichi che, pur di ottenerli, rubassero, calunniassero; proprio da tale condotta sarebbe derivato il termine ‘sicofante’, calunniatore. Anche nelle cerimonie sacre spesso ci si inghirlandava di fichi secchi o freschi in onore degli dei. Ad esempio, le corofore portavano fichi secchi al collo, in onore di Dioniso. Gli antichi Romani, che, si sa, trassero dai Greci gran parte della loro cultura, al pari attribuirono a Bacco, l’equivalente romano del greco Dioniso21, la nascita del primo albero di fico Sykos. Un’altra leggenda, riportata da Ferenico, vuole che il fico derivasse da un gigante di nome Sicheo che, inseguito da Giove, sarebbe stato trasformato in fico da Rea. Anche il termine ‘trionfo’, secondo l’antico scrittore romano Varrone, deriverebbe da trya, ossia le foglie di fico, che intrecciate, per la prima volta, avrebbero formato la corona di Bacco vincitore, portato in trionfo da giovani festanti in seguito a un’importante vittoria22. Inoltre, sempre al pari degli antichi Greci, anche i Romani consideravano i fichi di buon auspicio e il primo gennaio di ogni anno offrivano i fichi secchi come augurio di buon anno. Fichi erano donati anche a Mercurio dell’Eloquenza, ad indicare la dolcezza della verità, temperata dalla prudenza, il cui simbolo erano le mele, parimenti offerte al dio. Non solo il fico, ma anche la sua coltivazione, si colorerebbero di origini mitiche; come narra Pausania23 (1.37, 2-4 ), fu presso il Cefiso che il fico fu 20 A proposito, si può ricordare che, nella mitologia greca, una stessa divinità poteva rivestire diversi aspetti di sacralità e mutare il nome in relazione ad essi. Così a Dioniso erano sacri i frutti dell’uva, del melograno e del fico. 21 Anche in questo caso le leggende sull’origine degli dei sono diverse; secondo una, l’appellativo di Dioniso sarebbe stato Kradiaios che significa, tra l’altro, fatto di legno di fico, in relazione a una trasformazione mitica subita dal dio greco. 22 La notizia ci è riportata da Var., De lingua latina, lib. 5: Sic triumphare appellatur quod cum imperatore milites redeuntes clamitant per urbem in Capitolium eunt io triumphe io, idque a triumphe, greco liberi patris cognomento potest dicutm esse. 23 λλάδος περιήγησις (Helládos Periēgēsis), 1.37, 2-4.

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coltivato per la prima volta e la coltivazione fu poi importata a Roma, anche tramite tecniche avanzate di innesto. La coltivazione dei nostri frutti era oggetto di grande interesse per gli antichi Romani; a tal proposito basti ricordare il celeberrimo esempio di Columella24 che trattava già di molte tipologie e modi di coltivazione del fico, ottenendo nuove varietà grazie a svariati tecniche di innesto come quelli a fessura, a scalfitto. Gli episodi ora ricordati, pur brevemente, possono tuttavia dare l’idea dell’importanza del fico, che può essere colta appieno, se si pensa che è proprio il nostro frutto ad essere legato alla fondazione mitica di Roma, ossia la città attorno a cui ruotò il mondo allora conosciuto per molti secoli25. Non di meno, oltre la sacralità, il fico ruminale fungeva da punto di riferimento nella toponomastica dell’Urbe. Infatti, tale albero era situato nel comitio dove c’era il lupercale, ossia sul Palatino definito da Sesto Rufo26 l’ottava regione di Roma. Tacito, nei suoi Annales27, narra come il fico ruminale esistesse alla sua epoca, seccatosi appunto nel 58 d.C. Il legame tra il fico e la città di Roma, intesa come complesso urbano, trova una continuità, nel senso che dal fico ruminale sarebbe nato il fico Navio, altro mito attraverso il quale i cives volevano esaltare la grandezza della Respublica: un germoglio di fico ruminale, secondo il racconto, sarebbe attecchito e sarebbe stato piantato da Tarquinio Prisco28, per ricordare l’impresa di Navio che avrebbe tagliato una roccia con una lama. Tale fico fu detto appunto Navio in suo onore e gli aruspici legarono la vita dell’albero alle sorti di Roma. I miti e le leggende in Roma, sin qui ricordati, rivestivano un’importanza complessa, poiché servivano a veicolare e instillare in Roma determinati valori, e il fatto che alcuni, molti, di essi fossero legati al fico, ci rappresenta la sua grande considerazione nel tempo. 24 De re rustica, 6.11; 6. 29. 25 Entrando in maggiori dettagli, possiamo ricordare quanto narrato da Festo (Vit.:il fico ruminale è dove è il lupercale. .. Ficus ruminalis in comitio ubi est lupercal. …) Servio ( Ad ten., 8.90: il fico ruminale si trova nel luogo presso cui Romolo e Remo furono nutriti dove ora è il lupercale nel circo, luogo lambito dalle sponde del Tevere…Ficus ruminalis ad quem eiecti sunt Romulus et Remus quae fui tubi nunc est lupercale in circo, hac enim lababatur Tyberis). Anche Livio, (Liv., Ab Urbe condita, I.53; I.5.1), Plutarco (Βίοι Παράλληλοι, 1.1, Romolo, 4) e Tacito scrivono che i due gemelli, Romolo e Remo, trasportati dalle acque del Tevere, furono allattati dalla lupa all’ombra di un grande fico, detto fico ruminale. Proprio il significato dell’aggettivo ‘ruminale’ indica l’importanza di questo albero da frutto. L’espressione deriverebbe da ruma, seno (con cui la lupa avrebbe allattato i gemelli), o, in lingua italica, lupa, identificativa, a sua volta, di Roma. 26 Sesto Rufo, in De Regionibus Urbis Romae, segue la divisione in quattordici regioni, dette rioni, operata da Augusto. 27 13.58. 28 Festo: Intra id spatium loci, qui contenutus sacro sit…

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Sotto certi aspetti, nell’antica Roma, il fico era considerato anche il simbolo dell’emancipazione femminile, legato a un’altra leggenda, secondo cui dei popoli confinanti avrebbero imposto con le armi ai Romani la consegna di matrone e fanciulle. Una donna, Filoti, suggerì di consegnare ella stessa e altre schiave vestite da libere. Nel campo nemico, salita nel cuore della notte su un caprifico, la ragazza diede ai Romani un segnale convenuto in precedenza per l’inizio della vendetta, che si consumò con la vittoria romana. Da allora, ogni anno era ricordato l’evento, esattamente il sette di luglio, giorno in cui le donne e le loro ancelle erano libere di compiere gesti altrimenti proibiti29. E non serve ricordare l’episodio tanto noto dei fichi di Catone30: quando ebbe a mostrare in Senato i fichi provenienti da Cartagine, freschi e intatti, a dimostrare la facilità con cui i cartaginesi sarebbero potuti arrivare a Roma per sottometterla, Catone sentenziò, come era solito fare, alla fine di ogni suo discorso contro Cartagine: “Carathago delenda”. 3. I fichi e il tempo. Nell’antichità persino il trascorrere del tempo era segnato attraverso l’osservazione dei fenomeni naturali ciclici: l’alba, il tramonto, l’osservazione degli astri. L’avvicendarsi delle stagioni era segnato dalla nascita e crescita della fauna e flora; in tale contesto il fico è richiamato per indicare la fine dell’estate. Più volte, infatti, per indicare la seconda metà di agosto, si usava dire “l’inizio della stagione dei fichi”. Così ne parlano Catone31 ed Orazio32. 29 In questo modo veniva, così, simboleggiata una sorta di parificazione tra uomini e donne; nella data, detta Nonae Caprotinae, schiave e matrone offrivano a Giunone il latte di fico selvatico sotto l’ombra dell’albero, in ricordo dell’antica impresa (Macrobio, Saturnalia, 3.38, 2,36, la definisce ancillarum festum, Plutarco ci descrive la ricorrenza divisa in: popolifugio, caprinone, vitulatio). Di qui il nome che rimane a tutt’oggi per denominare il fico selvatico, ossia caprifico. 30 (Plinio, Naturalis Historia, 25, 74-75: Sed a Catone appellata iam tum Africana admonet Africae ad ingens docimentum usi eo pomo. Namque perniciali odio Carthaginis flagrans nepotumque securitatis anxius, cum clamaret omni senatu Carthaginem delendam, adtulit quodam die in curiam praecocem ex ea provincia ficum ostendensque patribus: Interrogo vos, inquit, quando hanc pomum demptam putetis ex arbore. 75 Cum inter omnes recentem esse constaret: Atqui tertium, inquit, ante diem scitote decerptam Carthagine. Tam prope a moeris habemus hostem! statimque sumptum est Punicum tertium bellum, quo Carthago deleta est, quamquam Catone anno sequente rapto. Quid primum in eo miremur, curam ingeni an occasionem fortuitam, celeritatemque cursus an vehementiam viri? ) 31 De agri colt., 48. 5 ss. 32 In una lettera, Epistula VII ad Mecenatem, all’amico Mecenate affermava: Maecenas, veniam, dum ficus prima calorque …. Eppure se tu, Mecenate, mi vuoi in forze e in buona salute, mi devi concedere venia, come quando sono ammalato, ora che io temo di diventarlo; finché almeno e’ il tempo dei fichi maturi, …

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Fine estate e fruttificazione dei fichi sono collegati anche in una leggenda riferita da Pausania33, di cui in parte si è detto sopra, secondo cui Demetra, accolta per la notte dal re Fitalo, dopo aver vagato per la piana di Eleusi, alla ricerca della figlia, al momento di ripartire avrebbe donato al suo ospite “il frutto della tarda estate che il genere umano chiama sacro fico”. 4. I fichi come merce di scambio. I fichi erano oggetto di commercio e di scambi anche tra parti distanti e diverse dell’impero romano, non freschi, bensì essiccati al sole o al forno, conservati in giare. I loro valore economico era tale che su alcune antiche monete è inciso il fico. Per di più, il fico costituiva un’unità di misura di scambio: un talento di fichi corrispondeva a tre oboli. 5. Piantagione e conservazione dei fichi presso gli antichi Romani. L’albero di fico e i suoi frutti, essendo rivestiti di un valore sacrale simbolico, ha attirato l’attenzione di molti autori del passato, tuttavia, per quanto riguarda gli aspetti che si potrebbero definire tecnici, gli agronomi dell’antichità romana maggiormente ricordati anche per la coltivazione del nostro frutto sono: Catone, Varrone, Columella Palladio, detti proprio i quattro agronomi romani. Dalle loro opere, emerge una conoscenza approfondita, simile a quella odierna, sia delle varietà di fico, delle loro proprietà, dei vari usi alimentari, sia dei metodi di conservazione. È interessante, inoltre, ricordare come i fichi – quello di Acquachiara non fa eccezione – fossero coltivati ed essiccati. Infatti, come detto, il territorio di Acquachiara non è ideale per i fichi, trovandosi nella parte più interna ed alta del comune di Atessa. Appare probabile, perciò, che il fico ivi rinvenuto fosse stato portato già essiccato; ciò può far immaginare come un alimento del genere, che si prestava alla lunga conservazione, fosse grandemente stimato per quei tempi, in cui proprio la lunga conservazione dei cibi costituiva una vera e propria tecnica scientifica indotta dalla necessità. L’essiccazione presentava, però, dei problemi: i fichi, infatti, durante la loro esposizione al sole possono deteriorarsi o produrre muffe o altri organismi nocivi per la salute, per prevenire i quali i Romani impiegavano delle tecniche che possono usate anche oggi, essendo a basso costo e a basso impatto ambientale. Gli antichi Romani, come già accennato in merito a Columella, conoscevano svariati metodi di coltivazione e di ibridizzazione della varietà, quali gli innesti, la piantagione per talea o propagazione, tecniche ancor oggi valide. 33 Yλλάδος περιήγησις, 1.37, 2-4.

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Soltanto per apportare qualche ulteriore esempio, si può ricordare che Catone già descriveva vari tipi di riproduzione dei fichi34, e nel suo De re rustica scriveva che i fichi potevano essere innestati, rimuovendo con un coltello la corteccia che contenesse una gemma di un qualsiasi tipo di fico35. Columella, ancora, consiglia di impiantare talee come Catone, distinguendo però, i tipi di clima e di terreno. Così, nel capitolo XXI del suo De agricoltura, consiglia di non piantare il fico durante il freddo, così scriveva il nostro agronomo36. Qualche secolo più tardi Palladio, nel IV secolo d.C., nel suo Opus agriculturae 4.10, 31. 33, confermerà ancora il tipo di riproduzione e di coltivazione. Già da questi brevi cenni, si può cogliere il livello di conoscenza in tema di coltivazione dei fichi raggiunto dai Romani, paragonabile a quello odierno37. 34 De agricoltura 42: Ficos et oleas altero modo. Quod genus aut ficum aut oleam esse voles, inde librum scalptro eximito, alterum librum cum gemma de eo fico, quod genus esse voles, eximito, adponito in eum locum unde exicaveris in alterum genus facitoque uti conveniat. Librum longum facito digitos III, latum digitos III. Ad eundem modum oblinito, integito, uti cetera. 35 La traduzione così continua: … un altro metodo di innesto per fichi e olive consiste nel rimuovere con un coltello la corteccia, che contiene una gemma di qualsiasi varietà di fico che si desidera innestare. Si pianta il ramo nel luogo dove c’era una pianta seccatasi in precedenza. Le dimensione della talea sono 3 dita di altezza e di larghezza. La corteccia deve essere lunga tre anni e mezzo e largo tre dita. 36 Ficum frigoribus ne serito. Loca aprica, calculosa, glareosa, interdum et saxeta amat. Eiusmodi agro cito convalescit, si scrobes amplos et idoneos feceris. Ficorum genera, etiam si sapore et habitu difIerunt, tamen uno modo, sed dispari loco pro difIerentia agri seruntur. Locis frigidis et autumni temporibus aquosis praecoques serito, ut ante pluviam fructum deligas. locis calidis hibernas serotinas serito. At si voles ficum quamvis non natura seram facere, cum grossuli minuti erunt, fructum decutito; ita alterum edet fructum, in hiemem seram difIeret maturitatem. Nonnunquam etiam, cum frondere coeperint arbores, cacumina fici acutissimo ferramento summa amputare prodest. Sic firmiores arbores et feraciores fiunt. Semper proderit, simul ac folia agere coeperit ficus, rubricam amurga diluere et cum stercore humano ad radirò ) (trad. it.: “Esso ama i luoghi soleggiati, pieni di sassolini, di ghiaia, e qualche volta persino i luoghi sassosi. In un terreno di questo genere prende forza in fretta, se tu gli fai però delle fosse ampie e adatte. Le qualità di fichi, anche se differiscono di forma e di sapore, si piantano tutte allo stesso modo, tenendo conto soltanto della differenza dei terreni. Nei luoghi freddi e dove la stagione autunnale è piovosa, pianta le qualità precoci, in modo che tu possa cogliere il frutto prima della pioggia; nei luoghi caldi invece pianta le qualità tardive. Se poi vorrai avere frutti tardivi da una pianta che non è tardiva per natura, quando i fichi saranno ancora piccolini, falli cadere; cosi la pianta metterà fuori dei nuovi frutti e differirà la maturazione di questi fino al tardo inverno. Qualche volta è anche utile tagliare con un ronchetto molto affilato le cime del fico, quando appena gli alberi cominciano a frondeggiare; cosi gli alberi diventano più forti e più abbondanti di frutto”). 37 Nella medesima opera, Catone, §51, tratta e della coltivazione dei fichi attraverso l’impianto di talee in terreni adatti. Per cogliere il livello di conoscenza a cui si era pervenuti ai tempi di Catone, basti, a mo’ di esempio, addurre qualche ragguaglio come il seguente: dopo due anni la talea va trapiantata. Metodologia, questa, ripetuta anche nei capitoli successivi della sua opera come il 133, Ficum, … haec omnia genera a capitibus propagari eximique ad hunc modum opor-

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6. Varietà antiche. Già al tempo degli antichi Romani esistevano numerose varietà di fichi, elencati da Columella, da Catone e da Plinio. Quest’ultimo, in particolare, menziona tra le varietà prelibate quelle dei Marrucini, dunque una tipologia del nostro Abruzzo, descrivendo le caratteristiche della maturazione; ossia lo scrittore ci dice che “sono molli al tatto, producono un succo come il latte, maturano sugli alberi. Sono essiccati e conservati in contenitori chiusi, ve ne sono moltissimi e buonissimi nell’isola di Ebuso e presso i Marrucini”. Quindi sempre Plinio menziona la grande quantità di fichi prodotti in Asia e in Africa e le possibilità alimentari, ricordando come fossero consumati, essiccati con il pane, freschi al posto del formaggio38. Catone, in De re rustica VIII, abbina alle tipologie di terreno quelle di fico che prendevano il nome per lo più dal luogo di provenienza: così menziona i fichi marisci, -la cui individuazione è assai dubbia, potendo essere gli attuali turchi, o quella della Marsica-, che preferiscono un terreno arido e ventoso, L’africano, erculea, saguntina, la varietà invernale, il tellaneo nero con lunghi peduncoli, in un terreno che è più ricco o concimato39. Ancora Columella distingue i tipi in base alla loro provenienza40. tebit. Quae diligentius seri voles, in calicibus seri oportet. In arboribus radices uti capiant, calicem pertusum sumito tibi aut quasillum; per eum ramulum trasserito; eum quasillum terra inpleto caecatoque, in arbore relinquito. Ubi bimum erit, ramum tenerum infra praecidito, cum quasillo serito. Eo modo quod vis genus arborum facere poteris uti radices bene habeant. Item vitem in quasillum propagato terraque bene operito, anno post praecidito, cum qualo serito.) 38 (Naturalis Historia, 15.21.82: Ficis mollis omnibus tactus, maturis frumenta intus, sucus maturescentibus lactis, percoctis mellis. Senescunt in arbore anusque destillant cummium lacrima. Siccat honos laudatas, servat in capsis, Ebuso in insula praestantissimas amplissimasque, mox in Marrucinis; at ubi copia abundat, implentur orcae in Asia, cadi autem in Ruspina Africae urbe, panisque simul et opsonii vicem siccatae implent, utpote cum Cato cibaria ruris operariis iusta seu lege sanciens minui iubeat per fici maturitatem. cum recenti fico salis vice caseo vesci nuper excogitatum est.) 39 (Ficos mariscas in loco cretoso et aperto serito; Africanas et Herculaneas, Sacontinas, hibernas, Tellanas atras pediculo longo, eas in loco crassiore aut stercorato serito. Pratum si inrigivum habebis, si non erit siccum, ne faenum desiet, summittito. Sub urbe hortum omne genus, coronamenta omne genus, bulbos Megaricos, murtum coniugulum et album et nigrum, loream Delphicam et Cypriam et silvaticam, nuces calvas, Abellanas, Praenestinas, Graecas, haec facito uti serantur). (trad. ital. È bene piantarle in un prato ben irrigato e concimato. 2 Vicino a una città che è bene avere un giardino piantumato con ogni sorta di verdure, e ogni sorta di fiori per ghirlande - bulbi megarese, conjugulan mirto, bianco e nero mirto, di Delfi Cipriota, e selvaggio alloro, noci regolari, quali come Abellani, Prenestini e nocciole greche). 40 Così nel De agricoltura, 5.10: Ficorum genera, etsi sapore atque habitu distant, uno modo, sed pro differentia agri seruntur. Locis frigidis et autumni temporibus aquosis praecoques ponito, ut ante pluviam fructum deligas; locis calidis hibernas serito. At si voles ficum quamvis non natura seram facere, tum grossulos prioremve fructum decutito, ita alterum edet, quem in hiemet differet. Nonnumquam etiam, cum frondere coeperunt arbores, cacumina fici ferro summa prodest amputare; sic firmiores arbores et feraciores fiunt; ac semper conveniet, simul atque folia agere coeperit ficus,

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7. Conservazione per essiccazione: i carices al tempo degli antichi Romani. I fichi secchi erano ritenuti un alimento così importante che, secondo Plinio il Vecchio, avrebbero costituito anche il motivo di un’invasione barbarica. L’elvetico Elicone, che aveva soggiornato a Roma per fare il fabbro, era ritornato nelle Gallie, recando con sé fichi secchi, uva passa e vino. Dopo avere assaggiato questi prodotti succulenti, i Galli si riversarono in Italia in una guerra che li portò fin sotto le mura del Campidoglio41. Un resoconto dettagliato sulla procedura di essiccazione per gli antichi Romani ci viene fornita da Columella 12.15, il quale descrive tre metodi per essiccare i fichi. È molto interessante notare che tali modalità corrispondono non solo al ritrovamento atessano di Acquachiara, ma anche alle tecniche tradizionali impiegate ancor oggi42. rubricam amurca diluere, et cum stercore humano ad radicem infundere. [11] Ea res efficit uberiorem fructum et fartum fici pleniorem ac meliorem. Serendae sunt autem praecipue Livianae, Africanae, Chalcidicae, sulcae, Lydiae, callistruthiae, topiae, Rhodiae, Libycae, hibernae, omnes etiam biferae et triferae flosculi. (trad. it: i tipi di fichi benché differenti per sapore e aspetto sono piantati tutti allo stesso modo cambia solo il terreno. Dove fa freddo è meglio piantare i primaticci, dove la stagione è più calda i tardi. Se si vuole avere fichi tardivi, occorre togliere le gemme. Poi stabilisce le regole per la potature per rendere più forti le piante è meglio tagliare le cime nelle ficaie in primavera. Se si concimai l terreno, i frutti saranno pi saporiti e gustosi. I fichi che conviene piantare sino quelli liviani, africani, della Lydia ecc…). 41 ... Produnt Alpibus coercitas et tum inexsuperabili munimento Gallias hanc primum habuisse causam superfundendi se Italiae, quod Helico ex Helvetiis civis earum, fabrilem ob artem Romae commoratus, ficum siccam et uvam oleique ac vini promissa remeans secum tulisset. Quapropter haec vel bello quaesisse venia sit. 42 De ficis siccandis: Ea porro neque nimium vieta neque inmatura legi debet et in eo loco expandi, qui toto die solem accipit. Pali autem quattuor pedibus inter se distantes figuntur et perticis iugantur; factae deinde in hunc usum cannae iugis superponuntur, ita ut duobus pedibus absint a terra, ne umorem, quem fere noctibus remittit humus, trahere possint. Tunc ficus inicitur, et crates pastorales, culmo aut carice vel filice textae, ex utroque latere super terram plane disponuntur, ut, cum sol in occasu fuerit, erigantur et inter se adclines testudineato tecto more tuguriorum viescentem ficum ab rore et interdum a pluvia defendant; nam utraque res praedictum fructum corrumpit. [2] Cum deinde aruerit, in orcas bene picatas meridiano tempore calentem ficum condere et calcare diligenter oportebit, subiecto tamen arido faeniculo et iterum, repletis vasis, superposito. Quae vasa confestim operculare et oblinire convenit et in horreum siccissimum reponi, quo melius ficus perennet. [3] Quidam lectis ficis pediculos adimunt et in sole eas expandunt; cum deinde paulum siccatae sunt, antequam indurescant, in labra fictilia vel lapidea congerunt eas, tum pedibus lotis in modum farinae proculcant et admiscent torrefactam sesamam cum aneso Aegyptio et semine faeniculi et cymini. [4] Haec cum bene proculcaverunt et totam massam comminutae fici permiscuerunt, modicas offas foliis ficulneis involvunt ac religatas iunco vel qualibet herba offas reponunt in crates et patiuntur siccari; deinde cum peraruerunt, picatis vasis eas condunt. Nonnulli hanc ipsam farinam fici orcis sine pice includunt et oblita vasa clibano vel furno torrefaciunt, quo celerius omnis umor excoquatur; sic siccatam in tabulatum reponunt et, cum exigit usus, testam comminuunt; nam duratam massam fici aliter eximere non possunt. [5] Alii pinguissimam quamque viridem ficorum eligunt et harundine vel digitis divisam dilatant atque ita in sole viescere patiuntur; quas deinde bene siccatas meridia-

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In specifico, l’agronomo romano afferma che i fichi vanno raccolti né troppo maturi né troppo acerbi. Una volta raccolti vanno esposti un giorno al sole, dopodiché si devono costruire dei cannicci rialzati da terra affinché non si inumidiscano, su di essi si fa un reticolato ove porre dei pagliericci su cui adagiarvi i fichi, tale tessuto di paglia da coprire i fichi la sera per tenerli al riparo dall’acqua o dall’umido. Una volta essiccati, si debbono mettere ben pigiati in orci chiusi impiastrati. Columella raccomanda di coprire i fichi con del finocchio secco. Un altro metodo consiste nel togliere i piccioli dei fichi e di stenderli mezza giornata al sole, dopo di che pestarli con i piedi lavati fino ad ottenere una varietà di farina a cui aggiungere odori e spezie come il cumino, il finocchietto …, con la poltiglia si fanno focacce grossolane rivestite da foglie di fico e tenute insieme da un legaccio di giunco. I panetti così ottenuti vanno infornati e poi conservati. Sempre secondo Columella, altri scelgono i fichi verdi spartiti in due con una canna infilzati e fatti seccare al sole, li calcano come farine e li fanno seccare negli orci. 8. Conservazione nel miele. Oltre all’essiccazione, i fichi potevano essere conservati nel miele, come narrato da Apicio nel De re coquinaria, 1.12.443: “I fichi freschi, le mele, prugne, pere e ciliegie possono essere poste nel miele con i piccioli una ad una in modo che non si tocchino”. Sempre Apicio ricorda anche un altro uso alimentare dei fichi, ossia lo sciroppo di fichi, come dolcificante. Il gastronomo, proprio nel menzionare tale dolcificante ricorda come Plinio conoscesse e decantasse le qualità di fichi. (Dal famoso ricettario di Apicio, De re coquinaria, 2.2: Se non l’hai, adopera sciroppo di fichi quelli della Caria esaltati da Plinio, che i Romani chiamano “colore”). Columella (17.17) ci illustra come ricavare aceto dai fichi: Ricetta per fare l’aceto con i fichi. ‘Vi sono regioni in cui vi è penuria di vino, e quindi anche di aceto. Perciò appunto in questa stagione [agosto] si devono raccogliere i fichi verdi che siano stramaturi; va benissimo se già ci sono state le piogge e i fichi sono caduti in terra per la violenza delle precipitazioni. Dunque si raccolgono e si ripongono in piccole botti o in anfore ed ivi si lasciano fermentare. Quando poi sono diventati acidi e hanno prodotto del liquido, si cola tutta la quantità del liquido acetoso che si è formata e si versa in vasi spalmati di pece che conservano bene l’odore. Questo liquido serve come il migliore e il più forte aceto e non fa mai muffa, né va a male se non posto in luogo umido. nis temporibus, cum calore solis emollitae sunt, colligunt et, ut est mos Afris atque Hispanis, inter se compositas comprimunt, in figuram stellarum flosculorumque vel in formam panis redigentes; tum rursus in sole adsiccant et ita vasis recondunt. 43 Ficum recentem, mala, pruna, pira, cerasia ut diu serves omnia cum peciolis diligenter legito et in melle ponito ne se contingant.

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Ci sono alcuni che, desiderando produrne una grande quantità, mescolano dell’acqua ai fichi e di continuo aggiungono altri fichi stramaturi, lasciandoli fermentare in quel liquido finché prende un sapore abbastanza forte di aceto, poi lo colano in cestelli di giunco o in sacchi di ginestra e fanno bollire l’aceto che hanno ottenuto da questa colatura al fine di toglierne tutta la schiuma e la sporcizia. Alla fine vi aggiungono un po’ di sale tostato, che impedisce la formazione di vermetti e di altri animali’. Oltre che essere consumati freschi o secchi, i fichi potevano sostituire l’aceto nei luoghi in cui mancava il vino44. Proprio Palladio, De agricoltura, 15. 120 parla del commercio di fichi 45.

Fichi secchi, foto di Alex Margineau 44 De aceto ficulneo faciendo:: Sunt quaedam regiones, in quibus vini ideoque etiam aceti penuria est. Itaque hoc eodem tempore est ficus viridis quam maturissima legenda utique, si iam pluviae incesserunt et propter imbres in terram decidit; quae cum seblecta est, in doleum vel in amphoras conditur et ibi sinitur fermentari. Deinde cum evacui et remisit liquorem, quicquid est aceti diligenter colatur et in vasa picata bene olida diffunditur. Hoc primae notae acerrimi aceti usum praebet nec umquam situm aut nuore contrahit, si non umido loco positum est. Sunt qui moltitudini studentes aquam ficis permisceant et subinde maturissimas ficos recentis adiciant et patiantur in eo iure tabescere, donec satis acris aceti sapor fiat; postea in iunceis fiscellis vel sparteis saccis percolant liquatumque acetum infervefaciunt, dum spumam et omnem spurcitiam eximant; tum torridi salis aliquid adiciunt, quae res prohibet vermiculos aliave innasci animalia. 45 Persuadet moris tetrum mutare colorem, ficus et invasis dat sua iura comis. Se quoque miratur pingui grandescere succo, Et solita gaudet vincere poma modum ... mutua quin etiam moris commercia ficus praestat, et oblatum robore germem aliit.

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‘Li caracine’ Aquaria ed Atissa: un’ipotesi Si è prima visto come il frutto di fico sia legato alla nostra cittadina già da tempi antichissimi, quando il territorio, che oggidì appartiene ad Atessa, era stato romanizzato e Acquachiara, probabilmente, si sarebbe chiamata Aquaria (come si vedrà meglio in prosieguo). Cosa accadde nei secoli successivi nelle nostre terre, dopo che l’impero romano si andava progressivamente sfaldando e la penisola era invasa dai popoli più disparati, risulta ancora oggi un mistero. Le analisi condotte dagli studiosi hanno dimostrato che, nel territorio di Acquachiara, la villa romana avrebbe continuato ad espandersi sino al VI sec. d.C. Ciò vuol significare che, nonostante le invasioni barbariche, la romanità del territorio atessano avrebbe resistito. A questo punto della storia, proprio in concomitanza con la fine del prosperare e del consolidarsi della costruzione romana, per Atessa mancano documentazioni o ritrovamenti che forniscano indicazioni in merito. Tant’è, che già lo storico A. Zuccagni Orlandi notava, in riferimento all’origine di Atessa, che «non essendo mai menzionata da alcuno geografo o scrittore dei tempi romani si rende oscurantissimo questo punto di storia»46, rinunciando così a tracciare l’origine della cittadina. A dispetto di ciò, gira nel paese una leggenda da tempo immemorabile raccontata da tutti a tutti, non solo ai bambini, di due paesi divisi da un solco, rispettivamente, Ate e Tixa, vessati da un drago, sconfitto da San Leucio, patrono di Atessa. Il santo avrebbe anche unificato Ate e Tixa in Atessa. Aldilà della favola, si è consolidata l’dea che Atessa abbia origini longobarde, per via della sua qualifica ‘fara’47 e del fatto che il territorio dell’Abruzzo è stato in effetti invaso dai Longobardi. Invero, nessuno dei due argomenti appare suffragare l’origine longobarda di Atessa, innanzi tutto perché il termine ‘fara’ attiene ad un campo semantico di stampo prettamente franco48. In secondo luogo l’invasio49 longobarda in Abruzzo si è atteggiata in modo molto diverso a seconda delle epoche storiche; per lo più si può dire che in Abruzzo si registrano singoli insediamenti tribali o parentali, quindi ben 46 Corografia fisica, storica e statistica dell’ Italia, 11, Firenze, 1837, p. 1001. 47 Si veda per questa idea di individuare, nel solo toponimo fara, origini longobarde, M. Pellegrini L. Di Tizio, L’erpetofauna nella riserva naturale regionale “Lago di Serranella” e nel basso Sangro, in Societas Herpetologica: Atti del V congresso, Firenze, 2006, p. 192. 48 Per tale aspetto si veda avanti nel testo. 49 Per il fenomeno dell’invasio si veda E. Magnou Nortier, Aux source des la gestion publique. L’“invasio” des “villae” ou la “villa” comme enjeu de pouvoir, Lille 1995, p. 120 ss.

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circoscritti in secoli diversi, distanti tra loro, attraverso i quali i Longobardi persero anche la loro indipendenza per mano dei Franchi; dunque i loro ducati erano, in ultima analisi, sottoposti al Sacro Romano Impero, anche ove godevano di autonomia. Non si può prescindere da questi cenni storici entro cui inserire le possibili origini di Atessa. Infatti, occorre aspettare il IX-X secolo per avere notizie su Atessa, fornite da una serie di documenti dotati di attendibilità. Le prime informazioni, che tali atti ci comunicano, riguardano il suo nome; le cronache riportano Taize, Atissa e, solo a partire dal 1300, in modo costante la nostra cittadina è denominata Atessa in italiano. Proprio la diversità toponimica ha attirato l’attenzione di storici o più semplicemente di appassionati: pertanto, si ben comprende come non manchino anche leggende sul tema. Tra queste, quella maggiormente nota narra di Atessa che si sarebbe chiamata ‘Tazze’ e sarebbe andata distrutta, per poi essere rifondata in un luogo diverso50. Di tale storia non vi è alcuna prova, anche se un collegamento con la realtà può esserci stato, dal momento in cui i nomi Tazze della leggenda e Taize prima visto, presente in una fonte scritta, evidenziano una fonetica simile. Tanta varietà di denominazioni, risultante anche da documenti ufficiali, lascerebbe pensare a un’evoluzione, per cui dal nome originario Taize si sarebbe passato a un intermedio Atissa51, ed infine si sarebbe giunti all’italiano attuale Atessa e al dialettale La Tessa. Così, almeno, pensa nel 1500 Serafino Razzi52 in una sua personale ricostruzione del nome di Atessa53. 50 Cfr. Zuccagni Orlandi, loc. cit., il quale, de relato, ci riporta le narrazioni del Polidori e di G.A. Tria, (cfr. Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche, della città e diocesi di Larino, Roma, 1744, p. 26) storici locali, che parlano appunto di una città dal nome Taize distrutta e poi ricostruita con il nome di Atessa. Tria, op. cit., p. 14 riporta le parole del cosiddetto anonimo milanese secondo cui: “huius tractus Piscariam et Frentotem suspicamu fuisse civitatem Tazze, cujus memit Leo Oost. 1.45. Sileat a nuce”, dubitando fortemente della coinsidenza tra Tazze ed Atessa, e rimarcando le origini oscure di Atessa. Lo stesso Zuccagni sottolinea come tali storie non si basassero su alcuna fonte o prova, e sarebbero state, pertanto, inattendibili. 51 Le diverse denominazioni di Atessa costituiscono un problema anche per gli studiosi del passato; tant’è che il Migne nel 1855, nel curare la sua edizione della Patrologia, Epistulae et privilegia Anastasii IV, Adriani Iv, seculum XII, in Patralogiae cursus completus, serie II, CLXXXXVIII, Paris, 1855, p. 1415, affermava in nota: ‘… A nomina medii aevi scriptoribus, apud quod Tazze, Atissa, atque Atessa perinde sonat …’, ossia che Atessa era denominata dagli scrittori del Medioevo in più modi, Tazze, Atissa. Nell’elenco del testo, Atessa si ricorda per ultimo in senso residuale rispetto agli altri due nomi. 52 Il frate domenicano, in Viaggi in Abruzzo, p. 233, scriveva che Atessa “Viene detta in volgare La Tessa, ma latinamente Atissa, da Atis, come dicono, marito, e Sa, moglie di lui, gentilhuomini Romani”. Anche in questo caso l’etimologia risulta frutto di un’ipotesi personale di Razzi. 53 Siamo nel 1460, quando P. Ranzano, Descriptio totius Italiae, annales XIV-XV, 1460, p. 257, scrive

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Si potrebbe, altresì, ipotizzare che più che il frutto di un’evoluzione, la molteplicità riscontrata nelle fonti sia dovuta semplicemente ad errori, molto frequenti all’epoca, dei copisti indotti a scrivere anche in base alla pronuncia di certe parole o all’erronea lettura di alcuni caratteri alfabetici. La questione del nome sembrerebbe, almeno prima facie, perciò di poco conto; non di meno essa ci permette di aprire una possibilità ricostruttiva per quel che concerne il misterioso passato di Atessa. Infatti, nelle loro varie sfaccettature, le denominazioni, stratificatesi nel tempo e nei vari scritti, non sembrano comunque provenire dalla lingua latina, anzi, proprio Atissa corrisponde ad un termine che, nella antica lingua della Linguadoca, vuol dire ‘attaccato al seno’ sarebbe la crasi per ‘A Tissa’54 . Orbene, se si guarda all’ubicazione del paese, si vede che, nel suo complesso, è adagiato tra due colli divisi da un solco, proprio come un seno di donna. Così, proprio questa morfologia, come sovente accadeva, avrebbe potuto ispirarne il nome. L’ipotesi va collegata al fatto che la Linguadoca era parte del Sacro Romano Impero; in corrispondenza di ciò, aldilà della questione riguardante l’etimo, anche Atessa potrebbe essere stata di impronta franca, a mio parere, ai suoi albori. Le argomentazioni, che conducono a tale possibilità, sono molteplici e si basano tutte su atti scritti ufficiali, quindi dotati di un alto grado di attendibilità. In tal senso, la fonte più risalente è datata IX secolo e menziona Atessa tra i possedimenti dell’abbazia di Farfa55, a sua volta subordinata al Sacro Romano Impero, in quel periodo storico e non longobardo56 Poiché mancano prove per i secoli precedenti, quando l’abbazia era in mano longobarda, si potrebbe dedurre che essa sia stata fondata all’interno del Sacro Romano Impero, come del resto sembra potersi ipotizzare anche sulla base del Cronichon di Gregory di Catino, un diploma di Lotario57, datato ancora: Sento fluvium in Mediterraneis ad dextram haerent duo haec oppida: Atissa et Tornaricum, ossia che a destra del fiume Osento sorgono due oppida: Atissa et Tornaricum. 54 Cfr. Cr. Campus, Le parler du Languedoc et des Cévennes, Paris, 2006. 55 Nel Chronicon Farfense (cur. Muratori), II, 2, p. 538, redatto tra 1107 e il 1119, si parla di territori dati in permuta da Ugone, per il testo si veda infra nel testo. 56 Per l’idea che le origini di Atessa fossero longobarde legate all’abbazia di Farfa, cfr. A. Cicchitti, Atessa tra storia e leggenda, www.parrocchiasanleucio.it/tra-storia-e-leggenda, che afferma: «Le origini di Atessa, infatti, che compare come “castellum” nel Chronicon Farfense, sono da riconnettere al sistema di strutture fortificate, promosse dai Longobardi nelle zone collinari interne, a guardia delle valli e dei fiumi». Inoltre, credo, vi è da precisare che nel Chronicon compare come l’espressione fara, mentre il termine Castellum è impiegato in una fonte che ne tratta de relato e che sarà citata avanti. 57 Come noto, Lotario I fu imperatore del Sacro Romano Impero fino all’840.

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832, diretto all’abate Sicardo di Farfa58, al fine di riconoscerne i possedimenti. In esso la nostra cittadina non è solo menzionata, ma è anche descritta così bene, da non poter esser confusa con altre. Infatti59 si parla della permuta di una res (un immobile oggetto di scambio) tra i confini di Atessa adagiata ‘sotto un monticello sopra il fiume Sangro, dove la fara fu edificata, con un’estensione di 500 modii (un modius era un terzo di uno iugero, ossia un quarto di ettaro circa). (Il testo originale è: ‘… unde recepit in commutationem a domno Hugone abbate res hujus monasterii territorii Reatini infra fines Atissae sub monticello super fluvium Langrum, ubi fara aedificata fuit modiorum quingentorum’). Anche se non è questa la sede, dato lo scopo meramente divulgativo del lavoro, mi permetto solo di accennare all’impiego, nel brano, del verbo latino ‘aedificare’. Tale espressione merita una certa attenzione, perché essa rivestiva un significato preciso. Infatti, ‘aedifico’ è lemma usato proprio in funzione di costruzioni militari e non per città, per le quali si sarebbe rinviato alla parola fondare. In particolare, il verbo ‘edificare’ si riscontra in massima parte proprio nel Medioevo, nei diplomi imperiali, ove si concedeva il permesso di costruire torri o fortificazioni60. Tale osservazione va letta congiuntamente con altri elementi; in particolare, nel Chronicon farfense Atessa è definita fara61. Ancora fara si trova in un ulteriore diploma di Ottone III del 99662 che menziona Atessa sempre in relazione ai beni appartenenti all’abbazia di Farfa, così come l’altro diploma di Corrado e un altro ancora, molto simile a questo ora ricordato, dell’imperatore Arrigo II del 104963; in esso la “fara Atissa o Atinsa” è menzionata tra i tre castelli dell’agro Marrucino, oltre a quelli di Pedara e Lentisco. 58 Qualiter dominus, et genitor noster quoddam monasteriolum quod est situm in finibus teatinis, vel Vocitanis in loco cuius vocabulum est lucana in honore s. Stephani … appen XLIX Atissa o Atipsa 59 Cfr. nt. precedenti per il testo. 60 Per tale aspetto, si veda L. A. Muratori, Dissertazioni sopra le antichità italiane già composte e pubblicate in latino (cur. G. Fr. Soli Muratori), 2, Roma, 1790, p. 176 s. 61 Per l’analisi del lemma fara nella lingua franca e longobarda, nel contesto che ci interessa, si veda A. von Kögel, Die altgermanische fara, in Zeitschrift fuer deutsches alterthum und deutsche Litteratur, 73, 1893, p. 217 ss. Invero, il termine fara è proprio della lingua germanica, segnatamente franca, in senso di oppidum. Nei testi provenienti dai Longobardi, tale lemma si riscontra in misura notevolmente minore ed indica ‘famiglia’, ‘parenti’. 62 In comitatu Atissa quadraginta, et septem cortes cum omnibus earum pertinentiis’, nota XXV è descritta la posizione di Atessa. 63 Cfr. Diplomata regum et imperatorum Germaniae, in MGH., 5, rist. 957, p. 340: ‘In comitatu Teatino Monasterium S.Stephani, quod ponitur in Lucana cum pertinentiis omnibus, et adiacentiis suis, et Pharam filiorum Petri… sicut Orto Comes per conubium pro portione de Atissa per Chartulam in praedicto monasterio dedit’.

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Ebbene proprio tale lemma, fara, ha dato luogo ad una serie di equivoci interpretativi sopra ricordati, tramandati in modo tralaticio nel tempo. A tal proposito, si deve aver presente che la parola fara è usata prevalentemente nella lingua franca, sporadicamente in quella longobarda. Dunque il significato longobardo di fara, come insieme di parenti, vagamente simile alla gens di antica memoria, potrebbe essere giustificato solo ove ci si trovi in un contesto inequivocabilmente longobardo. Negli altri casi, in linea generale, è opportuno presupporre il senso voluto dalla lingua franca, ancor più dove il contesto, come nel caso che ci riguarda, sia proprio quello del Sacro Romano Impero. Ebbene in antico germanico e franco, fara vuol dire castro fortificato, ossia una sorta di accampamento stabile, a scopi difensivi e offensivi; in sintesi l’equivalente del latino oppidum e del comitato posteriore. Il significato di fara va letto insieme alla qualifica latina di oppidum per la nostra cittadina che parimenti si trova in documenti su Atessa; l’oppidum consisteva, infatti, in un accampamento fortificato che poteva divenire stabile nel tempo e trasformarsi in città64. Oppidum come qualifica di Atessa è presente in un documento in cui si menziona Corrado proprio nel territorio di Atessa, oggetto sempre di un diploma imperiale, e rifugio per gli esponenti del Sacro Romano Impero65 (occorre specificare, anche se noto, che dopo il trattato di Verdun dell’ 843 l’impero di Carlo Magno fu separato in tre parti e proprio al territorio italiano rimase la parte qualificata ‘impero’ franco). 64 Caes., De Bello Hisp. 32 ss. 65 La notizia è riportata in Epistulae et privilegia Anastasii IV, Adriani Iv, seculum XII, in Patralogiae cursus completus, cit., (Atessa oppidum est haud longe ab Anxani urbe. … Inter loca abbatiae Magellanae subiecta. Lotharius imperator in suo diplomate edito an. 1137, quod in Corradi codice sub littera C fol. 9 insertum legitur, enumerat Taize, ipsam scilicet, ut putamus, Atessam, e nominis similitudine. In oppidi huiusce vicinia ecclesiam S. Iulianae collocat Hadrianus, cui succinit Corradus visitator in cod. supra citato fol. 11. Quam vero ecclesia ille subierit fortunam indicat descriptio, eruta ex folio 178 voluminis, cui titulus: Index collationum, etc., quae sic habet: dicta ecclesia (S.Iulianae) est prope dictam terram extra moenia Sancti Antonii, et de ea tantum apparent vestigia). (La parafrasi in italiano è: ‘Atessa è un piazzaforte, non lontano dalla città di Lanciano … L’Imperatore Lotario in suo diploma menziona Taize, in un inserto del codice di Corrado sotto la lettera C foglio 9. Proprio vicino a questo accampamento Adriano colloca la chiesa di Santa Giuliana, ove si recò Corrado in visita, come risulta nel codice sopra riportato fol.11. La descrizione indica la sorte a cui andò incontro quella chiesa, estrapolata dal foglio del volume 178 il cui titolo è index collationum ecc. E così riporta: la detta chiesa (di S. Giuliana) si trova vicino alla detta terra oltre le mura di S. Antonio, e di quella sono visibili solo resti’. Quindi Atessa è oggetto di un diploma con cui forse l’imperatore concedeva i territori di Atessa. I dati trovano un riscontro anche a livello generale; infatti, quanto riportato nel testo sotto esame potrebbe essere collegato anche agli eventi storici del tempo, quando intorno al 1135, Lotario II con l’appoggio dell’esercito papale e Corrado (prima nemico) discesero in Italia, conquistandola fino a Melfi. In tale quadro bellicoso la presenza, su di un colle, di una fortificazione, Atissa, sarebbe risultata quanto mai utile e strategica.

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In perfetta corrispondenza di tale significato, nel diploma di Lotario, citato nella Patrologia66, si qualifica Atessa sempre ‘oppidum’, così come in un documento del 146067. La prova ulteriore, che l’estensore del testo si stesse riferendo a una fortificazione a scopi difensivi, può essere trovata anche nel fatto che il medesimo, per qualificare Anxanum, Lanciano, impiega il termine urbs, cioè città; ciò dimostra che l’estensore del testo avrebbe conosciuto ed applicato con cognizione la terminologia appropriata per identificare una città civile e una piccola cittadella fortificata. Si può notare a questo punto che i testi ora citati ed altri, allo stesso tempo, definiscono Atessa fara e anche oppidum, espressione latina. La doppia qualifica sta proprio ad indicare la complessità della situazione della penisola in quel periodo, ossia un crogiuolo di culture e lingue che spesso portava alla coesistenza di espressioni germaniche e romane, o all’uso di neologismi risultanti dalla latinizzazione di parole germaniche68. Alla luce di ciò, non stupisce che nei documenti si trovino entrambi gli idiomi, latino e franco. Nella fonte del 1049 Atessa è un comitato composto da 47 corti; ebbene anche il comitato, o limes, consisteva proprio in una suddivisione interna ai territori franchi (non solo longobardi) a scopi militari protettivi, con a capo un conte subordinato a sua volta ad un marchese. Altresì nel documento del 1049 la fara è qualificata ulteriormente ‘castello’, in un periodo in cui i castelli erano ancora fortificazioni a scopo militare. Gli scritti si incastrano come tessere di un mosaico; così dal significato di oppidum, fara, comitatus, unitamente alla sua posizione ed altri elementi testuali, si deduce come Atessa, a mio parere, sia stata edificata quale accampamento militare franco, subordinato al Sacro Romano Impero (in un territorio che secondo il Mommsen, era denominato Lucania)69, nella seconda metà del IX secolo70. 66 Per chi non lo sapesse, la Patrologia latina è la denominazione di una raccolta di scritti provenienti dai padri della chiesa e contenente i documenti più disparati. Per gli studiosi è una fonte preziosa di conoscenze. Oltre alla latina abbiamo anche la Patrologia greca. Poiché il curatore di tale raccolta fu un francese, Migne, essa è anche indicata con le iniziali del suo nome. 67 Ranzano, loc. cit. 68 Si veda in proposito, G. Piccinini, I mille anni del Medioevo, Milano, 2007, p. 95 ss., che affronta proprio il problema della coesistenza della lingua latina e franca in Italia al tempo di Lotario. 69 Th. Mommsen, U. D., p. 169, che trae questa lettura dall’analisi dalla Tabula Peunting, in base a cui la Lucania sarebbe stata il territorio compreso tra Pallano e Vasto. Secondo lo studioso in antico Atessa sarebbe stata fondata dai Peligni, sulla scorta della lettura di alcuni ritrovamenti, invero, non univoca. 70 La conferma ci viene anche dagli storici più antichi, tra cui: G. Fatteschi, Memorie istorico-diplomatiche riguardanti la serie de’duchi, e la topografia de’tempi di mezzo del ducato di Spoleto, Gori,

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Non solo gli atti scritti a noi pervenuti, ma anche la tradizione orale converge verso l’idea di un’origine germano-franca di Atessa. In particolare uno storico locale, Luciano Camarra71, ci dà conto di alcuni documenti, in specifico un codice longobardo, andati perduti, ove si narrava di principi germanici: Benedetto vescovo, Paolo abate, Leone Donato, e Martino, che esuli dal castello di Pollonium, dopo la sconfitta dei Saraceni, invasero quei luoghi al tempo di Ludovico Pio, quindi si sarebbero rifugiati in Atessa e lì avrebbero trovato degna sepoltura. I corpi sarebbero stati trovati da Errico II figlio di Corrado, sempre esponenti e rappresentanti del Sacro Romano Impero, agli albori della nostra cittadina72. Atessa sembrerebbe essere stata franca fino al 1063, (in quel periodo i Longoabrdi erano sottomessi al sacro Romano Impero) e poi sarebbe passata ai Normanni, come attesterebbe una bolla di papa Pasquale II del 1115 in cui si menziona l’ecclesia di S. Leucii in Atissa tre le chiese oggetto di conferma di privilegi da parte di principi normanni e papi. Tra il 1155 e il 1200, l’oppidum si sarebbe sviluppato, seguendo quella tendenziale linea di sviluppo per cui i castelli difensivi avrebbero avuto, in modo graduale, una connotazione civilistica. Così, tramite tale atto, un grafio, un notaio, proprio ad Atessa, predisponeva per suo fratello, un ecclesiastico, la costituzione di un monastero con dei possedimenti ben delineati . Come tutta la penisola nel periodo storico a seguire, anche la nostra cittadina sarebbe stata considerata una proprietà privata dei nobili e come tale oggetto di vendite, donazioni, dote. Non stupisce, perciò, che ad un certo punto della storia, Atessa sia andata nelle mani di esponenti della nobiltà normanne, come testimoniato da un atto pubblico riguardante la costituzione di un monastero, con possedimenti annessi, dell’agosto 1201. Abbiamo una bolla di papa Innocenzo III del 1208, confermativa dei privilegi a Bartolomeo Vescovo teatino, in cui è menzionata l’ecclesia di S. Leucio in Atissa 1801, p. 205 ss., G. Marocco, Monumenti dello Stato pontificio, Roma, 1833, p. 8 ss. 71 De Teate Antiquo Marrucinorum in Italia Metropoli, Roma, 1651, cap. 3 §3. 72 Questa leggenda è riferita dai Bollandisti, i quali avrebbero consultato un codice longobardo custodito nella chiesa di San Leucio, di esso, però, non v’è traccia. Proprio la presenza del presunto codice ha dato adito che l’origine di Atessa sarebbe stata longobarda. Rispetto a tale possibilità, tuttavia, mancano documenti o ritrovamenti. Il fatto che altre zone vicine o limitrofe siano di origine longobarda non può indurre, ipso facto, a determinare anche l’origine longobarda di Atessa. Come si sa, le invasioni dei popoli che latamente possono definirsi di stirpe germanica, nell’Italia centro meridionale furono di diversa natura, bellicosa e pacifica. In altri termini, era sovente il fenomeno per cui famiglie barbariche si insediassero, formando piccoli centri di potere isolati. I racconti di un’origine longobarda provenienti da Bartoletti potrebbero essere dovuti all’ideologia del frate, in funzione della quale, il medesimo avrebbe individuato un’origine cristiana cattolica, filo-papale per Atessa, visto che i Longobardi erano, al tempo considerato, fedeli alleati pontifici.

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Notizie interessanti sono fornite dai regesta, stando ai quali, nel 1265 Atessa avrebbe costituito un feudo73 insieme ad Aquaria, nome che evoca la nostra Acquachiara, luogo di ritrovamento del fico, e che potrebbe coincidere con essa, dato che il nome potrebbe essere collegato alle terme ivi ritrovate. Infatti, si può ricordare come i luoghi termali prendessero il proprio nome proprio dalle acque che vi sgorgavano, come il caso di Aquisgranae, Aquitermae… e forse Aquaria. Acquachiara, già Aquaria, sarebbe stata atessana sin dai quei tempi, e tale sarebbe rimasta. Sempre i regesta del 1269 e del 1303 dicono che il feudo di Atessa fu concesso a Filippo de Fiandra come dote della moglie Margherita de Contelio. Successivamente Rostaino Cantelmo74 l’avrebbe avuta in dote dalla moglie, andando in giudizio per ottenerla. Proprio in quest’ultimo regesto del 1310 Atessa è definita un castro75. L’importanza che raggiunse Atessa è dimostrata anche dai regesta che ci narrano di fiorenti compagnie mercantili, societates mercatorum, connesse con quella della città di Firenze; in corrispondenza del suo status di Università libera, cioè si affrancava dai poteri dei feudatari per dipendere direttamente dal regno angioino. Infatti, Atessa è menzionata tra i capitoli delle 73 Bado de Cortinacio fu investito di Atissa che poi Radulfo de Corintio ebbe in concessione insieme ad altre terre costituenti il contado di Chieti. 74 Di qui forse anche il leone nello stemma della città, che corrisponde allo stemma della famiglia Cancelmo, su cui cfr. P. Litta., Famiglie celebri italiane, fasc. 62, Torino. 75 August 1201 ne Domini nostri Iesu Christi, anno ab incarnatione eiusdem millesimo ducentesimo secundo, mense augusti, indictione quarta. … Inde est, quod nos Rogerius Dei et regia gratia Theatinus eomes, ca.pit(aneus) et magister tustitiarius Apulie et Terre Laboris,) pro redeutioae animarum patris et matris nostre uec non et quondam dilecti fratris nostri et peccatorum nostrornm concedimus discreto viro fratri CTuil(e)l(m)o de Perusia venerabili heremite constituere monasterium ad honorem sanoti Spiritus nee non et Dei geuitricis virginis Marie in tenimento nostro Paliet(e), loco qui dicitur Puzzol(i), iuxta religionis ordiuem sancti lohannis de Cluald ; quod monasterium ab omni exactione et tributo absolutum perpetut» esse concedimus, salvo iure, quod ecclesie Romane debetur, et patronatus nnstri, quod nobis retinemus. Predictum autem locum huiusmodi tinibus nuntiamus consignatum: prima quidem Unis est a via que venit a molendino donnico et tendit ad Humen et descendit per flumen cum aqua et cannalibus usque ad passagium ylicis et revolvente per pedem cese hospitalis, et venit ad fontem qui est in eadem cesa, et tendit ad fontem Peregrinorum usque ad can pum. 1 ualdolizzi et ascendit iuxta silvam rediens ad predictam viam molendini donnici. Item addicimus huic monasterio passagium üuminis ad habendum scafam eis et citra france et libere. Promittimvis etiam nos et heredes nostri ipsam nostram donationem numquam corripere, sed semper illibatam conservare. Et ut hec nostre donationis et traditionis concessio semper roiioris obtineat tirmitittem, presens privilegium per manus .... notarii nostri scribi precepinius, quod et nos proprie manus crucis signo signavimus; et [ego notarius] de mandato eiusdem domini mei, sicut superiiis continetur, scripsi. Actum apud Atissam anno, mense et indictione predicta; feliciter. Nos Rogerius Dei et regia gracia Theatinus comes, capit(aneus) et magister iustitiarius. Il testo ci parla di un atto di donazioni e costituzione di possedimenti con un accurato elenco degli stessi. Esso risulta, inoltre, corredato da tutte le formalità richieste dalla solennità dell’atto come la presenza di testimoni, la loro firma, o in caso di analfabetismo il segno della croce.

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Università della lega tra sindaci e baroni siglata nel 1414 a Chieti per giurare fedeltà alla regina Giovanna76. Nel caso di Atessa l’accordo è confermato dal notaio Antonio Nicola de Gypsio e il nobiluomo Ciccarello Masij. Il feudo andò infine ai marchesi Colonna di Roma nel 1507, come altra gran parte dell’Abruzzo, restando, quindi, assoggettata al regno di Napoli. Atessa avrebbe conosciuto così una crescita graduale della quale specchio pare essere la sua complessa struttura urbanistico-architettonica. Infatti, ancor oggi è possibile osservare diversi modi di concepire la pianta cittadina, a spirale per un verso, quadrata per altro; oltre che diversi stili che si sovrappongono, non solo negli edifici sacri, ma anche civili.

Fico Paradiso, foto di Francesco Minonne 76

II.V. Toppi nell’Archivio generale di Napoli.

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I fichi secchi nella vita e nell’economia di Atissa Le attestazioni della storia dei fichi di Atessa si snodano di pari passo con quella della città; così come risultano rare e scarne per i secoli dei suoi albori, allo stesso modo non abbiamo più notizie dei fichi secchi fino al 1500, quando essi sono menzionati come un fattore primario dell’economia e dell’alimentazione nel territorio di Atessa, in quanto cittadina feudataria, del Regno di Napoli o meno. Ed ecco che, in una delle cronache di Camillo Minieri Riccio, si narra come Roberto D’Angiò nel 1320 avesse imposto delle gabelle proprio sui fichi secchi prodotti nel territorio di Atessa e commercializzati via mare. L’imposizione di tributi era molto frequente, come si sa, spesso causa di malcontento e rivolte popolari, ma esse insistevano su produzioni redditizie e continuative, perciò il fatto che fossero state previste anche per i fichi secchi dimostra come questi ultimi costruissero una parte di tutto rilievo per l’economia del tempo ed anche dei secoli successivi come ci narrano altri documenti, provenienti dal regno di Napoli. Così nel 1577 l’abate domenicano Serafino Razzi, nelle sue cronache, ci parla del commercio di fichi secchi per l’inverno dal nostro territorio verso quello dell’Aquilano, dalle terre di Chieti, Atessa inclusa; il Razzi scriveva: «Non sono all’Aquila fichi né manco poponi, né manco per la freddezza del paese vi alignano gli olivi. Ma copia di fichi e di poponi vi vengono dalle più vicine città, cioè da civita di Penna e da Ascoli, e da civita di Chieti et altre Terre». Si trattava così di un commercio interno dall’Abruzzo citeriore a quello ulteriore; dello scambio verso l’estero, invece, ci narra il Durante quando Atessa era già un feudo dei Colonna incardinati nei regni di Francia e di Napoli che si avvicendavano nei secoli. Fanno poi riferimento al XVI secolo alcune resoconti di Bartoletti (in Memorie di Atessa, 1806) in cui si descrivono i luoghi del territorio atessano77, e si menzionano in modo specifico le coltivazioni di fichi, rectius, di “fiche”. Ciò può essere valutato come segno dell’importanza dei fichi, tale da dover essere segnalati rispetto agli altri tipi di frutta. Siamo con esattezza nel 1585 quando nel suo Herbario (p. 184 s.) il Durante ci descrive come l’essiccazione dei fichi avvenisse in settembre sopra i graticci al sole, essendo utilizzati i fichi secchi sia come cibo sia come medicina. Lo stesso autore tratta, quindi, delle virtù medicamentose dei fichi e in particolare dei fichi secchi. “I migliori da mangiare, afferma l’alchimista, sono quelli maturi che non portano quasi nocumento. Durano poco come l’uva e allo stesso tempo non producono quasi conseguenze negative per il corpo. I fichi secchi se ingeriti in gran quantità non fanno troppo buon sangue per via dei vermi che spesso in esso sono contenuti. I fichi secchi ripieni di noci e 77 Bartoletti, Inventario atessano, in particolare i fichi, al femminile, sono menzionati presso S. Maria del Piano, Contrada del Pozzo, Piana da Capo. È poi registrata una contrada che prende proprio il nome dal fico, Contrada delle Ficore.

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mandorle sono medicamento contro il veleno e sarebbero depurativi dei reni. Anche pestati con sale sarebbero utili contro l’ulcera, i tumori persino”. Dalla tante virtù decantate, si capisce perché i fichi fossero così ricercati, oltre che ovviamente che per il loro sapore e del commercio già documentato nel 1500 di fichi secchi, tra Abruzzo citeriore Abruzzo Ulteriore, si dà conto ancora due secoli dopo nel XVIII grazie ad un testo di Giuseppe Maria Galanti78, ove con riguardo ai fichi secchi si dice che, «di fichi secchi gran copia mandano fuori il principato citeriore». Se nell’antico passato i fichi erano esportati nelle Gallie, nel XVIII secolo a Buda venivano conosciute e ben descritte le tecniche di essiccazione di questi frutti importati dal regno di Napoli, come in base a questo trattato che il professor Ludwig Mitterpacher ci trasmette nel 1784 (trad. it. Lavezzari, Milano, p. 486)79: “ancora i fichi ben maturi vengono messi sui graticci su reticolati simili a quelli per i bachi da seta e vengono rigirati di tanto in tanto. Ben secchi sono riposti in casse di legno con foglie di alloro che li tengono separati gli uni dagli altri. Nel regno di Napoli erano a volte ricoperti di farina di castagne che ne assorbiva l’umidità, ma li rendeva acidi, allora, osserva il professore, sarebbe meglio seccarli in forno ove però perdono parte del loro sapore. Il pericolo dei fichi secchi è la produzione di vermi o pidocchi che però possono essere dissipati dal fumo”. Un’altra interessante testimonianza, di come i fichi locali fossero apprezzati proviene, dal marchese Romualdo de Sterlich. Il nobile, in una sua lettera del 1770 a Giovanni Bianchi, che rifuggiva l’Abruzzo in quanto terra inospitale. Ebbene, per convincere l’amico del contrario, adduceva, tra le altre argomentazioni, proprio la presenza di fichi secchi nella zona del chietino, elogiandoli come una prelibatezza del posto. La produzione e il commercio di fichi secchi si conferma molto importante tanto da essere ancora menzionato tra le virtù del popolo atessano nel 1797 nel Dizionario geografico-ragionato del regno di Napoli di Laurent Justinien, ove si ricorda come esso commerci di olio, ghiande e fichi secchi nel territorio di Lanciano e nei paese limitrofi (p. 38) Naturalmente, fonti scritte più copiose risalgono al XIX secolo. È del 1805 (Memorie di Atessa, vol. I, pars I) di Tommaso Bartoletti un documento per noi di grande interesse, in quanto prettamente atessana sulla produzione e commercio di ‘caracìne’, di seguito riprodotta: «… Raccolta di fichi secchi è un capo eziandio di non spregevole industria, volgarmente detti ‘caracine’ potendo avere la sua origine dal latino carica, ‘carices’, fico secco… Vi sono molte varietà di fichi, ma il più pregevole per seccarsi è il Cicolo, per la squisitezza, e sapore misto di una odorosa fragranza. Avidamente vanno questi ricercati e si vendono a carissimo prezzo per le grandi commissioni, 78 Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, 3, Napoli, 1789, 220. 79 Elementi di agricoltura, Milano, 1784.

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che vi ricevono, e per le dimostrazioni che fare debbono i naturali ai loro corrispondenti. Una tal pianta fuori dal territorio atessano poco alligna». Nelle pagine successive Bartoletti ricorda come i fichi secchi, insieme con l’olio, fossero oggetto di baratto con i “montagnoli” in cambio di formaggio.

La bella cronaca ci fa capire come fosse antica la produzione e il commercio di fichi secchi in Atessa che il Bartoletti definisci “cicoli”, ossia in antico dialetto atessano “piccoli, come il medesimo autore riporta nel suo dizionario atessano-italiano80 . questi fichi non solo erano autoctoni, ma stando a Bartoletti, erano molto ricercati secchi, anche fuori regione. Un dato importantissimo che convalida l’antichità della tradizione locale, famosa e caratterizzante il territorio. 80 Bartoletti, Memorie di Atessa, cit., p. 232, voce 83.

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A ribadirlo ci sono gli scritti di Giuseppe Del Re, nel 1835, che in una sua opera (Descrizione topografica fisica economica politica de’ Reali Domini, Volume 2. p. 439-440): «I fichi sono in tale e tanta abbondanza, che molti comuni de’ Distretti di Chieti e di Lanciano ne seccano al sole o al forno una quantità così eccessiva, che oltre il consumo interno, ne vendono una parte alle genti di montagne, ne imbarcano un’altra per la Dalmazia, Fiume, Trieste, Venezia e ne traggono 15mila ducati all’anno …». Sempre il nostro, qualche pagina più in là, aggiunge (p. 463): «Molto attivo è il traffico giornaliero de’generi d’importazione ed esportazione, che si menano da luogo in luogo. I comuni che lo esercitano di vantaggio sono ... Atessa ... da cui si estraggono ogn’anno fichi secchi ..., il valore de quali eccede a dismisura quello de prodotti stranieri ...». Come si vede la produzione e il commercio di fichi secchi in Atessa era così fiorente da essere menzionata in testi a carta stampata, allora merce rara e preziosa. I fichi rappresentavano una ricchezza per il nostro territorio, una voce importante di quello che noi oggi chiameremmo dell’export. Tali dati possono apparire meno astratti se si guarda un documento di quegli anni custodito presso l’Archivio storico atessano, consistente in un dettagliata estratto di mappa ove sono descritte le colture di fichi con i vari tipi, in Atessa (su cui si veda la parte del presente lavoro dedicata al progetto di Vincenzo Menna). Nelle cronache del tempo il nostro frutto caratterizzava così tanto Atessa, che Francesco Costantino Marmocchi nel Nuovo Dizionario di geografia universale, (p. 694), nel 1858, nel parlare di Atessa, menzionava i fichi: «Situata nel distratto di Vasto, capoluogo circondario nella diocesi di Chieti –, Atessa è circondata da eccellenti pascoli, popolati da numeroso bestiame–. I principali prodotti del suo territorio, quelli dei quali si fa gran traffico, sono grano, mais, olio, fichi, ghiande ...» Un legame strettissimo quello tra atessani e fichi secchi, funzionale al nutrimento di un popolazione, ma anche alla sua economia, come ancor oggi potrebbe essere. Naturalmente i fichi erano consumati in vario modo; celebre era il torrone ricordato, appunto perché tipico di Atessa, in resoconti esteri de 191481. Gerhard Rohlfs, linguista tedesco, in un suo articolo del 193782, ricorda come proprio come proprio in Atessa, i fichi fossero fatti essiccare, nei tempi più antichi, su di un tessuto composto da frasche di ginestra. Poiché, per via dei vermi l’essiccazione era una pratica difficile, i fichi secchi erano considerati un alimento per i signori, mentre ai poveri, nella stagione invernale, era riservato il consumo di noci. 81 Berichte über handel und industrie, 20, Berlin, 1914, p. 536, «Biskuits werden in Campobasso, Boiano und S. Massimo, ferner Torroni, ein süßes Mandelgebäck, in Sulmona, Ricria, Jsernia, Boiano und Atessa sowie Torroni di fichi als Spezialität in Varri hergestellt ...» 82 Mundarten und Griechentum des Cilento, in ZRP., 57, 1937, p. 498.

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Ancora negli anni sessanta del secolo scorso Atessa era famosa per i fichi, tant’è che Sciziano, con ironia, inserisce i fichi nella sue riproduzioni di antichi stemmi del 1700. Nel 1965 la guida del Touring club italiano, p. 83, menziona i fichi bianchi di Atessa tra le specialità regionali.

Fase avanzata dell’essicazione dei fichi 60


Fichi e ‘i fichi di Atessa ‘ Aspetti botanici Francesco Minonne La botanica del fico domestico risulta molto complessa; da un tipo originario (razza erynosice), con fiori femminili assieme a fiori maschili, nella prima fioritura, e con soli fiori femminili ed infruttescenze eduli nella seconda, si sarebbero originate due entità botaniche: Ficus carica caprificus L. e Ficus carica domestica L.; la prima con fiori maschili assieme a fiori femminili e senza frutto edule nota con il nome di Caprifico (fico da capre), la seconda con soli fiori femminili e frutto edule, Fico domestico. Sono proprio le infiorescenze, racchiuse all’interno di un ricettacolo carnoso, che nel loro insieme formano il cosiddetto “siconio”, nome con il quale si indica il fico che noi gustosamente mangiamo in tutta la sua polposa dolcezza. Il siconio termina nella parte superiore con un foro (ostiolo), munito di squame (squame ostiolari), il quale mette in comunicazione la cavità interna con l’esterno; esso assume all’esterno la forma di una trottola più o meno allungata e presenta diverso colore a maturazione a seconda della varietà. I botanici includono il siconio tra i “falsi frutti” proprio perché chi lo rende tale non è la maturazione dell’ovario come avviene nei veri frutti ma l’ingrossamento del ricettacolo che ingloba e racchiude al suo interno i tanti fiorellini e poi frutticini chiamati acheni che sentiamo sotto i detti soprattutto nei tipi più granulosi. La larga disseminazione di semi, che naturalmente possono essere ingeriti ed emessi con le deiezioni senza che venga alterata la loro facoltà germinativa, è opera dell’uomo ma anche degli uccelli ed altri animali. è proprio questa disseminazione, che da origine a forme selvatiche, ma che in qualche caso presentano frutti eduli ed assai pregevoli; scelte quindi dai coltivatori, esse entrano a far parte delle piante coltivate e, da quel momento, propagate per via vegetativa, diventano varietà e cominciano il loro percorso storico. Le piante di fico domestico possono produrre, secondo le cultivar, tre tipi di infruttescenze in tre diverse generazioni; quelle con una sola generazione producono i soli “fòrniti” o “fichi veri” e si dicono “unìfere”; quelle con due generazioni producono i “fòrniti” ed i “fioroni” si dicono “bifere” ed infine le più rare, dette “trìfere”, producono “fòrniti”, “cimaruoli” e “fioroni”. I fioroni o fiori di fico si formano nell’autunno e nella primavera, sviluppano e, giungono a maturazione tra la fine di giugno ed i primi di luglio; i fichi veri o fòrniti si formano in primavera all’ascella delle foglie dei nuovi germogli e maturano in agosto-settembre, fino ad ottobre in alcune varietà. La matura61


zione è raggiunta quando sulla buccia si distinguono le caratteristiche screpolature ed il picciolo del siconio cambia l’angolo di attaccatura con il ramo. Le foglie, caduche, sono palmate, divise da uno a sette lobi più o meno pronunciati a seconda delle varietà e del vigore della pianta; la pagina superiore è verde più intenso e lucido rispetto alla pagina inferiore ed entrambe risultano scabre al tatto. Le gemme a legno sono in genere all’estremità dei rami; quelle fiorifere si trovano anche all’ascella delle cicatrici delle foglie dell’anno precedente o delle foglie dei rami dell’anno e dei germogli dell’anno. La rottura dei rami, il distacco dei frutti e delle foglie, quando la pianta è in vegetazione, provoca la fuoriuscita della linfa lattiginosa (latte di fico) irritante ed appiccicosa. Il fico è considerato pianta xerofila, resistente quindi ad ambienti siccitosi, dei climi subtropicali e temperati. La biologia e morfologia fogliare e radicale spiegano il suo ampio potere di resistenza ad alcuni fattori climatici ed edafici. Il potente sistema radicale, capace di perlustrare vari strati di terreno, e le foglie coriacee e prontamente caduche permettono alla pianta di resistere alla scarsa umidità del terreno. La vegetazione però si avvale ottimamente della umidità esistente nel terreno in quantità media e delle frequenti piogge, varietà quando il terreno è sciolto e la temperatura è elevata. Un aspetto biologico importante e di grande suggestione che questa varietà esprime è poi quello della “caprificazione” ovvero la fecondazione mediante il polline giunto al fico domestico dalle infiorescenze del caprifico. Un insetto, Blastophaga psenes, che normalmente svolge il suo ciclo nelle diverse infiorescenze del caprifico, uscendo da queste, porta il polline ai fiori femminili dei siconi del fico domestico e ne permette la fecondazione degli ovuli.

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Coltivazione e produzione Il fico, come molte delle circa 800 varietà di ficus esistenti sul pianeta, ha una grande facilità nell’emettere radici a contatto con il terreno e forse anche per questo è stata una tra le prime piante coltivate dall’uomo. La sua propagazione è infatti molto facile ed avviene principalmente mediante talee, parti di rami invernali di circa 25-30 cm, che vengono fatte radicare interrandole in vaso o in pieno campo nel periodo che va da novembre a febbraio. La capacità di adattarsi anche ai terreni più poveri, la facilità di riproduzione sia per talea che per pollone radicato, ne ha fatto uno degli alberi più diffusi nei climi temperati. La sua ecologia lo ha spinto a diverse latitudini avendo un’ottima adattabilità alle temperature elevate e potendo resistere, in riposo vegetativo, a temperature vicino ai -10 C°. è una delle poche piante da frutto che resiste senza particolari problemi ai venti salini in tutte le fasi vegetative; i ficheti costieri ma anche quelli presenti sulle isole mediterranee sono una vera testimonianza in tal senso. La squisitezza dei suoi frutti, la brevità del tempo in cui l’albero inizia a produrli, (3-4 anni) la buona resistenza alle malattie, hanno ulteriormente contribuito alla sua enorme diffusione. Le condizioni ottimali sono tuttavia quelle che vedono vegetare il fico nei climi temperati, in terreni di buona struttura in cui non vi siano ristagni idrici invernali, in cui l’acqua sia presente in maniera regolare. Il fico, infatti, esprime tutte le sue potenzialità qualitative e produttive quando l’umidità del terreno è mediamente presente, soprattutto d’estate, allorché la pianta, in condizioni di siccità, può essere costretta a perdere le foglie per portare al minimo le perdite di acqua. Nelle condizioni migliori anche i frutti sono migliori e ben tenuti sui rami. Le coltivazioni tradizionali di fico prevedevano sesti di impianto molto ampi con distanze tra le piante notevoli (7x7, 8x8, ecc.); negli attuali impianti un sesto ritenuto idoneo prevede una minore distanza tra le piante (5x5, 4x6 ecc.). In generale sesti di impianto stretti sono consigliati per ficheti specializzati mentre sesti più ampi sono idonei a coltivazioni promiscue consociando il fico con altre varietà fruttifere legnose. Per una buona crescita delle piante si rende necessaria una irrigazione costante nel periodo estivo almeno per i primi 4-5 anni di vita degli alberelli; successivamente potrebbe essere necessarie solo irrigazioni di soccorso nelle estati più aride. 63


In ogni caso una buona gestione dell’acqua nel suolo, evitando stress idrici da eccesso o lunghi periodi di secco. È una condizione necessaria non solo per un rapido e produttivo sviluppo dell’albero ma per una sua migliore resistenza alle avversità, ai parassiti ai competitori naturali con cui ogni pianta coltivata deve fare i conti. Le avversità. Le avversità meteorologiche e biologiche possono però essere diverse e limitare, nei casi più gravi, le produzioni ed il loro valore commerciale. Come detto la siccità prolungata produce defogliazione e caduta dei frutti ma altrettanto dannose sono le piogge nel periodo di maturazione dei frutti, le gelate primaverili, i venti eccessivi che danneggiano le foglie ed i rami giovani oltre naturalmente alle grandinate che oltre a provocare danni immediati sulle foglie e giovani rami , possono produrre ferite sui tronchi principali che diventano nel tempo punti di accesso a funghi e batteri causa di diverse malattie. Tra queste certamente noti sono i cancri rameali prodotti da funghi diversi tra cui certamente Phomopsis cinerascens. I cancri si evolvono nel corso degli anni e formano una scorza screpolata con puntinatura nera. Penetrano all’interno dei tessuti con un colore aranciato caratteristico, generalmente a livello delle piaghe o delle cicatrici. Anche la potatura produce cicatrici e quindi è molto importante il modo in cui viene eseguita. Una potatura corretta, infatti, prevede un periodo giusto di esecuzione, strumenti bene affilati e tagli corretti che non lascino monconi o strozzature. Le cure possibili sono quindi legate alla prevenzione. Se i tessuti sono attaccati dal cancro bisogna procedere con un’asportazione della parte cancerosa fino ad arrivare al legno sano, bianco o verde chiaro. I rami troppo compromessi saranno eliminati e bruciati. Trattamenti possibili sono a base di formulati rameici, utili soprattutto dopo una grandinata e dopo la potatura. La persistenza di questi cancri indebolisce la pianta che può essere colonizzata da altri parassiti. Un importante virosi del fico è quella provocata dal Virus del Mosaico (FMV) che si può evidenziare sulle foglie e la cui lotta non può essere fatta se non con la prevenzione attraverso l’impianto di solo materiale certificato e l’eliminazione controllata di quello eventualmente infetto. Tra i parassiti animali vi sono poi alcuni fitofagi; tra questi i più diffusi sono certamente le cocciniglie (Ceroplastes rusci, Chrysomphalus dictyospermi, Mytilococcus conchiformis, Planococcus citri, Planococcus ficus). Si tratta di parassiti che difficilmente compromettono la produzione e la qualità di piante ben coltivate. In ogni caso l’inerbimento controllato da periodiche falciature e la buona gestione della biodiversità animale e vegetale in azienda come siepi, nuclei di flora spontanea, muretti a secco favoriscono la presenza di nemici 64


naturali che ben contrastano la diffusione di questi insetti. Trattamenti eventualmente suggeriti in agricoltura biologica sono a base di olio di paraffina. Il principale parassita dei frutti è poi la mosca del fico (Lonchea aristella); sempre presente e nefasta nelle zone più calde. Un attacco di mosca può far abortire fino al 60% dei frutti in formazione. La prima generazione si sviluppa sui caprifichi. Le cinque o sei generazioni successive, di importanza crescente, da fine maggio a inizi novembre, attaccano soltanto i frutti verdi che vengono punti soltanto 30/ 40 giorni prima della maturazione. La maggior parte dei frutti attaccati arrossisce e cade. Le larve escono e si trasformano in ninfe nel terreno. La lotta più efficace consiste nello scoprire precocemente la presenza degli adulti con trappole specifiche. L’impossibilità di trattare con prodotti chimici i frutti in maturazione impone l’utilizzo eventualmente di prodotti ed estratti naturali ultimamente in commercio in agricoltura biologica. Infine alcune varietà di uccelli sono temibili consumatori dei frutti; in particolare le gazze sono da considerarsi le più voraci anche per il loro impressionante aumento in alcune aree. Al confronto altri uccelletti, spesso citati in letteratura quali possibili avversità del fico, sono da riabilitare ad utili compagni del ficheto biologico ed un loro tornaconto è ben accetto in cambio della loro partecipazione all’equilibrio complessivo della campagna. Produzione dei frutti e raccolta. Nella nostra Regione la principale produzione dei frutti avviene in piena estate; le varietà bìfere, quelle che hanno due fruttificazioni, coprono una lunga stagione di produzione e garantiscono rese davvero elevate. Dal punto di vista produttivo, infatti, il fico è pianta generosa varietà in condizioni colturali ottime; si pensi che per alcune varietà un solo esemplare, di età compresa tra i 15 e 25 anni, può arrivare a produzioni di circa un quintale di prodotto fresco all’anno; quando la sua età supera i venticinque anni il raccolto è destinato a raddoppiarsi fino poi a decrescere quando l’albero supera i cinquant’anni. La raccolta dei frutti è rigorosamente manuale, da farsi sempre in contenitori rigidi che non ammacchino i siconi i quali vanno staccati dal ramo cercando di non rompere la buccia vicino al peduncolo. I fichi, indipendentemente dalla loro destinazione, devono arrivare in magazzino intatti e freschi; altrettanto rigoroso quindi deve essere il momento della raccolta dall’albero che deve avvenire nelle primissime ore del mattino quando i fichi mantengono ancora le basse temperature della notte e le condizioni dell’aria garantiscono le migliori pratiche di lavoro ed igiene.

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Fichi freschi, foto di Francesco Minonne

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La biodiversità del fico: tante varietà per tutti i gusti Francesco Minonnne

L’antichità della coltivazione e la forte variabilità della varietà hanno prodotto, nel mondo, un numero elevatissimo di varietà di fico. In particolare, ciò è accaduto nel Mediterraneo che rimane ancora oggi l’area di massima diffusione. Ancora oggi, l’enorme ricchezza della gamma varietale dei fichi di Puglia, stimabile in oltre duecento specie, costituitesi nel corso di secoli di coltivazione, testimoniano la rilevanza di questa coltura sia nell’economia, nell’alimentazione e nella vita sociale stessa della popolazione. In Italia, nel periodo rinascimentale, erano conosciute più di cinquecento varietà diverse. Giorgio Gallesio, uno dei più importanti pomologi italiani, nella sua monumentale opera sulle varietà di piante da frutto Pomona Italiana (1820), ed in particolare nel Trattato del Fico (ivi contenuto), ne descrive 450 e, per alcune di queste, ne fa ricavare delle stupende illustrazioni botaniche, veri capolavori della pittura botanica; nei suoi innumerevoli viaggi, l’instancabile studioso, rende così omaggio alla diversità e alla bontà dei frutti diffusi su tutto il territorio italiano. Nello stesso periodo in cui lavora Gallesio altri autori, tedeschi, francesi, inglesi, olandesi e belgi intraprendono opere simili. Sempre sul fico, di grande rilievo sono le tavole contenute nella Monographie de la figue (mai pubblicata e anteriore al 1823) del Marchese de Suffren. Nell’opera sono raffigurati centoventisei fichi verdi e ottantanove fichi neri rinvenuti nelle campagne francesi. Studiosi più recenti, all’inizio del secolo scorso, hanno ulteriormente approfondito le conoscenze sulla biodiversità del Fico. Una delle monografie più complete è di Gustav Eisen (The Fig, 1901) che descrive, più o meno dettagliatamente, 360 varietà. Le monografie del novecento hanno un contenuto iconografico meno dettagliato e suggestivo di quelle del secolo precedente. Le migliori, tuttavia, oltre a contenere preziosi disegni e, successivamente, tavole fotografiche sono articolate in schede descrittive scientificamente più accurate. 67


Tra queste la più imponente è certamente quella di Ira J. Condit, Fig Varieties: a Monograph (1955), elaborata nell’arco di più di trenta anni di studi, condotti soprattutto in California, e viaggi in diversi paesi del Mediterraneo, come Italia, Francia, Algeria, Portogallo, Spagna, Grecia e Turchia. In Puglia, Ferdinando Vallese, Direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura, nel suo Il Fico (1909), descrive dettagliatamente 34 varietà ma ne indica circa 90. Di particolare interesse sono le sue note relative alla coltivazione, trasformazione ed esportazione dei fichi, all’inizio del secolo ed il suo lavoro rimane un punto di riferimento importante per la conoscenza del fico in Italia.

Fico Dottato fiorone, foto di Francesco Minonne 68


Varietà locali

Dottato Dottato è un nome meridionalizzato, ossia ottato, scelto, preferito, per indicare il fico cottana di cui Marziale83 e Plinio84 cantavano le lodi e di cui rimane traccia nel dialetto del territorio di Atessa ove è detto ‘uttane’. Come il Brigiotto si presta ottimamente all’essiccazione sin dai tempi antichi, tant’è che i Romani chiamavano anche cottana i fichi secchi provenienti dalla Siria85. Data di germogliamento: 25/3 – 4/4; Data di maturazione: fioroni, inizio 25/6; piena: 5/7; fine: 10/7; fòrniti: inizio 7/9; piena: 30/9; fine: 30/10 Produttività: fioroni: 10/15 kg/pianta adulta; fòrniti: 25/35 kg/pianta adulta Cascola: a volte sensibile nei fioroni Vigoria: mediamente vigorosa Chioma: espansa e mediamente folta Rami di un anno: hanno corteccia lisca ed opaca, di colore marrone grigiastro scuro. Non hanno striature e lenticelle sono di colore avana, e molto evidenti nei pressi dei nodi. Gemme apicali: di forma conica, hanno dimensioni medie e colore verde scuro. Si trovano sullo stesso asse del ramo. 83 Per l’etimologia del termine dialettale, cfr. retro, Parte I. Epigrammi, 13.1: Vas cottanorum haec tibi quae torta venerunt condita meta, si maiora forent cottana, ficus erat. Un vaso di piccoli fichi dalla Siria. I frutti che ti sono arrivati in un cono rovesciato, se fossero più grandi, sarebbero fichi veri. 84 Plin., Naturalis Historia, 15.21.83: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cavneae. … A questa varietà (i fichi che potevano essere mangiati con il formaggio) appartengono come ho ricordato, i cottani, i fichi freschi della Caria, i Caunei i quali fornirono un presagio a Crasso che s’imbarcava contro i Parti. 85 Giov., Sat., 1.3: … Me prior ille signabit fultusque toro meliore recumbet, aduectus Romam quo pruna et cottana vento? … che prima di me firmi un documento o sul letto migliore alle cene si stenda chi a Roma è giunto con lo stesso vento che porta prugne e fichi secchi?

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Foglie: di forma variabile, sono in maggioranza trilobate e variano dalla forma intera a quella pentalobata. Possono esserci degli speroni in quelle pentalobate e tutte hanno seni peziolari ed ampi. Frutti (fioroni): periformi ed ovoidali, hanno apice emisferico e collo pronunciato. L’ostiolo è semiaperto con brattee aperte, la buccia è verdegiallastra, con piccole fenditure longitudinali nella zona mediana. È di medio spessore e di facile sbucciatura nella zona del collo. La polpa ha color rosa-granato e sfuma al violaceo verso la parte interna del ricettacolo. Ha consistenza mediamente soda ed è abbastanza aromatica. È succosa, con succo denso che non fuoriesce dall’ostiolo. Ha sapore dolce e riempie totalmente il lume interno del ricettacolo. Gli acheni sono numerosi e di medie dimensioni. Dimensioni medie: larghezza 48,20 mm.; lunghezza 67,93 mm. Peso medio: 68,66 g/frutto Fòrniti: di forma di trottola allungata od ovoidale, hanno apice emisferico-appiattito e collo ben evidente. L’ostiolo è semiaperto con brattee aperte. la buccia ha colo giallo-verdastro con alcune fenditure longitudinali nella zona mediana. È sottile e di facile sbucciature nella zona nediana e nel collo. Il ricettacolo è biancastro e di colore medio. La polpa ha color ambrato chiaro o rosso granato chiaro, consistenza mole e molto aromatica. Ha una buona succosità con succo denso che fuoriesce dall’ostiolo a maturità completa. Il sapore è dolce mielato, con un certo retrogusto di melone, e riempie quasi totalmente il lume interno del ricettacolo. Gli acheni sono piccoli e numerosi. Dimensioni medie: larghezza 42,00 mm.; lunghezza 47,60 mm. Peso medio: 46,33 g/frutto Resistenza alle manipolazioni: buona Resistenza all’ammezzimento: buona Destinazioni dei frutti: entrambe le fruttificazioni sono usate per il consumo fresco; i fòrniti sono adatti all’essiccazione Pregi dei frutti: sapore, sorbevolezza e finezza degli acheni Pregi dell’albero: produttività costante

* Le schede botaniche sono state tratte da E. Casini, G. D’Amato, S. Alessandri, Le selezione clonale nelle varietà di fico (ficus carica l.) coltivate nelle province abruzzesi di Chieti e Pescara: individuazione di presunti cloni, in Agricoltura –ricerca, 112-113, 1990, p. 49 ss., che si ringraziano.

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Reale Bianca di Atessa Il fico reale di Atessa prende il nome dal re di Francia, infatti è detto anche di Versailles86, è una varietà molto apprezzata da almeno due secoli, ed è il frutto ideale per l’essiccazione, tant’è che si ritiene fin dal 1800, che sia più gustoso consumato secco che fresco. Data di germogliamento: 5/4 -12/4; Data di maturazione: fòrniti: inizio 15/8; piena: 30/8; fine: 30/09 Produttività: fòrniti : 35/45 kg/pianta adulta Cascola: assente nelle annate normali Vigoria: mediamente o basse Chioma: di medie dimensioni Rami di un anno: hanno corteccia lisca ed opaca, di colore marrone verdastro. Non hanno striature, ma con lenticelle di colore avana molto evidenti nei pressi dei nodi. Gemme apicali: di forma conica allungata, hanno dimensioni medio-grosse e colore verde giallastro chiaro. Sono inclinate rispetto allo stesso asse del ramo. Foglie: in maggioranza trilobate ma anche penta lobata, non hanno speroni. Hanno semi peziolari poco profondi. I lobi inferiori formano dei tipici allargamenti verso il basso. Frutti (fòrniti): di forma variabile tra la sferica e quella a trottola, hanno apice emisferico, collo ben distinto, ostiolo semiaperto e brattee chiuse. La buccia è di color giallo-verdastro chiaro con 2 o 3 fenditure longitudinali, lunghe circa 1 o 2 cm, nella zona mediana. La polpa è di colore ambrato pallido, aromatica e di consistenza molle. È succosa con succo che generalmente fuoriesce dall’ostiolo. Ha uno spessore medio ed è di facile sbucciatura nella zona del collo. Ha sapore dolce mielato e riempie totalmente il lume interno del ricettacolo. Gli acheni sono piccoli e poco numerosi. Dimensioni medie: larghezza 45,26 mm.; lunghezza 57,20 mm. Peso medio: 55,00 g/frutto Resistenza alle manipolazioni: buona Resistenza all’ammezzimento: elevata Destinazioni dei frutti: il consumo fresco ed essiccazione Pregi dei frutti: sapore, sorbevolezza e resistenza alle avversità Pregi dell’albero: elevata produttività precoce. 86 Le notizie sul fico reale sono state già riportate nella parte di questo libro da Vincenzo Menna dedicata al progetto Ficusnet, e sono tratte da AA.VV., Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, cit., p. 219.

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Reale di atessa (polpa rossa)

Data di germogliamento: 5/4 - 10/4; Data di maturazione: fòrniti: inizio 15/8; piena: 01/09; fine: 30/09 Produttività: fòrniti: 30/40 kg/pianta adulta Cascola: assente nelle annate normali Vigoria: media Chioma: di medie dimensioni Rami di un anno: hanno corteccia lisca ed opaca, di colore marrone verdastro. Non hanno striature, ma con lenticelle di colore avana molto evidenti nei pressi dei nodi. Gemme apicali: di forma conica allungata, hanno dimensioni medio-grosse e colore verde giallastro chiaro. Sono allineate rispetto allo stesso asse del ramo. Foglie: in maggioranza trilobate ma anche penta lobata, non hanno speroni né lobi pronunciati. Hanno semi peziolari poco profondi.. Frutti (fòrniti): di forma variabile tra la sferica e quella a trottola, hanno apice emisferico, collo ben distinto, ostiolo semiaperto e brattee chiuse. La buccia è di color giallo-verdastro chiaro con 2 o 3 fenditure longitudinali, lunghe circa 1 o 2 cm, nella zona mediana. Ha uno spessore medio ed è di facile sbucciatura nella zona del collo. La polpa ha colore rosso-ambrato, sfumato in biancastro verso la parte interna de ricettacolo. ha consistenza molle e discreta aromaticità. È molto succosa con succo denso che raramente fuoriesce dall’ostiolo. Ha sapore dolce mielato e riempie totalmente il lume interno del ricettacolo. Gli acheni sono piccoli e poco numerosi. Dimensioni medie: larghezza 42,53 mm.; lunghezza 51,86 mm. Peso medio: 44,66 g/frutto Resistenza alle manipolazioni: buona Resistenza all’ammezzimento: elevata Destinazioni dei frutti: consumo fresco ed essiccazione Pregi dei frutti: sapore, sorbevolezza e resistenza alle avversità Pregi dell’albero: elevata produttività e discreta resistenza alle malattie.

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Turca nera Data di germogliamento: 1/4 – 07/4. Data di maturazione: fòrniti: inizio 20/09; piena: 30/09; fine: 30/10 Produttività: fòrniti: 15/20 kg/pianta adulta. Cascola: molto sensibile nei fioroni in annate con primavere molto fredde. Vigoria: media Chioma: di medie dimensioni Rami di un anno: hanno corteccia lisca ed opaca, di colore marrone rossastro. Non hanno striature, ma con lenticelle di colore avana molto evidenti. Gemme apicali: di forma conica, hanno dimensioni medie e colore marrone rossastro chiaro. Sono divergenti rispetto allo stesso asse del ramo. Foglie: in egual proporzioni trilobate e pentalobate, che hanno speroni e seni peziolari ampi e profondi le tribolate, invece, hanno tipici allargamenti alla base del lembo fogliare. Frutti (fòrnti): di forma intermedia tra quella a trottola, allungata con collo schiacciato e quella conica, più semplicemente a sacco, hanno apice emisferico appiattito e collo corto. L’ostiolo è semiaperto con brattee semichiuse. La buccia ha color rosso violaceo, sfumato in verdastro sul collo. Vi sono in genere 3 o 4 fenditure longitudinali, lunghe in media 3-4 cm nella zona mediana. Il ricettacolo è biancastro e medio sottile. La polpa ha color rosso carminio ed è molle o mediamente soda, ma poco aromatica. È succosa con succo denso che non fuoriesce dall’ostiolo. Ha sapore dolce e riempie parzialmente il lume interno del ricettacolo, gli acheni hanno dimensioni medie e sono numerosi. Dimensioni medie: larghezza 43,13 mm.; lunghezza 66,46 mm. Peso medio: 53,33 g/frutto Resistenza alle manipolazioni: buona Resistenza all’ammezzimento: media nei fòrniti Destinazioni dei frutti: consumo fresco, i fòrniti a volte anche essiccati Pregi dei frutti: aspetto (colore, forma e pezzatura) Pregi dell’ albero: produttività abbastanza elevata Difetti: sensibile ai freddi: ne risente soprattutto la produzione di fioroni.

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Varietà minori La diffusione e la persistenza delle varietà è legata all’attitudine dei frutti ad essere essiccati. Pertanto, molte varietà locali stanno divenendo sempre più rare, e forse vanno, a maggior ragione ricordate e recuperate. Tra queste vi sono: Fico di Natale varietà matura tardivamente, dai primi di novembre alla metà di dicembre, a rami nudi, senza più foglie. Può essere a buccia bruna o bianca, comunque coriacea; la polpa di tale tipologia è in genere rossa e granulosa; attecchisce nei terreni poveri di acqua. Fico Callara tipico della nostra regione, molto resistente agli agenti parassitari, con foglie intere, talora tre penta lobate, bifora. Il frutto è di pezzatura medio piccola, di 55 grammi di peso medio, piriforme, spanciato, con buccia di colore rosso marrone, costoluto. Fico Dattero frutto piccolo, senza peduncolo di colore marroncino, con polpa molto dolce e con giusto rapporto polpa/semi, molto resistente ad agenti parassitari utilizzato fico da essicazione per eccellenza: «fresco è troppo dolce, ma secco è buonissimo; i terreni asciutti sono ad esso i più confacenti87».

Dolce con i fichi , foto di Silvio Masciangelo 87 Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, p. 219.

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Essiccazione dei fichi reali di Atessa Vincenzo Menna

L’excursus storico ha reso evidente come l’essiccazione dei fichi fosse conosciuta nel nostro territorio già in epoca preromana. Si è avuto modo di vedere, anche, come i Romani conoscessero modi precisi di essiccazione sia al sole, sia attraverso il calore dei forni. Gli stessi antichi utilizzavano canne affilate ove infilzavano i fichi per farli seccare, o letti di canne dove adagiare i frutti esposti al sole. La raffinatezza della tecnica arrivava anche a farli affumicare sino a renderli secchi. Si è poi ricordato come questa tradizione plurisecolare si sia radicata anche in Atessa, famosa, tanto per la prelibatezza del suo fico ‘reale88 bianco’ quanto per la maestria con cui i fichi erano essiccati, fino a una manciata di anni fa. Pertanto, è ancora viva nella memoria di molti, e nella pratica di alcuni, il metodo di essiccazione dei fichi ‘reali’ di Atessa. La semplicità apparente di tali tecniche richiede due fattori essenziali per la sua riuscita, ossia la buona qualità dei fichi, la pazienza e la cura nel seguire il procedimento. Si parte naturalmente dalla raccolta del fico ‘reale’ di Atessa che, a seconda del clima, avviene tra la seconda metà del mese di agosto fino alla fine del mese di settembre. Il fico, che sia arrivato al grado giusto di maturazione, presenta un colore verde chiaro con striature sul giallo e delle piccole ‘crepe’ sul dorso, appena accennate. I frutti vengono raccolti a mano con cura, facendo attenzione che rimangano integri e con il picciolo. Una volta colti, vanno sistemati, possibilmente, in canestri di vimini che non ne alterino la forma. Intanto, proprio secondo la tradizione, vengono preparati degli essiccatoi, ossia cannizzi legati tra di loro. Una volta raccolti, i fichi possono essere essiccati interi oppure tagliati al centro. In questo ultimo caso, l’operazione deve essere eseguita con un coltellino dalla punta ben affilata. Occorre precisare che i fichi si devono aprire e non dividere, in modo che le due facce non si separino del tutto. Successivamente, i frutti vengono adagiati sui cannizzi tutti dallo stesso lato, prestando attenzione che non si tocchino l’uno con l’altro. 88 Per le caratteristiche di tale fico si veda retro.

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Sarebbe opportuno che i cannizzi siano sopraelevati in modo che anche la parte inferiore, ossia quella ricoperta dalla buccia, traspiri e si essicchi. Quindi, i fichi vanno esposti al sole durante il giorno, coperti da un reticolato in fibra adeguato che li tenga al riparo dagli agenti esterni o dagli insetti. Per evitare che l’umido interrompa il processo di essiccazione, la sera i cannizzi debbono essere trasportati in luogo riparato ed asciutto. L’operazione, secondo un’antica tradizione locale, va ripetuta per alcuni giorni, in base al clima. Il processo di essiccazione può dirsi ultimato quando i fichi, pur secchi, sono ancora abbastanza morbidi al tatto. Ad essiccamento avvenuto, sarebbe opportuno disinfestare i fichi secchi; al tal fine, nelle produzioni artigianali si immergono i fichi in acqua di mare (o soluzione salina di Cloruro di sodio) bollente, per circa due minuti.

Essicazione sui cannizzi, foto dell’Associazione Culturale AENEIS 2000 A questo punto i frutti tagliati vengono arricchiti nel mezzo con un gheriglio di noce, richiusi e pressati in modo che non si aprano. I fichi, sia guarniti di noce che non, una volta essiccati, così come è stato descritto nei documenti storici, possono anche essere messi in forno per due o tre ore, a circa 80/90°. Infine vanno riposti con foglie di alloro89, in un luogo buio ed asciutto pronti per essere gustati nei mesi invernali. 89 La tecnica di riporli in cassette con foglie di alloro è antica e descritta in Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, cit., p. 226: «Quando i fichi sono competentemente secchi, si pigiano nelle casse a strati divisi con della paglia lunga o con foglie di lauro e questo secondo metodo è di gran lunga il migliore. Il lauro vi si frappone scarsamente ad oggetto solo per comunicare l’aroma».

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Ficus Carica L. Marilisa Laudadio

… un fico giova al sangue e al pensiero, alla parola e all’amicizia …

Il fico è il frutto più antico e più coltivato che la storia ricordi, resiste alla siccità, a temperature alte e basse (-10°), fa parte dello stesso habitat dell'olivo, della vite e degli agrumi. Proveniente dalle regioni orientali, dalla Mezzaluna fertile, (Carica dal latino Caria in Asia Minore) il fico si è diffuso intorno al 4000 a.C, grazie alla coltivazione, in tutto il mondo. Da sempre, in tutti i secoli ed in tutte le culture, all'albero di fico sono stati attribuiti significati e valori simbolici, ma anche “detti” e proverbi. è stato chiamato “Albero della conoscenza” sia del bene che del male, o “Albero impuro” per via di Adamo ed Eva. Nella Bibbia il fico ha il più alto numero di citazioni; a cominciare dal libro della Genesi 3,7: ”Ad Adamo ed Eva si aprirono gli occhi e si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” coprirono, quindi, le loro nudità con le foglie del fico e il frutto proibito, della tradizione iconografica, in realtà, non era la mela, ma il fico. L'equivoco sarebbe stato generato dall'errata traduzione del latino “malum”, inteso come “male” (aggettivo), nella parola “melo” (sostantivo). Quindi il frutto che il serpente, attorcigliato ad un ramo dell'albero di fico, offrì ad Eva non rappresentava il simbolo del male, del peccato, ma quello della conoscenza (potenza ctonia=sotterranea), di conoscenza salvifica, di resurrezione dalla morte, e di iniziazione nei Misteri. è stato chiamato anche “Albero della vita” o “Albero dell'immortalità” poiché, come la Fenice, pare fosse in grado di rinascere dalle sue ceneri e che il succo donasse poteri occulti. Nel rappresentare la vittoria della vita sulla morte diviene anche, in Egitto, “Albero cosmico” (unione tra la terra ed il cielo) in quanto il suo legno veniva impiegato per la costruzione dei sarcofagi e la dea Hathor era chiamata dea del sicomoro, un fico tre volte simbolo sacro: materia psiche, anima. 77


Ancora è stato chiamato “Albero delle meraviglie” e “Albero sacro con poteri misteriosi” poiché sembrava fruttificasse senza fiorire, in realtà oggi sappiamo che il fico che mangiamo e che noi chiamiamo frutto, rappresenta l'evoluzione dell'infiorescenza con un meccanismo molto particolare di crescita e i frutti veri sono i semini presenti all’interno, i siconi o falso frutto. Anche nella cultura indiana il fico, carico di significati simbolici, è sacro a Visnù e Shiva, perché considerato una potente medicina per i dolori, soprattutto di denti. Inoltre il fico veniva associato a Krishna, maestro di ”estatico amore divino” che dice: Io sono il fico. Nel Vecchio Testamento si parla dei fichi come di “risorsa della terra promessa”, simbolo di prosperità, insieme alla vite, e di vita gioiosa nel regno messianico. Nella cultura ebraica si racconta che il Profeta Isaia avesse curato le piaghe di re Ezechiele con un empiastro di fichi. In Egitto, il fico era considerato il frutto degli dei; Cleopatra amava molto i fichi, che consumava più volte al giorno, e veniva usato per varie malattie e soprattutto nella malattia detta “mangiatrice di sangue”, si trattava probabilmente di scorbuto (dovuto a forte carenza di vitamina C), che causava emorragie, gengivorragie e perdite di sangue in genere. Plinio ne parlava come di un rimedio di notevole importanza in tutte le malattie e nella sua opera, “Naturalis Historia”, lo raccomandava per aumentare e migliorare la salute di vecchi e giovani, per ridurre le rughe e tonificare la pelle. Platone, goloso di fichi, era chiamato il “Mangiatore di fichi” e il filosofo Zenone si cibava solo di fichi. Galeno affermava che i fichi erano i frutti meno nocivi. Dioscoride ne consigliava l'uso per guarire le infiammazioni purulente, i foruncoli, i paterecci, le fistole, gli ascessi e per i gargarismi, nei casi di infezioni della mucosa orale. Poeti e scrittori da Omero a Tasso, ma anche Dante, nella Divina Commedia, nell’Inferno XXXIII dice ”Qui riprendo dattero per fico” cioè posso ottenere più di quello che ho dato. L’Aretino, Pascoli, Leopardi hanno menzionato i fichi nei loro scritti. I versi del Vaccari descrivono la poesia di questo frutto ed il suo linguaggio: Di tra le foglie piatte/col suo bel ventre/tumido, verdiccio,/con la sua goccia tremula/di latte zuccherino/al mattino il buon polputo fico/primaticcio/mi da il rustican gaio saluto/dicendo: Oh tu mi cogli/se vuoi di me allegrar la tua merenda. Ancora da Testi Religiosi,troviamo una parabola di Luca: ”il guardiano di un fico ne mangia i frutti, ma egli deve vigilare attentamente per il suo padrone e prestargli cure” c’è l’esigenza di vedere buoni frutti e la misericordia di Dio verso l’umanità. Giuda si impiccò ad un albero di fichi, sembrava robusto ma si spezzava facilmente, e quindi fu chiamato anche albero traditore, e San Matteo collo78


ca il giorno nell’equinozio del 21 settembre con la raccolta di fichi. Infatti si dice “a settembre l’uva è matura e il fico pende” uno dei proverbi sul fico. Molte preparazioni, da sempre usate presso tutte le culture, rispecchiano antiche ricette presenti nei ricettari della Scuola Salernitana del 1200 e nei Ricettari Fiorentini. “Questa herba è di tale virtù che, seccandolo acerbo, factone polvere e quella posta in fistole, cancri, lupe, o male bolli, cura et rode la mala carne et conserva la buona”. Indicazioni dell’uso dei fichi dal testo di Pietro Andrea Mattioli del 1500: “Per ungere il morso delle serpi, per consolidare le ferite, è di aiuto nella milza dura, risolve il freddo al principio delle febbri, caccia la sete e spegne il caldo, mollifica il ventre. Vale per la tosse vecchia, giova agli stretti di petto, al mal caduco e agli idropinici. Gargarizzato, il decotto di fichi lenisce l’infiammazione delle fauci e delle parti interne interne delle gola; mescolato e impastato con la polenta d’orzo, si usa per i fomenti nei “luoghi delle donne”. I fichi secchi cotti e poi pesti risolvono le durezze, i foruncoli e gli ascessi dietro le orecchie. Cotti nel vino con assenzio e farina d'orzo si impastano e si pongono su idropisie, mentre arrostiti, e inceneriti curano e guariscono i gonfiori e le scrofole. Cotti e pestati con senape nelle orecchie dove c'è fischio e prurito. Con il vetriolo, sil fico, si applica sulle ulcere. Fa cagliare il latte, se messo nel latte rappreso lo fa disfare come l'aceto nel latte; ulcerativo, aperitivo, solve il corpo; bevuto insieme con le mandorle trite pulisce l'utero; applicato con rosso d'uovo o cera di Toscana provoca i mestrui; utile nella podagra (gotta) con aceto e farina di fieno greco; mondifica la scabbia, sana le impetigini, impetigine; le vitiligini, le macole (macchie) della faccia; la rogna, le ulcere del capo insieme alla polenta. Per punture di animali, morso del cane, scorpione e animali velenosi. Guarisce il dolore di denti, bagnandolo dentro la lana, e mettendolo nelle concavità, fa cadere quella specie di foruncoli simili ai porri ungendoli con grasso. Si spreme il succo, si secca all'ombra e si riposa, si aggiunge tanto latte quanto il succo nei medicamenti ulcerativi. 79


Per cuocere presto la carne dei buoi porre a bollire insieme. Mescolando il latte con un ramo di fichi mentre bolle, invece di spatola, diventa lassativo. Mollifica le durezze, le scrofole; le foglie fanno lo stesso con aceto, nitro, come linimento contro le ulcere del capo, le ferite tutte. Linimenti per le vitiligini bianche, impastato con mele per morsi di cani; i fichi con foglie di papavero selvatico cavano le ossa rotte; con cera d'api risolvono i foruncoli, i morsi del topo ragno e scolopendre; con la cenere dopo aver bruciato applicare su cancrena; al bisogno clisterizzato per la dissenteria o nei flussi vecchi del corpo, ulcere profonde e cavernose, mondifica, risana e consolida esse. Bevesi per liquefare il sangue appreso nello stomaco e bevuto con olio e acqua giova ai rotti, spasmi e ulcere al dolore dei nervi fino al sudore.� Tutto questo, e non solo, descriveva dell’utilizzo del fico Pietro Andrea Mattioli

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Numerose ricette di antica farmacia dedicate a problematiche respiratorie e gastroenteriche erano a base di fichi secchi. I nostri antenati non conoscevano la chimica ed i principi attivi delle piante, ma vivendo in simbiosi con la natura sentivano e percepivano quali fossero le piante da utilizzare come alimento e quali da utilizzare come medicamento. Per capire quali fossero le piante che potevano essere consumate osservavano il comportamento degli animali e l’utilizzo di ogni pianta da parte di essi, poi le assaggiavano e si regolavano di conseguenza. Osservavano anche le piante, studiavano la forma,il colore, l’odore e habitat. Analizzando poi la struttura e le sembianze del fico alla luce di quanto si afferma nella Dottrina delle Signature le “Signaturae rerum” di Paracelso ,e cioè la “Firma delle cose” (antica dottrina secondo la quale seguendo un complesso percorso di simboli ed analogie si afferma che le piante portano dei segni che ne indicano l’uso,e quindi,per analogia, assomigliano agli organi che sono in grado di curare, o hanno dei comportamenti “simili”all’uomo) si deduce che questo frutto, siccome somiglia allo stomaco,può curare lo stomaco, e poiché presenta al suo interno degli organuli del tutto simili ai villi intestinali,può anche curare l’intestino. Può anche curare l'infertilità maschile poiché i fichi sul ramo, spesso accoppiati, richiamano la forma dei testicoli. La scienza ha poi dimostrato la effettiva presenza di molecole che possono agire sulla vitalità e quantità di spermatozoi e sulle problematiche gasroenteriche. L'etimologia stessa del fico (dal greco σύκον = tumore) indica le sue proprietà antitumorali, probabilmente inteso come escrescenza carnosa, per cui era raccomandato da Ippocrate per l’orzaiolo e per tutto quello che proliferava. Veniva consigliato anche ai balbuzienti,sia bambini che adulti, di sostare sotto un albero di fico per “sciogliere la parola” e “aiutare la favella”. Alcuni scritti del periodo medievale riportano una vecchia prescrizione tipo una purea di fichi: raddolciscono le accrezze delle flussioni catarrali e del petto, fortificano i polmoni e confortano le malattie di reni e vescica. Columella, nel De Re Rustica,spiegava come seccare e conservare i fichi: “dopo averli abbrustoliti e, con aggiunta di anice, finocchio e curcuma, conservarli con molta cura in orci impeciati, evitando l’umidità e la rugiada”.

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Ricette di Antica Farmacia

Sciroppo dei fichi composti Fichi gr 120 Manna gr 80 Alcool gr 60 Zucchero gr 300 Menta O.E. 5 gtt. Garofano O.E. 5gtt. 20 giorni di macerazione, filtrare, conservare in luogo fresco e asciutto. 1 cucchiaio la sera come lassativo. Gocce di fico composto Fico gemma gr 50 Angelica T.M. gr 30 Salvia T.M. gr 10 Menta T.M. gr 10 Somministra 30-40 gtt dopo i pasti nelle difficoltĂ digestive. Sciroppo lassativo Fichi secchi gr 120 Sena gr 60 Manna gr 80 Zucchero gr 400 Alcool gr 60 Menta O.E. 1 gtt. Garofano O.E. 1 gtt. Acqua q.b. 1000 cc Somministra 1 cucchiaio mattina e sera. 82


I 5 frutti pettorali e lassativi Datteri gr 20 Carrubo baccello gr 20 Fichi secchi gr 20 Giuggiole gr 20 Uva passa gr 20 A macero in acqua per 5-6 ore. Bollire, spappolare, aggiungere zucchero, assumere a cucchiai. Specie curativa 5-10 fichi secchi in ½ litro di latte Bollire per 10 min per tosse angine, afte buccali: gargarizzare, bere durante il giorno. Sciroppo ricostituente Fichi secchi 10 Limone 1 succo Fare decotto, ridurre in crema, aggiungere limone, usare a cucchiai per 2-3 volte die nella magrezza e convalescenza di bambini e adulti.

Sciroppo lassativo per bambini Fichi secchi 10 Mele 1 Alcool gr 30 Latte 1 bicchiere Ridurre i fichi in purea, somministrare ai bambini come nutriente, ricostituente, depurativo dopo sverminazione.

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Decotto 100 gr di fichi in 1litro di acqua bollire x 10 min S. 2-3 tazze die da bere a sorsi come digestivo lassativo, dietetico. Specie pettorale 50 fichi in 1 litro di acqua con decotto di Edera o Marrubio S. bronchiti e tossi catarrali. Fichi secchi farina (alimento completo) 100 gr di fichi coprono il fabbisogno giornaliero di calcio e ferro Usato come ricostituente nelle anoressie e dimagrimento. Nel fico secco rispetto al fresco la quantitĂ di fibra aumenta di 5 volte.

Cesto di fichi Reali di Atessa, foto di Riccardo Menna 84


Nel Medioevo, i fichi si consumavano come antipasto, conditi con sale e aceto e spesso con salsa di pesce ( probabilmente il Garum, condimento-medicamento molto usato nell’antica Roma). Ricercati e sempre presenti sulla mensa dei ricchi, pietanza insostituibile e accompagnata da olive sulla mensa dei poveri I fichi erano considerati così gustosi che per preservare l’appetito si era soliti dire: “serbar pancia per fichi”, oppure, “in tempo di fichi non si hanno amici”, e infine, come dicono a Carmignano “ognuno è amico di chi ha un buon fico”. Un testo degli anni ’50 riporta la dicitura ”cibo veramente popolare per l’alto rendimento ed il minimo costo”. Produzione di alcool da fichi Fichi dopo fermentazione e distillazione De aceto ficulneum faciendo Fichi molto maturi raccolti e messi in botte per iniziare la fermentazione. Quando diventano acidi e producono succo, si filtra la quantità di liquido e si versa in vasi spalmati di pece, che conserva l’aroma. Questo è il miglior aceto ed il più forte,non produce muffa e si conserva se tenuto in posti non umidi Viene colato in cesti di giunco o sacchi di ginestra, fatto bollire per eliminare la schiuma e conservato aggiungendo sale tostato che preserva dalla formazione di parassiti e vermetti. Vincotto di fichi: i fichi cotti lentamente, rigirati continuamente per almeno 12 ore, deve addensare; è molto profumato e quasi cremoso. Da servire con i dolci, o con i formaggi o come dolcificante. Caffè Surrogato Fichi secchi (non interi) torrefatti e macinati per preparare caffè da soli o con l'aggiunta di orzo o anche cicoria torrefatti. Preparazione tabacco Foglie essiccate al sole, frantumate, macinate per preparare tabacco da fumare in pipa o da confezionare in sigarette. Mangime per animali Foglie verdi macinate ed aggiunte a cereali come remineralizzanti. Dolcificante I fichi essiccati e tritati venivano usati come edulcorante. 85


I consigli: Per una colazione da re 3-4 fichi tagliati in quattro parti in una tazza di latte,aggiungere una dozzina di acini di uva passa: da consumare al mattino a digiuno. Oppure pan d’orzo con fichi. In caso di stipsi 5-6 fichi lavati e tenuti a bagno tutta la notte. Consumare a digiuno per 3-4 gg. Principi attivi Le applicazioni e gli usi del fico in tutte le culture, erano legate ad una forma di conoscenza empirica, una specie di sentire, di percepire, una sorta di intelligenza innata dell’uomo primitivo quando viveva in simbiosi con la natura; ma la scienza, la sperimentazione e i vari studi hanno dato ragione ai nostri antenati e ai loro principi e al loro sapere ancestrale. Da analisi approfondite è emerso che questo meraviglioso frutto contiene una quantità incredibile di principi attivi che ne giustificano i vari impieghi e le proprietà. Il fico contiene il 50% di zuccheri,soprattutto glucosio, quindi energia pronta per sportivi, bambini, anziani e donne in gravidanza. Contiene mucillagini ad azione antinfiammatoria per le mucose dello stomaco e dell'intestino, siconina e lignina due principi attivi ad azione emolliente che conferiscono al fico una importante azione lassativa, non drastica, ma delicata che può aiutare, stimolando la peristalsi, a regolare le funzioni intestinali a tutte le età. Vitamine - la vitamina A (248 UI) dermoprotettiva grazie ad una importante azione di idratazione cutanea; - la vitamina E antiossidante, antisenescente, importante per la circolazione ed ossigenazione tissutale e soprattutto per la fertilità. - le vitamine del gruppo B, soprattutto l'acido folico, importante sia per la sua capacita di legare il ferro alla vitamina C per l'assimilazione, sia per ridurre i livelli di omocisteina plasmatica, la proteina implicata in tutte le patologie cardiovascolari. - La vitamina C antiossidante, protettiva delle mucose, antinfiammatoria, antiallergica, antiartritica.

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Minerali Il Calcio (269 mg) contenuto in grande quantità sia nel frutto fresco che in quello secco, importante per tutte le patologie ossee, soprattutto per osteoporosi, decalcificazione, problemi di crescita e ritardo staturo-ponderale.nei ragazzi in crescita. Il Rame, utile per ottenere un'azione disinfettante e cicatrizzante sia per sistemico che per uso esterno per applicazioni su piaghe, ulcere e ferite che cicatrizzano con difficoltà e anche per applicazioni sulla cute acneica. Il Manganese ad azione antinfiammatoria, desensibilizzante ed antiallergica. Il Fosforo (128 mg) necessario per l'assorbimento del calcio, ma soprattutto per stimolare le funzione cerebrali (Platone riteneva che i fichi fossero un alimento da consigliare quale nutrimento di oratori e filosofi). Il Magnesio necessario per funzioni nervose e muscolari, nelle contratture,nella rigidità muscoloscheletrica associato al potassio. Il Potassio, presente in grande quantità(1332 mg) consigliati entrambi per gli anziani, per le persone che assumono farmaci che portano alla perdita di questi minerali, indispensabili per un corretto funzionamento dell'apparato cardiaco ed in particolar modo per l'integrità delle pompe Sodio-Potassio e Calcio-Magnesio. Le quantità di magnesio e di potassio contenute nel fico sono ottimali e addirittura superiori a quelle presenti nella banana e nella patata. Lo Zinco, presente in grande quantità(normalmente difficile da reperire nei vegetali in seguito ai trattamenti inquinanti che subiscono i terreni) associato all'acido folico e alla vitamina C, fa del fico un alimento adatto ai trattamenti di prevenzione e cura dell'infertilità sia maschile che femminile. Troviamo poi il Selenio, che ci protegge dai radicali liberi, è antiossidante ed antinvecchiamento, protettivo nei confronti dell’inquinamento elettromagnetico.

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Aminoacidi Tutti presenti in quantità fisiologica: La lisina, presente in quantità discreta, è specifica per la prevenzione e la cura di tutte le infezioni virali, soprattutto Herpes, nei casi acuti e cronici. Assunta per qualche mese, nell'Herpes recidivante, ne evita la comparsa. Il triptofano precursore della serotonina e melatonina con azione antidepressiva, adattogena, neurolettica. Enzimi Tra i principi attivi sono quelli di gran lunga più rilevanti, e nel fico sono praticamente tutti presenti. Essi ci consentono di rafforzare e produrre nella giusta quantità i nostri enzimi necessari e fondamentali per la digestione di qualsiasi cibo: le diastasi per la digestione dei carboidrati,le amilasi per la scissione degli oligo e polisaccaridi, le proteasi per scindere i legami peptidici delle proteine , la cravina (come la nostra pepsina), le lipasi che idrolizzano i lipidi e trasformano i trigliceridi in glicerina e acidi grassi ; questi enzimi permettono la scissione e l’assimilazione ottimale di protidi, lipidi e glucidi, accelerando i processi di digestivi ed evitando la fermentazione acida e la produzione, a livello del colon discendente, di prodotti tossici e putrefattivi. Questi stessi enzimi ci aiutano ad eliminare il bruciore e l'acidità gastroduodenale esercitando un'azione alcalinizzante (quanto mai opportuna, oggi, nella nostra società dove tutti viviamo in un perenne stato di “acidosi” causa di tutte le malattie “da civilizzazione” cioe le patologie cardiovascolari e degenerative). La contemporanea presenza e il giusto contenuto di Acido folico, Vitamina C, Ferro e Rame, fa del fico, sia fresco che secco, un alimento-medicamento veramente prezioso, consigliato soprattutto nei casi di astenia costante e anemia sideropenica. Il fico contiene anche furocumarine, come psolarene B e umbelliferone, che sono molecole con possibile effetto tossico, se usate a livello cutaneo e con una esposizione al sole non corretta, possono dare fenomeni di fotosensibilizzazione. Raccomandato da sempre in tutte le patologie dell’apparato respiratorio per le sue notevoli capacità emollienti, fluidificanti, espettoranti, ha un notevole effetto bechico nei confronti di tutti i tipi di tosse, pertosse e muco in generale, costipazioni croniche e asma bronchiale.

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Il consumo di fichi è consigliato a tutte le età, ed in particolare in alcuni momenti difficili e delicati della vita. Il consumo da parte di soggetti diabetici è legato certamente alla quantità, ma bisogna tener conto dell’Indice Glicemico di ogni alimento; IG indica la velocità con la quale la glicemia aumenta in seguito all’assunzione di alimenti contenenti 50 gr di carboidrati, il riferimento è il valore 100 del pane bianco. Il valore di IG dei fichi secchi va da 55 a 67, dei fichi freschi 35-50. IG del mais è 50-60, del riso 83-136, delle gallette di riso 113, del melone 103, datteri 80-110. Quindi un consumo di 2-3 fichi è inferiore come IG ad una fetta di pane bianco, ma il piacere, la palatabilità e la capacità nutrizionale del fico non sono assolutamente paragonabili ad una fetta di pane bianco, considerato, tra l’altro, alimento ad “energia vuota”. Bambini Indicato in caso di inappetenza, ritardo staturo-ponderale, infezioni respiratorie ripetute, intestino pigro, stanchezza, mancanza di concentrazione. Adulti In caso di infezioni delle vie respiratorie, anche asma bronchiale, infezioni urinarie, problemi riguardanti l'apparato digerente, gastriti, coliti, dissenteria, ernia iatale, esofagite da reflusso, alvo irregolare, aerocolia, meteorismo, gonfiore post-prandiale. Inoltre viene usato in caso di difficoltà di cicatrizzazione di piaghe e ferite, nei problemi di fecondità sia maschile che femminile. Nel fico, infatti, sono presenti tutti gli elementi ed i minerali (Zinco, Potassio, Acido folico, Vitamina E, Selenio) necessari per la procreazione. Non a caso, nell'antica Roma, il fico veniva rappresentato come simbolo di fertilità associato all'immagine del dio Priapo. Gravidanza Anemia, astenia, svenimenti,vomito e nausea al mattino, dolore e peso all’epigastrio. Nei casi di osteopenia, osteoporosi, menopausa, andropausa, demineralizzazione ossea, patologie dell’apparato scheletrico e soprattutto delle articolazioni, forte astenia, mancanza di tono muscolare, forme reumatiche, debolezza ed alterazione del tono cardiaco.

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Le gemme Una delle risorse più rilevanti della pianta di fico è rappresentata dalle gemme, i germogli di fico sono forse la quintessenza di questa pianta. Grazie agli studi ed alle sperimentazioni di un medico belga, Pol Henry, abbiamo potuto accostarci al meraviglioso mondo delle gemme, apprendendo che la gemma, preziosa come una pietra, racchiude in se il futuro, la progettualità, l'attuazione della pianta adulta. Ha in se delle potenzialità che la medicina accademica ignora. La gemma infatti contiene tutti i principi attivi che, allo stato embrionale, sono di gran lunga superiori a quelli presenti nella pianta adulta. Nella gemma sono contenuti aminoacidi, vitamine, minerali, fattori di crescita, proteine, ormoni vegetali, acidi nucleici (DNA-RNA), tutte sostanze attivissime che sono responsabili dell'azione terapeutica. L'Auxina, per esempio, è un ormone, probabile precursore del triptofano (responsabile del nostro umore), da cui dipende sia l'accrescimento della pianta, che la caduta delle foglie in autunno ed il distacco del frutto maturo. I principi attivi delle gemme vengono estratti con soluzioni di acqua, alcool e glicerina; con questi tre solventi si ha la possibilità di estrarre quasi tutte le sostanze importanti che poi, poste in acqua, si rigenerano e opportunamente somministrate, possono aiutarci a risolvere molte nostre patologie. Il fico ha un tropismo specifico per l'apparato digerente, agisce poi sull'apparato cortico-diencefalico, quindi sul sistema neurovegetativo, regolando sia le secrezioni che le varie altre funzioni. Per queste sue caratteristiche è indicato per: bruciore, dispepsie, gastrite, ulcere duodenali, achilia gastrica, ernia iatale, reflusso gastroesofageo, digestione lenta, sindrome gastrocardiale, extrasistoli, palpitazioni, spasmi del diaframma. Ma gli studi di Pol Henry, e poi di altri ricercatori, non si sono limitati alla sola constatazione dei benefici ottenuti utilizzando le gemme di fico nella cura delle patologie sopra indicate, hanno anche rilevato (studiando le analisi del sangue prima e dopo le somministrazioni del ficus carica), le modificazioni dello stato infiammatorio. Le gemme di ficus sono in grado di riportare alla norma valori alterati dell'elettroforesi proteica, in quanto aumenta il valore delle albumine e diminuisce i valori delle gamma-globuline,sono in grado di ridurre le B-lipoproteine,il colesterolo totale e i trigliceridi, mentre l'azione sull'emocromo si esplica aumentando l'ematocrito, regolando gli eosinofili, i granulociti ed altro. è un rimedio considerevole per il sistema neurovegetativo e per tutto l'apparato gastroenterico in modo particolare nelle distonie con dispepsia, nausea, 90


vomito, acalasia, ipo ed ipersecrezione gastrica, ulcere gastroduodenali a lenta cicatrizzazione, soprattutto quando i farmaci tradizionali non sortiscono alcun effetto. E ancora è utilizzato per ernia diaframmatica, gastrite dei soggetti anemici, Morbo di Crohn, colite e rettocolite ulcerosa, stipsi o diarrea, colon irritato, spastico e infiammato. Ma l’intestino è la sede del cervello inferiore (solo perché è situato in basso!) è quindi la sede del cervello emozionale, viscerale … per cui il fico aiuta moltissimo in tutte le situazioni in cui la psiche soffre e si è perennemente in uno stato ansioso. Può aiutare nelle problematiche emotive, nella depressione, nevrosi, insonnia legata a cattiva digestione, stress con somatizzazione a livello gastrico. L’estratto di gemme può affiancare le terapie farmacologiche, può migliorare la digeribilità e l’assorbimento dei farmaci, migliorandone l’efficacia. Ha anche un'azione notevole sull'apparato genitale: amenorrea e sterilità femminile, oligospermia e sterilità maschile. Negli anni 20 veniva usato come antiepilettico, negli svenimenti, lipotimie, perdita di coscienza, crisi sensoriale, vertigini. Studi recenti del Dott. Pommier indicano le gemme di fico per il trattamento della sclerosi multipla e midollare. Utilizzo La pianta del fico viene utilizzata in tutte le sue parti: - Il legno, molle e poco resistente da giovane, invecchiando diventa duro, elastico e resistente. Nell'antico Egitto veniva usato per la costruzione dei sarcofagi, un legno prezioso per facilitare il viaggio nell'Aldilà. Nel Libro dei Morti il fico è l'albero situato alle Porte del Cielo dove sorge Ra, il dio sole. Nella nostra cultura è stato usato invece soprattutto per sculture di tipo religioso rappresentanti Madonne e Crocifissi. -

Il lattice, secrezione bianca, presente sia all'apice del ricettacolo del frutto che nei rami teneri. I nostri nonni raccomandavano di applicare una goccia, una volta al giorno su verruche, porri, calli, callosità in genere. Il trattamento efficace ancora oggi, deve essere fatto con attenzione, cercando di proteggere la parte circostante perché il lattice può irritare la cute fino all'ustione. Il lattice, poiché contiene molti enzimi, soprattutto la chimasi, simile ai nostri enzimi pancreatici, e poi lipasi, amilasi, lipodiastasi, proteasi, cravina (identica alla nostra pepsina), zuccheri, resina e acido borico, veniva usato anche come caglio per preparare i formaggi. (Omero ne parla a proposito dei formaggi preparati da Polifemo nel suo antro!). 91


Il lattice veniva usato anche su punture di insetti, scorpioni, morsi di animali, come purgante e vermifugo come l’anchilostoma, e per schiarire le macchie e le efelidi. Nei paesi orientali il lattice è considerato essenza di rasa, energia universale liquida e ojas, succo vitale che origina il feto nella matrice. Le foglie: il decotto per uso esterno serve a scurire i capelli e per lavaggi in presenza di eczemi, pruriti, dermatiti, lebbra. In Marocco, il decotto di foglie viene usato per detergere o da applicare su eritemi cutanei (40 gr in un litro di acqua). Per uso interno, l'infuso si utilizza per i fastidi della gotta, dolori da sciatalgia, per le irregolarità del ciclo mestruale e per facilitare il parto. In tutte le infezioni dell’albero bronchiale con tosse, presenza di catarro cronico e difficoltà respiratorie in genere, quando si rende necessario un rimedio espettorante, emolliente e fluidificante del catarro. Per la Dottrina delle Signature, le venature presenti nelle foglie vengono assimilate alla rete del Sistema Nernoso Centrale,e l’infuso viene indicato per la nevrosi fobica–ossessiva, turbe del SNC, stress e panico, iperfagia e controllo dell’aumento di peso. Il frutto, le gemme e l’infuso di foglie hanno potere alcalinizzante possono neutralizzare lo stato di acidosi che l’alimentazione attuale comporta. Si può quindi affermare che il fico, frutto antichissimo, è in realtà attualissimo perché costituisce il rimedio delle nevrosi e dello stress dei tempi moderni, della tristezza, della malinconia che somatizziamo sullo stomaco, costretto a digerire oltre al cibo scadente anche le nostre emozioni.

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Ricettario

dall’epoca romana fino ai giorni nostri Ricette raccolte da Vincenzo Menna

I fichi sulla tavola degli antichi Romani

La prelibatezza e la lunga conservazione a cui potevano essere sottoposti tramite essiccazione, rendevano i fichi un pasto duttile e completo, adatto a tutte le stagioni e classi sociali. Così essi erano consumati da soli, sia negli intervalli, sia a fine pasto come frutta. Da soli erano in grado di sostituire anche elementi base dell’alimentazione come il pane e il formaggio (così Seneca, Lettere a Lucilio, 11.14: “… Al pranzo nulla si poté togliere: sempre preparato in meno di un’ora, sempre coi fichi secchi e colle tavolette da scrivere. Se ho del pane, i fichi secchi mi servono da companatico, se non ne ho, sono essi il pane”). La loro bontà era apprezzata, non di meno, non solo tramite l’essiccazione sic et simpliciter, ma anche con metodi più sofisticati di consumo alimentare, come ingrediente di piatti dolci e salati o trasformato in farina o succo. A tal proposito, si può ricordare che il distillato di fico era ritenuto il prototipo dei sapori, tant’è che il termine succus deriverebbe proprio dal fico, sycos. Lo sciroppo di fichi90 si otteneva facendo bollire il fichi d soli o con mele cotogne nel mosto molto concentrato, Molto apprezzati erano i fichi secchi con il prosciutto. Apicio, un ricco uomo d’affari vissuto in età imperiale, si dilettava nel provare a raccogliere le ricette tipiche della cucina romana, e non rare volte menziona piatti in cui i fichi la fanno da padroni. ***

90 Dal famoso ricettario di Apicio, De re coquinaria, sono tratte alcune ricette ancor oggi valide e ci parla di sciroppo di fichi: 2.2: Se non l’hai, adopera sciroppo di fichi (quelli della Caria esaltati da Plinio) che i Romani chiamano “colore”. Sempre Apicio, nel libro settimo III, Vivande prelibate, ricorda che persino il fegato derivava il suo nome proprio da fico, con cui erano ingrassate oche prelibate, jecur ficatum.

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I fichi secchi erano arricchiti con miele e mandorle, o per insaporire arrosti o mangiati da soli. *** Il prosciutto era fatto lessare con moltissimi fichi secchi e tre foglie di alloro. Poi si tagliava la cotica e la si incideva, creando dei piccoli tasselli dove si inseriva il miele. Poi si rivestiva il prosciutto con della farina amalgamata ad olio e si infornava. In un’altra ricetta Apicio consiglia di lessare il prosciutto insieme ai fichi secchi e di consumarlo, cosÏ condito, con piccoli pezzi di pane, vino dolce e mostaccioli. *** Molto buono doveva essere un dolce di origine greca Basynias, fatto con fichi, mandorle amalgamati con miele e messi su bastoncini fritti di strutto e farina.

Fichi freschi e fichi secchi, foto di Alex Margineau 94


‘Li caracine’ nelle antiche ricette atessane

Le ricette seguenti fanno parte da sempre della tradizione locale ed erano preparate nei giorni di Natale o per le feste. Il fico secco era l’ingrediente principe associato a spezie ed aromi vari, in modo semplice, ma squisito. La ricetta che forse è più rappresentativa della tradizione atessana è il torrone di fichi secchi, in una variante tipica locale. Tirrën di carracìne (citato in Berichte über Handel und Industrie, 20, 1914, p. 536) Ingredienti: 1,5 kg. di miele; 700 gr. di noci sgusciate; 400 gr. di zucchero; 4 albumi; 1 buccia di limone grattugiata; cannella; olio. Procedimento: Sciogliere il miele a bagnomaria, aggiungere gli albumi montati a neve. Unire le noci tritate, la cannella, lo zucchero, ed infine la buccia di limone grattugiata. Versare su un piano di marmo un po’ di olio ove mettere il composto, lavorare e dare forma rettangolare. Lasciare raffreddare. Fichire n‘ghi lu most cotte Ingredienti: Fichi; Mosto cotto Procedimento: Sbucciate i fichi e tagliateli a metà, quindi disponeteli in un piatto leggermente fondo. Bagnate ogni mezzo fico con un po’ di mosto cotto e mettete al centro una fettina di fico secco. Tenete al fresco fino al momento di servire.

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Matunell di caracÏne Ingredienti: fichi secchi; cioccolato fondente; mandorle; zucchero; cedro candito; cannella, vaniglia, noci; Procedimento: Tritare grossolanamente le mandorle e il cedro quindi mescolarli con gli altri ingredienti. Si vanno a formare cinque strati: tre con i soli fichi secchi, due con gli altri ingredienti, alternando gli uni agli altri. Il tutto verrà disposto in apposite formelle, e poi compresso con le mani; infine avvolgere con foglie di fico. Spiedini di fichi Una specialità semplicissima e molto gustosa è costituita dagli spiedini, che si ottiene infilzando un fico secco nel ramoscello di ulivo e per poi passarlo sulla fiamma viva del fuoco.

Fichi Reali di Atessa, foto di Marco Ramundo 96


I fichi nelle ricette di oggi

Le ricette di Tobia Ciarulli (Chef di cucina all’Hotel Olden di Gstaad)

Confettura di fichi con gelato al rosmarino 4 fichi freschi 4 cucchiai di miele millefiori 3 cucchiai di Marsala secco Procedimento: Lasciare marinare per circa 3 ore il ramoscello di rosmarino nel latte; Filtrare il latte nel passino e lasciare bollire sul fuoco. Montare i rossi d’uovo con lo zucchero, fino a sbiancare e versarci il latte bollente, mischiare velocemente; Riportare sul fuoco e lasciare pastorizzare (80°C). Versare dentro un altro recipiente e lasciare raffreddare su acqua e ghiaccio; Incorporarci la panna e il rosmarino tagliato e passare alla gelatiera, in alternativa, versare dentro il recipiente del Paco Jet e congelare. All’occorrenza fare girare; Lavare i fichi e tagliare in quarti Lasciare caramellare lo zucchero dentro un pentolino e versarci i fichi in quarti. Far cuocere per2 –3 minuti. Tagliare a metà il bastone di vaniglia, grattare il midollo ed aggiungere ai fichi caramellati insieme al liquore e girare bene; Lavare ed asciugare i fichi per la guarnizione, tagliare a spicchi; scaldare leggermente il miele dentro una padella e versarci i fichi a spicchi: lasciare intiepidire e versare il Marsala, versare al centro di un piatto piano bianco la confettura con i fichi e disporre intorno gli spicchi di fichi. Formare una pallina di gelato e poggiarlo al centro sopra la confettura di fichi. Guarnire con una foglia di menta fresca.

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Crostini con olive nere e fichi Ingredienti per la tapenade: 250 gr di olive nere 250 gr di fichi secchi 10 gr di capperi in salamoia 2 pezzi di filettini di acciughe sotto sale 1 piccolo peperoncino ½ cucchiaino di origano secco tritato 120 ml di olio d’oliva extra vergine 20 fettine di pane abbrustolito Procedimento: Sgocciolare e snocciolare le olive; lavare e dissalare sotto l’acqua corrente i capperi ed i filetti di acciughe. Tagliare il peperoncino a metĂ , privare dei semi. Versare dentro un mixer tutti gli ingredienti e ridurre in poltiglia fino a che diventi lucida. Regolare di sale e spalmare sulle bruschette.

Fichi Verdesca o Verdino, foto di Francesco Minonne 98


Le ricette di Arcangelo Tinari

(Chef Ristorante ‘Villa Maiella’- Guardiagrele)

Pere farcite con fichi secchi: Ingredienti 500 gr ricotta 4 pere conference (media grandezza) 200 gr ricotta vaccina 30 gr miele 80 gr fichi secchi 60 gr vino passito bianco 10 gr nocciole tostate 10 gr pinoli tostati Ingredienti per lo sciroppo: 1 l acqua 500 gr zucchero 1 buccia arancia 1 buccia limone 1 baccello di vaniglia Procedimento: dopo aver effettuato lo sciroppo, immergere le pere sbucciate e far cuocere a fuoco lento per circa 30 min. Controllare la cottura facendole rimanere sode. Tagliare i fichi secchi a metĂ e farli rinvenire nello sciroppo in cui avete cotto le pere. Nel frattempo setacciare la ricotta e amalgamare con 30 gr di miele. Al momento di servirle, scavare con uno scavino le pere nella parte inferiore, e farcirle con la ricotta; riporle su un piatto fondo o ciotola, aggiungere i fichi secchi ammorbiditi. Successivamente far ridurre 120 gr di sciroppo con il passito finchĂŠ questi non acquisiscano una consistenza simile al caramello, versare sulla pera e decorare con pinoli e nocciole tostate.

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Le ricette di Antonio Stanziani (Chef e Gran Custode della Tradizione)

Fichi reali di Atessa in giulebba del Sangro Ingredienti: per 1 barattolo capiente per 10 fichi: n°10 fichi della qualità reale di Atessa maturi ma sodi (cioè belli verdi e molto dolci con la lacrima da puttana) n. 5 gherigli di noci gr 650 zucchero semolato brandy o altro distillato della valle del Sangro da 45° (o anche di più) 2 dl buccia di mezzo limone non trattato della costa dei trabocchi un pezzetto di cannella 3 chiodi di garofano 5 dl di acqua. Procedimento: In un tegame inox mettete lo zucchero, acqua, una buccia di mezzo limone, chiodi di garofano e portate ad ebollizione a fuoco medio. Con un panno da cucina pulite delicatamente i fichi (biologici). Incidete lievemente la base di ogni fico e infilate in ogni uno mezza noce privata anche della seconda pellicina. Mettete ora i fichi a bollire nello sciroppo preparato per 10-15 minuti, quindi spegnete la fiamma e fate raffreddare . Sgocciolate ora i fichi dallo sciroppo (in Abruzzo chiamasi Giulebba) e sistemateli nel barattolo; aggiungete il brandy o il distillato da voi scelto e in fine anche la giulebba fino a coprire i fichi . Sistemate un pressino di plastica o legna per conserve su di essi per tenerli ben coperti e chiudete il vaso a chiusura ermetica oppure a vostro piacimento con il tappo a vite. Rivoltate il vaso più volte in modo che la giulebba si distribuisca bene uniformemente. Fate riposare per almeno 10 giorni prima di consumarli. Nota bene si possono conservare in luogo fresco e senza luce per almeno 60 giorni. Saranno ottimi serviti in coppa da soli o come complemento a dolci caserecci con panna montata oppure come guarnizione a spumoni, cassate e gelati.

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Focaccine salate di fichi Ingredienti per 8 persone (20-30 pezzi): 400 gr farina 00 2 cucchiai olio di oliva 15 gr di lievito di birra 1 tazzina di latte intero aghi di rosmarino q.b. 10 grassi fichi reali atessani ben maturi 150 gr di provola affumicata sale e pepe nella versione salata zucchero e pepe nella versione dolce q.b. Procedimento: Con la farina, il lievito, il latte, il rosmarino triturato e poca acqua formate la pasta della pizza (che potrete farla sia con il sale per la versione salata che con lo zucchero per la versione dolce) impastate molto bene fine ad ottenere una pasta come quella del pane, ponete il tutto in una terrina coprite con un canovaccio pulito e lasciate lievitare per almeno un ora in un luogo tiepido. A questo punto, formate delle pizzette del diametro di 8 cm ponetele in una teglia già ricoperta con carta da forno e fate lievitare ancora per 10 minuti. Nel frattempo avrete nettate i fichi della buccia ed affettateli a disco dallo spessore di circa 1 cm. Mettete 1 o più dischi sopra ogni pizzetta e infornate a forno preriscaldato a 220 gradi. Quando saranno quasi cotte mettete su ognuno di esse una fetta di provola di circa mezzo cm. Finito di cuocere sfornate ed ancora caldissime cospargetele con pepe a mulinello sia nella versione salata che dolce (se dolce aggiungete un po’ di miele a vostro piacimento). Servite ben calde.

Si chiama “Custode della Tradizione” una nota e selezionata associazione professionale con sede in Villa Santa Maria (Ch) che ha il nobile intento di assegnare annualmente un’onorificenza a quegli operatori del settore che si distinguono come ambasciatori della cultura della tradizione gastronomica in Italia e nel mondo.

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Focaccine dolci di fichi Ingredienti per 20 pezzi: una mela renetta 50 gr uvetta sultanina 150 gr di fichi secchi (caracine) 10 gherigli di noci 1 grattata di zenzero 1 odore di polvere di cannella 2 cucchiai di miele mischiate tutto bene. Procedimento: formate ora dalla pasta tante piccole pizzette di 10 cm, aggiungete un cucchiaio circa di ripieno. Quindi inumidire i bordi e ripiegare a mezza l’una. Ponete su una teglia spolverata di farina; fate lievitare in un luogo tiepido per almeno 20 minuti, friggeteli ognuno in una padella con abbondante olio di oliva non troppo caldo 160 gradi affinché il caldo penetri molto bene fino al cuore del “cagionetto” (nome dialettale per la indicare questo dolce dalla forma tipica a mezza luna). Una volta cotti, sgocciolateli e poneteli su un foglio di carta da cucina. Spolverate con zucchero e pepe a mulinello servite ben calde. Bavarese ai fichi Ingredienti per 6 persone: 250gr di polpa di fichi freschi reali di Atessa sbucciati e passati al setaccio di crine 125gr di zucchero a velo il succo di mezzo limone 12 gr di colla di pesce in polvere 4 dl. di panna di latte montata ben ferma 2 cl di liquore dolce. Procedimento: Pelate i fichi, eliminando il picciolo e la buccia; quindi passate la polpa al setaccio, mescolare con lo zucchero, il succo del limone, il liquore e la colla di pesce, che già avrete messo a macerare a bagnomaria, e mescolate più volte. Lasciare che il composto così ottenuto solidifichi parzialmente in frigorifero. Quando la massa nella terrina comincia a solidificare, rimuovetela con una frusta e aggiungete la panna di latte ben montata. Poi rimestate ulteriormente, in modo che il composto diventi uniforme e senza grumi e versatelo in uno stampo decorato da bavarese. Ponetelo nuovamente in frigorifero fino a consolidamento completo, occorreranno almeno 6/8 ore. Ciò avvenuto, rovesciate la bavarese sopra un piatto adatto alla presentazione e servitelo con decorazione a piacere di fichi di Atessa. 102


Costolette atessane di capra Ingredienti per 4 persone: 12 costolette di capra giovane 2dl. di brandy italiano 4 fichi ben maturi mezzo bicchiere di vino bianco un panetto di burro sale pepe farina olio q.b. Procedimento: salate, infarinate, pepate le costolette e mettetele a cuocere in una padella già calda con olio e metà del burro; fatele dorare prima da un lato poi dall’altro, quando saranno cotte, riponetele in un piatto caldo in disparte. Sfumate il fondo di cottura della padella con il vino; quando la metà del vino sarà evaporata, aggiungete il brandy, fino ad avere una salsina deliziosa e saporita. Prendete un’altra padella, inserite il rimanente burro e ponete sul fuoco a riscaldare, tagliate i fichi a metà per lungo, infarinate ogni pezzo con farina e poco zucchero a velo, scottatele leggermente come fossero scaloppine. Adagiate le costolette su un piatto di portata e decorate delicatamente con i fichi dorati. Potrete ulteriormente addolcire i fichi con il miele di castagno e irrorate con la salsa ottenuta.

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Le ricette di Claudio Pellegrini

(Chef e Presidente Ass. ‘Custode della Tradizione’)

Agnello farcito con fichi secchi reali di Atessa e gherigli di noci con patate schiacciate Ingredienti: per 4 persone Mezzo carré d’agnello (solo parte costolette) n. 4 fichi secchi reali di Atessa gr 200 carote gr 200 sedano gr 200 cipolla n. 8 gherigli di noci n. 2 uova un bicchiere di vino bianco secco kg 0,500 patate cl 200 olio e.v.o. kg 0,050 prezzemolo Procedimento: Disossare l’agnello, conservando soltanto gli ossi delle costolette attaccati alla carne, battere con un batticarne con uno spessore di mezzo centimetro e la dimensione di un rettangolo. Condire la carne con sale e pepe e disporre al centro i fichi secchi, i gherigli di noci, una stecca di sedano e una stecca di carota; il tutto coperto dalle uova leggermente cotte in padella. Chiudere avvolgendo la carne su se stessa, foderare con della carta alluminio e legare con dello spago facendo attenzione di separare gli ossi con lo spago tra un osso e l’altro. Ungere una teglia ed adagiare l’agnello, unire gli ossi restanti fatti a piccoli pezzi, unire a pezzi grossolani la cipolla e il restante del sedano e della carota. Infornare per 70 minuti a 180° facendo attenzione di sfumare con il vino a metà cottura e governare la salsa di servizio. Tagliare le patate a pezzi e bollire fino a cottura, scolare e schiacciare con l’aiuto di un frusta, condire di sale , olio, prezzemolo. Disporre sul piatto uno zoccolo di patata e sopra una fetta d’agnello spessa 3 centimetri con un taglio di due ossi, ad un lato un cucchiaio della sua salsa.

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Spuma di baccalà con fichi secchi, peperoni e sfoglia di pane croccante Ingredienti per 4 persone: gr 600 baccalà già ammollato lt 1 latte intero gr 500 peperoni rossi n. 4 fichi secchi tagliati a fette cl 200 olio e.v.o. gr 050 cipolla n. 8 fette di pane raffermo tagliate finemente un ciuffo di prezzemolo tritato Procedimento: Cuocere a fiamma bassa il baccalà con il latte per circa trenta minuti. Separare la polpa del baccalà dalle lische e conservare il liquido, frullare aggiungendo un po’ di liquido di cottura per ottenere una spuma stabile non molliccia. Tagliare a julienne la cipolla, cucinare in un casseruola con i peperoni, frullare il tutto. Friggere le fette di pane e fare asciugare su carta assorbente. Disporre il piatto, intercalando la spuma di baccalà, i fichi secchi, il peperone e le fette di pane, servire con un filo d’olio e un spruzzata di prezzemolo.

Festa de li Squacchiafichére, agosto 2010, fotovideo Pizzi 105


Fichi pronti per l’essicazione 106


Ristoranti

(in ordine alfabetico)

‘Al Duca’ Atessa Pennette ai fichi reali di Atessa Ingredienti: 2 l. ca di acqua 350 gr ca pennette rigate 5 fichi freschi bianchi varietà reale 100 gr speck cipolla sale olio e.v.o sugo di arrosto mezzo bicchiere di vino bianco. Procedimento: Preparare in precedenza del sugo di arrosto. Privare i fichi della buccia e tagliarli in pezzi grossolani. In una casseruola portare ad ebollizione l’acqua, poco prima che l’acqua giunga ad ebollizione, aggiungere una manciatina di sale grosso quindi mentre l’acqua bolle, ‘buttare’ le pennette. Intanto, mentre la pasta cuoce, in una padella larga versare l’olio fino a che il fondo non sia coperto e mettere la cipolla precedentemente tagliata fine, soffriggere la cipolla. Appena avrà assunto un colore dorato, aggiungere lo speck tagliato fine. Quando lo speck è ‘appassito’, aggiungere i fichi, soffocare con il vino e far evaporare. Aggiungere la pasta cotta e un mestolo di acqua di cottura, unire il sugo di arrosto, ripassare il tutto in padella per pochi minuti. Impiattare.

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‘La Castellana’

Atessa

Girella di filetto con fichi secchi reali di Atessa in crosta di pistacchi e mandorle Ingredienti: 2 filetti di maiale, 150 gr di pancetta stagionata, 10 fichi secchi reali di Atessa 50 gr pistacchi tritati 50 gr di mandorle tritati 2 albumi olio, sale, erbette aromatiche (rosmarino, alloro, timo, salvia 1 spicchio d’aglio) 1 cucchiaio di farina per legare la salsa 1 bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo 350 gr di verdure miste di campo già lessati. Procedimento: Parare e aprire i filetti a mo’ di fettine, condirle con sale e erbette aromatiche tritati finemente, farcirli con i fichi secchi e la pancetta ridotti in piccoli pezzettini. Arrotolarli e legarli con spago da cucina, farli rosolare in padella con l’olio evo, facendo in modo che l’interno rimanga rosa e raffreddarli. Tirare una salsina nella padella dove li abbiamo rosolati sfumando con un bicchiere di Montepulciano; aggiungere un po’ di brodo legare la salsa con della farina regolandolo a nostro piacimento. Dopo che i filetti si siano raffreddati passarli nell’albume sbattuto leggermente e nel trito di pistacchi e mandorle mischiati formando una crosticina. Cuocere i filetti in forno per 7/8 min. a 180 gradi. Togliere lo spago e scaloppare le girella servendoli con la salsina e accompagnati con le verdure miste di campo ripassate in padella con l’olio e l’aglio.

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‘La Stazione’ Atessa

Stracotto di vitello ai fichi Ingredienti: 600g. di polpa di vitello ½ bicchiere di olio extravergine d’oliva un litro di brodo di carne 1 bicchiere di vino nero 200 gr di fichi 2 carote 1 cipolla bacche di ginepro, aglio, salvia, rosmarino, sale, pepe. Procedimento: Sminuzzare le verdure e lasciarle appassire nell’olio. Aggiungere la carne a dadi, mescolare e cuocere a fuoco molto lento. Sfumare con il vino, aggiungere le varie spezie e i fichi spezzettati ma con tutta la buccia. Continuare la cottura a fuoco basso per circa due ore. Quando la carne si taglia con la forchetta e riappare il colore dell’olio, il piatto è pronto.

Fichi durante l’essicazione 109


‘L’Anfora’ Atessa

Risotto con fichi e caciocavallo Ingredienti per 4 persone Ingredienti per il brodo: 5 lt acqua 1/2 pollo 2 carote 1 cipolla 50 gr sedano gambi di prezzemolo 10 grani di pepe 1 pomodoro 2 foglie di alloro sale q.b. Ingredienti per il riso 320 gr riso, 200 gr di burro, 5 cl vino bianco, 300 gr fichi varietà reale, 100 gr parmigiano, 200 gr caciocavallo. Preparazione: Prima di tutto realizziamo il brodo mettendo insieme gli ingredienti, copriamo il tutto con acqua fredda e portiamo a bollore, facendo attenzione di schiumare di tanto in tanto. Sobbollire per almeno 1 ora e 30 min., alla fine regoliamo di sale. A questo punto, possiamo cominciare a tostare il riso con 100 gr di burro, sfumiamo con il vino bianco e facciamo evaporare il tutto. Cominciamo quindi a versare il brodo fino a coprire a filo il riso, e man mano che il brodo si abbassa lo rimettiamo. Quando siamo quasi a fine cottura, aggiungiamo i fichi spellati e sminuzzati a coltello e portiamo a termine il nostro risotto pronto per la manteca tura. La manteca tura del riso, va fatta fuori da fuoco, aggiungendo il resto del burro, il parmigiano e il caciocavallo, rimestando il tutto vigorosamente, cercando di legare il riso e farlo risultare cremoso, in gergo detto all’onda. Impiattiamo e guarniamo con trucioli di caciocavallo.

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Capriolo con fichi e nocciole Ingredienti: gr 800 sella di capriolo gr 300 fichi gr 50 burro gr 50 nocciole tostate 1 carota 1 cipolla 1 crosta di sedano 1 dl vino Montepulciano 2 dl sugo di carne di vitello 1 pomodoro 1 foglia di alloro 1 rametto di rosmarino 1 rametto di timo 2 spicchi di aglio 5 grani di pepe 5 grani di ginepro 1dl olio extra vergine di oliva sale q.b. Preparazione: Disossiamo la sella ricavando i filetti e mettiamoli da parte. Rompere le ossa e metterli in una casseruola con aglio, sedano, carota, cipolla e il pomodoro tagliato, aggiungere gli odori e far rosolare. Dopo circa 10 min., sfumiamo con il vino e facciamo evaporare il tutto, regoliamo di sale e copriamo di acqua fredda. Portiamo tutto a bollore e facciamo ridurre di circa ž, aggiungiamo il sugo di carne, filtriamo e rimettiamo di nuovo sul fuoco riduciamo fino a quando non si arriva ad una giusta consistenza. Infine, regoliamo di sale. In una padella antiaderente, facciamo rosolare i filetti con un filo di olio di oliva, facendo attenzione a girarli in modo che la rosolatura avvenga in modo uniforme. Successivamente, li passiamo al forno per circa 6 minuti a 180°. Intanto, in un pentolino facciamo sciogliere il burro e ci spadelliamo i fichi rapidamente. Impiattare cercando di scaloppare il nostro filetto, adagiamo i fichi sopra e salsare il tutto con il fondo ben caldo, creato precedentemente. Infine, guarniamo il tutto con nocciole tostate e tritate. 111


‘Zappacosta’ Piane d’Archi

Trancio di sfoglia, crema di rhum e fichi in salsa di lamponi Ingredienti x 4 persone: pasta sfoglia gr 200 lamponi gr 150 fichi gr 700 zucchero a velo gr 50 zucchero semolato gr 100 uova n. 3 rhum maizena 6 cucchiai latte 1 lt. Preparazione Crema: In una casseruola unire i tuorli, lo zucchero, maizena e rhum, unire il tutto, incorporare il latte e mettere sul fuoco a cuocere. Preparazione sfoglia: Formare dei quadrati di circa 0,5 cm., spolverare con lo zucchero a velo, infornare a 200° x 15 min. Togliere dal forno e rimettere lo zucchero a velo e infornare di nuovo. Tagliare al centro e incorporare la crema i fichi e la salsa e rimettere in forno. Frullare i lamponi con lo zucchero e passare al cinese, mettere in frigo. Servire in un piatto prima la salsa di lamponi, poi poggiare la sfoglia preparata con crema e fichi, decorazione con fantasia.

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Nodini di Cinghiale al profumo di fichi secchi reali di Atessa e prugne Ingredienti per i Nodini: nodini di Cinghiale gr 400 vino rosso dl. 2 aglio, rosmarino scalogno, ginepro prugne secche fichi secchi reali di Atessa sale, pepe, olio. Preparazione: Fare marinare i nodini nel vino e spezie, scottarli in olio d’oliva. Tirare la salsa e aggiungere i fichi secchi e le prugne. Ingredienti per la polenta: ½ litro di acqua 200 gr farina di mais sale. Preparazione: Bollire acqua e sale, aggiungere la farina e rimettere sul fuoco. Dopo la cottura stendere su un piano, far raffreddare e formare dei dischi. Preparazione del piatto: Prendere i dischi di mais, disporli sul piatto, mettere i nodini con la salsa, decorare con fili di scalogno e bacche di ginepro, spolverare di amido di mais.

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Pasticcerie (in ordine alfabetico)

‘Le poesie’

Atessa

Il ficotto Ingredienti: pasta frolla gr 150 zucchero gr 250 farina gr 150 burro 2 uova ripieno gr 150 fichi varietà “reale “ gr 400 cioccolato fondenteuchhero gr 200 noci nostrane limone e cannella q.b. Procedimento: Preparare la pasta frolla lavorando la pasta molto velocemente ,farla riposare preferibilmente qualche ora. Imburrare circa 20 formine da 10 cm di diametro e foderarli con fa frolla, mettere alla base delle formine, sulla pasta, dei dischi di carta forno,con due cucchiai di riso per ognuno mettere in forno ventilato a 170°per 10 minuti. Per il ripieno sbucciare sommariamente i fichi che devono essere ben sodi, unire il cioccolato spezzettato e le noci spezzate a mano, mescolare il tutto aggiungere la cannella il polvere non molto fine. Togliere il riso e la carta forno dalle formine di frolla già cotte, riempire con circa 2 cucchiai di preparato ai fichi, spolverizzare con abbondante zucchero semolato e ripassare in forno per un quarto d’ora a 160°. Far raffreddare prima di sformare, cospargere con zucchero a velo e servire 114


‘Pasta e dintorni’ Atessa

Tortino cioccolato e fichi Ingredienti per 12 persone per la pasta frolla: 220 gr di farina 130 gr di burro 70 gr di zucchero 1 tuorlo d’uovo la buccia grattugiata di mezzo limone un pizzico di vanillina. Per il ripieno: 1/2 l di acqua, 200 gr di zucchero 200 gr di cioccolato fondente 200 gr di mandorle pelate, tostate e tritate grossolanamente 200 gr di fichi secchi fatti rinvenire nel rhum 3 tuorli d’uovo cannella la buccia grattugiata di 1/2 arancia. Per la tortiera: 20 gr di burro, 20 gr di farina. Per la decorazione: 1 cucchiaio di zucchero vanigliato, 1 cucchiaio di cannella in polvere. Preparare la pasta: setacciare la farina, disporla a fontana, mettere nel centro il burro ammorbidito a temperatura ambiente, lo zucchero, il tuorlo, la vanillina e la buccia grattugiata del limone; impastare rapidamente senza lavorare troppo, avvolgere la pasta in un foglio di pellicola trasparente e lasciarla riposare in frigorifero per almeno un’ora. Nel frattempo preparare il ripieno. Far bollire l’acqua con lo zucchero per almeno 20 minuti, unire il cioccolato. Quando il cioccolato è sciolto spegnere il fuoco e aggiungere i tuorli, le mandorle, i fichi, cannella e buccia d’arancia. Mescolare e far riposare per almeno 3 ore. Stendere la pasta frolla dello spessore di 3-4 millimetri; foderate la tortiera del diametro di 24 cm imburrata e infarinata e distribuirvi il ripieno. Ricoprite con uno strato di pasta frolla. Porre il tortino in forno preriscaldato a 180°; far cuocere per 30 minuti, quindi lasciarlo intiepidire prima di sformarlo, farlo raffreddare completamente e cospargerlo con lo zucchero vanigliato e la cannella. 115


‘Mariella’ Archi

Paninetti dolci ai fichi secchi reali di Atessa Ingredienti (1 kg di impasto): farina “00” 363 gr acqua 126 gr fichi secchi 126 gr burro 110 gr tuorli d’uovo 63 gr noci 53 gr lievito madre 47 gr miele d’arancio 26 gr zucchero 21 gr lievito di birra q.b. burro di cacao q.b. Glassa - ingredienti: zucchero 316 gr farina “0” 105 gr mandorle 105 gr albumi d’uovo q.b. Preparazione Prima fase 47 gr di lievito madre, 180 gr di farina, 80 gr di acqua, lievito di birra, 30 gr di tuorli d’uovo, 30 gr di burro, 10 gr di zucchero e 12 gr di miele d’arancio. Impastate inizialmente la farina, l’acqua e la madre acida, e, dopo 10 minuti ca aggiungete gli altri ingredienti e continuate ad impastare fino ad ottenere una massa liscia ed omogenea. Mettete il tutto in una ciotola, coprite con pellicola trasparente e lasciate lievitare ad una temperatura di 28 °C per 12 ore, fino al raddoppiamento del volume. Seconda fase 180 gr di farina, 46 gr di acqua, 33 gr di tuorli d’uovo, 11 gr di zucchero, 14 gr di miele d’arancio, 80 gr di burro, burro di cacao, 53 gr di noci, 126 gr di fichi secchi. Al primo impasto dovete aggiungere farina e acqua, poi, impastate. Dopo 10 minuti ca, aggiungete gli altri ingredienti,rispettando l’ordine seguente: tuorli d’uovo, zucchero, miele d’arancio, burro, burro di cacao, noci finemente macinate, fichi secchi tagliati a cubetti e continuate ad impastare fino ad ottenere un composto liscio, non appiccicoso e dalla consistenza elastica, adagiatelo in una ciotola, copritelo con una pellicola trasparente e lasciate lievitare ad una temperatura di 28 °C per 1 ora, fino al raddoppiamento del volume. 116


Estraete l’impasto dalla ciotola, dividetelo in pezzi da 70 gr ca e date loro una forma tondeggiante, lasciateli riposare per 5 min, finchè non si forma una pellicola sulla superficie. Posizionate gli impasti all’interno di pirottini di carta da plum cake e lasciate lievitare ad una temperatura di 28°C per 6 ore. Terza fase Preparazione della glassa: 316 gr di zucchero, 105 gr di farina, 105 gr di mandorle tritate finemente e gli albumi Mettete gli ingredienti all’interno di una ciotola e miscelate fino al raggiungimento di una consistenza adeguata. Con una saccapoche create delle striscioline di glassa sugli impasti lievitati, metteteli su una teglia e infornate in un forno statico a 180°C per 20 minuti . Sfornate e lasciate riposare per 15/20 minuti prima di servire.

Piatto di fichi, foto di Innocenza Chessa 117


Le fasi dell’essicazione dei fichi 118


Indice bibliografico AA.VV., Berichte über handel und industrie, 20, Berlin, 1914 AA. VV., I fichi secchi di Carmignano, Prato, 2008 AA. VV., Fichi di Puglia, Lecce, 2011 AA. VV., Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia dizionario ragionato ed universale di agricoltura, 11, ed. italiana, Napoli, 1829 Abbo S., Lev-Yadun S., Gopher A.. Origin of Near Eastern plant domestication: homage to Claude Levi-Strauss and ‘La Penseáe Sauvage’. Genetic Resources and Crop Evolution, 58, 2011. Achtak H., Ater M., Oukabli A., Santoni S., Kjellberg F., Khadari B., Traditional agroecosystems as conservatories and incubators of cultivated plant varietal diversity: the case of fig (Ficus carica L.) in Morocco BMC Plant Biology, 2010. Bartoletti T., Memorie di Atessa, 1806 Bartoletti T., Inventario atessano, s.d Breton C., Tersac M., Bervillé A., Genetic diversity and gene flow between the wild olive (oleaster, Olea europaea L.) and the olive: Several Plio-Pleistocene refuge zones in the Mediterranean basin suggested by simple sequence repeats analysis , in Journal of Biogeography, 33, 2006. Camarra L.., De Teate Antiquo Marrucinorum in Italia Metropoli, Roma, 1651 Campus Cr., Le parler du Languedoc et des Cévennes, Paris, 2006 Casini E., D’Amato G., Alessandri S., La selezione clonale nelle varietà di fico (ficus carica l.) coltivate nelle province abruzzesi di Chieti e Pescara: individuazione dei presunti cloni, in Agricoltura e ricerca, 112-113, 1990 Chessa I., Agrodiversità: Tutela e Utilizzazione Consapevole. In “Saperi e Sapori del Mediterraneo”, AM&D EDIZIONI, Cagliari, 2006 Chessa I., Barberis A., Technological innovations to improve and enhance the Italian dry fig. A coordinated research program, in Acta Horticulturae, 605, 2003 Chessa I., Erre P., Nieddu M., Satta D., Nieddu G., Applicazione di marcatori molecolari RAPD in una collezione di germoplasma sardo di fico (Ficus carica L.), in Italus Hortus, 8(5), 2001 Chessa I., Nieddu G., Analysis of diversity in the fruit tree genetic resources from a Mediterranean island. Genetic resources and crop evolution, 52, 2005 119


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Fonti citate Apicius, De re coquinaria 2.2, 1.12.4, 7.9 Cato, De agricultura 5.10, 48. 5, 42.51, 133 Id. De re rustica 6,11; 6. 29 Cicero, De Divinatione 2.84 Columella, De agricoltura 12.15, 17.17, 21 Horatius, Epistula VII ad Mecenatem Iuvenalis, Saturarum liber 1.3. Livius, Ab Urbe condita 1.53, 1.5.1 Macrobius , Saturnalia 3.38, 2.36 Marziale, Epigrammi 13.1 Pausania, λλάδος περιήγησις (Helládos Periēgēsis) 1.37, 2-4 Plinius maior, Naturalis Historia 3.106, 15.21. 15.82, 83, 25.74-75 Palladio, Opus agricultura 4.10, 31. 33, 15. 120 Plutarco, Βίοι Παράλληλοι (Vite parallele) 1.1 Rufus, De Regionibus Urbi Romae Seneca, Epistulae 11.14 Tacitus, Annales 13.58 Varro, De lingua latina, lib. 5 Epistulae et privilegia Anastasii IV, Adriani Iv, seculum XII, in Patralogiae cursus completus, serie II, CLXXXXVIII Chronicon Farfense Diplomata regum et imperatorum Germaniae Regesta della città di Atessa Foto Associazione Culturale AENEIS 2000, Innocenza Chessa, Frentania Stamperia d’Arte, Alex Margineau, Silvio Massangelo, Riccardo Menna, Francesco Minonne, Fotovideo Pizzi, Marco Masciangelo.

Panorama di Atessa, foto di Riccardo Menna 123


Innocenza Chessa Università degli Studi di Sassari, Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio (DIPNET) e Centro per la Conservazione e Valorizzazione della Biodiversità Vegetale (CBV) Laureata in Scienze agrarie all’Università degli Studi di Sassari, è professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Natura e del Territorio della medesima Università. Docente di Coltivazioni arboree, è componente del collegio dei docenti della Scuola di Dottorato in Scienze e Biotecnologie dei Sistemi Agrari e Forestali e delle Produzioni Alimentari. Dal 2002 al 2008 è stata Direttore del Centro la Conservazione e Valorizzazione della Biodiversità Vegetale, Università di Sassari, e attualmente è componente della Giunta. È componente del Consiglio Scientifico del “Centro Interuniversitario per le Ricerche sulla Conservazione ed Utilizzazione del Germoplasma Mediterraneo (CIGM)». È coordinatore delle attività per la Regione Mediterranea nel network FAOICARDA International Technical Cooperation Network on Cactus (CactusNet) e del Gruppo di lavoro sulle Cactaceae dell’International Society of Horticultural Science. L’attività scientifica è stata, prevalentemente svolta nell’ambito di progetti di ricerca internazionali, nazionali e locali, spesso ricoprendo il ruolo di coordinatore di progetto o di unità operativa. Le tematiche relative alla biodiversità di specie legnose, alla valorizzazione e gestione sostenibile degli agroecosistemi, alla biologia e fisiologia di specie arboree mediterranee sono state oggetto di circa centocinquanta lavori, tra cui pubblicazioni su riviste scientifiche nazionale ed internazionali, capitoli di libri a diffusione nazionale ed internazionale, relazioni su invito, comunicazioni e poster a congressi nazionali e internazionali, nonché note tecniche.

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Lucia di Cintio è nata il 14 luglio 1974, si è laureata in Giurisprudenza, nell’a.a. 1997/1998, con votazione di 110 e lode presso l’Università degli Studi di Teramo, con una tesi di laurea in Esegesi delle Fonti del Diritto Romano, “Il processo di Gesù”; ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in ‘Diritto Romano delle Obbligazioni’ nell’a.a. 2002; ha lavorato come ricercatrice presso l’Università degli Studi Teramo e all’estero presso le Università di Saliburgo, Bonn e la Von Humbolt di Berlino. È titolare anche del titolo di cultore in Storia del diritto Italiano presso l’Università degli Studi Teramo, attualmente insegna e lavora presso l’Università degli Studi Salerno come romanista, oltre che fare parte di progetti di ricerca internazionali. Ha tenuto relazioni in varie conferenze e convegni. Tra le sue pubblicazioni scientifiche, accreditate, ricordiamo alcuni articoli scientifici: ‘Naturalis obligatio’ e coercibilità in Paolo, in Labeo 49 (2003) 332 ss., Ingiustizia della sentenza e natura debere, in “Giudici e parti nel processo”, Napoli 2006, 454 ss.; Modello servile, «vinculum aequitatis» e «iura sanguinis», in RID. VI. (2006), 1 ss. Considerazioni sulla ‘naturalis obligatio’ del ‘filiusfamilias’, in RIDA. (2007), 199 ss., Note sui contenuti della «Interpretatio»: divinazione e custodia carceraria, in RID. (2008) p.1 ss., L’obbligo del pupillo tra ‘naturalis obligatio’ e ‘vinculum aequitatis’, in SDHI. (2008) 439-514, Filippo Stella Maranca giurista abruzzese in SDHI. (2008) 719 ss., Articolo: Sulle Intepr. a Cod. Th. 9.1.3 e 9.7.4, in RID. (2011), Riflessioni sul libro IX della «Interpretatio» alari ciana, in RDR. (2012). Recensioni di: G. De Bonfils, Omnes ad implenda munia teneantur, in Labeo 45 (1999) 297 s., I. Fargnoli, Studi sulla legittimazione attiva all’interdetto ‘quod vi aut clam’, in Labeo 45 (1999) 300 s., L. Solidoro, La tutela del possesso in epoca costantiniana, in Labeo 45 (1999) 30, di S. Randazzo, Leges mancipii, in Bollettino degli studi latini 1 (2000) 327 s., F. Lucrezi, Manualetto per la campagna elettorale, in Res Publica Litterarum 4 (2002) 213 ss., G. Laser, Das Commentariolum Petitionis, in Gnomon 75 (2003) 408 s., Mantovani e Schiavone, Testi e problemi di giusnaturalismo romano, Pavia, 2007, in Bollettino di studi latini, 2008, p. 279 ss. Monografie scientifiche: Natura debere. Sull’elaborazione giurisprudenziale romana in tema di obbligazione naturale, Collana scientifica dell’Università degli Studi di Salerno, Soveria-Mannelli, 2009, Ancora sulle ‘Interpretationes’ in RID. (2010) p. 1 ss. L’Interpretatio Visigothorum al Codex Theodosianus I. (2013) Il libro IX. Monografia divulgativa: L’Abbazia di San Giovanni in Venere, Carabba (2000). Ha insegnato presso la scuola forense di Chieti ‘principi di diritto penale’, a.a. 2005/2006. è iscritta presso l’ordine degli avvocati di Roma. 125


Marilisa Laudadio Farmacista, Nutrizionista, Fitopreparatore, Fitoterapeuta, Diplomata in Omeopatia, Omotossicologia, Omeosinergia, Floriterapia, esperta di Alimentazione nei dismetabolismi ed Intolleranze alimentari. Docente di Nutraceutica ed Omeopatia presso la Scuola di Naturopatia “SALUS MATER” di Castrocaro Terme, di Fitoterapia. Omeopatia, Oligoterapia presso la Scuola di Medicina Naturale “NATURALIA” per l’alta formazione di professionisti ed operatori del settore Naturale in varie regioni d’Italia. è docente di “Nutrizione come prevenzione e Terapia” e “Omeopatia e Fitoterapia in Farmacia” in corsi ECM per medici, farmacisti, biologi, veterinari in tutta Italia. è docente di “Terapie con Sali di Schussler“ a Karlsruhe in Germania per la Loacker remedia e “Alimentazione e Patologie alimentari” in corsi di Medicina Olistica in Spagna, a Barcellona.Docente di ”I rimedi naturali della mamma e del bambino nel primo anno di vita” in corsi per pediatri, ostetriche, ginecologi in varie regioni d’Italia. è docente di “Disbiosi intestinale e Intestino 2° cervello” in corsi ECM per farmacisti in varie regioni d’Italia. Ha pubblicato articoli su alcune piante medicinali in riviste di medicina integrata. Vincenzo Menna è nato ad Atessa (Ch) il 23 ottobre1966, già calciatore professionista, è specializzato in gestione manageriale in campo eno-gastronomico, con qualifiche ottenute presso: l’Horeca Management School Milano, “Metodologie Gestionali nell’Horeca”, e la Scuola del ‘Gambero Rosso’, presso la Città del Gusto di Roma, in Marketing sul vino. è stato presidente del ‘Consorzio dei commercianti del Centro Storico di Atessa’ dal 2002 al 2005. è ideatore della manifestazione “Festa de li Squacciafichére”, fondatore del progetto ‘Ficusnet’ per Atessa, cofondatore dell’associazione culturale “Atessa XXI secolo”. è stato, inoltre, ideatore della manifestazione enogastronomica, denominata poi “Corti Antiche”. Si occupa di più progetti per il recupero e la valorizzazione di beni in via di estinzione in campo agricolo ed eno-gastronomico. Attualmente, lavora presso la Società ‘Cantina Tollo’, come responsabile e-commerce e punto vendita. Francesco Minonne botanico, dottore di ricerca in Ecologia Fondamentale, si occupa di biodiversità vegetale ed etnobotanica con particolare riferimento alle specie spontanee e coltivate della Puglia e del Mediterraneo. Ha pubblicato lavori scientifici su diversi aspetti naturalistici e sui frutti tradizionali del territorio pugliese ed è autore di testi di divulgazione agro-ambientale. Ha svolto attività di ricerca per il censimento e caratterizzazione morfologica delle varietà di Ficus carica con la partecipazione a progetti europei INTERREG transfrontalieri; nell’estate 2011 ha partecipato al Project for the establishment of a reserve of the Mediterranean Figs in Gozo e Malta censendo le varietà di fico presenti nelle isole maltesi. Da quindici anni collabora con l’Orto Botanico e Laboratorio di Botanica dell’Università del Salento. 126


Indice Progetto ‘Li Caracine’, il recupero di una nobile ed antica tradizione, Vincenzo Menna

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La domesticazione del fico, Innocenza Chessa

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Il progetto della rete mediterranea delle città del fico. Scheda tecnica, Vincenzo De Leonardis

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Atessa e ‘li caracine’ un legame antico, Lucia di Cintio Acquachiara 1. ‘Li caracine’ a Roma 2. I fichi come simbolo 3. I fichi e il tempo 4. I fichi come merce di scambio 5. Piantagione e conservazione dei fichi presso gli antichi Romani 6. Varietà antiche 7. Conservazione per essiccazione: i carices al tempo degli antichi Romani 8. Conservazione nel miele ‘Li caracine’ tra Aquaria ed Atissa: un’ipotesi I fichi secchi nella vita e nell’economia di Atissa

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Fichi e ‘i fichi di Atessa’, Francesco Minonne Aspetti botanici Coltivazione e produzione Le avversità Produzione dei frutti e raccolta

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La biodiversità del fico: tante varietà per tutti i gusti, Francesco Minonnne Varietà locali Varietà minori

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Essiccazione dei fichi reali di Atessa, Vincenzo Menna

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Ficus Carica L., Marilisa Laudadio Ricette di Antica Farmacia

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Ricettario dall’epoca romana fino ai giorni nostri, a cura di Vincenzo Menna I fichi sulla tavola degli antichi Romani pag. 93 ‘Li caracine’ nelle antiche ricette atessane pag. 95 I fichi nelle ricette di oggi. pag. 97 Indice bibliografico Fonti citate

pag. 119 pag. 123 127



agiate; il popolo, però, pur nella sua semplicità, custodiva una propria cultura costruita sulle tradizioni. Ogni comunità, così, si riconosceva e si distingueva dalle altre per la storia, la lingua, -dialetto-, per un popolo, un territorio, e quello atessano si riconosceva ed era famoso, tra l’altro, per la produzione che quello che mangiamo. Vincenzo Menna

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