Lelio De Francesco

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Lelio De Francesco

disegnatore, musicista, fotografo



Si ringraziano: Archivio di Stato di Chieti Archivio di Stato di Teramo Biblioteca Provinciale “A. Camillo de Meis” di Chieti Lello D’Amico Teresio Cocco Pier Giorgio Di Giacomo Annunziato Finoli Alfredo Massa I documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Chieti sono pubblicati su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, concessione prot. n. 1395/28.34.01.08 del 29.07.2014. Fondo Stato Civile, nelle pagine 94, 95, 96, 97. I documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Teramo sono pubblicati su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, concessione n. 9 prot. 1299 del 28.07.2014. Fondo Aliprandi - De Sterlich, b. 19, f. 8, nelle pagine 126, 127, 128, 129.

Finito di stampare nel mese di luglio 2014 Casa Editrice Tinari c.da Fonte Grande, 30 66010 Villamagna (Ch) www.casaeditricetinari.it ISBN 978-88-88138-27-5


Eide Spedicato Iengo - Pasquale Tunzi

Lelio De Francesco

disegnatore, musicista, fotografo


SOMMARIO

Saluto del Presidente della BCC Piergiorgio Di Giacomo pag. 5

Lelio De Francesco Cosa ci racconta con le sue foto, i suoi disegni e con la sua musica? Giuseppe Tinari pag. 7 Intorno a un personaggio singolare Eide Spedicato Iengo pag. 9 L’arte del disegno in Lelio De Francesco Pasquale Tunzi pag. 13 Per il XXV Anniversario della vita artistica di Lelio De Francesco e della fondazione del suo d’arte fotografica MDCCCLXXXIX - MCMXIV pag. 17

Appendice documentaria pag. 93

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Saluto del Presidente della BCC

La Bcc Sangro Teatina, fiore all’occhiello del nostro territorio, è un punto di riferimento per tante attività, sempre puntuale a sostenere eventi, cultura, iniziative curate dal comune e dalle varie associazioni, insomma un’istituzione fondamentale, fonte di ricchezza ma non solo materiale. La nostra banca ha legato il proprio nome a molteplici iniziative culturali, libri, pubblicazioni di vario genere con convegni organizzati ai vari livelli. Esse hanno collocato la nostra banca fra gli enti che promuovono la cultura nel senso pieno del termine. La banca fin dall’inizio della sua attività bancaria, oltre al sostegno al mondo delle imprese e delle economie, alle famiglie, ai piccoli operatori ha riservato particolare attenzione alla crescita culturale della comunità nella quale opera. Nei suoi 110 anni di esistenza la Banca di Credito Cooperativo Sangro Teatina ha costantemente cercato di promuovere o sostenere iniziative editoriali per una più ampia acquisizione di conoscenze della nostra città. A distanza di oltre 90 anni dalla sua prima pubblicazione la Banca di Credito Cooperativo di Atessa, dando conferma della sua volontà,già ripetutamente dimostrata, di adoperarsi fattivamente sul fronte della salvaguardia del patrimonio culturale della nostra Città, ristampa in anastatica il libro ”In memoria delle onoranze di Lelio De Francesco per il 25° anniversario della sua vita d’arte: 1889-1914, a cura di Vincenzo Zecca (Chieti) 1919” . Lelio De Francesco di origini campane, ma di padre atessano, fu un personaggio di rilievo della vita culturale della regione Abruzzo, appassionato cultore della musica, del disegno e, in particolare, della fotografia alla quale seppe dare dignità d’arte. Fu considerato un superattivo, tanta era la carica che lo spingeva verso il lavoro, una spinta che aveva come propellente la genialità mista alla creatività. Prima di dedicarsi alla professione di fotografo fu pittore, distinguendosi anche nella sperimentazione di tecniche miste. La sua preferenza era rivolta a soggetti storici e ritratti. L’attività di Lelio De Francesco coincide con gli inizi della storia della fotografia abruzzese, fotografo delle grandi occasioni, della borghesia , della municipalità e delle manifestazioni ufficiali. Notevole fu il suo impegno professionale rivolto alla produzione e alla edizione di cartoline fotografiche anche della nostra città. Con questa pubblicazione la BCC Sangro Teatina intende rendere omaggio ad un personaggio che, con costante e fervida volontà, si è adoperato affinchè la fotografia, arte di cui fu interprete straordinario, permettesse la registrazione e la diffusione del vastissimo patrimonio storico, sociale e culturale abruzzese in Italia e nel mondo. 5


Vogliamo anche sperare che la presente pubblicazione possa validamente motivare uno studio monografico su un personaggio di rilievo della vita culturale della nostra regione e contribuire all’individuazione e alla valorizzazione del suo archivio o almeno di ciò che resta della sua opera. Ringraziamo, infine, coloro che hanno avuto la sensibilità di farsi da tramite perché questo libro vedesse la luce, ed in particolare Lello D’Amico, Annunziato Finoli e i possessori delle immagini fotografiche messe a disposizione per consentire di restituire l’opera di Lelio De Francesco ad un più vasto pubblico. All’editore Giuseppe Tinari, alla Prof.ssa Eide Spedicato Ienco, al Prof. Pasquale Tunzi vanno i meritati ringraziamenti per aver corredato il testo di un’ampia e dotta illustrazione introduttiva, alla nostra banca la soddisfazione di aver sostenuto questo valido progetto. Pier Giorgio Di Giacomo Presidente della BCC Sangro Teatina

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Lelio De Francesco Cosa ci racconta con le sue foto, i suoi disegni e la sua musica?

Attraverso la sua arte, o meglio, attraverso una perfetta fusione di tre arti in una, ci fa conoscere il nostro Abruzzo. Nelle sue foto si vedono, oltre alla figura o al paesaggio, i caratteristici tratti che, pazientemente, riportava sui negativi per rendere più armoniosa, più nitida l’immagine: “fare” una fotografia per lui non era soltanto “pigiare” il pulsante della macchina fotografica, ma significava cogliere il momento significante di quell’accadimento, di quell’evento, di un personaggio o di un paesaggio, dando vita ad un’opera d’arte. Per realizzare un ritratto, non bastava soltanto chiedere al soggetto di stare “fermo” per “impressionare” la pellicola; chi fotografa deve “prendere” la luce e usarla come inchiostro, cercando di individuare l’attimo che qualifica il soggetto. Da pochi anni siamo entrati nell’era della fotografia digitale, forse ultima rivoluzione dell’epoca dell’immagine iniziata nell’Ottocento con i primi dagherrotipi e proseguita con la pellicola. Charles Wheatstone, inventore del telegrafo, che coniò il termine “fotografia” cominciò, insieme a Joseph Nicéphore Niepce, a realizzare riproduzioni di immagini con il metodo che chiamò “eliografia”: così venne creata la prima immagine fotografica che segnò una straordinaria rivoluzione. Il nuovo sistema di riproduzione di immagini, particolarmente fedele all’originale, la fotografia appunto, trovò sostenitori e appassionati nella borghesia ottocentesca che vedeva nelle nuove scoperte la via del progresso. E la stessa fotografia venne ben presto utilizzata per immortalare eminenti esponenti della borghesia e le loro famiglie, come moderni e più veloci ritratti che avrebbero potuto, nel tempo, testimoniare eventi e periodi storici. La parola fotografia deriva dal greco antico ed è composta dai due termini luce e scrittura o disegno: per realizzare una foto occorre la luce. Fotografare pertanto, non è altro che scrivere con la luce o disegnare con la luce. Ecco quindi che Michetti usa le foto del De Francesco per realizzare, in studio, il ritratto del Prefetto di Chieti, Flauti. Per quanto arte, comunque, la fotografia, amata dalla borghesia, è più democratica della pittura, proprio per le sue caratteristiche di realizzazione e perché più facilmente accessibile. Per questi motivi la fotografia diventa fondamentale per la costruzione di una memoria storica condivisa.

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Attraverso le immagini si raccontano la storia, gli eventi, i personaggi di un paese, nonché il luogo stesso. La fotografia entra in ogni strato sociale e in ogni ambito della società e della cultura: tutti possono raccontare e far conoscere la propria storia o gli avvenimenti che li circondano. Purtroppo, oggi, con i nuovi sistemi di comunicazione, spesso si abusa di questa tecnica, divulgando immagini senza particolare significato e interesse, attenuando così fortemente il senso del fotografare, dello scrivere o disegnare con la luce. Senso ulteriormente affievolito dalle attuali modalità con cui si fotografa; anche questa attività infatti oggi più che mai è vittima della fretta, della voracità del fare che ci travolge e che spesso ci fa dimenticare che la vera opera d’arte è frutto di studio, passione, curiosità, dedizione, pazienza, attenzione. La fotografia non inventa come la fantasia o la genialità di un pittore, scultore o scrittore, ma restituisce la visione della realtà di quel momento, di quel luogo, di quel soggetto, creando, però, un punto di vista interessante o scoprendo immagini inaspettate, dettagli unici che solo lo sguardo dell’artista, fotografo dietro l’obiettivo, riesce a cogliere. Giuseppe Tinari Editore

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Intorno a un personaggio singolare

Ci sono persone che scrivono la propria storia sull’acqua, e altre che la disegnano sulla carta, o la incidono sulla lastra fotografica, o l’affidano al pentagramma. Lelio De Francesco, come disegnatore, fotografo, musicista, inventore appartiene a questa seconda categoria. È a tale singolare personalità che queste pagine sono dedicate. Pagine – va sottolineato – che non si inscrivono nell’alveo del ricordo agiografico di un soggetto di rango, ma più semplicemente sono da intendersi come l’omaggio che una città, Atessa, rende ad un suo concittadino per aver lasciato profonde, incisive tracce di sé in Italia e all’estero. Lelio De Francesco di queste tracce ne ha lasciate molte, e non solo sul versante artistico e professionale. Di sé, almeno a quanto è dato rilevare dalle note biografiche e da quanto le cronache giornalistiche hanno scritto di lui, ha lasciato l’immagine di persona semplice e schiva, tanto creativa e versatile a cogliere le innovazioni del suo tempo quanto impegnata a mettere tra parentesi l’inessenziale e a leggere il mondo con brillante intelligenza. Per queste sue doti, si impose fin da giovanissimo all’attenzione del pubblico e di esperti, e raccolse prestigiosi riconoscimenti in Italia e in Europa, soprattutto nelle Esposizioni Internazionali. Queste contribuirono ad aprirgli le porte di importanti sodalizi, come, per esempio, a Parigi quella dell’Académie Parisienne des Inventeurs e l’Académie du Progrés; e a fargli collezionare numerosissimi premi e qualificati riconoscimenti come la nomina a Cavaliere del Reale Ordine di San Giovanni Battista di Spagna o quella dell’Ordine dei Cavalieri di S. Sebastiano e Guglielmo di Francia. In particolare, il suo nome è legato alla tecnica del ritocco del negativo fotografico del ritratto, alle sue invenzione della “cromoplatinotipia” e del cavalletto da ritocco. L’industria della fotografia, negli anni in cui il De Francesco operava, aveva fatto del fotografo alla moda un demiurgo capace di raggiungere la soglia della verosimiglianza del soggetto che ritraeva. Ma le cartes de visite, cariche di grafismo e di pittorialismo che riducevano l’arte fotografica a mestiere, assecondando il gusto del cliente, ritoccando e attenuando i difetti del committente, non annoverarono fra i propri cultori il Nostro, il quale espressamente, nella sua relazione al III Congresso Fotografico Italiano, tenutosi a Roma nel 1911, precisò su tale “moda” il suo pensiero che vale riportare per esteso, perché testimonia della sua serietà professionale e sui motivi del suo rifiuto nei confronti delle logiche del compromesso e della manipolazione: «In primo luogo conviene parlare del ritocco fisico, che trova la sua ragion d’essere nelle stesse qualità intrinseche del negativo. Quando un ritratto sia, nei riguardi chimi-

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ci, ben riuscito, il ritocco si riduce alla eliminazione delle imperfezioni fisiche del negativo e alla correzione delle esagerazioni inerenti alle manchevolezze della stessa riproduzione fotografica: eseguito da chi unisca all’abilità l’esperienza, esso non altererà minimamente la fedeltà delle linee, l’effetto plastico, né l’espressione del soggetto; ma mitigherà contrasti troppo forti nel chiaroscuro, ridurrà la rigidezza data talvolta dall’obbiettivo, attenuerà la crudezza di un particolare. Se invece il negativo riuscì tecnicamente imperfetto, il ritocco permetterà bensì di rimediare, con più complicato lavoro, ai difetti, ma a scapito della verità, della rassomiglianza. […] Purtroppo anche oggidì le esigenze di una parte del pubblico spingono il professionista ad oltrepassare il limiti del ritocco fisico, ma più che per avvicinare l’opera sua al ritocco artistico, il quale potrà essere una meta lontana, sebbene non a tutti preclusa, per appagare invece la vanità personale del cliente. La fedeltà della forma e del chiaroscuro, la naturalezza dell’espressione, l’esattezza dell’anatomia, troppo spesso esulano così dal negativo per il capriccio di un committente che il tempo non risparmiò a cui natura fu matrigna. Ancorché sia lodevole atto di carità, e talvolta proficuo, il non togliere altrui le illusioni, è contro la facilità con la quale queste tendenze sono soddisfatte dagli operatori che occorre combattere e che io protesto; essa invero oltre a nuocere alla dignità stessa della fotografia, scredita di più in più quell’arte del ritocco che, mantenuta nei confini ora accennati, ed usata con criteri sinceramente artistici, è per me complemento più che necessario della parte chimica del processo fotografico». Ma entriamo in qualche dettaglio di questo volume. Cominciamo coll’annotare che i lampi del De Francesco hanno fissato prevalentemente la memoria di personaggi politici (come il deputato Emilio Giampietro o del Ministro delle Poste e Telegrafo Vincenzo Riccio); di aristocratici come Antonio Ruffo principe della Scaletta; di alti rappresentanti dello Stato e delle loro famiglie; di signore e signorine “bene” dai corpetti attillati, impreziositi di pizzi e di ricami; di bambini vestiti di velluto; di signori in tenuta da caccia con tanto di segugi e di doppietta. Ovviamente, non hanno mancato di aprirsi e di mescolarsi anche al contesto del paese. Qui l’obiettivo si è posato sulle piazze e sulle scalinate su cui si sostava per riposarsi e scambiare due chiacchiere; sulle torri e sugli archi della città; sui portoni delle chiese; sugli spazi di devozione; sulla gente comune che, talora, veniva sorpresa nel suo fare quotidiano, e, talaltra, cosciente dell’apparecchio fotografico, si metteva in posa. Ma non erano, questi, gli ambienti a lui più congeniali. Dai suoi scatti fotografici, per esempio, sembra di rilevare che Lelio De Francesco non fosse incline a denunciare il disagio sociale della sua terra e, infatti e non a caso, quando incontrava la fatica, il sudore, gli abiti dimessi li fotografava sempre da una certa distanza, quasi volesse sfuggire a un rapporto diretto. Non certo per superbia – riteniamo – ma perché in esso, verosimilmente, non si riconosceva. Le frequentazioni culturali e i suoi interessi artistici l’orientavano altrove: verso la fotografia artistica che, attraverso immagini levigate ed accurate, obbediva all’intento di conservare momenti importanti della vita, come il matrimonio; o di fissare la memoria di un cognome, di una vocazione religiosa, di un ruolo professionale (come

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attesta la fotografia del Prof. Francesco Grumelli dal quale il De Francesco apprese i primi elementi di disegno). Era questa la cornice nella quale si trovava a proprio agio, al punto che – anche quando l’oggetto dei suoi scatti era un esterno – la sua sapienza professionale faceva sì che questo apparisse netto, pulito, preciso, ordinato quasi fosse effettuato nel suo studio fotografico. Questo volume si impone, dunque, all’attenzione del lettore per più di un motivo. Qui ne segnaliamo solo due, quelli a nostro avviso, più significativi. Il primo: perché ripercorre le tappe principali dell’attività artistica e professionale di un personaggio interessante e poliedrico, di cui disegna la personalità fin da quando, poco più che bambino, prendendo in mano un foglio e una matita dimostrò la sua predisposizione nel disegno. Il secondo: perché si fa espediente per contraddire quell’idea radicata quanto diffusa, nell’immaginario collettivo, che ritiene le periferie geografiche povere di talenti, quasi queste fossero per natura destinate al silenzio e alla marginalità. Ma queste pagine sono interessanti anche per ciò che non dicono, ma a cui implicitamente rinviano. Intanto, perché restituiscono riconoscibilità a quadri remoti di significato e vivificano quei luoghi dell’Io comunitario che la società dell’oggi tende ruvidamente ad allontanare da sé. Poi, perché richiamano in vita una fetta di passato attraverso la rievocazione di una folla di sentimenti privati che si confondono con vistosi cambiamenti storici e sociali. Se per un verso, infatti, queste fotografie alludono ad orizzonti familiari nutritivi e ad ambienti dominati da comportamenti routinari, per un altro verso, inscrivono nell’atmosfera di una società a cavaliere fra Otto e Novecento che stava cambiando fisionomia e si affacciava alla modernità, sebbene in un amalgama di vecchio e di nuovo che diventava particolarmente vistoso nelle aree più depresse del paese. Questa biografia virtuale non racconta, dunque, una “natura morta”. Racconta, all’opposto, un sistema organizzato di segni parlanti e di oggetti-simbolo, che diventano cronaca e storia di un piccolo-grande mondo che possiede la ricchezza di quelle esperienze e di quelle emozioni che fanno di ogni realtà, anche della più circoscritta, una realtà universale. Può, pertanto, essere letta come un invito utile sia a recuperare il significato del passato per riparare dalla corruzione del tempo i valori della propria cultura; sia a diffidare della categoria del tempo-freccia che, correndo senza sosta in avanti e cancellando tutto ciò in cui si imbatte, mette all’angolo la sua antitesi, quella del tempo che, girando in tondo, riconnette all’indietro nell’area identificativa di ciò che gli altri sono stati perché noi potessimo essere. Eide Spedicato Iengo Docente di Sociologia Generale Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara

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L’arte del disegno in Lelio De Francesco

All’inizio dell’Ottocento la tecnica calcografica aveva ampiamente prodotto e divulgato il ritratto. L’accezione di quest’ultimo non era circoscritta soltanto alla riproduzione dei caratteri fisionomici di personaggi illustri, comprendeva anche la raffigurazione di luoghi, di soggetti viventi, di elementi inanimati come sculture o dipinti. La riproduzione era finalizzata alla divulgazione, un’opera che di lì a pochi anni si sarebbe ampiamente diffusa interessando l’editoria ‘economica’, prodotta prevalentemente a fascicoli settimanali e con riviste illustrate. Tali pubblicazioni possono essere considerate la prima grande finestra aperta sul mondo alla quale si potettero affacciare, indifferentemente, uomini colti e profani. Essa rivelava il principio di consapevolezza di una realtà multiforme e spesso complessa, che andava affrontata e compartecipata sviluppando il senso d’identità degli individui e, soprattutto, di conoscenza dei propri beni culturali. Questa attività fece inoltre emergere i protagonisti della comunicazione, scrittori e illustratori avvicendati su un nuovo palcoscenico nell’intento di connettere la cultura scientifica, prodotta da una ristretta élite di dotti, alla diffusione semplificata e volgarizzata di cui il popolo aveva bisogno. I disegnatori, chiamati a riprodurre immagini, si formavano sotto la direzione di illustri maestri presso le accademie e le scuole di Disegno. Attraverso l’esercizio costante svolto sulle copie di opere d’arte e di riproduzioni, essi raggiungevano la conoscenza delle regole classiche: Lelio De Francesco è tra questi. La sua grande capacità percettiva e l’attitudine alla trasposizione figurativa lo portarono già adolescente a eseguire buone copie di incisioni e di quadri, come la Sibilla Cumana dipinta da Domenico Zampieri nel 1622 e l’interno della Basilica di San Pietro in Roma tratta da un’incisione del 1748 di Giovan Battista Piranesi, o più probabilmente da una riproduzione eseguita da Chevalier Artaud nel 1835 per una serie divulgativa di incisioni. Certo, il giovane De Francesco ha una grande manualità coadiuvata da un occhio attento, e un forte interesse per l’arte che lo porta a esercitarsi per raggiungere ben più alti livelli artistici. È possibile apprezzare le due doti in diverse riproduzioni, di cui si cita l’eccellente disegno della statua di Galata morente (decollato), dove l’uso attento di sfumature rese dalla morbida matita, rendono la plasticità dell’apparato scultoreo, e l’anno dopo, a 19 anni, si cimentò con un pregevole paesaggio alla maniera dei ritrattisti del Grand Tour e di Andrea Locatelli illustre esponente della pittura arcadica pastorale. Una scena di genere filtrata attraverso il gusto romantico per la natura, è raccontata dal Nostro con un segno eloquente, sapientemente dosato in ogni parte della composizione. La contemplazione della natura è qui manifestata in un soggetto dall’orizzonte infinito, dalla vegetazione quasi dotata di anima propria, nei sereni anfratti dove il chiarore del cielo si riflette in uno specchio d’acqua. 13


Nel clima verista, quasi a voler osservare oggettivamente la realtà umana locale, il giovane De Francesco quindicenne non trascura agli artisti abruzzesi, affascinato da una pittura sensibile, dai colori caldi, da insoliti soggetti. Il suo eccellente studio di animali compiuto nel 1880, un possente esemplare di bue, ricorda tanto i dipinti di Giuseppe Palizzi quanto quelli di Valerico Laccetti. Il disegno al tratto è di ottima fattura, e non meno apprezzabile è la composizione giocata su diversi piani che concorrono a definire profondità e chiaroscuro. Certamente la sua strada artistica si sarebbe innestata in quella della Scuola di Posillipo, condotta da Giacinto Gigante, se nel 1885 non si fosse trasferito a Milano per prestare il servizio militare. Lì tutt’altro genere di clima culturale, intriso di melodrammi e concerti a teatro, dove la fotografia dava i suoi interessanti prodotti con Pompeo Pozzi, Alessandro Duroni, Luigi Sacchi per citarne alcuni, influì decisamente sul Nostro. Com’è noto, nel 1885 per Lelio De Francesco si aprirono le porte dell’Accademia di Brera, e la sua passione per l’arte classica, seppur non sempre agevolata, certamente lo favorì. Gli studi accademici indirizzavano il gusto estetico dei giovani artisti attraverso la copia e l’analisi delle composizioni classiche, comprese le opere del Rinascimento italiano. Si perseguiva un percorso formativo artistico la cui produzione emblematicamente celebrasse il sovrano di turno attraverso l’espressività aulica di composizioni canoniche, facendo largo uso delle allegorie mitologiche, immediatamente comprensibili sia dagli eruditi che dalle autorità di ogni paese. Essere accolti nell’Accademia delle Belle Arti designava il futuro dell’artista proiettato verso il mercato delle opere d’arte, un mercato gestito da famiglie facoltose e prestigiose. De Francesco era ben consapevole del valore primario della visione, soprattutto nell’approccio intuitivo, esplicato nella trasposizione grafica in cui un ipotetico fruitore poteva giovarsi del piacere della bellezza del soggetto raffigurato. Trasporre attraverso la sintesi grafica il reale allo stesso modo delle opere d’arte non sempre accessibili, rendeva certamente più semplice la conoscenza da parte del fruitore, e ad un tempo, per il nostro artista era l’occasione per entrare sempre più nel vortice della rappresentazione seduttiva. Le sue riproduzioni sottraevano l’immagine dipinta dall’uso e consumo di una ristretta élite di facoltosi, e ben presto sarebbero diventate illustrazioni di incontrastato successo. Il suo intento era quello di avvicinare il maggior numero di persone alla raffigurazione d’arte, alla bellezza dell’arte, in modo coinvolgente. La sua maestria deriva da un’attenta e costante ricerca di utili e apprezzabili soggetti, ma anche dalla sua formazione accademica. Infatti tra le discipline impartite con grande rigore in Accademia era altresì contemplata la calligrafia, un esercizio costante e paziente a cui gli allievi venivano sottoposti per appropriarsi della bella scrittura dell’alfabeto. Con l’uso del pennino essi disegnavano in modo perfetto ed elegante, rispettando ogni minimo dettaglio, le singole lettere tutte uguali e in varie dimensioni, spesso corredate di svolazzi e di elementi decorativi. Era una pratica le cui origini si rinvenivano nella realizzazione di uno stile grafico compiuto in età rinascimentale, sotto la spinta della rinnovata stampa tipografica, ora ritenuto necessario da quel pensiero estetico proiettato verso un ideale di bellezza terrena. Non mancano, tuttavia, negli apparati decorativi, rimandi ad allegorie molto frequenti all’epoca, come lo stesso De Francesco fece nel realizzare per un pregevole sopraporta composto da una coppia di figure femminili (affabili arpie con gambe fitomorfe) sdraiate su di una mensola ornata al centro da conchiglia sormontata da kylix colmo di frutta. Senza dubbio è un’ottima composizione di elementi neoclassici e di motivi naturalistici in cui si rivela il gusto eclettico imperante. 14


L’esercizio calligrafico condizionava l’occhio e la mano nel tracciare segni regolati da rapporti geometrici, come aveva insegnato Luca Pacioli, e ora il tipografo parigino Francois Thibaudeau ritiene, per la prima volta, di dover sottoporre a distinta classificazione i diversi tipi di caratteri. Già diciasettenne Lelio De Francesco, presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, si cimentò con la calligrafia, il cui esercizio era di notevole importanza per la sua formazione artistica, come rilevante era la padronanza del segno espresso in volute, cartocci, racemi, viticci di gusto floreale. D’altro canto lo stile Liberty si stava affermando in tutta Europa con le più svariate applicazioni in campo non solo grafico, con apparati decorativi ispirati alle forme più diverse della natura. In tal senso l’espressione creativa di De Francesco si manifesta proprio sul finire dell’Ottocento, quando esplicata egregiamente nella fotografia professionale, sovente è risolta nelle apparecchiature delle stampe su cartoncini decorati con composizioni floreali o scene allegoriche. Si veda la foto del maestro di musica Alfonso Falconi del 1896 (oggi nell’archivio storico Ricordi) splendidamente incorniciata dal raffinato disegno di un morbido panneggio accostato a un singolare modiglione antropomorfo con basamento, elemento decorativo architettonico che inquadra uno spartito musicale e la lira posta in primo piano. L’invitante connubio tra foto e disegno è una piacevole rivisitazione dei ritratti litografati nella prima metà del secolo, in cui artisti come il milanese Roberto Focosi si erano applicati con successo. Il singolare ritratto sapientemente giocato tra il calligrafico decorativismo e la plurisemia simbolica, lasciano intendere un senso di rigenerazione della comunicazione figurativa, ormai troppo convenzionale e stanca. Così l’antica “carte de visite” viene rinnovata in una forma molto più personale, apponendo la piccola foto verso l’estremità del cartoncino, in un ovale ben incorniciato e seguito dal cartiglio con la parola ‘ricordo’ infiorettato. L’incisione realizzata dallo stesso De Francesco a inchiostro colorato, secondo la moda del tempo, metteva in risalto la piccola immagine applicata e si poneva come un dono originale da fare con estrema discrezione. Per la sua finezza compositiva e la qualità grafica è anch’essa una forma d’arte, seppur di minore entità, che certamente non sostanziava quanto Hegel aveva affermato, ossia che essa aveva “cessato di essere il bisogno supremo dello spirito”. De Francesco sembra invece affermare, come sostenne Nietzsche, il ruolo appagante dell’arte quale giustificazione dell’esistenza, e lo fa impegnandosi in particolar modo nella fotografia, senza però abbandonare il disegno, primo amore. Questa sua ultima grande attività, profusa con acribia (vedasi l’intervento del fotoritocco, oggi di grande attualità), ci permette di accostarlo al pensiero di Charles Baudelaire il quale ritenne l‘arte capace di “eternizzare ciò che è caduco”. Così il piacere visivo per Lelio De Francesco salva l’arte dall’artificio, perché l’occhio si apre sul visibile, su ciò che appare in silenziosi racconti. Pasquale Tunzi Docente di Disegno Dipartimento di Architettura Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara

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