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Cenni Storici
La basilica San Miniato al Monte domina da un colle posto a sud di Firenze, la città ed è uno degli esempi più caratteristici del romanico toscano, uno stile fortemente influenzato dalla tradizione classica. La chiesa è decorata, sia all’interno sia all’esterno da marmi bianchi e verdi. La facciata (XII-XII secolo), caratterizzata dal paramento marmoreo bianco (in parte apuano, in parte di reimpiego) e verde di Prato (“serpentino” del monte Ferrato) è disegnata a scomparti geometrici. Ha due ordini, con fastigio (timpano) centrale e due spioventi laterali, si caratterizza per l’ordine inferiore a cinque arcate a tutto sesto (con tre porte reali e due simulate) definite da semicolonne corinzie (fusti in marmo verde, basi e capitelli in marmo bianco). L’ordine superiore, contenente e non coincidente con le tre arcate a terra; è tripartito con agili paraste scanalate che riposano su un robusto marciapiano in marmo verde; gli spartiti sono risolti con decorazioni geometriche i cui punti angolari sono materializzati da sculture. Al centro una perfetta finestra classicheggiante con pròtomi leonine alla base delle due colonne; il campo superiore al timpano fino alla cornice marciapiano che imposta il fastigio, ha una scena a mosaico , su fondo oro. Il timpano, infine, ha nove archetti ciechi e formelle a intarsio; alle due estremità del timpano vi sono due telamoni in marmo bianco (in realtà altorilievi in un unico monolitico). Sulla sommità della facciata l’arte di Calimala, che per anni si è occupata della basilica, fece porre nel 1401 un’aquila di rame, già dorata, ed avente i piedi sul Torsello (balla ammagliata di dodici panni) di marmo. Le scale che precedono la facciata vennero rifatte varie volte: nel 1338, nel 1493 ed infine nel 1796. La continuità con la tradizione classica e bizantina si evidenzia nell’adozione della pianta basilicale a tre navate senza transetto, con copertura a tetto; ma soprattutto nella ricerca della proporzionalità, dell’essenzialità dei volumi, che si traduce in perfette definizioni geometriche, nella struttra come nella decorazione. La navata principale sta alle navate laterali nel rapporto di 2:1; la distanza tra le successive arcate trasversali è pari alla loro altezza, il rapporto tra larghezza e altezza della navata centrale è 2:3, e così pure il rapporto tra larghezza della navata e lunghezza dei raggruppamenti di tre arcate. Nove archi a tutto sesto, sorretti da colonne intervallate ogni due da pilastri polistili, ritmano l’andamento longitudinale della chiesa. Dai pilastri polistili partono le arcate trasversali che suddividono la navata centrale e le navate laterali in tre campate, delle quali, l’ultima, sopraelevata, costituisce il presbitereo. I pilastri polistili e le arcate trasversali sono stati considerati un’importazione della tecnica costruttiva lombarda; tuttavia l’uso non di un sistema di volte ma di tradizionale tetto a capriate priva i pilastri a fascio della loro innovativa funzione statica e li trasforma in elementi di scansione ritmica. Una raffinata guida intarsiata di marmi caratterizza la pavimentazione della navata centrale conduce dal portale centrale fino alla cappella del Crocifisso di Michelozzo. I motivi sono vari e sembrano riconducibili a quelli ornamentali delle stoffe orientali. Questa fascia intarsiata è composta da sei quadrati e due rettangoli, caratterizzati da figure basate sul simbolismo del numero otto, formando stelle a otto punte o fiori a otto petali. L’otto , infatti, è il numero della perfezione spirtituale, quello del cielo delle stelle fisse che avvolgono i cieli planetari, per i neoplatonici la sede delle anime. Il simbolismo cosmico è chiaramente visibile anche nella preziosa figura dello zodiaco pavimentale, collocato nel quarto quadrato. Si tratta di un quadrato con la ruota dello zodiaco, nei cui pennacchi d’angolo quattro grifoni stringono fra le zampe un serpente, sostenuti da due figure con busto umano e corpo serpente.
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L’abside ha cinque finestre, chiuse da lastre di marmo traslucido, nella parte superiore e tre finestrelle, con archetti di materiale differente (verde di Prato per due e cotto e tufo per l’altra), nella parte inferiore. Le parti piane presentano, a livello della cripta, una finestra per ciascuna nave con arco ribassato in pietra forte e marmo; a livello del presbitereo, una finestra gotico polilobata per la navata destra ad una romanica, simile a quelle del coro, per la navata sinistra. L’area presbiteriale comprende tutta l’ultima campata ed è sopraelevata di m 3,375 rispetto al piano della chiesa. Al presbitereo si accede attraverso due rampe di scale poste ai lati della navata maggiore. Realizzate originariamente in pietra vennero rifatte in marmo attorno al 1475; ogni rampa è di quindici gradini, parzialmente occupata, tra il sesto e l’ottavo gradino, da una colonna della navata principale. Il presbitereo è preceduto da un ambulacro al quale era anticamente consentito l’accesso ai fedeli. Li separa una transenna in marmo alta circa tre metri con tre aperture. Un sedile in marmo intarsiato chiude l’ambulacro dalla parte della basilica. Ricade nell’ambulacro la seconda coppia di pilastri polistili, in blocchi verdi di Prato , con base in arenaria grigia e capitelli differenti: quelli del pilastro sinistro in marmo in stile corinzio, quelli del destro in cotto di stile composito romanico. Adiacente al pilastro destro, sorretto da due colonnine corinzie e dalla transenna, si trova il Pulpito, alla quale si accede mediante una scaletta in muratura, con gradini in marmo. Oltrepassata la transenna, l’area presbiteriale è suddivisa in tre navate da due coppie di colonne e da due semipilastri, in conci verdi di Prato. Le colonne, uniche in tutta la basilica, sono in un sol blocco di marmo e provengono probabilmente da resti di edifici romani, considerata anche la particolare lavorazione, forse una ritornitura, che presentano in prossimità della base. La navata centrale del presbitereo è in gran parte occupata dai 48 stalli del coro ligneo realizzato nel 1466 . Al di là dell’arco trionfale, delimitato da due paraste rudentate e scanalate, si apre l’abside. La trabeazione che corre sulle arcate del coro si incurva nell’emiciclo dell’abside: sei colonne in rulli verdi di Prato con capitelli bianchi, sostengono archi a tutto sesto, che ripetono con un illusionistico effetto di schiacciamento l’ordine degli archi laterali. Il catino dell’abside è decorato con un mosaico che presenta una particolare tecnica costruttiva (taglio delle tessere, accostamento e giacitura), volta ad ottenere particolari effetti di luci e ombre, rappresentante il redentore tra la Madonna e San Miniato. Le pareti della navata destra del coro sono quasi interamente ricoperte di affreschi. Le pareti della navata sinistra sono invece nude, ad eccezzione di fondo dietro l’altare. Le capriate laterali presentano ancora la loro decorazione originaria. La cripta, la parte più antica della chiesa (XI secolo), è sormontata dall’altare maggiore che si suppone contenga le ossa di San Miniato (sebbene ci sia prova che queste fossero già state portate a Metz prima che la chiesa fosse costruita). Lunga quanto il presbiterio, vi si accede tramite cinque archi che portano a tre rampe di scale corrispondenti rispettivamente alle navate della chiesa. L’altezza varia dai 4 ai 4,5 metri. Sul soffitto sono presenti volte a crociera che poggiano su trentotto colonne che, a loro volta, suddividono la cripta in tre navate centrali e quattro laterali. Le quattro navate a sinistra presentano un’assimmetria essendo presente una vela rinforzata in tempi successivi con archi di mattoni a tutto sesto. Su questa volta sono presenti affreschi di Taddeo Gaddi che risalgono al 1341. Le colonne e i capitelli sono di fattura e materiali diversi (marmo scanalato, marmo liscio, pietra serena, cotto); sui capitelli è ancora presente traccia della doratura effettuata nel 1342 da Taddeo Gaddi. L’altare è molto probabilmente posteriore a quello del presbiterio, un tempo era circondato da una cancellata (1338), ancora presente in parte, e da un coro in legno. L’illuminazione è dovuta grazie a cinque finestre poste nella parete sud della cripta. Sulla parete destra dell’abside si accede alla Sagrestia di architettura a <<forma quadrata, con volta divisa da costoloni a crociera, con batacchi e mezzarchi, che continuano le loro membrature fino a terra. Costituendo quattro piloni d’angolo>>. Le quattro pareti sono interamente ricoperte d’affreschi, salvo l’apertura che dà sulla chiesa, sulla parete d’ingresso, e la parete adiacente a sinistra, che accoglie una vetrata in stile neogotico - vetrata con lo stemma dell’Alberti e due mezze figure di angeli da un disegno di Raffaello Payer - e un piccolo vestibolo con una lunetta affrescata che immette in un lavamani per il Sacerdote. Una serie di panche e di armadi in legno corre lungo le pareti, al di
In alto al centro Lo zodiaco, al centro della navata centrale
Nella pagina successiva Vista della cripta
sotto della decorazione, opera di Jacopo Monciatto intorno al 1470, con aggiunte neogotiche di Luigi Bendi nel 1860; alcune statue vi sono poggiate, una delle quali in stato frammentario. In un angolo a terra, una teca accoglie un Cristo deposto, terracotta policroma del primo Settecento. Due statuette sui banchi rappresentano S. Benedetto e S. Miniato, e sono registrate dalle guide ottocentesche come statuette robbiane in terracotta invetriata, di modesto valore artistico. Il S. Benedetto poggia su di un piccolo piedistallo rettangolare, ed è vestito con <<la caratteristica corolla bianca>>, distinguendosi per una certa monumentalità d’impianto. L’intera decorazione pittorica, compreso il soffitto a volte con i quattro evangelisti, è un’opera attribuita a Spinello Aretino. Spinello racconta la vita di S. Benedetto in sedici scene (restaurate e in gran parte ripulite dal pittore Antonio Marini al principio del secolo scorso), attingiendo dalla Regola di Gregorio e della Leggenda Aurea di Jacopo Varrazze; il che non gli impedisce di apportare significative innovazioni iconografiche. Si tratta del primo grande ciclo di affreschi dipinto in Toscana, che illustra con completezza la vita di S. Benedetto, costituendo il precedente del Maestro del chiostro degli Aranci alla Badia Fiorentina, e del Sodoma e del Signorelli a Monteoliveto. Nelle <<vite di uomini illustri del XV secolo>> Vespasiano da Bisticci scrive: <<... ordinò il suo testamento per autoritate apostolica, che fù d’essere seppellito alla chiesa di Sancto Miniato di Firenze dell’ordine di Monte Oliveto; e volle che vi si facessi una cappella dotata dove s’avessi ogni mattina a dire messa...>>. Chi redilige queste disposizioni testamentarie è il giovanissimo principe portoghese Giacomo di Lusitania, Cardinale Titolare di S. Eustachio, cugino del re del Portogallo e fratello dell’Imperatore d’Austria. Quando muore sulla strada del ritorno a Roma da Vienna, il 27 Agosto del 1459, i soldi per la realizzazione della Cappella sono insufficienti, e all’uomo accorre il tutore del Cardinale, l’arcivescovo Alvaro di Evora, che dovette tra l’altro, far pressioni sulla corte portoghese. Con l’apporto dei nuovi “giacimenti”, tra il 1459 e il 1467, il progetto della Cappella comincia a prendere forma e i primi artisti vengono interpellati. La cappella si aprirà come una ruota di pavone all’ornato architettonico, alla scultura e alla pittura; un disegno preciso, senza errori, che sembra dipendere da un programma prestabilito. L’architetto contattato per il disegno iniziale della Cappella è Antonio Manetti . Il risultato è molto vicino alla sensibilità artistica quattrocentesca; un momento dell’arte fiorentina in sintonia con i gusti policromi e smaglianti di un committente di educazione visiva iberica. Manetti muore nel Dicembre del 1460 e il proseguo dei lavori passa alla bottega del Rosellino, alla quale spetta probabilmente l’intera architettura della Cappella. Figura una lunga lista di operai, artigiani, scarpellini e uomini di fatica che hanno contribuito all’opera. Stefano di Bartolomeo realizza il pavimento, servendosi di marmi diversi, inventa un elegante disegno di marmi tripartiti, combinando il serpentino, il profido e il granito. Il marmo del pavimento tende a “sbavare” sulle pareti dove si arrampicava l’arte decorativa di pittori come Baldovinetti, i Pollaiolo e del Rosellino. I marmi si scompogono in gioco arabescato, accompagnando lo sguardo al soffitto dove si ritrova un altro pavimento, ma rovesciato. Il soffitto si tratta di un’opera di Luca della Robbia, il cui risultato finale è simile ad un mosaico. Alvaro si rivolge al Baldovinetti per dipingere i vani della Cappella con un insieme composto dalla tavole e affreshi. La tomba del Cardinale è un’opera pensata da Manetti con un assetto teatrale, dove due angeli scostano il velario. Manetti scava una nicchia nella parete, fingendo uno spazio ulteriore al di là della tomba.
In alto a destra Vista della volta della cappella del Cardinale del Portogallo
IL CIBORIO Il visitatore a cui è dato il privilegio di varcare per la prima volta la soglia della basilica di San Miniato al monte resta subito impressionato dalla profonda unità architettonica dell’interno. Sicuramente spicca per le sue eleganti geometria la cappella del Crocifisso, o Ciborio , collocato in fondo alla navata maggiore, in prossimità della scalinata che conduce all’ingresso principale della cripta, si erge per la sua eleganza, mirabile inserto rinascimentale che a differenza della Cappella del Cardinale del Portogallo si pone in rapporto dialettico con l’architettura romanica circostante. Il 27 Giugno del 1447 l’Arte di Calimala, che dal Duecento soprintendeva alla manutenzione e alla decorazione della basilica, auspicava che grazie all’intervento finanziario di un ricco cittadino fosse finalemente possibile costruire una sede degna per il veneratissimo Crocifisso di San Giovanni Gualberto, il fondatore dell’Ordine Vallombrosano. L’invito fu raccolto da Piero de’ Medici, che sulla base di quanto ci ha tramandato il Vasari nella seconda edizione delle Vite, affidò l’incarico alla scultore e architetto Michelozzo di Bartolomeo che lo portò a compimento nel 1448. Questi immaginò un’agilissima volta a botte poggiante su una ricca trabeazione, sostenuta anteriormente da due colonne e posteriormente da due pilastri scanalati. Alle estremità della volta si ergono imperiose due magnifiche aquile di bronzo dorato aggrappate al torsello - una piccola balla di lana-, emblema dell’Arte di Calimala, che secondo i documenti del Gennaio-Aprile 1449 furono eseguite dallo scultore Maso di Bartolomeo, detto Masaccio. Nella faccia posteriore della parete di fondo del Tabernacolo è scolpito a bassorilievo un falcone che artiglia un anello coi diamanti e tre piume, emblema di Pieri de’ Medici. Per la decorazione in maiolica della volta è generalmente ammessa la collaborazione di Luca della Robbia, cui il Vasari attribuisce il <<partimento di ottagonali bellissimo>> che caratterizza l’intradosso. L’estradosso è decorato invece con squame multicolori e richiama la copertura dei sarcofagi romano bizantini. Il finissimo fregio marmoreo delle architravi laterali ripropone intrecciati i simboli medicei dell’anello e delle piume, con la parola <<Semper>>, il motto di Piero de Medici. Anche la lieve cancellata che racchiude il tabernacolo su tre lati ripropone il simbolo dell’anello e dà un notevole contributo alla raffinatezza del complesso, primo frutto della fortunata collaborazione fra Michelozzo e Luca Della Robbia. Il veneratissimo Crocifisso di San Giovanni Gualberto fu trasferito nel 1671 nella chiesa di Santa Trinità a Firenze, dove si trova ancora oggi; sotto la completa ridipintura dell’opera dovrebbe celarsi un dipinto di scuola fiorentina del XIII secolo. Sulla parete di fondo del tabernacolo si trovano le tavole dipinte da Agnolo
Gaddi che in epoca imprecisata furono ricomposte arbitrariamente per formare la custodia del Crocifisso. Nella lunetta superiore compare un pannello con l’<<Ascensione di Cristo>> inserito fra le figure dell’<<Annunciazione>>; al di sotto troviamo invece la <<Flagellazione>> e la <<Resurrezione>>, con al centro due elementi di epoca tarda su cui sono raffigurati gli stemmi dell’Arte di Calimala. Nel registro inferiore di questo singolare retablo figurano i Santi <<Giovanni Guaberto>> e <<Miniato>>, con al centro quattro storie della Passione di Cristo e, infine, un gradino in cui sono dipinti a mezzo busto la <<Madonna col Bambino>> e dodici santi. Non è facile immaginare l’aspetto originale del complesso, cui apparteneva, forse anche la <<Crocifissione>> oggi nella Galleria degli Uffizzi a Firenze. In ogni caso, nonostante i dubbi avanzati in tempi recenti da una parte della critica, sembrerebbe fuori discussione il collegamento di questi dipinti con alcuni documenti degli anni 139496 nei quali Agnolo Gaddi risulta pagato per l’esecuzione di una tavola per la chiesa e, soprattutto, la sostanziale autografia dell’artista. Da subito il Crocifisso fu collocato all’interno della cappella, che occupa verosimilmente, il medesimo luogo in cui era stato innalzato l’altare nella ristrutturazione della basilica romanica. Dalle verifiche eseguite durante i più recenti restauri, è stata costato che una mensa in marmo bianco è conservata al di sotto di quella attuale in marmo rosso e il rivestimento in tarsie marmoree di fronti laterali e posteriore dell’altare è di una fattura e di una materia ancora più raffinata, se confrontata con l’opera di Michelozzo. Questo ci fa ipotizzare che un altare romanico era preesistente in quel luogo, come già concetturato dal Lucchesi nel 1937 e riutilizzato da Michelozzo, ruotandolo di novanta gradi. La tarsia che riveste il fronte rivolto verso i fedeli, invece, è di una fattura novecentesca, e sostituisce una lapide , oggi conservata nel chiostro, fatta apporre da Cosimo III per celebrare il trasferimento, nel 1671, del Crocifisso miracoloso di San Giovanni Gualberto presso la chiesa vallombrosana di Santa Trinità. Tutta la struttura ha subito numerosi interventi dir restauro durente i secoli, ma l’evento più traumatico subito è stato il suo completo smontaggio per metterlo in sicurezza da eventuali danni causati dall’ultimo evento bellico, e la successiva ricomposizione alla fine della guerra, intorno al 1950. Questa manomissione ha creato non pochi problemi, dovuti principalmente alla fretta dello smontaggio e alla successiva sua ricomposizione. Nel 1906-1910 e poi nel 1917 diversi lavori di restauro della basilica interessarono anche la cappella del Crocifisso con tassellature di marmi del gradino dell’altare e, molto probabilmente, con la realizzazione in questi anni della tarsia sul fronte dell’altare a imitazione di quelli preesistenti, da come si intuisce da una foto di Alinari databile al 1938. In questa stessa foto si evidenzia anche l’inversione delle formelle raffiguranti i due Santi patrono della Basilica con quelle raffiguranti alcune scene della Passione di Cristo dai margini esterni, al centro del polittico cuspidale. Non conosciamo ragioni di questa manomissione, ma durante le ultime operazioni di restauro avvenute nel 2010, si è ritenuto opportuno, in questa circostanza, di riposizionare nell’assetto precedente il 1938 tutte le formelle, così da restituire al ciclo pittorico un più idoneo assetto iconografico.
In alto a destra Il polittico cuspidale, realizzato da Agnolo Gaddi
Nella pagina precedente La fase del rilievo all’interno della basilica Il rilievo integrato
Per studiare correttamente l’oggetto di analisi è stata eseguita una precisa metodologia, integrando una prima fase di rilievo attraverso strumentazione laser scanner, ed una successiva di rilievo fotogrammetrico attraverso acquisizioni fotografiche di un manufatto di rilevante importanta all’interno del complesso. La prima fase affrontata, è stata però la fase conoscitiva. Prima di intraprendere qualsiasi campagna di rilievo , è necessario raccogliere più informazioni possibili attraverso delle indagini preliminari. E’ una fase fondamentale, poichè è il primo momento in cui ci si trova di fronte all’oggetto da analizzare. Si osserva quindi il contesto, e i dettagli architettonici che si ritiene opportuno evidenziare e si inizia a pianificare al meglio come verranno affrontate le operazioni successive di rilievo. In questa fase non si produce ancora del materiale tecnico, ma è fondamentale per migliorare la qualità del risultato finale restituito. All’interno di questa fase viene fatta anche un’importante raccolta di informazioni dalle fonti documentali dell’opera. Con l’inizio della fase di rilievo si prendono in esame anche i materiali e documenti preesistenti, grazie ai quali è possibile crearsi un’immagine complessiva del manufatto architettonico da analizzare e i punti incerti sui quali focalizzare l’attenzione con i rilievi di dettaglio, disegni e foto di particolari, di ausilio alla fase successiva di disegno delle sezioni, per meglio comprendere le geometrie dei componenti dell’oggetto architettonico. Una volta eseguita la fase conoscitiva si passa al rilievo vero e proprio. Questo per essere completo e corretto deve valersi delle distinte fasi di intervento attraverso l’uso di differenti strumenti. La metodologia seguita, infatti è quella del rilievo integrato, la quale adopera e sfrutta i vari metodi e strumenti di studio aumentando la qualità del lavoro stesso. Innanzitutto è necessario definire la scala di acquisione dell’oggetto. Rilievo laser scanner E’ stata scelta la scala di restituzione 1:50 per l’intero corpo basilicale, e di 1:20 per quanto riguarda il manufatto della cappella del Crocifisso. E’ opportuno introdurre il concetto di risoluzione del rilievo; sin dal telerilevamento gli strumenti effettuano una misura massiva, non discretizzando i punti utili per la resa grafica, la risoluzione consiste nella densità dei punti della maglia di acquisione, che deve essere progettata in relazione alla distanza tra lo strumento e l’oggetto del rilievo, per garantire la necessaria risoluzione. Garantire l’adeguatezza alla scala di valori prescelta significa ottenere un dato che soddisfi e garantisca tolleranze nella misura. Viene introdotto il concetto di errore ammissibile, che nel caso di restituzione del corpo della basilica in scala 1:50 non deve mai superare 15mm, mentre nel caso della restituzione del manufatto ciboreo rappresentato in scala 1:20 deve essere compreso tra 4mm e 6mm.
Nella pagine affiancate La nuvola di punti laser scanner Vista della volta della cappella del Cardinale del Portogallo
Il rilievo laser scanner è stato quindi studiato per garantire il rispetto di questi parametri di definizione; per questi motivi sono state impostate ad un densità standard utilizzata per i rilievi architettonici. Per stabilire le tolleranze del rilievo dobbiamo basarci sulle capacità precettive e sulle normative (ISO), in quanto leggi italiane in materia risultano essere carenti. Le caratteristiche delle strumentazioni laser scanner di moderna concezione, alla media distanza di circa 25 metri, permettono che tutti gli strumenti siano in grado di soddisfare almeno i requisiti di acquisizione fino alla rappresentazione in scala 1:50. Rimane comunque importante comprendere come i dati possono modificarsi all’interno delle piattaforme software sulle quali vengono letti ed elaborati. Infine, debbono essere previsti gli errori e le tolleranze che possono generarsi nel corso delle elaborazioni delle nuvole di punti in ambiente CAD. E’ importante introdurre il concetto di certificazione del rilievo. Un rilievo, infatti, per essere certificato deve rispettare determinate caratteristiche stabilite da delle normative. Fra le procudere eseguite a tal fine da certificare l’opera di rilievo, sono state eseguiti dei fili di sezione nelle murature della nuvola di punti, e d è stata misurata la distanza fra i punti del filo di sezione e riscontrata una Lo strumento utilizzato, un Leica RTC360 rende la cattura della realtà in 3D più veloce che mai. Grazie alla misura di 2 milioni punti al secondo e l’avanzato sistema di imaging HDR, la creazione di colori nuvole di punti 3D può essere completata in meno di 2 minuti. Inoltre, la registrazione automatica in campo senza target (basata sulla tecnologia VIS) ed il trasferimento automatizzato dei dati, massimizza ulteriormente la produttività riducendo al minimo il tempo di rilievo. Si tratta di uno strumento che dispone di una scheda tecnica con caratteristiche in grado di fornire nuvole di punti con la densità e le qualità richieste (l’errore nominale sulla singola misura a 25m è inferiore a un millemetro). Vista la conformazione del complesso acrhitettonico sono state realizzate 199 scansioni, progettate secondo un percorso entrante dal portone di accesso destro, passante il coro in tutte le diverse posizioni di modo da riprendere ogni suo dettaglio, nella adiacente sacrestia, e uscendo passando dalla cappella del Cardinale del Portogollo e la navata sinistra. Sono state eseguite inoltre una serie di scansioni per descrivere i locali della cripta, e nella navata centrale, comprendenti anche una serie di scansioni nel Ciborio. Ogni scansione è stata effettuata 360° con una risoluzione di almeno 3 mm ogni 10 metri di distanza dal punto di acquisizione, distanza che garantisce la corretta definizione della parte inferiore, ma non tanto nei punti più alti. Le singole scansioni hanno acquisito il dato morfologico (X,Y,Z) con il valore di intensità dei singoli punti, inoltre tramite la fotocamera integrata dello scanner, sono state acquisite le immagini fotografiche fornendo il valore RGB in ogni punto della nuvola.
Fase di registrazione Prima di ciascuna scansione, lo strumento è stato posizionato in bolla di modo da facilitare in processo di registrazione di ciascuna scansione. Le scansioni effettuate all’interno della basilica attraverso la registrazione, grazie a software in grado di gestire le nuvole di punti, genera un’unica nuvola di punti con coordinate polari la cui origine è fissata nel recettore del raggio laser. Per ottenere una nuvola di punti totale, che descriva l’oggetto del rilievo, è necessario effettuare una rigida rototraslazione delle singole posizioni su di esse, creando un sistema di coordinate di riferimento del modello generale. La registrazione, effettuata tramite software sempre più all’avanguardia, avviene attraverso il riconoscimento di punti omologhi tra due scansioni consecutive. L’evoluzione delle tecniche di
registrazione ha permesso un progressivo cambiamento. Prima le scansioni venivano registrate da punti sovrapposti, il che richiedeva anche un processo di studio dei punti di rilievo e un lavoro sul campo per il posizionamento dei target, che quest’oggi risulta molto più rapido. Il sistema di riconoscimento di punti omologhi porta numerosi vantaggi in termini di affidabilità, lavorando su una maglia molto fitta di punti e non su singoli punti/target, e di velocità. Attraverso le procedure di allineamento, sono state unite in unico database tutte le 199 scansioni, dove il processo di preallineamento ha permesso di ottenere un dato molto più affidabile, all’interno del quale si sono compensati i singoli errori, che inevitabilmente si ottengono unendo una scansione con quella successiva, seppur minimi. Trattandosi infatti di un numeroso numero di scansioni, il processo ha richiesto molta attenzione e controllo delle fasi di registrazione fra le singole scansioni. Il processo di registrazione all’interno software in grado di gestire le nuvole di punti, è infatti possibile attraverso l’allinemaneto di ciascuna scansione ad un piano di riferimento globale che viene generato nella fase di importazione della scansione e viene unificato per ciascuna di esse. All’interno dell’ambiente si generano diversi database, che a seconda del tipo di operazione che si intende eseguire, posso essere modificati o visualizzati. Una volta terminato il processo di registrazione, è buona regola infatti utilizzare spazi di lavoro appartenenti al modalità di visualizzione temporanea, come il Model Space. All’interno del Control Space, invece, si può andare ad apportare delle modifiche definitive alla nuvola di punti, in modo irreversibile, operazione utile però a ripulire la nuvola.
Certificazione rilievo Non esiste un processo di certificazione dell’errore dovuto all’unione delle singole scansioni; viene però effettuata una verifica per la certificazione del rilievo che consiste nell’analizzare la distanza fra i punti dei vari fili di sezione creati in prossimità delle murature dell’edificio e riscontrata un errore di allineametento, solitamente compreso fra 4 e 20mm quando la registrazione è andata a buon fine, come nel caso del rilievo eseguito.
Esportazione Ortho-image Sempre attraverso questo software di gestione delle nuvole di punti, si procede con la creazione dei piani di taglio, necessari per l’elaborazione delle sezioni verticali e orizzontali. Per la complessità dell’oggetto rilevato è stato necessario eseguire numerose sezioni tra loro parallele , per avere una corretta percezione dello spazio costituito all’interno dell’area di studio. Per la comprensione della morfologia delle volumetrie ogni sezione è stata ricostruita eseguendo una “slice” per il disegno del profilo delle sezioni. Rilievo fotogrammetrico Nel caso studio si è deciso di approfondire attraverso l’ausilio dellla fotogrammetria un’opera contenuta all’interno dell complesso, la cappella del Crocifisso o Ciborio. La fotogrammetria è una tecnica di rilievo che attraverso la creazione di un dataset fotografico, elaborato attraverso la tecnologia Structure from Motion (SfM), una tecnica che si rifà agli algortimi provenienti da “Computer Vision”Il procedimento si basa sull’estrazione dei punti notevoli delle singole immagini, dalla loro comparazione desume i relativi parametri fotografici per calcolare il punto ed i punti di fuga presente nelle immagini stesse. Grazie a questi sistemi comparativi riconosce i punti presenti su più immagini e li incrocia fra loro per rilevare le coordinate nello spazio, al fine di costruire un modello a nuvola di punti da cui è possibile ricavare una mesh che poi è possibile texturizzare. Prima di procedere al rilievo del manufatto, è stata attentamente studiata la sua morfologia, al fine di progettare il metodo più corretto per riprendere l’architettura nella sua complessità il modo da ottenere un modello tridimensionale il più completo possibile di informazioni. Il Ciborio è caratterizzato da unastruttura con una volta a botte poggiante anteriormente su due pilastri e posteriormente su una parete incastonata fra due pilastri. Trattandosi di una struttura dalla importanti proporzioni, soprattutto in altezza, necessita di essere rispreso da più angolazioni a 360°. Per poter acquisire questi oggetti da più angolazioni , teoricamente basterebbe disporre una circonferenza attorno alla cappella in modo da poter riprendere tutte le superfici da più angolazioni. Purtroppo in questo caso, le scarse e differenti condizioni di illuminazione , hanno ostacolato le fasi di ripresa. E’ stato necessario realizzare dei fotogrammi con un tempo di posa che eviti l’effetto micro-sfuocatura, aprendo il diaframma dello strumento fotografico.
Nella pagina successiva Verifiche di certificazione del rilievo
Questa cosa non permette di ottenere una grande profondità di campo per mettere a fuoco i punti distanti dal punto di messa a fuoco. Nella scelta della corretta strumentazione da utilizzare si sono considerate le condizioni di illuminazione in cui si trova il Ciborio: la basilica di San Miniato , che è uno dei più bei esempi del romanico fiorentino, ha una minor superficie vetrata rispetto a quella muraria. Questa caratteristica non solo determina una scarsa illuminazione, ma anche punti alti dove entrano raggi di sole. Per questo motivo è stato necessario prevedere l’utilizzo di strumenti che potessero ottenere cornici di alta qualità nonostante la luce sfavorevole allo scatto fotografico. Per garantire un alto livello di definizione, in grado di descrivere l’opera in ogni suo dettaglio, e una cornice di buona qualità a livello di esposizione, sono state utilizzate due diverse fotocamere, entrambe full frame, ovvero formato sensore 24x36mm: una mirrorless Sony A 7R, in grado di produrre frame di alta qualità anche con una sensibilità piuttosto elevata, così da favorire lo scatto senza treppiede; e una Sony DSRL A900, che montando una lente telescopica è stata utilizzata per lunghe distanze per eliminare i punti nascosti degli elementi architettonici. Per ricostuire meglio le superfici del manufatto è stato creato un primo dataset di immagini scattate secondo telai seguendo tre livelli di indagine: un primo generale che si muove intorno all’oggetto a distanza ravvicinata, con scatti ad altezze diverse, un secondo realizzato da sotto la copertura di modo da riprendere nel dettaglio tutti i particolari dell’intradosso e della struttura ed infine un ultimo telaio realizzato da distanza maggiore, che ha facilitato il processo di ricoscimento delle immagini, passante anche per il presbitereo rialzato, di modo da riprendere al meglio anche la parte pìù alta del tempietto. Ovviamente ciascuna di queste sequenze fotografiche, filmando
Nella pagina precedente La mesh del modello proveniente dal rilievo fotogrammetrico
In alto al centro Ortho-image fronte del Ciborio In alto a destra Ortho-image retro del Ciborio
da distanze diverse, richiedeva l’uso di obbiettivi con lunghezze focali diverse. Per la prima e la seconda sequenza di riprese è stato utilizzato un obbiettivo Sony FE 50mm f/1.4 Zeiss, mentre per le riprese realizzate da distanza maggiore si è utilizzato un Sony 24-70mm f/2.8 ZA., ruotante attorno al manufatto ad una distanza più o meno fissa di 5 metri. Per avere più punti di ripresa i telai sono stati acquisiti sia da altezza uomo che da un’altezza inferiore al metro da terra. La scelta della focale si è basata principalmente sullo studio della risoluzione da garantire ai fotogrammi per rientrare nelle scale di definizione del modello tridimensionale; mentre nel caso del rilievo scanner , acquisito direttamente in scala metrica, è possibile valutare la definizione in base alla mesh, per quanto riguarda il rilievo fotografico la valutazione dei valori di definizione deve essere progettata sulla base dei pixel che definiscono le superifici. Le campagne di ripresa fotografica si sono svolte in più riprese. Al termine di ciascuna campagna di acquisizione sono state analizzate le parti dell’oggetto che non presentavano sufficiente documentazione grafica, pianificando quindi le successive riprese.
Elaborazione dati Al termine delle operazioni di ripresa fotografica sono stati eseguiti 1374 fotogrammi, circa 200 con la Sony Alpha 900 a 24MP e 1100 con la Sony A 7R a 36 MP. un set di altissimo livello che ha permesso di descrivere il manufatto. Prima di procedere all’elaborazione del dato nel software che sfrutta la tecnologia Structure from Motion (SfM), è stato effettuato un attento controllo della qualità dei fotogrammi. In fase di ripresa si è cercato di utilizzare tempi di posa di sicurezza per evitare l’effetto micro-sfuocatura; quando si realizzano riprese da distanze ravvicinate capita spesso infatti che la luce cambi e si produca una cornice fuori fuoco o non esposta correttamente. Per questo motivo il file in formato .raw, esportati dalle memorie fotografiche della strumentazione di ripresa fotografica, sono stati importati in un software in grado di verificare la corretta messa a fuoco e di regolare i vari parametri. In questo modo bilanciamento del bianco è stato equlizzato per tutti gli scatti in modo da avere il colore più uniforme possibile, di modo da migliorare il risultato finale e facilitare il processo di sovrapposizione delle immagini. A causa delle diverse esposizioni delle superfici, avendo un lato coperto e messo in ombra dal coro rialzato, si è potuto limitare la presenza di aree sovraombreggiate e ombreggiate, minimizzando i parametri di Luci e Ombre. Il dataset fotofografico è stato realizzato scattando il priorità di diaframmi, lasciando libero il tempo di posa , che attraverso questo procedimento di regolazione dei parametri dei vari scatti fotografici,
ha permesso la creazione di un daataset omogeneo in grado di produrre un dettagliato rilievo. Inizialmente è stato esportato un dataset in formato .tiff molto ampio, oltre 200 GB di dati, di cui in seguito ad una prima elaborazione che ha creato dei problemi nell’esportazione dell’ortofoto finale, si è dovuto utilizzare un dataset ridotto in formato .jpg che ha comunque permesso di ottenere un ottimo risultato di ricostruzione del modello finale. Per la ricostruzione tridimensionale si è utilizzato un sotware utile per l’estrazione di texture rettificate. I programmi in continua evoluzione sono in grado di fornire oggi, in condizioni di ripresa favorevoli, modelli altamente affidabili: l’affidabilità varia in base alla risoluzione del fotogramma ma può raggiungere, per la scala 1:20, il centimetroAll’interno del software SfM prima di caricare il dataset, è stata inserita la nuvola di punti laser scanner in formato .e57, che ha facilitato il processo iniziale di riconoscimento e allineamneto delle immagini. Il flusso del lavoro del programma segue sostanzialmente differenti fasi: è suddiviso in quattro processi, durante il primo i punti di acquisizione del frame sono disposti nello spazio (processo SfM); nella seconda si densificano i dati delle nuvole di punti; nel terzo si procede alla realizzazione di una superficie mesh basata sulla triangolazione di punti; infine il modello ottenuto è texturizzato. Le fotografie, durante l’elaborazione, sono state sottoposte al controllo di qualità del software al fine di identificare i frame potenzialmente pericolosi per la qualità dell’allinemento; dopo questa fase si sono verificati gli errori di posizionamento delle telecamere, escludendo solo alcuni scatti. Dopo aver eseguito il procedimento fotogrammetrico, il dato ottenuto non è stato scalato attraverso l’utilizzo di punti di controllo, essendo già scalato grazie all’inserimento nelle fasi preliminari della nuvola laser scanner contente al suo interno l’esatto dimensionamento dell’opera. Sempre attraverso il software e l’utilizzo di Clipping Box è stato possibile creare delle sezioni del modello, che già nella fase iniziale del rilievo si intendeva rappresentare. Di queste sezioni è stato possibile eseguire l’esportazione in formato .tif delle ortho-image, oltre a quelle relative ai prospetti che non hanno necessitato della creazione di un box di ritaglio.
Restituzione dati Sia dal software fotogrammetrico, che da quello che utilizza la nuvola laser scanner, è possibile l’esportazione delle ortho-image in formato . tif il cui dato viene importato all’interno di un software di disegno CAD dove l’ortofoto viene disegnata, utilizzando layer di stampa calibrati alla scala di rappresentazione con spessori diversificati in base alle caratteristiche e al posizionamento rispetto al punto di vista dell’oggetto da rappresentare. Il disegno tradizionale, infatti, si appoggia, per la definizione del dettaglio, a specifici criteri di leggibilità, definiti dalle scale di rappresentazione; ciascuna scelta realativa al “cosa” disegnare è definita anche dal formato del disegno e delle possibilità offerte dai vari tipi di spessori di linea a disposizione per produrre segni appropriati e ben apprezzabili. In relazione alle possibilità offerte dal disegno digitale, e nello specifico quello vettoriale, il concetto di restituzione alle varie scale di rappresentazione ha subito una completa modificazione. I vantaggi prodotti, sono rappresentati dalla possibilità di rappresentare oggetti di ridotte dimensioni senza dover disegnare ad una scala molto grande. La scala grafica non era, fino all’ampia diffusione delle applicazioni CAD, solo un riferimento per la traduzione di un codice di rappresentazione della realtà. Il disegno si è quindi evoluto in funzione degli strumenti a disposizione. Il disegno tecnico è il linguaggio progettuale con cui si danno informazioni necessarie alla realizzazione di un prodotto finito. Così come le lingue si strutturano attraverso le regole della grammatica e della sintassi, anche il disegno tecnico, e quindi la sua rappresentazione, segue delle regole codificate la maggior parte della quali sono contenute nelle norme UNI e ISO. Queste sono sono norme nate per regolamentare il disegno tecnico, che di conseguenza sono rimaste invariate anche per la restituzione grafica del rilievo. Per meglio interpretare le geometrie degli oggetti, sono state utilizzate immagini, realizzate nella fase preliminare documentazione, e delle immagini appartenenti al processo fotogrammetrico. Le stesse immagini sono state utilizzate per andare a coprire quelle zone delle ortho-image dove erano presenti delle discontinuità della texture. In queste zone, per meglio rappresentare l’oggetto di rilievo si è utilizzato la tecnica della fotomosaicatura che ha permesso di ottenere un ottimo risultato.
In alto al centro Fil di ferro retro del Ciborio
Nella pagina successiva Sezione prospettica a fil di ferro della basilica
Nella pagina precedente Sovrapposizione del modello BIM alla nuvola di punti Sperimentazione HBIM
Il BIM per visualizzazione dell’opera Oggi giorno sta prendendo sempre più importanza nel campo dell’architettura, ma non solo, anche in tutto ciò che vi è a stretto contatto per quanto riguarda il patrimonio edilizio, e la tecnologia BIM. Una volta elaborati i dati è possibile utilizzarli per la creazione di un modello 3D, in modo da ricrearne le geometrie alle quali attribuire le informazioni alfanumeriche raccolte nella prima fase di acquisizione. Negli ultimi anni la metodologia BIM si sta affermando, per la sua capacità di unire progettazione e gestione dati, ogni elemento del progetto ha associati i relativi parametri utili al progetto. L’acronico BIM assume diversi significati: -Building, fa riferimento al sostantivo “edificio” che al verbo “costruire”; -Information, identifica l’insieme dei dati e delle informazioni che consentono la rappresentazione grafica ed identificano le caratteristiche fisiche e logiche di questi oggetti includendo informazioni non visibili; -Modelling, fa riferimento all’insieme dei processi di modellazione; -Model, si indica la rappresentazione dell’oggetto; -Managment, che racchiude l’organizzazione, la gestione e il controllo del processo. All’interno di questa tesi l’acronimo BIM viene utilizzato in accordo con Building Information Modelling. Il BIM in questa accezione “descrive una metodologia di gestione intelligente dei processi edilizi, con riferimento ad un modello informatico dotato di informazioni, trasferibili ai diversi soggetti coinvolti (i professionisti) e agli strumenti (software) della filiera”. Con la metodologia BIM è sufficiente modellare un componente e posizionarlo in una delle viste, l’elemento sarà visibile in tutte le altre. Inoltre modificando le goemetrie o aggiungendo informazioni, tale cambiamento sarà eseguito e visibile per l’intero progetto, rendendo così non più necessario l’intervento puntuale nei vari disegni. Il BIM utilizzato nel sistema AEC (Architettura, Edilizia e Costruzioni) mette in relazione informazioni tangibili con quelle intangibili cioè possono essere integrate informazioni utili, sotto forma di database digitale, per il ciclio di vita del progetto. Il BIM è sinonimo di condivisione, permette un’interazione tra le varie, figure che ruotano intorno al progetto (architetti, ingegneri, impiantisti, appaltatori, costruttori ecc.), diventando un vero e proprio database dinamico. E’ definita interoperabilità, la possibilità di collaborare simultaneamente al progetto. Creando un file centrale, condiviso tramite un servizio dedicato all’archiviazione in cloud, i progettisti coinvolti nella realizzazione del modello possono creare un file locale sul quale lavorare con la possibilità di sincronizzarlo per rendere visibili il proprio intervento al team. In oltre, grazie alla possibilità
di effettuare analisi in merito alle diverse discipline sull’edificio ancora in fase progettuale, è possibile ottimizzare le soluzioni e i costi, riducendo di conseguenza i tempi e gli errori ad esso connessi. Nel nostro caso studio, non essendoci un vero e proprio intervento sull’opera, ma semplicemente un progetto di rilievo, si è creato il database di partenza di conoscenza e visualizzazione dell’opera che venga utilizzato come base di partenza per i futuri interventi per la conservazione dell’opera, all’interno del quale nel caso specifico dell’opera possono collaborare restauratori, strutturisti, archeologi e altre figure sempre legate al tipo di opera. La metodologia BIM è utilizzata prevalentemente per le nuove costruzioni ma può essere applicata al patrimonio costruito, adottando l’acronimo HBIM dove H significa Heritage (patrimonio) oppure Historic (storico). Il modello BIM è stato implementato arricchendolo di diversi contenuti quali: anno di costruzione, documenti di archivio, interventi di restauro effettuati e in progetto, dove i degradi vengono analizzati, definiti e quantificati. La realizzazione di modelli HBIM, facilemente condivisibili, dell’edificio reale consente la pianificazione e la gestione dei progetti riguardanti il restauro, la protezione, la conservazione e la diffusione del patrimonio culturale. Il patrimonio culturale tangibile, in particolare i beni immobili (monumenti, siti archeologici e così via), è il principale argomento di applicazione nei nuovi approcci. Un modello 3D digitale strutturato come parte del processo di miglioramento del patrimonio architettonico è oggi un bisogno urgente. Inoltre, il modello 3D digitale deve essere convertito in un quadro di riferimento cruciale per la comprensione e il monitoraggio della documentazione, creando in tal modo una fonte di dati (grafica e semantica) adatta a fornire assistenza in progetti di conservazione,restauroe ricostruzione. Diviene quindi possibile, data una raccolta di dati alfanumerici, la valutazione degli interventi, dei relativi costi e periodi necessari per la manutenzione e restauro degli elementi costituenti l’edificio. Èpossibile massimizzare le prestazioni, riducendo la ridondanza dei dati dell’edificio rispetto alla metodologia classica, oltre al fatto che è possibile svolgere attività di verifica e controllo direttamente all’interno del software o tramite plug-in. Nel momento in cui ci si confronta con un edificio storico ci si imbatte nella sua unicità dovuta alla sua realizzazione artigianale, ai processi subiti, alle modifiche e trasformazioni che si sono stratificate nel tempo che unite ai fenomeni di degrado hanno plasmato e mutato l’edificio. Il progettista si trova quindi a gestire una grande mole di informazioni indispensabili per ottenere un corretto stato di conservazione dell’edificio. I componenti all’interno di un progetto BIM, sono tutti quegli elementi necessari alla creazione di tale modello, assumono la denominazione di Famiglie. Il software utilizzato per la modellazione possiede una libreria interna fornita di elementi base per creare il progetto (con elementi aggiuntivi sono reperibili online) ma, trattandosi della digitalizzazione di un edificio esistente, si è dovuti ricorrere alla creazione di nuovi componenti per soddisfare le esigenze specifiche di progetto. Ogni elemento modellato appartiene ad una Famiglia, per esempio muri, pavimenti, soffitti, scale etc. rientrano tra gli elementi base dei modelli e sono famiglie di sistema. Questi elementi sono predefiniti all’interno dei progetti ma è possibile duplicarli e modificarli in modo che assumano le caratteristiche necessarie nel progetto. Oltre alle famiglie di sistema vi sono le famiglie caricabili che, come suggerisce il nome stesso, sono elementi esterni che possono essere caricate nel