Numero Unico - Pubblicazione in distribuzione gratuita in occasione della 4ª Fiera d’Arte Moderna e Contemporanea - Forte dei Marmi | Estate 2011 |
ALIGI SASSU Tra mito e realtà Gabriele Lavia
è cominciato tutto nell’antica Grecia
Gigi Guadagnucci La fedeltà al marmo
Dario Ballantini L’artista a due facce
Marino Collecchia
Le mani dell’uomo sono le radici della terra
Quando la vacanza
diventa un sogno...
California Park Hotel Via Colombo, 32 55042 Forte dei Marmi (LU) Tel. +39 (0584) 787121 ax +39 (0584) 787268 www.californiaparkhotel.com info@californiaparkhotel.com
2 Personaggio
Da sinistra: Claudio Biondani, Gabriele Monteforte, i pittori Antonio Possenti e Domenico Monteforte
fiera d’arte moderna e contemporanea S
iamo giunti alla quarta edizione di ARTEFORTE, Fiera d’Arte Moderna e Contemporanea che apre i battenti venerdì 29 luglio 2011 presso il Palasport di Forte dei Marmi. Come ogni anno fa da supporto alla manifestazione fieristica l’omonimo magazine ricco di personaggi, storie, articoli, editoriali che trattano di cultura e sport, arte e spettacoli. Alcuni nomi li troverete subito nelle primissime pagine, campioni dello sport come Roberto Pruzzo, mitico centravanti della Roma degli anni ‘80, Gabriele Lavia un nome che racchiude in se la storia del teatro e del cinema italiano, regista, attore, uomo di cultura per eccellenza. Gigi Guadagnucci, grandissimo scultore conosciuto ed ammirato in tutto il mondo, Dario Ballantini, personaggio eclettico della televisione ma qui in veste di pittore, poi Lorella Pagnucco Salvemini, già direttrice di Arte In, nonché scrittrice e giornalista, Tiziano Lera “L’Architetto” per eccellenza e molti altri personaggi ancora che scoprirete sfogliando ARTEFORTE magazine. Nella seconda parte della rivista ecco il catalogo della Fiera stessa, con interviste ai galleristi o notizie sulle gallerie stesse che saranno presenti ad ARTEFORTE 2011. Gallerie importanti italiane e
straniere, artisti già affermati e giovani che stanno salendo alla ribalta ma che già hanno conosciuto la notorietà con mostre ed esposizioni di livello internazionale. Iniziano proprio ad ARTEFORTE 2011 le commemorazioni per il centenario della nascita di Aligi Sassu, grande maestro del ‘900 che nel 2012 avrebbe compiuto 100 anni, nei prossimi mesi mostre, retrospettive in tutta Italia ricorderanno questa figura così importante nel panorama artistico del secolo scorso. Con lo stesso spirito si ricorda un illustre cittadino del Forte, scultore di fama internazionale come Ugo Guidi: anch’egli infatti avrebbe compiuto cent’anni nel 2012, ed anche in questo caso iniziano, proprio in occasione di ARTEFORTE , le celebrazioni per ricordarlo. Un appuntamento insomma, che si rinnova come ogni anno e che è atteso dai collezionisti e dagli appassionati, come un evento da non perdere assolutamente! Forte dei Marmi e la Versilia hanno una lunga tradizione artistico-letteraria che rivive e si rinnova anche e soprattutto, consentiteci, con manifestazioni di questo tipo che portano lustro e che danno prestigio a tutto il comprensorio versiliese, non solo a Forte dei Marmi. Buona fiera a tutti voi.
3 umberto buratti
Comune di Forte dei Marmi
arteforte 2011 il saluto del sindaco umberto buratti A
ncora un’”Estate al Forte” all’insegna, non solo del mare e del divertimento, ma anche dell’arte e della cultura, da sempre insieme al turismo, importanti veicoli di comunicazione fra i popoli. Rivolgo agli organizzatori e ai visitatori di ArteForte il mio personale benvenuto e quello dell’amministrazione comunale, affinché possano, anche quest’anno, ritrovare l’accogliente atmosfera delle passate edizioni e un nuovo stimolo per portare avanti questa interessante manifestazione. La promozione dell’arte contemporanea, infatti, deve essere,a mio avviso, uno degli obiettivi delle amministrazioni comunali, alle quali spetta il compito di incentivare l’approccio culturale e
artistico delle nuove generazioni. Un impegno importante, di cui mi sono fatto paladino in questi anni di governo della città. Non a caso, l’arte è la protagonista assoluta dell’estate di Forte dei Marmi, facendo bella mostra di sé anche al di fuori dei canonici spazi ad essa riservati. Nelle strade e nelle piazze cittadine, infatti, si possono ammirare e vivere le opere di rinomati artisti, che rimarranno esposte fino a settembre. Un percorso artistico articolato e a tutto tondo, che mi auguro possa riscontrare il plauso dei nostri cittadini e degli ospiti estivi. Buon lavoro e gradito soggiorno a Forte dei Marmi, che, sono certo saprà ricambiare l’affetto dei suoi numerosi visitatori. Il Sindaco Umberto Buratti
4 GIOiELLERIA VESCHETTI
VESCHETTI LA GIOIA DEL BELLO
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al 1 giugno è aperta a Forte dei Mami la nuova boutique Veschetti. Cos è il lusso? Non inutile ostentazione, ma ricerca del bello e dell’alta qualità. Questa, la filosofia di Veschetti, una delle più importanti maison di gioielleria ed orologeria di alta gamma nel nostro paese. Un’azienda che è nata e si è affermata a Brescia, alla fine degli anni 40 ed è approdata, ora, anche in Versilia. Dopo anni di mostre estive, dal 1 Giugno di quest’anno a Forte dei Marmi, la nuova boutique Veschetti ha aperto il suo “prezioso scrigno” nella centrale Via Carducci, proprio accanto al famoso ristorante “Lorenzo”.
Laura Veschetti, che con il fratello Marco guida l’azienda di famiglia, ci riceve in un ambiente di raffinata eleganza, con originali arredi d’ ispirazione decò. Laura ha una preparazione profonda in gemmologia e gioielleria vintage e viaggia incessantemente per il suo lavoro. Con il fratello Marco, lui stesso gemmologo ed instancabile “genio creativo”, realizzano gioielli originali, pezzi unici che riflettono l’inconfondibile “aura” Veschetti. La nascita di Veschetti risale al 1949. Quali sono stati gli sviluppi salienti dell’azienda in questi sei decenni di storia? “ L’attività venne iniziata da mio padre Mario più di 60 anni fa,
a Brescia. Era allora diciottenne e benché non provenisse da una famiglia di orafi , aveva la forte passione per l’orologeria e la gioielleria. Aprì una bottega da orologiaio e successivamente iniziò a creare gioielli unici ed insoliti per i propri clienti. Papà, da autentico “self-made man” ha posto le basi di un’azienda che si è sviluppata nel corso del tempo. Oggi a Brescia abbiamo la gioielleria di corso Magenta, sede storica, ed il negozio Rolex Veschetti di corso Palestro. Da quest’anno abbiamo aperto la nuova boutique di Forte dei Marmi”. Dal vostro punto di osservazione privilegiato, potete ricordarci come è cambiato , negli anni, il mondo della gioielleria? Quali tendenze , le richieste del mercato, le esigenze degli acquirenti? “L’elemento saliente è l’emergere di nuovi paesi che si affacciano alla ribalta internazionale anche come capacità di acquisto. Ormai Cina, India, Asia e Paesi Arabi, tradizionali acquirenti di beni di lusso, esprimono una clientela sempre più esigente, preparata, e dotata di mezzi finanziari. La nostra produzione di alta gioielleria è assorbita per il 40% da Asia ed Emirati Arabi, sebbene l’Europa sia sempre il nostro punto di riferimento più importante. Per noi, per me personalmente, la sfida è accettare e vivere ed interpretare questo ampliamento di orizzonti”. Cosa si può dire del mercato dei gioielli d’epoca? “Ho iniziato con gli argenti d’epoca, un settore che ha imme-
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diatamente acceso la mia passione, ben presto estesa al gioiello d’epoca tout court. L’attrattiva di questi preziosi è indiscutibile. Si intuisce il contesto storico, i costumi, l’anima di un’intera generazione. Non possono essere paragonati al gioiello contemporaneo perché posseggono un fascino intrinseco, ed esprimono significati che vanno al di là del valore venale dell’oggetto. Indossare un gioiello vintage significa scoprire il fascino della storia, ripercorrere atmosfere e stati d’animo del passato, oltre a rappresentare un importante
1) The Collection – Girocollo Liz 2) The Collection – Orecchini Taj Mahal 3) Bracciale con turchesi – Van Cleef et Arpels
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investimento”. Una delle caratteristiche di Veschetti è offrire dei preziosi unici, studiati appositamente per la clientela. Come nascono questi capolavori contemporanei e quale è il significato della vostra linea “ The Collection”? “Veschetti realizza gioielli originali che sono frutto di un’unica ispirazione: la ricerca della bellezza. Siamo noi , in particolare mio fratello Marco, a concepire l’idea di un prezioso, che poi sottoponiamo ai nostri designer professionisti perché mettano nero su bianco quelle che sono le nostre intuizioni. Infine intervengono i nostri orafi – veri maestri – incaricati a realizzare concretamente il progetto. Per quanto concerne la nostra linea “ The Collection” abbiamo con essa voluto creare una collezione di gioielli, nata dalle nostre idee, progetti, sogni. Una linea del tutto esclusiva e unica, come la donna alla quale rivolgiamo la nostra pura passione”. La vostra maison si caratterizza per una serie di iniziative che si articolano in tempi e luoghi diversi, dalla storica Mille Miglia alle esposizioni
all’estero. Potete parlarcene? “Si potrebbe dire che non stiamo mai fermi. E’ una caratteristica questa, che io e mio fratello abbiamo appreso da nostro padre. E’ stato un instancabile lavoratore, la sua giornata non aveva mai fine, faceva grandi sacrifici e sforzi per ottenere i risultati migliori. Abbiamo fatto nostra questa lezione. La partecipazione di Veschetti alla Mille Miglia, un evento internazionale ormai divenuto l’emblema di Brescia, è dovuto al nostro legame con Chopard, marchio di orologi di lusso sponsor della storica gara per auto d’epoca. Da molti anni siamo presenti sulla scena internazionale con mostre particolari. Nel mese di Agosto sarò a Jeddah per un evento su invito esclusivo della Famiglia Reale. Nel prossimo mese di Ottobre esporremo gioielli d’epoca a Bangkok; in Novembre saremo in mostra nel Regno del Bahrein.” Il 2010 segna l’approdo definitivo dei gioielli Veschetti a
Forte dei Marmi. Come vede il rapporto con questa capitale delle vacanze? “Da una decina d’anni la nostra azienda era presente a Forte dei Marmi , nel periodo estivo, con il nostro evento ‘Magnificent Jewels’. Pensando fosse venuto il tempo di una presenza più stabile, quest’anno abbiamo concretizzato il nostro sogno aprendo una boutique nella centrale Via Carducci. In questi ultimi anni Forte dei Marmi ci ha dato molto, è una realtà sicuramente internazionale con una clientela raffinata ed esigente. Senza contare che molti nostri clienti della città dalla quale tutto è partito, Brescia, li troviamo in vacanza qui in Versilia. Forte è una località assolutamente unica nel suo genere e il suo pubblico è adatto alla gioielleria che proponiamo.” VESCHETTI Via G.Carducci, 61/b 55042 Forte dei Marmi www.veschetti.com
A RT E , C O N O S C E N Z A , TA L E N T O .
I N O S T R I VA L O R I C U LT U R A L I . La cultura è uno stimolo sempre vivo, un interesse crescente in eventi, mostre, concerti. Il passato e il presente del nostro territorio, da sostenere con passione verso il futuro. Un’emozione da osservare, ascoltare e assaporare. La cultura è da sempre uno dei nostri valori.
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GABRIELE LAVIA È cominciato tutto nell’antica Grecia ALIGI SASSU Tra mito e realtà
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MARINO COLLECCHIA Le mani dell’uomo sono le radici della terra
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GIGI GUADAGNUCCI La fedeltà al marmo
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ROBERTO PRUZZO L’istinto del gol
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UGO GUIDI Intervista a Vittorio Guidi
LUIGI GALLIGANI La scultura come vita
GIANCARLO CAZZANIGA Jazzing everything
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DARIO BALLANTINI L’artista a due facce
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MICHELE PELLEGRINI Scrivere (e lottare) per il cinema
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AURELIO MECCHERI
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DOMENICO MONTEFORTE L’arte, musica per gli occhi
fiera d’arte moderna e contemporanea ®
89 GALLERIE IN FIERA: Amstel Art Gallery . .....................pag. 90
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Anonima Art Project.....................pag. 94 Anselmi Arte..................................pag. 100 Artemisia.......................................pag. 102 Aretusa Arte Contemporanea.......pag. 103
Arteforte s.r.l. via Provinciale, 1 55042 Forte dei Marmi (Lu)
Artpoint Firenze............................pag. 114 Bettini & Co. Gallery.....................pag. 118 Marino Collecchia . ......................pag. 22 Entroterra......................................pag. 124 Fantasio & Joe...............................pag. 127 Galleria Astrolabio........................pag. 130 Galleria Filisetti............................pag. 134 Galleria GS. Serattini....................pag. 136 Galleria Lazzaro by Corsi.............pag. 138 Galleria World Art........................pag. 140 Giovanni Marinelli........................pag. 144 Gigi Guadagnucci..........................pag. 32 La Telaccia by Malinpensa...........pag. 146
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Out Arte..........................................pag. 152 Pavesi Fine Arts.............................pag. 154 Alberto Pistoresi............................pag. 158 Carlo Piterà...................................pag. 94 Progetto Formae Mentis................pag. 163 Proposte d’Arte Contemporanea....pag. 166 Aligi Sassu.....................................pag. 16 Spirale Milano...............................pag. 170
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Numero Unico
Forte dei Marmi, estate 2011
Artinvest.........................................pag. 106
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www.fierarteforte.com info@fierarteforte.com
Pubblicità: Arteforte s.r.l. Tel. 347 7698311 Testi di: Emanuela Mazzotti, Umberto Guidi, Chiara Sacchetti, Domenico Monteforte Natalia Sassu Suarez Ferri, Vittorio Sgarbi, Diletta Biondani, Paola Simona Tesio, Marinella Di Gennaro, Pietro Tomassoni, Stefano Tonti, Marianna Perazzini, Dalmazio Ambrosioni, Marta Palazzesi, Arnaldo Pavesi, Tommaso Paloscia, Gastone Breddo, Chiara Innocenti, Carlo Castellaneta. Fotografie: Federico Neri Tommaso Le Pera Progetto grafico e impaginazione: Gabriele Moriconi Editografica - Pietrasanta Tel. 0584 790039 Stampa: Bandecchi & Vivaldi, Pontedera Arteforte Magazine esce una volta l’anno in occasione della Fiera d’Arte Moderna e Contemporanea. Per richiedere una copia contattare: 347 7698311
La presente pubblicazione, in distribuzione gratuita, è stata stampata in 7000 copie con il patrocinio del Comune di Forte dei Marmi in occasione della Fiera d’Arte moderna e contemporanea presentata dal 29 luglio - 01 agosto 2011 presso il Palasport di Forte dei Marmi.
Gabriele
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“Metto in scena l’origine dell’uomo” La funzione del teatro secondo Gabriele Lavia, grande protagonista del palcoscenico. “É cominciato tutto nell’antica Grecia”. La cultura minacciata dalla tv commerciale. Testo di Umberto Guidi - Foto di Tommaso Le Pera
H
a una concezione molto alta del teatro, che interpreta filosoficamente. Sulla scena, dice, si rivela la verità, l’origine dell’uomo. Per questo la cosiddetta finzione teatrale è per lui una forma universale della verità. Gabriele Lavia, nato a Milano nel 1942, è uno dei protagonisti più rappresentativi del teatro italiano. Attore e regista teatrale e cinematografico, doppiatore, ha diretto anche opere liriche. Ci ha concesso un colloquio durante l’allestimento dell’opera “Attila” di Giuseppe Verdi, che ha debuttato il 20 giugno alla Scala di Milano con la regia di Lavia e la direzione d’orchestra del versiliese Nicola Luisotti. Subito dopo si è dedicato alle prove del dramma “I masnadieri” di Friedrich Schiller, che debutterà alla Versiliana il 29 luglio. Che cosa è il teatro, come nasce, e qual è la sua funzione primaria? “Il senso del teatro è quello di sempre. Fin dalla sua nascita, avvenuta non si sa quando, forse in un tempo preistorico. Se consideriamo la nascita del teatro in Occidente, possiamo guardare a quell’epoca felice che è stata l’epoca dell’antica Grecia. Mi riferisco
Lavia
É cominciato tutto nell’antica Grecia
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al VI secolo avanti Cristo, quando in quella piccola parte del mondo è scoppiato il pensiero. Una manifestazione umana che ha condizionato e condiziona ancora il mondo occidentale; si potrebbe dire che tutto quello che c’era da pensare è stato pensato da alcuni signori, pochi, che si chiamarono filosofi. E allora a cosa serve il teatro, cosa racconta? Il termine teatro viene dal greco e significa, letteralmente ‘guardare un’azione’. Il teatro è il luogo dello sguardo. Cos’è lo sguardo? Quello che io vedo? No, è quello che mi guarda dall’interno di ciò che io vedo. Faccio un esempio stupido: io vedo un pezzo di vetro fatto in un certo modo, e da quel pezzo di vetro ‘mi guarda’ un bicchiere. Che cosa mi guarda dal palcoscenico? Mi guarda l’essenza dell’uomo. Io vedo Edipo e dall’attore che recita Edipo mi guarda un’origine dell’uomo, in quella stessa origine mi riconosco e vedo me stesso. Il teatro serve a riconosce-
re se stessi, a riconoscere quella si chiama ‘ipseità’. A questo serve il teatro, questa è la sua funzione insostituibile ed evidentemente obliata. Attenzione, che sia obliata non significa che non ci sia più. Ciò che è obliato può essere rammemorato, l’oblio nasconde però conserva”. Dunque il vero teatro è dimenticato? In che situazione ci troviamo oggi? “Spesso, quello che vediamo oggi a teatro è un’altra cosa. Il luogo teatrale, la tecnica teatrale talvolta vengono utilizzati anche per scopi che non sono il teatro, ma per lo spettacolo fine a se stesso, l’intrattenimento. Teatro, autenticamente, è soltanto quella cosa che mette in scena l’origine dell’uomo. Altre cose possono essere magari divertenti, simpatiche, non noiose, ma non è perché si apre il sipario, entrano gli attori, il palcoscenico si riempie, che con questo si faccia del teatro. Questa modalità di in-
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trattenimento non rappresenta l’origine dell’uomo, si limita a mostrarne l’attività. La rappresentazione dell’attività umana può essere divertente, può far ridere, ma non è teatro. Vedo sul palcoscenico un marito infedele, la moglie lo scopre, nascono equivoci: è divertente, ma non racconta l’origine dell’uomo”. E allora cosa distingue il teatro dal non teatro? La messa in scena, il testo? “E’ una questione più profonda della messa in scena o del testo. Il teatro non nasce con il testo. Il testo, il copione, arriva dopo. Il teatro esisteva già prima del testo. La storia teatrale non è una storia di testi, l’autore non è nato per primo. Prima c’era il teatro, qualcuno che recitava davanti a una platea e poi ci fu qualcuno, che si chiamò autore, il quale pensò: perché non gli scrivo io qualcosa di bello?” Lei ha detto: noi teatriamo sempre, il che sembra chiamare in causa la coppia dialettica verità-finzione. Nel senso comune, la realtà quotidiana, dominio del vero, è solitamente contrapposta al teatro e al cinema, regno della finzione. E’ davvero così? “Non precisamente. Quando dico che noi teatriamo, dico che noi fingiamo sempre. Attenzione però: se vado all’etimo della parola finzione, scopro che essa non significa dire bugie. Fingere vuol dire, dal latino, ‘mettere in opera’. Anche costruire una casa è fare finzione. Dunque teatro è finzione non perché si dicano cose false, tutto il contrario. A teatro, fingere vuol dire mettere in opera la verità. Nella vita quotidiana questa finzione, ossia mettere in opera l’attività dell’uomo, è qualcosa che noi facciamo normalmente. Ci rapportiamo al prossimo mediante un codice di teatro, mettendoci sotto lo sguardo degli altri. In questo senso noi teatriamo sempre”. Torniamo al concetto del fingere come ‘forgiare’, ‘modellare’, ‘mettere in opera’. Succede qualcosa di simile anche nell’arte? “Esattamente. Vincent van Gogh dipinge i girasoli. Quei girasoli non si possono mettere in un vaso,
sono un dipinto, un insieme di colori sulla tela. Però sono più ‘veri’ dei girasoli della realtà. Questo avviene perché l’arte è la messa in opera della verità. Pensiamo a un altro celebre pittore: le pere e mele di Cézanne non le puoi mangiare, però sono più vere del frutto che cogli dall’albero”. Che ricordo ha delle prima volta che calcò il palcoscenico davanti a un vero pubblico? “Non fu gradevole, né sgradevole, lo ricordo con molta precisione. Ero un ragazzino, provai una sensazione della quale – ne fui subito certo – non avrei più potuto fare a meno”. Fare l’attore: conta di più la vocazione o lo studio? “Servono tutte e due. E’ come in ogni attività artistica: pittore, scultore, musicista, si parla di vocazione, di chiamata. Cosa accade per la religione? Ad un certo punto uno sente una voce che gli dice: ‘devi farti prete’. E’ la chiamata di Dio. Per il teatro, non c’è Dio. E’ il dio pagano che ti chiama. D’altra parte però ogni arte ha bisogno di una téchne, richiede quell’artigianato che va imparato. Non si dà artista senza artigianato, ma l’artigianato da solo evidentemente non basta: bisogna riuscire a mettere in opera, a svelare quella verità. Come hanno fatto Van Gogh e Cézanne”. Come vede la situazione del teatro e della cultura in generale in Italia? “Penso che la cultura non sia tenuta in grande considerazione. Per quello che mi riguarda, il teatro italiano è il meno sovvenzionato d’Europa. E’ la vecchia storia di questo nostro paese, che ha uno scarso interesse verso la cultura. Dovranno forse passare ancora dei secoli perché l’Italia venga coltivata e si possa fare un buon raccolto, da questo punto di vista”. Come valuta la situazione politica italiana? “Credo che siamo in un momento di cambiamento. Personalmente spero che questo cambiamento avvenga abbastanza presto. Quello che posso dire è
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che il nostro paese è stato distrutto e rovinato dalla tv. Non è soltanto un modo di dire: ogni format ha deformato il nostro paese, che era privo di difese culturali. Non dimentichiamo che noi veniamo da una situazione culturale complessa: negli anni Cinquanta c’era ancora l’analfabetismo di massa. Poi il popolo si è imborghesito, conquistando l’automobile, il frigo, la lavatrice. C’è stata la convinzione che i consumi potessero sostituire la cultura. Abbiamo visto così un ceto popolare che magari riusciva ad andare a vivere nelle villette a schiera, ma senza aver mai letto un sonetto del Petrarca, senza essere mai stato a teatro, senza aver mai sfogliato un libro o sapere nulla del mondo. I governanti gli hanno dato la televisione, prima quella pubblica, poi quella privata. La tv pubblica, se vogliamo, ha avuto anche
una funzione educativa, popolare ma educativa. E’ con la tv commerciale che il progetto demoniaco di distruggere completamente una popolazione è riuscito. C’è una situazione da rifondare completamente. Detto questo, però, bisogna aggiungere che i figli di quelle persone, di quel popolo che ha subìto il disastro, hanno studiato. Magari male, ma un po’ hanno studiato. E mi sembra che oggi, se Dio vuole, qualcosa stia bollendo in pentola. Può darsi che mi sbagli, ma ho questa impressione”. L’artista e la politica. Gli uomini di cultura devono impegnarsi politicamente? “L’artista non può che fare il suo lavoro, non può che raccontare. E’ impegnato, anche se non politicamente. Io sul palcoscenico mi impegno, nel senso che mi consegno all’uomo. Questo è l’impegno dell’artista”.
Gabriele Lavia (Milano 10 ottobre 1942), dopo il diploma all’Accademia nazionale di arte drammatica debuttò come attore teatrale nel 1963. Il grande pubblico degli anni Settanta lo conobbe nella miniserie televisiva “Marco Visconti”, diretta da Anton Giulio Majano, dove recitò al fianco di Raf Vallone e Pamela Villoresi. Come attore teatrale è stato diretto da grandi registi come Giancarlo Sbragia, Luigi Squarzina, Giorgio Strehler, Mario Missiroli. Nel 1975 l’esordio come regista teatrale con “Otello” di Shakespeare. Il film “Il principe di Homburg” (premiato col Nastro d’argento per il regista esordiente) segnò il suo debutto come regista cinematografico, nel 1983. La sua prima regia lirica è del 1983, con “I pellegrini alla Mecca” di Gluck. Ha diretto il teatro Eliseo di Roma, lo Stabile di Torino e il festival Taormina Arte. Ha tre figli: Lorenzo, Maria e Lucia, due dei quali (Lorenzo e Lucia) hanno intrapreso la carriera teatrale. Attualmente dirige la Compagnia Lavia.
Vivere l’avventura, il contatto con la natura selvaggia lontano dai compromessi del turismo di massa. E’ possibile con Impronte Wilderness Safari, tour operator specializzato in safari africani. Nato dalla passione per l’Africa di Carlo Sebastiani, un fortemarmino doc innamorato del Continente Nero, Impronte Wilderness Safari è un tour Operator specializzato che ha sede a Lido di Camaiore, con una clientela proveniente da tutta Italia, in particolare da Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. L’esperienza di Sebastiani, che ha vissuto diversi anni fra Kenya e Tanzania, consente al tour operator di organizzare safari “tailor-made”, progettati secondo le richieste della clientela in Tanzania, Kenya, Botswana, Namibia, Etiopia, Mozambico, Zambia, Uganda, Rwanda, Congo e Sud Africa ma anche Alaska e Islanda laddove vi siano animali, natura e popoli tradizionali, con la certezza di un approccio corretto verso l’ambiente che si va a conoscere. “Noi cerchiamo – dicono Carlo e i suoi collaboratori – una nuova dimensione del turismo che si basa sulla condivisione, sul rispetto dell’ambiente e delle culture locali e concorre alla crescita individuale collettiva partendo da un rapporto autentico con gli altri”. Da qui consegue una serie di caratteristiche delle proposte del tour operator versiliese: il viaggio avviene in piccoli gruppi (massimo 12 persone), allo scopo di stabilire un contatto con le popolazioni senza alterare gli equilibri locali; le sistemazioni sono di qualità; il rispetto dell’ambiente è assoluto; lo stesso safari avviene con tempi e modalità attenti alla vita degli animali che vengono osservati; la sicurezza è sempre al centro di ogni progetto. Sono possibili formule per viaggi di nozze, safari fotografici, safari-workshop con fotografo, viaggi avventura, e comunque viaggi “tagliati” su misura. Le partenze avvengono tutto l’anno, in particolare in inverno e nel periodo agostosettembre per l’East Africa, e in maggio-ottobre per l’Africa australe, dagli aeroporti di Milano, Roma e dalle principali città italiane. In alcuni safari è lo stesso Sebastiani ad accompagnare personalmente il gruppo.
Impronte Wilderness Safari Via Cimabue 22 - 55041 Lido di Camaiore (LU) Tel. +39 0584 630817 - Fax +39 0584 1712003 - info@impronteviaggi.com
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ALIGI
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di Natalia Sassu Suarez Ferri
Nel 2012 il centenario della nascita di Aligi Sassu
S
i sono da poco conclusi gli eventi per il decennale della morte di Aligi Sassu (1912-2000), che hanno portato la sue opere in diverse città d'Italia: dipinti a Palermo, scultura a Brescia, disegni ad Arezzo, Milano, Vigevano, Besana Brianza, Como. La sua arte sarà inoltre ospitata nella mostra antologica "Mediterraneo" presso Villa Fiorentino a Sorrento per tutta l'estate 2011 (15 luglio - 25 settembre). L'Archivio Aligi Sassu e l'Associazione Amici dell'Arte di Aligi Sassu si preparano ora per un altro significativo anniversario, il centenario della nascita, che ricorre nel 2012. Durante i suoi ottantotto anni di vita, Sassu ha saputo donare alla sua arte notevoli variazioni di stile, temi, forme e colori, tutto a seconda della sua maturazione umana ed artistica, tenendo sempre in conto i tanti momenti storici e culturali che l'artista ha potuto osservare. Le celebrazioni legate al centenario punteranno quindi ad onorare al massimo le varie sfaccettature tematiche e tecniche di un artista che ha lasciato un segno nell'arte del XX secolo. Gli inizi di Aligi Sassu sono legati al futurismo ed al primitivismo, caratterizzati da una studiata geometrizzazione delle forme e da una particolare attenzione al movimento e alla novità delle metropoli. Sassu era allora ispirato artisticamente da grandi Maestri come Boccioni e Carrà, e dal punto di vista ideologico dallo stesso Marinetti, che ha ricoperto un ruolo fondamentale nella storia dell’artista nell’introdurre un giova-
nissimo Sassu alla Biennale di Venezia del 1928. Già dai primi anni Trenta ricorrono le due tematiche portanti di mito e realtà, soggetti che lo accompagneranno per tutta la sua carriera artistica e che rispecchiano anche una sua particolare attitudine caratteriale verso la quotidianità. Politica, storia e i più svariati aspetti della vita di ogni giorno vengono narrati in un incontro di reale e immaginario, dove i dati più crudi o mondani della sua contemporaneità vengono alternati o addirittura fatti convivere con perso-
“Caffè San Carlo”, 1934, olio su tela, 49x45 cm
SASSU
Tra mito e realtà
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Sassu con De Chirico, Roma, 1967
Aligi Sassu con il figlio Carlos Julio Sassu Suarez in fonderia,1989
naggi, ambienti e contesti legati al mito e alla letteratura. La rappresentazione di scene mitologiche è il riflesso di una passione personale del Maestro per la lettura, ma questa lettura non può che far sorgere riflessioni e confronti col mondo in cui egli vive. Il culmine dello studio di questi due temi risale ad anni Trenta e Quaranta, ed ha inizio con una rapresentazione della nudità e della purezza negli Uomini Rossi, in completa antitesi con la modernità dei personaggi e paesaggi primitivisti del periodo precedente. E come Uomini Rossi vengono proposti sia personaggi del mito come Dioscuri ed Argonauti, sia ritratti della realtà contemporanea come Giocatori di dadi, Ciclisti, Suonatori e Pugilatori. "Intorno ai quadri Uomini Rossi, c'è una certa letteratura critica. Ma cosa penso io di quel mio ciclo pittorico? Sottovoce, senza la pretesa di ripetere il crociano contributo "alla critica di me stesso", io dico che gli Uomini Rossi sono la giovinezza, sono la rappresentazione dell'uomo che nasce nudo dinanzi al creato e poi affronta la società, in cui è costretto, con la fede, con la generosità della giovinezza, con la purezza dell'alba: l'uomo investito dalla luce del sole, la quale traspare nel corpo ed illumina il sangue, il sangue che è vita e poi sarà morte".
Col proseguire degli anni Trenta ha inizio un'altra fase fondamentale della vita dell'artista, legata ai suoi due viaggi a Parigi. Parigi vuol dire per il Maestro innanzitutto uno studio diretto degli artisti dell’Ottocento francese e del loro impegno politico, che si rispecchia nel suo. D’altro lato Parigi è anche incontro con la letteratura ottocentesca e con l’ambiente mondano, che risultano in serie come quelle dei Caffè e delle Maison Tellier, da cui derivano poi opere affini come La strada e Via Manzoni. Realtà quindi espressa in maniera diretta, quando i temi lo permettono, e attraverso la mitologia e i richiami storici e religiosi, quando il soggetto non è più quello sociale ma quello politico. Nel corso di questi anni, ed in particolar modo con l’adesione a Corrente, i temi principali non possono che essere la morte e la violenza della guerra e del fascismo, e ciò viene espresso con dei simboli, attraverso un attento spostamento di significati. Persino l’iconografia cristiana, le Crocifissioni, le Deposizioni, sono particolarmente sofferte e pregne di significati civili e sociali più che biblici. Lo stesso si dica per le opere mitologiche e per quelle storiche, si pensi alle diverse Battaglie, a La morte di Patroclo e sopra a tutte La morte di Cesare, un’ intensa protesta contro Mussolini, identificabile in Cesare. Non mancano
19 aligi sassu
dipinti più realistici come le Fucilazioni e Piazzale Loreto del 1944, ma si tratta di eccezioni. Mito e realtà, in tutte le forme e tematiche finora affrontate, saranno protagonisti degli anni Cinquanta e ritorneranno nei decenni successivi: i primi anni Cinquanta vedranno una trasposizione di tali soggetti nella tecnica in questi anni riscoperta della ceramica; negli anni Sessanta, l’inizio dell’avventura spagnola del Maestro sarà riflessa in un mito legato a paesaggi e letteratura spagnoli e alla tecnica dell’acrilico. E così via negli anni Settanta e Ottanta, dove le nuove imprese legate a scenografie e illustrazioni letterarie daranno ampio spazio ad una combinazione di immaginario e reale, binomio che si rivela ancora una volta di fondamentale importanza nell’arte sassiana.
“Deposizione”, 1944, olio su tela, 54,5x40 cm
Se le opere degli anni di Corrente possono essere considerate il culmine del realismo di Sassu, nonostante le diverse e notevoli rivisitazioni mitologiche negli anni, il capolavoro di tema mitologico di Sassu resta I Miti del Mediterraneo, il murale in ceramica di centocinquanta metri quadrati che il Maestro completò per la nuova sede del Parlamento Europeo a Bruxelles nel 1993. Questo lavoro titanico, che solo un artista forte come lui, a ottant'anni, poteva completare, è una vera e propria celebrazione del continente europeo, della sua letteratura più antica ed autorevole, delle divinità pagane e dei miti a loro legati. Una celebrazione resa possibile da decenni di studi sulle culture greca e latina, e da innumerevoli opere e riflessioni del Maestro su un tema a lui tanto caro.
“Il cavallo nero”, 1959 pastello su carta intelata, 101x71 cm
“Studio per Battaglia”, 1987 olio e acrilico su cartone, 51 x 38 cm
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UN PRINCIPE TRA I PINI DI ROMA IMPERIALE di Chiara Sacchelli
Il Presidente e Amministratore Unico Dottor Maximilian Bolzer
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al bianco, al beige, a tutti i toni caldi fino al marrone, svetta tra i pini di Roma Imperiale. E’ lui, il “ Principe”, e non soltanto il nome lo distingue dagli altri alberghi di Forte dei Marmi, ma sono soprattutto le sue cinque stelle lusso, uniche nella zona, fino a Firenze da un lato e a Portofino dall’altro, a farne un
elemento di distinzione. Cristina Vascellari è la responsabile dell’hotel che è stato inaugurato un anno fa, il 26 giugno 2010, in seguito alla ristrutturazione di un edificio storico. Una ristrutturazione radicale che lo ha trasformato in albergo moderno, internazionale, dominato dalla luce naturale. Già la hall con le pareti di vetro fa spaziare lo sguardo oltre le verande circostanti, rese confortevoli da grandi sedute bianche di vimini con cuscini di sicura firma italiana. Cristina vive in Versilia da diverso tempo e dopo aver volato come hostess per una quindicina d’anni e aver ‘sperimentato’ alberghi internazionali per il suo lavoro, è sembrata la persona adatta ad affiancare il ‘deus ex machina’ di tutto l’investimento turistico di una società per azioni di cui è presidente e amministratore unico. Maximilian Bolzer, austriaco-russo, appena 32enne, fisico atletico e sorriso accattivante, è arrivato a Forte dei Marmi nel 2006, insieme all’architetto Müller, e si è subito innamorato della zona. Ha studiato il mercato, l’offerta turistica esistente, e ha deciso di lan-
ciarsi in un’impresa che ha avuto un immediato riscontro: creare un hotel di lusso, di impronta internazionale, ma che non tradisse lo spirito del luogo. Dunque luce, spazio, rapporto stretto con la natura, insieme a servizi al massimo livello, ad arredamento di design al top della modernità, ma con l’aria semplice che hanno le cose belle destinate al futuro. Bolzer ha curato tutto nei minimi dettagli: dall’onice trasparente dell’ascensore, ai marmi bianchi delle scale, alla terrazza sul tetto che permette di immergersi a est tra le cime dei pini sullo sfondo delle Alpi Apuane e ad ovest di ammirare la lunga spiaggia e il mare versiliese. “Dal momento in cui l’ospite arriva noi gli garantiamo qualsiasi servizio di cui abbia bisogno – spiega Bolzer – allo stesso tempo vogliamo che possa sentirsi ‘like at home’ , come se fosse nelle propria villa, che è poi la caratteristica del turismo di Forte dei Marmi, sempre stato lussuoso, ma familiare. Abbiamo la certificazione ‘The Leading Small Hotels of the World’ che è molto accurata: garantire le cinque stelle lusso richiede, comunque,
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estrema attenzione”. Il “Principe” ha solo 28 camere doppie, rimane aperto tutto l’anno e il personale varia dalle 50 alle 100 unità circa, con una rapporto di 3/3,5 addetti per cliente. Età giovane, provenienza internazionale, professionalità e affabilità distinguono lo staff. Dal giorno dell’inaugurazione, oltre alla collaborazione con le agenzie e con la Federalberghi , è stato il passaparola a funzionare più di ogni altra cosa, per richiamare gli ospiti da ogni parte del mondo. Qualcuno ha confermato anche per l’estate in corso, altri hanno addirittura affittato casa qui per rimanere più a lungo in Versilia. I clienti non sono mancati anche nel periodo invernale, conferma la responsabile, provenienti persino da La Spezia, dove ad esempio dovevano incontrarsi alcuni presidenti di società americane ma non disponevano di un hotel all’altezza. Un motivo di attrazione del “Principe” è senza dubbio la spa, una delle migliori in Italia, che permette un rilassamento totale e una cura del corpo eccellente: piscina con acqua calda, idromassaggio, cinque cabine per i massaggi, sauna e bagno turco, docce con colori e ‘potenze’ diverse e naturalmente trattamenti di ogni genere, compresi quelli ayurvedici con esperto. C’è la palestra con il personal trainer aperta a qualsiasi ora su richiesta, come la cucina che – ovviamente – non interrompe mai il suo servizio nelle 24 ore. Cucina internazionale, dall’italiana all’orientale, a quella più locale a base di pesce che si può gustare al bagno Marechiaro, lo
stabilimento balneare storico collegato all’hotel , che è stato solo rinfrescato, mantenendo le sue caratteristiche originali. Un sommelier francese suggerisce i vini da accompagnare al cibo, assecondando i gusti di americani, russi , italiani, ospiti che vengono in vacanza in estate o per lavoro nel resto dell’anno, come i direttori o i consiglieri di amministrazione di grosse aziende, che sanno di trovare qui tutti i servizi . Dal check-in in camera all’alta tecnologia. Nelle camere di grandi dimensioni lo stile è il medesimo, moderno elegante, i colori sono gli stessi, dal bianco al marrone, e insieme ai divani e ai cuscini che accompagnano il grande letto a baldacchino stilizzato, spicca un televisore di ultima generazione, di dimensioni cospicue. Le più moderne tecnologie sono assicurate dal computer e affini, ma per i piaceri del gusto non manca la cantinetta privata con bottiglie importanti conservate alla giusta temperatura. Dietro la porta di vetro acidato, uno spazio molto ampio è destinato al bagno, alla doccia estremamente confortevole che in alcune stanze si accompagna alla vasca di design.
“Sono orgoglioso di essere riuscito a creare un hotel come questo – ammette sorridendo Maximilian Bolzer, che ne gestisce contemporaneamente un altro dello stesso genere nella Repubblica Ceca e ha dei progetti simili per la Costa Azzurra – dove gli ospiti interagiscono e apprezzano lo stile scelto che miscela lusso e semplicità. Si rendono conto che abbiamo voluto pezzi di design delle migliori case di arredamento italiane e possono godere contemporaneamente di ciò che offre l’ambiente di Forte dei Marmi. E’ il primo progetto che ho seguito interamente dall’inizio e la sua riuscita, il riscontro che ha avuto anche nelle stampa internazionale, mi dà lo stimolo per altre realizzazioni in Italia e all’estero”. “ Chi viene da noi – conclude Cristina Vascellari – deve sentirsi come quando riceviamo un ospite a casa. Viene accontentato, seguito in ogni esigenza. E i risultati, ad un solo anno dall’apertura, ci soddisfano pienamente”. Hotel Principe Forte dei Marmi Viale Amm. Morin 67 55042 Forte dei Marmi (LU) Tel +39 0584 783636 info@principefortedeimarmi.com
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Titolo redazionale Sottotitolo redazionale
MarinoC Le mani
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Dal design degli anni Cinquanta alla pittura del Duemila di Emanuela Mazzotti
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sistono individui nei quali l’arte si configura come un germe, una malattia che condiziona la struttura profonda del loro sentire e che individua una gamma infinita di relazioni con il mondo, una vera e propria esperienza che trova nella forza vitale dell’arte un agente determinante. In altre parole l’arte e la vita sono la stessa cosa e non si concepisce l’una senza l’altra in un bisogno costante di verifica e di risistemazione del proprio sistema di pensiero, un tipo di approccio all’esistenza privo di qualsiasi costrizione esterna. Marino Collecchia si accorge, giovanissimo, che la sua strada è il disegno, prologo all’arte maestra che toccherà da vicino solo qualche anno più tardi, dopo una lunga stagione milanese. Lasciati in giovane età i luoghi della Lunigiana, trova nella città lombarda una vera e propria vocazione nella progettazione industriale che gli consente di esercitare la sua passione di sempre. Sono gli anni Sessanta il punto nevralgico, quando diventato responsabile dell’ufficio progetti
Collecchia dell’uomo sono le radici della terra
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nella Herman Miller Collection, matura il tempo della svolta di Collecchia, il momento in cui incontra da vicino i grandi Maestri del design internazionale tra i quali George Nelson, Charles Eams , Alexander Girard e Mies Van der Rohe che introducono la nuova cultura dell’interior design. Il momento è favorevole per comprendere che l’esercizio dell’arte può incanalarsi verso una tecnica nuova, emergente, che gli consentirà di acquisire ed approfondire quelle competenze manuali che costituiscono il tessuto indispensabile per il suo futuro d’artista. Milano rappresenta in quegli anni la punta di diamante di una situazione in costante evoluzione: il boom economico ha introdotto il concetto di qualità della vita, apparso fino ad allora come aspetto marginale, nuove tecnologie e nuovi materiali consentono un differente
approccio al prodotto industriale suggellando, in nome dell’ideologia, il nuovo valore della “merce”. Il designer, concepito come un “mediatore artistico” sancisce il sodalizio tra prodotto e progetto. Design è arte là dove progressivamente ci si appropria, oltre che delle competenze tecniche, anche di un’autonomia e di una libertà espressiva che qualifichi l’oggetto come prodotto artistico. Così nella trasformazione del mezzo in fatto artistico, l’esperienza estetica è completamente legittimata nel progetto stesso come momento “creativo” e non differisce da qualunque altro processo intellettuale. Nel lungo tempo della sua formazione artistica, Marino Collecchia non ha mai smesso di pensare all’arte Maggiore, alla pittura che ha dentro di sé come un marchio e che indissolubilmente lo lega alla sua terra, patria del disegno 2
e del colore fin dai tempi di Michelangelo. La sua toscana come luogo di irresistibile attrazione, eterno ritorno dopo gli anni del lungo girovagare, non solo a Milano ma nel Sud del mondo. E’ così che nasce la pittura, con le figure caratteristiche di lavoratori e contadini, isolati sul piano pittorico come la mitica figura del “Vecchio e il mare”, prima ispirazione,segno distintivo di un “fare” che nasce dalle forze profonde dell’essere, etica dell’uomo che si oppone al fare meccanico della macchina con un atto rivoluzionario propugnando l’abolizione di ciò che è dettato, precostituito. Poiché è nel fare che la consapevolezza si costruisce e si tesse l’ordito dei rapporti sociali, il fare continuo di Collecchia passerà per un processo articolato. Non si tratta più di “rappresentare” il mondo: ogni segno è un gesto con cui si affronta
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la realtà per cogliere e far proprio il suo contenuto essenziale, la vita. L’artista pur legato alla pittura di matrice toscana, rifiuta qualunque regionalismo per guardare”oltre”, più in là della realtà stessa, cosciente del limite imposto dalle regole dell’arte per forzarle, arrivare ad una pittura vera fino all’assurdo, viva. Sulla via del mare, calati dentro un’atmosfera metafisica che ci fa percepire l’assoluto silenzio dei giorni e delle notti, nel sapore salso del vento, ci appaiono questi uomini, singolari abitanti di un mondo che sembra dimenticato. Noi, abituati ormai ad altri tempi, ad altri mondi, guardiamo questi esseri come ancestrali simboli di una realtà che parla il linguaggio delle origini, delle tradizioni dimenticate. I lavoratori delle cave di Carrara, i marinai della Meloria e i contadini toscani come i campesinos conosciuti
durante i soggiorni in America Latina, hanno tratti comuni e grandi mani nodose ad indicare che non ci sono differenze sotto il sole ,nella condizione della fatica e del dolore che accomuna tutti. Mi sembra essere questo un sentire “corale” che l’artista comunica, declinato prima nelle fonti letterarie così come poi ripreso da molti pittori da Migneco a Guttuso, artisti che per sensibilità e attitudine sono limitrofi a Collecchia, che trasferisce nel soggetto una sorta di pathos epico di eroe sconosciuto, ripreso in una solitudine quasi religiosa. Soggetto, spazio e tempo si originano perciò in una dimensione tutta interiore alla pittura che non necessita di narrazione né di illustrazione ma si riferisce piuttosto ad un” ascolto” rivolto all’essere come individuo e al tempo stesso soggetto di una dimensione storica “tutta umana”.
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1) “La donna nel colore”, tecnica mista sul legno, 83x83 cm 2) “Riviera toscana”, olio su tela, 90x80 cm 3) “L’angolo del mio studio”, tecnica mista su tela, 150x50 cm
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Per il Prof. Vittorio Sgarbi la pittura di Collecchia si esalta con la poesia di Quasimodo: “ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera” Salvatore Quasimodo
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uomo e la sua ombra ovvero solitudine e campagna: a questo tema si potrebbe ridurre la ricerca pittorica di Marino Collecchia. Ho visto alcuni suoi quadri in verità molto eloquenti; ho letto alcune note, credo autobiografiche, non utili, come sempre, per capire la pittura, ma efficaci per chiarire alcune scelte. Già i primi dati sono per me rassicuranti. Collecchia è nato nel 1933, lo stesso anno di un’artista che io ho molto studiato e molto ammirato: Domenico Gnoli. E’ nato a Fivizzano dove lavorano, nel Castello, due scultori di forte e delicato carattere (scambi evolmente): Pietro Cascella e Cordelia Von Den Steinen. Conosco Fivizzano: è una parte di Toscana più aspra e selvaggia
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di altre, certo più della profumata Maremma. Già questo basta a capire cosa sia la campagna per Collecchia: non luogo dell’idillio, ma del lavoro. Campagna deserta, assolata, dominata da un solitario contadino, immagine epica, con una grande storia; da Millet a Van Gogh, da Pellizza da Volpero a Gottuso, fino a uno scultore, dalle cui idee Collecchia tanto avrebbe potuto derivare: Giuseppe Gorni. In entrambi gli artisti un lato contadino con il cappello, solitario. Ma mentre per Gorni l’uomo è alla conquista della terra su cui lavora, per Collecchia la terra è destino. L’uomo solitario, sotto il sole, dietro le sbarre è un paradigma dell’intera umanità, misura del tempo e della civiltà, e misura, soprattutto, della natura. Sotto il sole si consuma l’intera esistenza, vittoriosa‑pena. Riducendo la sua visione all’essenziale, Collec chia sembra dar figura ai versi di Salvatore Quasimodo: “Ognuno sta solo! sul cuore della terra! trafitto da un raggio di sole.! Ed è subito sera.” il tempo breve della vita, ma anche l’esigenza di valori veri. E allora dalle note autobiografiche di Collecchia appren diamo che ha trascorso una lunga parte della vita a Milano, lavorando nel campo del design,
4) “Riposo del contadino”, tecnica mista su tela, 66x102 cm 5) “Ombra del campesino”, tecnica mista su tela, 100x100 cm
come progettista alla Direzione Generale della Magneti Marelli. Attraverso questo impegno allarga i suoi contatti all’industria americana, allontanandosi sempre più dalla civiltà contadina delle sue origini. E’ da questa distanza che Collecchia sente l’e sigenza di ritrovare le radici nel segno diretto della mano, nella pittura. Il lavoro di un designer punta a ridurre le distinzioni, ad annullare la dimensione individuale. “Questo sarebbe ancora oggi il suo lavoro ‑ leggiamo nella breve nota che accompagna le immagini del suoi lavori ‑ se a un certo punto della sua vita non avesse sentito dentro di se,il bisogno di esprimersi in maniera diversa, più profonda; la sua creatività e la sua arte dovevano essere riportate in primo piano attraverso il mondo segreto della pittura: ‘Ecco allora il ritorno a casa verso la Toscana. La naturalezza del segno pittorico, la mobilità delle superfici cromatiche e, anche, una singolare costruzione dell’immagine come per intersecarsi di piani dentro i quali si forma la figura, sempre riducibile ad un’unità geometrica, in questo sopravive la lezione del design. Collecchia razionalizza anche l’immagine del contadino solitario, ieratico come un’antica divinità, uno schema che, prima di farsi stile, sembra evocare gli archetipi. Così che noi, vedendo il suo contadino, ne riconosciamo le proporzioni e le forme come faremmo con un kouros greco.
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Lera, l’architettura che aiuta a vivere meglio
Tiziano e il figlio Leonardo a confronto. I cardini per progettare bene: storia, natura, arte. “Adesso la politica ha stufato” di Umberto Guidi
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iziano Lera è uno degli architetti più famosi di tutta la Versilia. E’ un intellettuale a tutto tondo, con spiccati interessi per l’arte, la cultura, la storia e persino le scienze naturali. Tutte discipline che gli servono a sviluppare una più consapevole idea di architettura, perfettamente inserita nel territorio. Nato a Lucca nel 1944, ha passato i primi 25 anni della sua vita a Viareggio, dove il padre gestiva una storica fonderia. Poi si è stabilito a Forte dei Marmi. Qui vive e lavora. Per esigenze
professionali ha operato a lungo all’estero: in Kenya, ai Caraibi, in Grecia, in Belgio. In Versilia e nel resto d’Italia ha firmato progetti per ristrutturazioni e restauri di numerose ville, ristoranti, alberghi, stabilimenti balneari, sempre lasciando il suo ‘tocco’ particolare, riconoscibile. E’ autore di libri, disegni, sculture. Di sé dice: “Sono un alchimista, uno di quelli che cercavano l’oro all’interno di se stessi”. Nello studio sul viale a mare, ricavato da un vecchio ristorante, tutto parla delle sue
passioni: la storia naturale, il verde, l’arte. La salamandra, l’anfibio a chiazze gialle che gli antichi credevano capace di sopravvivere al fuoco, è il suo simbolo, compare ovunque. Anche il figlio Leonardo, architetto e socio effettivo dello studio, ne ha una tatuata sul polso. Padre e figlio compongono un team affiatato, e fra i due intercorre una ben avvertibile corrente di affettuosa intesa. Tiziano Lera, da dove è cominciato tutto? “I Lera sono un’antica famiglia di origine lucchese, la loro fonderia era una delle più antiche, avendo iniziato l’attività nel Cinquecento. Quando ero ragazzino la Fonderia si trovava a Viareggio, ed è lì che ho vissuto i primi anni della mia vita. Abitavamo in via Saffi, dove mio padre possedeva delle villette. Dopo le scuole elementari, ho studiato scultura a Pietrasanta, quindi ho frequentato il Liceo artistico, e quindi ho fatto il Politecnico a Milano, per poi studiare urbanistica a Venezia. Ma ho continuato ad affaticarmi sui libri, e infatti mi sto laureando in scienze naturali”. Infatti la passione per la natura si vede ovunque, nello studio Lera. C’è un legame con l’architettura? “Quando ero bambino sono stato a lungo malato. Avevo gli acetoni e problemi al fegato, l’anemia. A sette anni pesavo 18 chili, anche se ora non si direbbe. Sono stato un anno inte-
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ro a letto, mentre i miei amici si divertivano sulla spiaggia e in pineta, io ero recluso in casa e chiedevo a mio padre libri di animali e di natura. Ero portato per il disegno e mi divertivo a disegnare animali, che imbalsamavo anche personalmente”. Strana passione la tassidermia per un bambino, no? “Certamente, oggi forse mi avrebbero fatto vedere da uno psicologo. Comunque l’interesse per la natura faceva il paio con l’amore per l’arte. Anche perché in casa nostra era tutto un viavai di artisti. Sono cresciuto a pane e arte, con un particolare attenzione verso il mondo naturale”. E questo ha influenzato il tuo concetto di architettura? “Tutto il mio lavoro – e anche quello di mio figlio Leonardo – si articola su quattro elementi:
storia, natura, arte, architettura. Le soluzioni architettoniche sostenibili sono quelle che germinano direttamente dal territorio, dalla sua storia e dalla sua natura. E’ il territorio a ‘dettarci’ l’architettura che merita di essere fatta. Se fai così, ottieni quella che in medicina viene definita omeostasi, una condizione di equilibrio fisiologico. Per quello che riguarda Forte dei Marmi, significa che le costruzioni devono essere sottomesse all’altezza degli alberi e che non devono chiudere i cannocchiali prospettici verso le sacre montagne, in particolare quel Monte Altissimo che ha fatto nascere Forte dei Marmi. Il paese nasce dall’esigenza di imbarcare i marmi sui navicelli”. Forte dei Marmi è importante? “Il Forte e tutta la Versilia.
Anche se ci sono delle parti di questo territorio che hanno conosciuto un grave processo di degrado. Io scherzando, ma non troppo, dico di soffrire della sindrome della Fossa dell’Abate”. Puoi spiegare? “Quando viaggio sul viale a mare in direzione sud e arrivo alla Fossa dell’Abate (il corso d’acqua che separa Lido di Camaiore da Viareggio, il centro più grande della Versilia, ndr) mi sento male, ho dei crampi a pensare a com’era bella Viareggio e quanto adesso sia invece completamente degradata”. Il Forte invece si è salvato? “Sì, ma non per gli indigeni. Sono stati pochi ospiti illuminati a preservare la bellezza del Forte dei Marmi. Conservando le aree verdi, opponendosi a lottizzazioni scriteriate che avrebbero rovinato completamente
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quartieri pregiati come quello di Roma Imperiale. Uno di questi illuminati è stato Massimo Moratti, che io chiamo San Moratti. E lo dico non perché sia mio amico da quando avevamo 7-8 anni e frequentavamo il Principe di Piemonte a Viareggio, ma perché è vero”. Cosa manca oggi a questa zona? “Oggi noi abbiamo un mezzo turismo culturale, che io auspico possa diventare un turismo culturale a tutto tondo, per l’intero arco dell’anno. In questa Europa, in questo mondo globalizzato la Versilia potrebbe avere un’attrattiva irresistibile. Pensiamo al nostro inverno, particolarmente mite. Per un abitante dei paesi nordici può somigliare a un’eterna primavera. Aggiungiamo all’elemento climatico favorevole la cultura, il paesaggio, l’arte, l’enogastronomia. I nostri Vermentini, il pesce, i formaggi, l’olio, sono altrettante frecce al nostro arco. Si tratta di usarle al meglio. Quest’anno sono stato a Pesaro, a un convegno dal titolo ‘Il mare d’inverno’. Ero l’unico rappresentante della Costa Ovest. I politici che sono intervenuti hanno detto cose sensate, che andavano nella direzione giusta. I nostri, invece…” Facciamo intervenire il giovane Leonardo Lera. Che
cosa si prova ad essere un figlio d’arte? “Quello che ha detto mio padre vale anche per me. In casa nostra gli artisti sono stati sempre di passaggio: Botero, Dazzi, e tutti gli altri. Per me è stato naturale rivolgermi all’architettura, non è stata un’imposizione paterna. Rispetto a mio padre, devo dire che sono meno ‘politico’, cioè meno diplomatico di lui, mi arrabbio un po’ di più”. Con chi ti arrabbi? “Con la classe politica. L’architettura dovrebbe aiutare la gente a vivere meglio. E’ dimostrato che nelle città dove la qualità della vita, dell’architettura e dell’urbanistica è migliore, c’è meno delinquenza. La politica invece non aiuta, con le liti, le divisioni e una burocrazia soffocante. Il discrimine per decidere
sulle varie questioni non dovrebbe essere la destra, la sinistra o il centro, ma il criterio del ‘giusto o sbagliato’. Oggi realizzare un progetto artistico è sempre più difficile; sei alle prese con una selva di regolamenti, una gabbia normativa che risulta soffocante. Ci sono vincoli comunali, provinciali, regionali, nazionali e a tutti questi vanno aggiunte le regole della Comunità europea. Il risultato? La creatività viene completamente soffocata. Il mio sogno sarebbe riuscire a progettare per noi stessi, recuperando la libertà creativa che sta alla base dei miei modelli professionali, come Gaudì e Wright”. E per la Versilia cosa suggerisce il giovane Lera? “I Comuni dovrebbero allearsi, conseguendo un vero coordinamento basato su turismo, arte e cultura. E il mare dovrebbe dialogare con la montagna. Abbiamo delle risorse bellissime sulle Apuane, non ancora adeguatamente valorizzate: pensiamo alla Seravezza medicea, a paesi come Pruno o Arni, alle cave. Ma anche il mare, se vogliamo, è sotto utilizzato. La Versilia deve vivere il mare, che neanche si riesce a vedere quando arrivi a Forte dei Marmi, è tutto chiuso. Mi pare che sia il momento di dire basta alle regole assurde, ai divieti che rendono tutto difficile, anche aprire un piccolo bar sulla spiaggia”.
Via Italico, 3 - Forte dei Marmi (Lu) Tel. 0584 89323 - Fax 0584 83141
Gigi Guad
Incontro con lo scultore che ha raccoltol’eredità di Michelangelo: “La mia è l’arte del togliere”. Ama la vita, le donne e la bellezza di Umberto Guidi - Foto di Federico Neri
L
a prima sensazione che si prova arrivando alla casa laboratorio di Gigi cci, al termine di una stretta e ripida strada arrampicata sulle colline di Bergiola (Massa) è di grande apertura: lo sguardo spazia liberamente verso il mare, che si staglia placido, vasto e azzurro a ponente. Due cani ti accolgono festosi, ed è allora che le vedi. Le sculture di Guadagnucci sono quasi tutte in marmo bianco di Carrara, bellissime. Levigate, trasparenti, gravemente leggere. I fiori marmorei di Gigi sono così eleganti e luminosi che sembrano essersi fatti da soli. Quasi non sospetti il duro, magistrale lavoro necessario per dar vita a queste opere d’arte. Luci e ombre le accarezzano, esaltando forme e trasparenze. Poi entri nella casa e incontri Gigi: un bel vegliardo dal sorriso pronto, i lunghi capelli grigi, una sottile sciarpa annodata al collo con falsa negligenza, la camicia multicolore. Novantasei anni insospettabili, anche se lo scultore, con una punta di civetteria, se li aumenta, dichiarandone novantasette.
adagnucci La fedeltà al marmo
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Due gli aspetti salienti della sua biografia. Il primo è l’essere nato sulle montagne del marmo, quelle Apuane che definisce “grande perla fatta di cristalli di carbonato di calcio”. Una sorta di imprinting che ha determinato una costante fedeltà alla materia prima della sua arte, il marmo statuario di Carrara. E poi l’emigrazione – per motivi politici – in Francia, a soli 21 anni. E’ un fatto che il primo riconoscimento della statura artistica di Guadagnucci sia avvenuto Oltralpe. Il critico Pierre Courthion lo definisce “lo scultore della trasparenza”, le gallerie ospitano le sue opere, in Francia realizza numerosi lavori su commissione. Gigi “il francese” dalla vita romantica e avventurosa nella Legione Straniera e nella Resistenza, fra i maquis. Gigi dal fluente eloquio nella lingua di Voltaire, ma anche dal mai sopito amore per l’Italia. Amore per il paese d’origine, per le donne (è stato un notevole tombeur de femmes, e ancora conserva l’ammirazione per il femminino), amore per il marmo. Ripete: aveva ragione Michelangelo – da lui storpiato affettuosamente in ‘Michelaccio’ – l’opera è già contenuta nel blocco di pietra. Scolpire vuol dire togliere la materia in eccesso e rivelarla: è l’arte del levare, anzi del ‘torre’. Luce ed ombra danno forma, spessore e rilievo alla materia lavorata con maestria da Guadagnucci, e non è un caso che l’artista sia particolarmente attento, in fase espositiva, agli aspetti di illuminotecnica.
La disposizione delle luci ha estrema importanza. La conversazione fluisce libera, per associazioni di idee, attraverso notazioni mai banali, sempre sincere. Che ricordo ha dell’infanzia e della prima gioventù? “Non ho praticamente studiato. Un po’ di scuola primaria, allora si diceva elementare. Tutto quello che so, l’ho imparato da me. Sono completamente autodidatta. Non ho fatto l’Accademia. Per un po’ di tempo sono stato convinto che l’Accademia fosse il viatico necessario per diventare artista. Si sa, i professori… A 18 anni volevo fare l’arte, ed ero convinto che l’insegnamento fosse il toccasana. Ora direi giusto il contrario”. Da ragazzo com’era? “Ho cominciato a lavorare il marmo praticamente da subito. Da giovanotto ero bello, sai? (Mostra una sua foto da ragazzo in veste adamitica, con una posa che ricorda il Davide di Michelangelo, nella quale sfoggia un fisico snello e muscoloso, ndr). Ah, Michelaccio… Un tipo di talento, è arrivato qui prima di me”. Nella sua giovinezza è stato un fuoriuscito per motivi politici? “ Nel 1936 me ne sono andato in Francia, a Grenoble. Fuggii perché ero antifascista, e in Francia ho ottenuto i primi apprezzamenti da parte della
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critica. Erano gli anni del Fronte popolare. Poi è scoppiata la guerra e mi sono arruolato nella Legione Straniera, volevo combattere dalla parte giusta. Volevo vivere in Francia, imparai subito la lingua. Ricordo che nella Legione ci imposero un dettato in francese, per misurare la padronanza della lingua: io non feci nessun errore, tanto è vero che il sottufficiale sospettò di me, quando gli dissi che non avevo studiato. Ero italiano, temevano che fossi una spia. Forse la spia c’era, ma era un tedesco. Lo avvertii: stai attento a come ti comporti in battaglia, perché se fai scherzi il primo colpo è per te. Poi lui sparì. Dopo la sconfitta e l’armistizio entrai nella Resistenza”. Negli anni Cinquanta è tornato a Parigi? “Mi sono installato a Montparnasse. Avevo 35 anni, il quartiere brulicava di creatività, c’erano grandi artisti, che ho conosciuto personalmente. E’ stato detto: ‘La salvezza entra in casa di notte, come un ladro’. Ma io non dormivo, ero lesto ad afferrare quello che mi serviva per crescere”. A un certo punto ha lasciato Parigi ed è ritornato in Italia. “Ho preso il biglietto per Firenze per andare a vedere Michelangelo”. Ci sono dei suoi raffinati, sorprendenti bassorilievi di argomento sensuale, che Jean Clair ha definito ‘litofanie erotiche’. L’amore profa-
no per lei ha importanza, è fonte di ispirazione. Avrà conosciuto molte donne, sia francesi che italiane, non è vero? “Ah sì, le donne. Le italiane sono le più belle del mondo. Lo diceva anche Rodin, sai? Questione di misure, di proporzioni. Sono d’accordo. Certo le parigine ci sanno fare, sono sofisticate. Ma le italiane sono meglio, lo dico a ragion veduta, perché ne ho avute tante, sia delle une che delle altre. Ho incontrato anche delle giapponesi. Carine, ma spesso hanno il culo basso”. Si è sposato, ha figli? “Una volta, un po’ per gioco. Io avevo 62 anni, lei 22. Una ragazza di Massa, bella. Siamo andati in Comune e abbiamo firmato. Niente figlioli, ero io il bambino. Poi, arrivato a una certa età, le ho detto che era meglio separarci. Comunque ci vediamo ancora, anche se lei fa la sua vita e io la mia. Mai divorziati. Non so se ormai sia il caso di divorziare alla mia età”. A che cosa serve l’arte? “Domanda difficile. Ha a che fare con la bellezza. Non è possibile vivere senza la bellezza. Dunque si potrebbe forse dire che l’arte serve a vivere”. Chi è Gigi Guadagnucci? “Mi definisco un tagliatore di sassi. Scelgo un pezzo di marmo e ci guardiamo a lungo. Io gli dico: ‘Aspetta, verrà il tuo turno’. Poi viene il momento
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e ingaggio una dura battaglia contro la materia. Il fine è sempre quello: la bellezza. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per me. Ho fatto molto sport e anche molto amore. Però lavoravo anche duramente”. Come ottiene i particolari risultati di luminosità e trasparenza tipici della sua arte? “Per sbozzare la materia prima uso molto il disco diamantato. Se guardi le mie opere ti accorgi che io entro dentro il marmo, penetro all’interno del blocco. Non è un lavoro facile, fare una scultura tradizionale a tutto tendo è meno impegnativo. Io voglio ottenere le trasparenze, penetrando all’interno della materia. Se ci penso, è una metafora di quello che accade fra un uomo e una donna”. C’è un critico, o storico dell’arte che ammira? “Ho incontrato Antonio Paolucci, persona di grande competenza. E’ chiaro come l’ambra quando spiega o analizza qualche fatto artistico”. Ha avuto un legame con un artista versiliese come Arturo Dazzi, vero? “Era un uomo straordinario, meraviglioso, di grande bontà. E un artista bravissimo. Nel suo studio
ero di casa. E’ stato in disgrazia per motivi politici. Dicevano che era uno scalpellino, e solo perché aveva lavorato su commissione per il regime fascista. Io lo difesi, dicendo ai suoi critici che erano tutti matti. Dazzi era un artista, un uomo che viveva in maniera metafisica, senza alcun rapporto con i soldi. Io potevo difenderlo perché ero stato un fuoriuscito e un partigiano. Ci sono stati artisti ingiustamente perseguitati per motivi politici. In Francia, lo scultore Aristide Maillol scomparve misteriosamente nel 1944. Per me fu ucciso perché sospettato di essere un collaborazionista, ma non era vero”. Che effetto le fa sapere che stanno progettando di dedicarle un museo? “Non mi eccita per nulla. Non sono mica ancora morto, per questo finora non ho dato il via libera”. La vita? “Mi fa ridere pensare all’esistenza. La vita è buffa, è molto seria ma anche buffa. E’ difficile ma anche bella, direi che è una contraddizione. A Parigi ho conosciuto Prevert. Sai come diceva? ‘Padre nostro che sei nei cieli – Restaci’. A noi basta la terra”.
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Gigi Guadagnucci è nato nel 1915 a Castagnetola, sulle montagne massesi, non lontano dall’atelier che ha comprato negli anni Settanta. Scolpisce il marmo fin da giovanissimo, entrando a bottega da un artigiano locale e cimentandosi nell’arte funeraria. E’ qui che prende dimestichezza con il mestiere. E’ uno spirito libero, così ben presto entra in urto con il regime fascista e nel 1936 si trasferisce in Francia, stabilendosi a Grenoble, dove riprende la sua attività artistica. I suoi punti di riferimento sono Auguste Rodin e Aristide Maillol. Fra i grandi del passato, guarda al magistero di Donatello e naturalmente di Michelangelo Buonarroti. Allo scoppio della guerra si arruola nella Legione Straniera. Al momento della sconfitta entra nella Resistenza francese. A guerra finita, nel 1950 torna in Italia, dove rimane tre anni. Nel 1953 si trasferisce per circa un ventennio a Parigi, nel quartiere di Montparnasse, dove entra in contatto con gli artisti dell’epoca. In questo periodo viene riconosciuto dalla critica francese come uno scultore di prima grandezza, esponendo in numerose collettive e personali. Negli anni Settanta ritorna in Italia, acquistando l’abitazione-atelier di Bergiola. Per alcuni anni continua a dividersi tra Francia e Italia. A Parigi, nel 1983, il ministro della cultura Jack Lang gli concede l’importante onorificenza di ‘Chevalier de l’ordre des arts et des lettres’. Tuttavia gli anni Ottanta segnano il definitivo allontanamento da Parigi e la scelta di vivere e lavorare nelle amate colline massesi, anche se nel frattempo Guadagnucci aveva viaggiato fra Europa, Stati Uniti e Giappone. Sono gli anni in cui Gigi ottiene riconoscimenti significativi nella sua patria d’origine, esponendo a Milano, in Sant’Agostino a Pietrasanta, al Castello Malaspina di Massa, al Palazzo Ducale ancora nel capoluogo apuano. Realizza opere per il palazzo comunale di Massa e il Palazzo Ducale.
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ROBERTO PRUZZO L’ISTINTO DEL GOL
A colloquio con uno dei più prolifici centravanti di tutti i tempi: “Il migliore? Oggi è Messi” di Umberto Guidi
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ici Roberto Pruzzo e scatta il riflesso condizionato: affiora la parola bomber. E il motivo c’è: questo ex calciatore nato a Crocefieschi (un piccolo centro della Valle Scrivia in provincia di Genova) nel 1955, è stato un attaccante prolifico nel Genoa, dove ha esordito in serie A nel 1973, e soprattutto nella Roma. Con i Grifoni ha giocato 143 partite segnando 57 gol; fu anche capocannoniere della serie B nel 1975-1976, quando il Genoa riconquistò la promozione al campionato maggiore. Nel 1978 Roberto Pruzzo passò alla Roma, dove stabilì una serie impressionante di record: tre annate come capocannoniere (1981, 1982 e 1986), quattro Coppe Italia (e il titolo di capocannoniere nel 1980), lo scudetto del 1982-1983, il primo del dopoguerra per la squadra giallorossa. Al suo attivo ci sono 106 gol segnati per i colori della Roma, un primato superato soltanto da Francesco Totti. Pruzzo è stato spesso decisivo, l’uomo-partita, come si dice. Nella stagione ’85-’86, durante l’incontro Roma-Avellino, segnò tutti i cinque gol della squadra di casa; nel 1979 realizzò il gol della salvezza contro l’Atalanta e nel 1983 firmò la rete che assicurò lo scudetto alla Roma nella partita contro il Genoa. Resta negli annali del calcio la spettacolare rovesciata di Pruzzo che garantì il pareggio (2-2) alla Roma in un’infuocata partita contro la Juve a Torino: era il campionato 1983-84. Sua la doppietta contro il Dundee nella semifinale di Coppa dei Campioni del 25 aprile 1984: la “partita perfetta” vinta dai giallorossi per 3-0, che ribaltarono la sconfitta dell’andata. Non altrettanto memorabile la stagione finale alla Fiorentina (campionato 1988-89), anche se Pruzzo fu altrettanto decisivo nello spareggio del 30 giugno 1989 proprio con la Roma: il suo gol di testa garantì ai viola l’accesso alla Coppa Uefa. Deludente l’esperienza con la Nazionale: solo sei presenze e nessun gol. I commentatori spiegano questa anomalia con la scarsa propensione del ct azzurro dell’epoca, Enzo Bearzot, ad avvalersi del fiuto per il gol di Roberto Pruzzo. Fece scal-
pore, nel 1982, la mancata convocazione del capocannoniere romanista ai Mondiali di Spagna. Conclusa una carriera di calciatore carica di gloria, Pruzzo ha svolto l’attività di allenatore ed è tuttora commentatore televisivo. E’ apparso come calciatore, in tre film: “Don Camillo” del 1983, regia di Terence Hill; “L’allenatore nel pallone” di Sergio Martino, con Lino Banfi (1984) e “L’allenatore nel pallone 2” (Sergio Martino, 2007). C’è anche molta Versilia nella biografia di Pruzzo. Intanto perché ha sempre avuto casa da queste parti e poi perché la sua carriera di allenatore è iniziata proprio con il Viareggio calcio, nel 1998. “E’ proprio così. Dalla metà degli anni Settanta ho una casa in Versilia. Qui da voi ritorno ogni volta molto volentieri: personalmente non tanto per la vita di mare, che non amo in modo particolare, ma per ritrovare gli amici e frequentare gli ottimi ristoranti che questa zona offre. E così non mi nego puntate a Viareggio, Marina di Pietrasanta, Forte dei Marmi. Mia moglie e mia figlia, invece, sono anche amanti della spiaggia”.
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L’esperienza di allenatore delle Zebre non viene dimenticata dagli sportivi viareggini. Si ricordano tutti che è stato Pruzzo a ‘scoprire’ un campione come Di Natale, quando giocava nel Viareggio…” “E’ stata una emozione molto positiva allenare il Viareggio. Avevo un gruppo di ragazzi eccezionali, e anche se l’ambiente non è molto facile, conservo un ricordo piacevole. Quella con il Viareggio calcio è stata la mia migliore esperienza da allenatore”. “Genova o Roma nel cuore?” “Di fatto Genova. Sono un ligure della montagna, calcisticamente sono nato e cresciuto nel Genoa. E’ la mia terra e sempre lo sarà, conosco bene la città e la squadra, che galleggia continuamente fra la serie B e la serie A. Poi mi sono trasferito a Roma, che è la mia seconda patria, e dove sono rimasto a lungo, anche con innegabili soddisfazioni calcistiche”. Il gol è il momento più esaltante del calcio. Come si fa a segnarne tanti? “Ci si nasce, credo. E’ una questione di Dna, un istinto che ti guida. Ma ripeto, devi nascere con certe caratteristiche, non si possono inventare. Certo, hai il dovere di affinare questo dono che ti viene dato. Nel mio caso credo sia stato importante anche il fatto che non ho avuto grossi infortuni, ho avuto una carriera piuttosto regolare, senza contraccolpi fisici. E questo conta molto”.
Meno fortunata è stata l’esperienza della Nazionale. Come giudicarla oggi, a mente fredda? “Un’esperienza negativa, sotto tutti i punti di vista. Ho avuto poche occasioni in azzurro, e quello poche le ho sbagliate. Mi sono trovato in condizione di fare delle brutte figure. Devo dire che a quei tempi, nella Nazionale, c’erano delle gerarchie molto diverse da quelle di oggi. C’era un nucleo di 7-8 giocatori che doveva provenire da una squadra, come la Juventus, che all’epoca dettava legge. Poi ha contato anche lo scarso feeling con Enzo Bearzot, che per mia sfortuna è stato per lungo tempo alla guida della Nazionale. Quando è stato sostituito, la mia carriera era al termine”. Un giudizio sul calcio di oggi… “Forse questo per il nostro paese è uno dei momenti peggiori, siamo proprio a terra. Non so perché non nascono più campioni in Italia, forse è un momento così. Non saprei dare una spiegazione, probabilmente una volta c’era più ‘fame’, voglia di sacrificarsi e sfondare. Un campione del recente passato che ammiro è Baggio, un calciatore di grandi qualità. Oggi mi pare che il vero fuoriclasse sia Lionel Messi. Il Barcellona è una squadra esemplare, ma anche pericolosa: una formazione che va ammirata ma non certo imitata, il tentativo di copiarla si risolverebbe in un danno per chi ci provasse”.
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Intervista a vittorio guidi
figlio di Ugo Guidi e responsabile del Museo Ugo Guidi di Forte dei Marmi Nel 2012 il centenario della nascita di Ugo Guidi di Emanuela Mazzotti
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iorgio di Genova, in un commento all’opera di Ugo Guidi scrive che l’artista si qualifica per la sua “toscanità”, ovvero per uno stretto legame con la sua terra d’origine. Che cosa ha comportato questa scelta sul piano della diffusione dell’opera del maestro? La toscanità di Ugo Guidi è caratterizzata da un profondo legame artistico e affettivo col territorio. La profonda conoscenza dell’arte, mio padre è stato docente di scultura all’Accademia di BB.AA. di Carrara, gli ha permesso di amare le eccellenze di questa terra, dalle statue stele all’arte etrusca, dal romanico al Rinascimento e nel rapportarsi con loro ha sviluppato la sua arte in una costante e profonda ricerca con se stesso. Creando un’arte “per sé” non si è mai preoccupato di una sua diffusione. Credo che questa libertà e autonomia si sia riflessa in tutta la sua produzione ed oggi abbiamo la fortuna di poter godere di questo canto libero. Quali sono stati i legami artistici e d’amicizia che l’artista ha coltivato? Forte dei Marmi, soprattutto nell’immediato dopoguerra dagli anni 50-80 del ‘900, è stata un luogo scelto da numerosi uomini di cultura. Ugo Guidi era l’artista del luogo e a lui hanno fatto riferimento, diventando amici e sodali, Achille Funi e Giuseppe Migneco, Ernesto Treccani e Ardengo Soffici, Ottone Rosai e Piero Santi, Mirko e Bruno Cassinari, Arturo Dazzi e Arturo Puliti, Antonio Bueno e Primo Conti, Ugo Capocchini e Gianni Dova, Emilio Greco e Enzo Faraoni, Mino Maccari e Alfonso Gatto, Luigi Dallapiccola e Rapahael Alberti, Mario Luzi e Luciano Bianciardi…sono certo di dimenticarne moltissimi! Oggi la sua casa è l’unica testimonianza rimasta a ricordo di quella stagione. Enti ed istituzioni dovran“Testa di donna”, 1954, terracotta, h. 36x28x25 cm
no collaborare per cercare di mantenere alla fruizione di tutti questo patrimonio fino ad oggi salvato e preservato unicamente dalla famiglia. Quale artista, a suo parere, ha avuto un’influenza determinante nel lavoro dello scultore? Un suo ex allievo recentemente mi ha raccontato che quando andava all’ Accademia trovò mio padre una mattina fermo davanti ad un gesso di un’opera di Tino di Camaino, la stessa cosa successe per molti
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giorni di seguito e lui si domandava cosa ci trovasse di così interessante per passare lunghi momenti di fronte a quell’opera. La risposta l’ha avuta visitando la casa-museo dove si rilegge nell’opera di Guidi una matura presa di coscienza e conoscenza della storia dell’arte che l’artista reinterpreta e fa sua attraverso una creazione incessante. Ugo Guidi è artista del suo tempo e come tale ha vissuto l’esperienze del momento; anche i riferimenti che spesso vengono fatti fra i suoi cavalli e quelli di Marino Marini sono riconducibili a un comune sentire del momento ma appartengono a situazioni artistiche e stilistiche completamente autonome anche nelle soluzioni formali. Che tipo di ricerca ha determinato la scelta di sperimentare materiali al tempo inusuali per la scultura come il cemento o la ceramica? Mio padre unisce la ricerca alla curiosità creativa della sperimentazione. Nasce, come tutti gli sculto“Figura ferita”, 1974, tempera, 50x35 cm
ri, col marmo per poi passare alla pietra ed in particolare al tufo della Versilia, roccia calcarea, disomogenea, spesso fratturata ma ricca di gradazioni di grigi che lo stimolano nella creazione artistica. Lavora poi il legno, la lamiera, il gesso, il bronzo, l’alabastro, l’argento. Ecco perché non poteva mancare anche il cemento o la ceramica, anche se su quest’ultima interviene ricoprendola con della pece, sì pece per sigillare imbarcazioni, perché l’opera non riluca in accattivanti richiami ma continui a manifestare tutti i valori plastici e scultorei. Come avviene il passaggio da un linguaggio arcaico, primitivo, ad uno sostanzialmente astratto? Nelle visite guidate alla casa-museo mi piace raccontare che Michelangelo asseriva che nel blocco di marmo esiste già la scultura e basta “togliere il soverchio” mentre mio padre esegue un percorso inverso in quanto arriva a reinserire la figura nel blocco, mimetizzandola in esso. Partito da un naturalismo classico il suo linguaggio si evolve in una figurazione che col progredire degli anni ha sempre meno bisogno di dettagli per esprimersi. In questa lenta evoluzione per raffigurare una figura, ad esempio, non è necessario mostrare braccia o gambe, e così col progressivo togliere si arriva a quelle opere che mio padre chiama “Totem”, puri parallelepipedi, recupero di forme primitive, conquistate dopo un lungo e faticoso percorso di creazione artistica. La scultura artistica toscana aveva al tempo ( tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta) una vocazione al modernismo? intendo dire: si desiderava rinnegare almeno in parte la tradizione in nome del progresso, come avveniva in altre aree geografiche in Italia e altrove? Mio padre non rincorre correnti o mode, è fermamente ancorato alle sue certezze e l’evoluzione della sua arte è frutto di una profonda macerazione interiore. Il suo progresso consiste nella rivalutazione della tradizione. Lei crede che l’opera astratta in scultura sia effettivamente coerente? Le rispondo con le poche parole scritte da mio padre, che ha sempre privilegiato il fare al dire: “L’arte non può essere né tutta emozioni né tutta armonia. Ci deve essere sempre un riferimento alla vita, nell’opera. Io credo che anche quelle opere che co-
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munemente si chiamano astratte, non lo siano completamente.” Quale eredità ha lasciato il Maestro Guidi? Innanzitutto la sua docenza all’Accademia ha fatto sì che oggi la maggior parte degli artisti che operano e insegnano sul territorio siano stati suoi allievi. Inoltre le sue opere, oggi catalogate dalla Soprintendenza, testimoniano l’arte di uno scultore che, lavorando libero da qualsiasi condizionamento di moda o mercantile, ci restituisce l’emozione di un sentimento profondo nel rapporto con la natura. E’ entusiasmante vedere come giovani, studenti, universitari si avvicinino alle sue opere trovandovi stimoli vitali per riflettere, creare poesie, video, installazioni, dipinti, scritti, tesi. La sua casa è oggi sede d’esposizione di mostre, concerti, letture, conferenze. Il Comune di Forte dei Marmi è promotore con i Comuni di Pietrasanta e Seravezza delle manifestazioni per il centenario della nascita (14 settembre 1912), scuole e istituti svilupperanno l’attività didattica su questo appuntamento. Si prevede un anno di celebrazioni che ha il suo incipit con questa intervista. Ugo Guidi (a destra) con Giuseppe Migneco a Forte dei Marmi nel 1972 “Il portiere”, 1969, travertino (stadio comunale di Forte dei Marmi)
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LUIGI GALLIGANI, la scultura come vita di Emanuela Mazzotti
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a sua scultura, decisamente antimonumentale, si qualifica tuttavia per le sue costanti relazioni con il paesaggio. Quale ruolo assume lo spazio, inteso come contesto e confronto così come parte necessaria, costitutiva dell'opera d'arte? Il mio lavoro si qualifica per le sue relazioni soprattutto con il paesaggio marino, che ne è il motivo ispiratore fondamentale: il mare, come elemento metafisico, in un certo senso astratto, con le sue implicazioni psicologiche, con il suo aspetto continuamente mutevole e misterioso, fa da scenario alle mie immagini: diventa esso stesso un elemento mentale in intimo connubio con le figure. Come nasce la sua scultura, quali fonti d'ispirazione? La scultura nasce, nel mio caso, come elemento liberatorio che attraverso la Forma Ideale, non realistica tanto per intendersi, vuole costruire un’umanità nobilitata e allo stesso tempo “lonta-
Sopra: “Sirena con lo specchio” A destra: particolare della “Sirena con lo specchio”
na”, lontana da un mondo che le è estraneo e che non la capisce. I maggiori dettagli che caratterizzano le mie opere di questi ultimi 11 anni, rispetto a quanto facevo nel periodo precedente non determinano un maggiore realismo, anzi potenziano maggiormente questa “Lontananza”, questo aspetto “Lunare”proprio di chi vive in un altro ordine mentale. L’Acqua, la Terra e anche l’Aria sono gli elementi base della mia
ispirazione plastica, gli elementi primari (al di là della Cultura stessa) che mi suggeriscono l’immagine umana: poi su questi elementi si è innestato un patrimonio culturale che ha arricchito la mia visione e gli ha dato, per così dire l’aggancio con la storia e con il presente.
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“Partenope con ninfee”
Cosa significa classico per Lei? Si riconosce nelle interpretazioni che la critica ha dato del termine in ragione del suo lavoro? Ho apprezzato molto, per quanto concerne il termine “classico”, le parole di Francesco Adorno che, parlando appunto del linguaggio della mia opera, afferma che tale termine deriva dal latino “classis”, cioè “flotta”, (secondo l’interpretazione di Aulo Gellio) in cui ogni elemento ha la sua precisa posizione, il suo ruolo, la sua importanza e che è parte indispensabile del tutto. Quindi non neo-classico che potrebbe, oltretutto, indicare una posizione nostalgica e per così dire “datata”, ma classico in quanto l’economia dei mezzi espressivi porta ad un’ espressione limpida in cui ogni aspetto diventa assolutamente necessario e funzionale all’effetto finale. Arturo Martini sosteneva che la scultura è “lingua morta”
come territorio delle immagini per quel tanto di episodico che talvolta l'accompagna. Lei riconosce oggi la validità dell'affermazione? Tutte le lingue sono morte e tutte le lingue sono vive: dipende da come noi le usiamo; se ne facciamo uso per raccontare aneddoti, situazioni episodiche molto circoscritte, per cavalcare mode temporanee o per evocare tempi lontani, è chiaro che moriranno presto. Se invece diventano strumento per comunicare il proprio mondo poetico, i propri drammi esistenziali, il proprio tempo, allora si vivificano e sono valide sempre, in ogni momento della Storia. Ho sempre ammirato l’opera di Arturo Martini, ma non condivido il fatto che la scultura sia “lingua morta”: ritengo che questo fosse in sostanza l’espressione di uno sgomento esistenziale, di un’amarezza profonda del grande scultore in un periodo particolarmente drammatico
per l’Italia e per il mondo intero. Per quel che ne so io, nel corso della Storia umana ci sono stati periodi in cui determinati linguaggi sono stati trascurati, non capiti, ma ciò non vuol dire che non siano stati efficaci, pertinenti e capaci di interpretare in modo originale una determinata epoca. La scultura vive e si rende interprete del suo tempo, ancora oggi, nonostante tutto: Arturo Martini la riteneva un’Arte incapace di trasformarsi nel corso della Storia, sempre uguale a sé stessa, inadatta ad accogliere il nuovo e ad esprimere nuove situazioni e realtà: io, in questi primi anni del terzo millennio, a posteriori, vedo come una benedizione la resistenza della scultura a tanti pseudo – rinnovamenti: ciò che accade nella scultura, accade sempre più lentamente, ma è una lentezza sacrosanta, una lentezza che fa spazio al pensiero profondo e che esclude, di necessità il
“Circe con leone”
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ciarpame e le discutibili euforie del nostro presente. Perché il mito si dimostra ancora capace di una fascinazione così potente? Molti dei nostri pensieri, molte delle nostre ansie, delle nostre paure hanno un’ origine antichissima: il Mito dell’area mediterranea ci racconta in forma estremamente fantasiosa il credo di questi antichi popoli che come noi si ponevano certe domande, avevano determinate paure, desideri speranze.Tanti aspetti del nostro attuale modo di pensare provengono da quel mondo che non esiste più concretamente, ma che continua a vivere in noi negli strati fondi della nostra mente. La dimensione del Mito mi interessa particolarmente perché mi permette di trattare la figura umana in una luce nobilitata, e conseguentemente mi consente di rispondere polemicamente ad un periodo storico in cui l’essere
“Sirena 2011”
umano è drammaticamente appiattito e banalizzato. In un testo critico a firma di Paolucci si declina il suo linguaggio in termini di “ambiguità e ubiquità”, può spiegare che cosa si intenda? Paolucci intendeva riferirsi al fatto che frequentemente le mie figure, sono a metà strada tra terra e mare, tra terra e cielo, che possono essere in ogni luogo e che abitano volentieri luoghi per così dire “di frontiera”. A questo termine “ambiguità” che egli definisce amabile, aggiungerei un’altra doppiezza più inquietante che si riferisce più specificatamente alla dimensione etica e cioè la coesistenza, nell’essere umano, di aspetti drammaticamente contrastanti quali la Bellezza e la Ferocia, (come nelle mie Sirene, che attirano ma che possono alludere ad un pericolo mortale), la Sapienza e la Crudeltà (come nel caso di Minerva,
“Maga con gufo”
dea appunto della Sapienza, ma capace di punire terribilmente Medusa). L’aspetto insidioso, raccontato nel Mito antico, sotto forma di favola immaginaria si ripropone con diverse modalità, perché è, nella sua sostanza, assolutamente contemporaneo. C’ è un diffuso senso del pericolo ovunque, c’è anche l’incertezza del futuro, la doppiezza nei rapporti interpersonali viene fuori in ogni circostanza e questa umanità non chiara, “doppia” appunto, costruisce con tenacia e pazienza la sua Apocalisse. Esiste una linea dell'arte toscana oggi? E' possibile individuare un gruppo di artisti che danno corpo ad una storia di tradizioni e continuità tutte toscane? Ritengo che chi nasce in Toscana abbia un retroterra culturale di grande spessore anche se non sempre facilmente gestibile: la Storia dell’Arte che ci ha prece-
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“Tritone con conchiglia” (particolare)
“Tritone con conchiglia”
duto e che io categoricamente mi rifiuto di definire con il termine di “Tradizione”, (poiché è la dinamica storia dei cambiamenti del pensiero estetico nel corso dei secoli, mentre la parola “tradizione” ha una valenza statica, “senza novità”, senza rischi) può essere una grande ricchezza, ma può diventare anche una pericolosa palla al piede. Dipende da come un artista si pone davanti alla Storia dell’Arte: se di fronte ad essa si sente libero, per lui questo immenso patrimonio è e sarà sempre una ricchezza, una miniera inesauribile di temi, argomenti e problematiche su cui costruire poi la sua visione del mondo; se invece si sente schiacciato dal peso di questo patrimonio, è molto probabile che si inneschi dentro di lui un processo di rifiuto totale per approdare ad altri mezzi espressivi e ad altri risultati. Non ci sono regole fisse: ognuno è un caso a sé stante e la realtà dell’Arte di oggi vede in contemporanea sia l’una posizione che l’altra: anche in Toscana
succede questo. Come giudica il mondo dell'arte contemporanea? Abbiamo una grande libertà espressiva, possiamo far tutto e il contrario di tutto ma il nostro spessore umano è scarso. Come è inquinato il mondo in cui viviamo, anche l’arte contemporanea è inquinata: l’umanità vive un periodo storico più che drammatico, apocalittico ed è impensabile che l’Arte non risenta di ciò che cuoce in questo calderone infernale. Purtroppo ho poche parole e aggettivi poetici da spendere per la situazione artistica attuale e poi francamente mi irrita il linguaggio di oggi, sovraccarico appunto di aggettivi spesso immeritati con cui si vorrebbe celebrare la spontaneità, il lirismo, la solarità del “fare artistico”. Non prendiamoci in giro: siamo tutti figli di Caino e raramente l’innocenza la fa da protagonista. Credo che l’Arte, da sola, non abbia il potere di salvare il Mon-
do, né tanto meno la capacità di eliminare le guerre dallo scenario internazionale. Le nostre testimonianze artistiche, (se sono veramente artistiche), servono solo a chi è già ben predisposto ad ascoltare il messaggio poetico; gli altri, i cinici, gli affaristi e i furbi se ne stanno prudentemente al di fuori ; ecco, per loro davvero, l’opera d’arte sarà sempre “lingua morta”.
“Sfinge” (particolare)
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IL TANDEM DELLO STILE Massimiliano ed Enrico: dalla loro amicizia è nato “Max’En”, il negozio di abbigliamento maschile di qualità
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l tema, semplice, è questo: può un’amicizia giovanile trasformarsi in un sodalizio commerciale solido e di successo? La risposta è ‘sì’, se si guarda all’esperienza di Massimiliano Rosi ed Enrico Iacomini, due fortemarmini doc, che da un decennio gestiscono col vento in poppa ‘Max’En’, un piccolo ma affermato negozio di moda uomo, settore medio-alto. Situato in via Roma, è il negozio di dimensioni contenute, ben curato, una volta tipico di Forte dei Marmi, un genere adesso sempre più difficile da trovare, incalzato com’è dall’avanzata del monomarca e delle grandi griffe. I marchi sui quali Enrico e Massimiliano hanno costruito la loro affermazione sono solidi e di qualità. Citiamone alcuni: Barba e Gherardi per le camicie sartoria-
li, Lardini, Tagliatore, Calvaresi per le giacche e l’abbigliamento maschile in genere, Kangra per il cashmere, Marinella per i profumi, e così via. Massimiliano ed Enrico (la ragione sociale è una sintesi dei loro due nomi) ce l’hanno fatta puntando soprattutto sulla qualità e sulla cura della clientela. Quarantenni, entrambi sposati, con un grande amore per lo stile e voglia di crescere. Entrambi hanno cominciato da commessi. A suo tempo entrarono nel settore per motivi diversi: Enrico perché – confessa – non aveva troppa voglia di studiare, Massimiliano perché era attratto dalla moda. La collaborazione fra i due è così stretta che l’intervista procede su un binario doppio: rispondono all’unisono, oppure uno è pronto
a sostenere e integrare le ragioni dell’altro. Cominciamo. Come avete realizzato il vostro sogno di mettervi in proprio? “Eravamo amici da tempo, ed entrambi lavoravamo nel settore, ovviamente come dipendenti. Io (è Enrico che parla), in un importante negozio di calzature, Massimiliano nell’abbigliamento. A un certo punto ci siamo detti: ci piacerebbe mettere su qualcosa di nostro, perché non facciamo il grande passo?Abbiamo rischiato e c’è andata bene”. E’ filato tutto come previsto fin dall’inizio? “Abbiamo apportato delle correzioni strada facendo. Per esempio, avevamo cominciato pensando di puntare su articoli che fossero di buona qualità e prezzo abbordabile. Poi però abbiamo
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visto che ragioni commerciali – e anche la ricerca della qualità – ci portavano irresistibilmente verso un prodotto di fascia più alta. Abbiamo seguito l’intuizione e il negozio si è trasformato, dobbiamo dire con successo. Dopo dieci anni possiamo affermare di essere radicati e di viaggiare con una certa tranquillità commerciale. Siamo tranquilli ma non ci siamo arricchiti, perché tendiamo ad investire molto”. Questo è vero, tant’è che avete aperto un secondo negozio, a pochi passi di distanza, sempre nella centralissima via Roma. Il ‘Mason’s’ è qui all’angolo ed è dedicato all’abbigliamento femminile. E poi avete anche un outlet a Marina di Carrara. Ma restando all’ormai decennale ‘Max’En’: non avete risentito della crisi? “Per la verità no. Abbiamo avuto un tasso di crescita costante, che non si è invertito neppure dopo il 2008. Anzi, dobbiamo dire che l’anno migliore, per certi versi irripetibile – parliamo di incassi, perché come ho detto investiamo parecchio – è stato il 2010. Non sappiamo se riusciremo ad avere
gli stessi risultati nel 2011. Forse quest’anno c’è stato un relativo calo nella propensione agli acquisti del nostro pubblico. Persone che prima venivano qui e compravano quattro o cinque capi, ora si mostrano più caute, magari si limitano ad acquistare un paio di pantaloni o una camicia”. Qual è il vostro pubblico, e che atteggiamento avete nei confronti degli acquirenti? “Pochi fortemarmini, molti forestieri, soprattutto milanesi ed emiliani. Sono numerosi anche gli stranieri. Con quasi tutti nasce un rapporto di amicizia, vediamo che molti tendono a ritornare. Noi facciamo del nostro meglio per consigliarli, anche se qualcuno ha le idee chiare, arriva e chiede un determinato oggetto a colpo sicuro. La maggior parte dei clienti dimostra di apprezzare il negozio per le sue caratteristiche di ‘calore’ umano, ci dicono spesso che si sentono a loro agio. Per le dimensioni, le caratteristiche, l’atmosfera che si respira qua dentro. Abbiamo clienti che abitano negli Stati Uniti e ci scrivono via mail per ordinarci degli articoli”.
Il vostro tandem funziona bene. Come vi siete divisi i compiti? Spontaneamente o in seguito a un ragionamento fatto a tavolino? “Io – è Massimiliano a parlare – sono più portato per le pubbliche relazioni, gli allestimenti, le scelte estetiche. Enrico è versato nelle questioni amministrative e finanziarie. E’ una divisione dei compiti che è venuta spontaneamente, e comunque non è rigida. Le decisioni le prendiamo insieme, per esempio gli acquisti, le scelte importanti”. E non litigate mai? “Certo che si litiga – interviene Enrico – anche perché siamo amici ma diversi. Politicamente uno è di destra e l’altro di sinistra, uno tiene per la Juve e l’altro per l’Inter. Di politica comunque non parliamo mai, ci limitiano a sfotterci a vicenda sul calcio”. State insieme anche quando non lavorate? “Non è possibile, perché il negozio è sempre aperto e prendiamo le ferie a turno”. Max’en S.r.l. Via Roma, 14, - 55042 Forte dei Marmi Lucca tel. 0584 784202 maxensrl@virgilio.it
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Giancarlo C
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Jazzing Everything Le “facce del Jazz”
a cura della dott.ssa Diletta Biondani Spaziotindaci - Art Consultant
I
l pittore Giancarlo Cazzaniga, invitato già negli anni '60 alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, è protagonista di quella tensione culturale, nella vita e nell'arte, definita poi Realismo Esistenziale, che vide nella Milano degli anni ‘60 un fertile terreno di sperimentazione attraverso la pittura e attraverso la musica, nella fattispecie il jazz. Dopo il secondo dopoguerra, in Italia come in Europa, si assiste ad un’ansia crescente data da una condizione di sgomento, di disagio provocata dalla guerra stessa. Per questo motivo l’analisi della condizione umana si sposta da tematiche sociali e populiste ad una dimensione più intima e privata. Dalle epopee operaie e contadine, l’arte si comprime nello spazio di una stanza, nel lamento di un sassofono, nel luccichio anonimo della plastica di un’insegna al neon. In quest’ottica la pittura di Cazzaniga si compone di pause e ripetizioni, di corrispondenze tra colore e ritmo musicale, egli scompone l’immagine e l’azione in momenti separati, in singoli fotogrammi sovrapposti in un’azione che ha radici profonde nel futurismo e che risente del fascino dell’astrattismo. Dall’incontro e l’amicizia con personaggi come Chet Baker, Franco Cerri o Giorgio Gaber nacque il profondo amore del pittore per il jazz, soprattutto per ilCool Jazz: il jazz freddo. Da tutto questo derivano i suoi Jazzman e la sua pittura fatta di luci scure e dense di ombra, di gialli fluorescenti innervati di scintille biancastre, di note cromatiche cavernose, come il sax dipinto sempre con segno incisivo e nervoso. Si sente che vengono dal ventre.
Carlo Castellaneta Dico subito che a Giancarlo Cazzaniga ci sono tre cose che mi accomunano: la milanesità (che in campo artistico significa fedeltà ai propri temi e rifiuto di intellettualismi), l’età (siamo nati entrambi nel 1930) e la passione per il jazz. […] Così ogni volta che guardo una sua opera ritrovo le tracce di esperienze che, ognuno per conto suo, abbiamo fatto negli stessi anni: il cinema di Antonioni, i romanzi di Robbe-Grillet, il teatro di Sartre, le jamsession all’Aretusa e al Santa Tecla, il dixieland e il cool jazz bevuti a sorsate. Una sbornia salutare per noi che, a vent’anni, cercavamo la nostra strada e sognavamo di cambiare il mondo. Ecco perché. Ancora oggi, quando incontro una sua opera della serie Jazz-man (dipinto o incisione che sia) ritrovo le atmosfere di quegli anni ruggenti. Rivedo il piatto del batterista vibrante sotto i colpi di spazzola, lo scintillio del sax alla luce delle lampade, la cortina di fumo azzurro che si alzava dalle file dei fumatori, il ghigno del pianista, gli strilli d’incitamento delle ragazze, in un batticuore che il ritmo della musica sollecitava fino all’orgasmo. Parlo di cinquant’anni fa e sembra ieri. Sarà che Giancarlo ha conservato la stessa faccia di ragazzo di quando, non ancora baciato dal successo, scambiava i suoi olii con piatti di tagliatelle delle Sorelle Pirovini, e poi andava a giocare a boccette fino alle tre di notte nel mitico bar dell’Oreste. Era una Milano che, a pensarci adesso sembra una favola, piena di personaggi incredibili, come Lucio Fontana che teneva banco al Giamaica parlando
Cazzaniga Le “facce del Jazz”
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di spazialismo con la sua cadenza sudamericana, e Morlotti che calava il settebello al tavolo dello scopone. Ecco, di questa Milano che prima di ogni città italiana aveva scoperto il jazz e sognava di diventare New York, Giancarlo Cazzaniga è stato con i suoi dipinti il cantore. Anzi il poeta. ...Cinquant’anni di pittura in rigoroso profilo, dialogo intimo, immersione profonda. Un cammino intenso, iniziato con rara tenacia di adolescente a Monza e proseguito a Milano, tra le ferite ancora aperte della città in ricostruzione, ideali e difficoltà, convinzione e incertezze. Oggi più di ieri desta stupore l’immutabile freschezza della tela di Cazzaniga. Forza, immediatezza e passione ancora palpitano come innamoramento della prima stagione. Risaltano in sonorità autentica e declamano la coniugazione spontanea e felice di tecnica e anima. Il lungo percorso ha attraversato il tempo ma non scalfito la tempra. I silenzi musicali, le immagini poetiche, i tratti dello spirito.
“Ginestre”, olio su tela, 30x40 cm
II motivo conduttore, filo logico della vita e della pittura, non ha subito sbavature, non ha perso ritmo né vigore. Solo mutamenti linguistici, variazioni espressive in corso d’esecuzione, ma l’autobiografia, manifestazione intima del proprio essere, ha solcato svolgimento coerente. Gli interni anni Cinquanta configuravano il perimetro del vivere quotidiano, la proiezione verso il mondo partendo dal luogo di meditazione. Erano veste dell’animo, geometria o geografia di un epicentro emotivo, luogo in cui convergevano gli impulsi esterni. Interni perpetrati e idealmente intatti ancor oggi nella dimensione del vivere, nell’accostamento esistenziale delle cose, giornali, colori, memorie, stralci, cose inanimate, cose parlanti. Nel silenzio della luce che pervade improvvisa, nel riparo dell’angolo in ombra, nell’isolamento della volontà e nel codice della porta aperta. L’interno è l’intimo. Dialogo e non confessione monologo. E’ tracciato di dimensioni, dichiarazione esistenziale di territorio da condividere. Testimoniare se stessi non significa peccare di presunzione e invadere obbligatoriamente con il proprio io. Significa proporre un angolo prospettico, una visione della vita con la sobrietà di chi partecipa pienamente, nell’anima e sulle spalle. E discuterne, perché la certezza è un bene altrove. Nel Jazz si fondevano passato e futuro. Segregazione e universalità, voci di lontana sofferenza e desiderio di ridisegnare il mondo. II mondo non è cambiato molto ma un poco si e il Jazz è divenuto anche bianco e i colori della pelle non sono discrimine assoluto come un tempo. E il Jazz è rimasto nei sentimenti e nella tavolozza di Ca.zzaniga. E’ un mondo, un linguaggio, strumento di comunicazione, bandiera di unione, verità nell’acuto che risuona e nel fendente dentro. Jazz man, l’improvvisazione liberatoria diviene coralità di appartenenza e un pensiero si traduce in civiltà. Dei musicisti Jazz dipinti sulla tela, Cazzaniga ha ascoltato parole e silenzi, lacerazioni di tempo e storia, attese, sogni e ideali. Ha condiviso luci e ombre dell’ani mo, spazio e meraviglia del suono. Ha percorso le strade della notte sino all’alba al sole, al cielo che si staglia oltre una pianta in fiore.
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L’auto elettrica è già qui Pulita e silenziosa, rispetta l’ambiente A colloquio con il patron di Guidi Car: “Credo che il futuro sia nei veicoli ibridi”
L
a rassegna ArteForte 2011 offre un servizio in più: un’auto elettrica di cortesia per accompagnare gli ospiti della manifestazione, nel pieno rispetto dell’ambiente. La vettura, la Mitsubishi i-Miev, è una minicar a propulsione elettrica lunga quasi 3,40 metri, capace di trasportare quattro persone. Il suo motore elettrico, alimentato a batterie agli ioni di litio, eroga
una potenza utile di 47 kilowatt ed ha un’autonomia di circa 150 chilometri. Silenziosa e non inquinante, dall’accelerazione immediata – caratteristica dei motori elettrici – la Miev è il veicolo ideale per muoversi a Forte dei Marmi, con emissioni pari a zero e notevole silenziosità. Una macchina come questa è in funzione anche al Twiga per l’accompagnamento di ospiti.
Ma davvero le auto elettriche sono la risposta alle esigenze delle moderna mobilità urbana? Ne parliamo con Marco Guidi, titolare della Guidi Car, la concessionaria attraverso la quale la Mitsubishi ha fornito Miev agli organizzatori di ArteForte 2011, in comodato d’uso, come è avvenuto con il Twiga. Guidi Car è un’azienda leader, sorta come concessionaria Mercedes
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nel 1969, presente con proprie sedi a Lucca, Massa, La Spezia e Montecatini Terme. I marchi rappresentati sono appunto Mercedes, Mitsubishi, Volkswagen, Audi e Smart. Marco Guidi è, in un certo senso, “figlio d’arte”: la rete di concessionarie venne infatti fondata dal padre Guido e adesso è diventata un’azienda di famiglia. Dunque, il futuro dell’automobile è elettrico? “Bisogna distinguere. Le macchine elettriche vanno bene per percorsi brevi. Questo veicolo è un ‘ovetto’ abbastanza comodo per quattro persone, con una autonomia di 100-150 chilometri, completati i quali è necessario fermarsi e ricaricare le batterie. La ricarica è di due tipi: quella veloce, che richiede comunque un paio d’ore di sosta, e la ricarica completa, per la quale servono 6-8 ore. In compenso il costo di esercizio è piuttosto economico: un ‘pieno’ di energia costa solo 2 euro. Altri vantaggi sono la brillantezza del propulsore, la silenziosità, l’assenza di scarichi inquinanti. L’altro dato che condiziona negativamente lo sviluppo dell’auto elettrica è rappresentato dal costo iniziale: in questo momento il prezzo di Miev è sui 30mila euro. Dunque per rispondere alla sua domanda, al momento la prospettiva dell’auto elettrica è limitato all’utilizzo da parte di enti pubblici o società che siano disposte a investire per una mobilità cittadina non inquinante e a breve raggio. Se voglio fare un viaggio lungo, l’auto elettrica non è adatta. Anche se
ci sono stati tentativi di risolvere il problema…” Quali? “Uno studio ha immaginato di creare una rete di ‘rifornimento’ per auto elettriche, alla quale ci si potrebbe rivolgere per sostituire la batteria esausta. Quando uno è a corto di energia, va al ‘distributore’, lascia la batteria scarica e prende quella carica. Questo presuppone che le batterie siano intercambiabili, sostanzialmente di proprietà della società che effettua il servizio, e – cosa più importante – tutte uguali. Ma forse ci sono troppi problemi pratici, anche perché cambiare le batterie a un veicolo di questo tipo ogni 100-150 chilometri è una cosa piuttosto complicata, almeno al momento attuale”. E allora dobbiamo tenerci benzina e gasolio, o comunque i motori a combustione interna? “Io vedo interessanti prospettive per i veicoli ibridi, dotati cioè di due motori: uno elettrico e uno termico. Queste automobili utilizzano il propulsore elettrico in città e sfruttano la combustione interna quando serve. Parliamo di veicoli che hanno prestazioni brillanti e sono dotati anche di dispositivi che sfruttano – per esempio – le frenate per recuperare energia. Questa è una soluzione che fa intravedere sviluppi promettenti, anche in tempi piuttosto ravvicinati. Poi sullo sfondo, rimane il sogno del motore a idrogeno. Se si riuscisse a realizzarlo a costi e modalità accessibili, sarebbe la risposta a molti problemi. Ovviamente
questa soluzione non è dietro l’angolo, l’ibrido è più a portata di mano e già oggi sta entrando nei listino di diverse case automobilistiche”. Dunque anche chi vende automobili si preoccupa dell’ambiente? “Certo. Le case automobilistiche investono molto per ottenere auto sempre più ‘pulite’. Personalmente ritengo che nei centri urbani dovrebbero circolare meno automobili, che rimangono tuttavia insostituibili per i viaggi a media e lunga percorrenza. Pensiamo a città come Lucca o Forte dei Marmi liberate dal traffico: sarebbero molto più belle. Sono convinto che la sostenibilità ambientale sia importante. Tanto è vero che nella nostra concessionaria di Lucca abbiamo installato un tetto fotovoltaico in grado di produrre energia elettrica pulita”.
60 LORELLA PAGNUCCO SALVEMINI
L’ARTE SPIEGATA A MOLTI
Lorella Pagnucco Salvemini e la scommessa di “Arte In”: il giornalismo di qualità contro la cultura ermetica e respingente di Umberto Guidi
L
orella Pagnucco Salvemini è un’elegante signora bionda, discendente di Gaetano Salvemini, nobile figura di meridionalista del Psi a cavallo di Ottocento e Novecento. La signora è una storica dell’arte, una giornalista culturale, una scrittrice e una innamorata della Versilia. Nel 1988 ha co-fondato un affermato periodico d’arte, “Arte In”, che oggi controlla e dirige. Seduti a un caffè di Forte dei Marmi, parliamo di arte, di editoria e di Versilia. Come è nato questo suo interesse per le arti figurative, e come è arrivata a fondare la rivista “Arte In”? “Per la verità il mio primo amore è la scrittura. Ma poiché è difficile vivere di sola letteratura, mi sono dedicata al giornalismo culturale. In seguito all’incontro professionale con Giancarlo Calcagni ho indirizzato i miei studi verso la storia dell’arte. Nel 1988 abbiamo fondato la rivista. All’inizio era una piccola pubblicazione in bianconero, di 74 pagine, ma nella mente di Calcagni aveva comunque mete ambiziose. Voleva portare l’arte nelle case, alla portata di tutti, superando quella sorta di intimidazione che può colpire chi si trovi a confrontarsi con la galleria di grido o il critico dal linguaggio poco comprensibile”. E’ un aspetto importante. “Arte In” si presenta come una pubblicazione rigorosa ma anche di taglio accessibile, giornalistico nel senso ‘alto’. C’è implicita una presa di distanza da una certa critica, che si compiace di espressioni oscu-
re, di frasi ermetiche e talvolta preconfezionate? “Il linguaggio criptico e super specialistico rischia di allontanare i non addetti ai lavori che pure hanno preparazione culturale e interesse nei confronti delle arti. Uno dei miei maestri è stato Tommaso Paloscia, un grande giornalista che si occupava d’arte. Quando gli consegnai il mio primo articolo me lo fece riscrivere in modo, disse, che potesse essere capito da tutti. Anche oggi, cerchiamo di essere comprensibili senza sacrificare la complessità. La sfida è questa, insomma”. E la rivista è molto cambiata? “Siamo al ventiquattresimo anno di pubblicazione. La rivista ha mutato veste grafica e cambiato proprietà un paio di volte. Calcagni e io siamo rimasti sempre alla direzione, finché, tre anni fa, Giancarlo è morto. Allora l’ho rilevata anche come proprietà. E’ stato un passaggio difficile, perché ha coinciso con l’emerge-
re della crisi economica globale. Ogni crisi comporta una sfida e io l’ho raccolta. Conoscendo bene il prodotto e anche che cosa mancava, ho introdotto rapidamente alcune innovazioni. Ho cambiato tipografia, modificato tiratura e distribuzione. Sono riuscita, per esempio, a far vendere ‘Arte In’ negli autogrill. Ora è presente in 72 punti della rete autostradale italiana. I risultati di tutto questo non sono mancati: sono aumentate le vendite e conseguentemente la pubblicità, passata da 19 a 51 pagine”. Questo dimostra ci sono risposte giuste ai problemi posti dalla crisi. E l’impianto culturale della rivista? “Mi sono ispirata al motto ‘innovazione nel solco della tradizione’. Ci occupiamo dell’arte contemporanea, ma non rinunciamo – ogni tanto – a dare uno sguardo ai grandi del passato, per esempio Velasquez. L’ambizione è quella di offrire un panorama completo di ciò che avviene nel mondo artistico, ampliando lo sguardo per quanto possibile. Ci sforziamo di evitare le visioni parziali, purtroppo così frequenti nel nostro tempo, in cui predominano lobby mercantili internazionali di grandi capacità mediatiche. Oggi è possibile costruire a tavolino un artista partendo praticamente dal nulla. E la qualità, se c’è, a volte è un gradito optional”. Tutto questo dovrebbe giustificare una visione pessimista? “Personalmente preferisco l’ottimismo. Ad essere pessimisti si rischia di attirare il peggio, e al peggio non c’è mai fine. Del resto vedo anche molte persone serie,
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che lavorano seriamente. Il tempo ci dirà chi è degno di essere ricordato, di passare nei libri di storia dell’arte, e chi invece è un fenomeno effimero, legato alla moda”. A che serve l’arte oggi? “Mi viene in mente quello che dice Nietzsche, per il quale l’arte è inutile. Inutile, ovviamente, dal punto di vista utilitaristico. Direi che l’arte deve far pensare. C’è uno spartiacque: fino all’Ottocento si chiedeva all’arte di essere bella. Dal Novecento in poi le si chiede il concetto, si vuole che faccia pensare. L’opera d’arte, al giorno d’oggi, non serve ad ornare il salotto, ma a suscitare concetti e riflessioni”. Questo chiama in causa l’arte concettuale, che nelle sue manifestazioni più estreme sembra aver preso congedo dal bello, sconcertando il senso comune. Molte persone, di fronte a certe installazioni o performance, si chiedono: ‘ma questa è arte’? Che cosa ne pensa? “L’arte non è avulsa dal tempo in cui essa è generata. Dunque è lo specchio della nostra epoca: caotica e imprevedibile. Le avanguardie o pseudo tali si scontrano con il bello; si potrebbe dire che il brutto, lo sgradevole, siano diventati chic. Si dimentica però che quello che aveva un senso un secolo fa, quando si dovevano
épater les bourgeois, oggi è molto meno provocatorio, ha esaurito la sua funzione. Così al pensiero si sostituisce talvolta la trovata, il giochino”. Lei porta un cognome importante. Qual è stato il rapporto con il suo illustre parente, Gaetano Salvemini? “Era il fratello di mio nonno, dunque un prozio. Potrei dire di essere cresciuta a pane e Salvemini. In casa c’era una sorta di culto: si conservavano i libri, le lettere, persino le tovaglie sulle quali aveva mangiato. Poi dopo un distacco adolescenziale, l’ho riscoperto studiandolo. Un uomo di grande rigore, il suo pensiero sarebbe attualissimo. Era anche simpatico. Per esempio definiva l’intellettuale ‘una persona istruita in maniera notevolmente superiore alla propria intelligenza’. Qual è il suo rapporto con la Versilia? “Ho una casa a Forte dei Marmi e trovo questa terra magica. Se potessi, trasferirei la redazio-
ne di ‘Arte In’ da Venezia alla Versilia. Quando vengo qui sto bene. Mi piace la possibilità di isolarmi, per esempio scrivendo o leggendo un libro sulla spiaggia, ma anche, all’opposto, la facilità di entrare in rapporto con gli altri, o di seguire uno spettacolo di qualità alla Versiliana o al teatro lirico di Torre del Lago. C’è Pietrasanta, che vanta la nobile tradizione del marmo ed è luogo di richiamo per tanti artisti internazionali. Lo considero il mio buon ritiro anche per la scrittura. Vengo qui anche fuori stagione e scrivo, ci sono i tempi giusti, come sospesi e dilatati. Inoltre qui ho colto un premio letterario, il ‘Massarosa’, per il romanzo ‘Gli occhi sul samovar’. E’ stata una piacevole sorpresa, devo dire che non me l’aspettavo. Ha fatto tutto il mio editore. Quando ho visto che in giuria c’era un prete, pensavo proprio di non avere possibilità. Nel libro si parla di un’esule russa che vive avventure amorose sensuali. Poi invece, il religioso si è dimostrato di mentalità aperta”.
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Intervista a Dario Ballantini: L’ARTISTA A DUE FACCE di Emanuela Mazzotti
L
ei ha più volte dichiarato di sentire una forte continuità con i pittori labronici, espressione di una sensibilità tutta toscana, livornese, pure la sua pittura se ne distacca in modo considerevole.... La mia continuità è solo l’appartenenza ad una terra di pittori, e non riguarda lo stile macchiaiolo o post-macchiaiolo che in qualche modo ho “combattuto”. Nonostante questo, è stato proprio veder dipingere dal vivo diversi pittori livornesi che mi ha fatto accostare all’arte e riconoscere una maestria unica appartenente solo a loro, che rimangono una scuola granitica. Il segno e l'uso del
“Saliamo”, 2010, tavola, lato 120 cm
colore provengono dalle Avanguardie, da Picasso, che cosa l'affascina di questo artista? La totale libertà di espressione, la fantasia e la padronanza di gestire la costruzione dell’immagine. L’aver raggiunto la freschezza espressiva di un bambino. Picasso era un'istrione, geniale e teatrante. Lei sente di assomigliargli? Per certi versi, anche se non ho lo stesso gusto per la provocazione, mi piace stupire ma difficilmente esagero, anche se vorrei… C'è un artista contemporaneo che le interessa particolarmente?
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Roberto Coda Zabetta. I “travestimenti” necessari al suo lavoro di comico non rivelano la sua vera indole, la sua “identità”, mentre l'arte la disvela pienamente. Come riesce a far convivere questo dualismo? L’arte pittorica è meno invasiva della Tv e dello spettacolo: va cercata, contemplata permette un accostamento. In Tv non potrei esprimermi come in pittura, il pubblico è più eterogeneo più distratto meglio farlo divertire un po’, anche se ritengo di usa-
re l’espressionismo anche nelle imitazioni. Se dovesse scegliere, a quale delle sue attività artistiche rinuncerebbe più a malincuore? Alla pittura Qual è secondo Lei, oggi, il ruolo dell'arte? Oggi come ieri dovrebbe essere pura inspiegabilità, pura emozione per farci credere di appartenere ad altro oltre che al tangibile. A qualcosa che in qualche modo apparentemente senza logica ci accomuna.
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“Resto sotto�, 2010, tela 49x104 cm
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ALLA RICERCA DEL GUSTO NEL GIARDINO TROPICALE
Una serata da intenditori al ristorante Alex di Marina di Pietrasanta di Chiara Sacchetti
A
ppena viene la bella stagione le prenotazioni si indirizzano sull’esterno. Un esterno delizioso e curato come tutto il locale. Il giardino, la terrazza, le piante tropicali, i fiori sono la cornice privilegiata del ristorante Alex, sull’angolo di via Versilia a Marina di Pietrasanta, che riempie di orgoglio il Patron Alessandro Tognetti, che dall’America all’Indonesia, all’Australia ha riportato qui, a casa, tutta la sua esperienza di vita. Tognetti ha respirato il clima balneare nello stabilimento di famiglia a Forte dei Marmi, dove si cucinava qualcosa per i clienti abituali, ma si definisce un “cittadino del mondo”, e con l’architetto ha cercato di ricreare nel suo locale versiliese un mix di colori, sapori e atmosfere che si riflettono anche nella ricerca continua che av-
viene in cucina. La proposta di cibi basati sulla freschezza e la qualità degli ingredienti, sulla selezione accurata della materia prima, che compongono la carta usuale, si accompagna al Menù stagionale, ovvero offrire ciò che di meglio ogni periodo dell’anno ‘regala’. E’ il caso ad esempio della pescatrice e della cernia di fondale, ma da “Alex” in questa stagione si trova anche la capasanta nordamericana, o il miglior caviale iraniano. La clientela affezionata, anche di provenienza internazionale, ha però alcune prelibatezze in cima alla sue preferenze: la Catalana di crostacei, il Crudo di mare e l’Alaskan King Crab, rarissimo da queste parti. Un prodotto esclusivo, l’Alaskan King Crab, il granchio reale rosso del Mare di Bering che viene pescato soltanto da contingen-
tate navi autorizzate. Si cucina scottandolo come l’aragosta e il condimento è l’Olio Extra Vergine di Oliva “Aska Eleivana” che Tognetti ha ideato anche per il mercato americano. Dalla fusione di questi due elementi nasce una vera delizia per il palato. Ma ogni piatto è unico e curato nei minimi dettagli anche nella presentazione. E così da “Alex” troveremo tra gli antipasti di calamaretti in salsa di uovo, i gamberi rossi su pomodoro verde grigliato con lardo di Gombitelli, oppure tra i primi le linguine alla vellutata di fagioli e salsa di cozze, vongole veraci, gamberi e calamari, i tacconi di pasta fresca integrale con branzino e vongole, o i ravioli di Batti Batti su crema di zucchine. Tra i secondi non mancheranno il filetto di branzino spadellato con frutti di mare e crostacei o il filetto di orata con verdure e gamberetti. Gli amanti della carne non rimarranno delusi dall’Angus argentino o dal bisonte che si accompagna alle ottime carni nazionali. E per concludere naturalmente in dolcezza, ecco il flan al cioccolato caldo o la sfogliatina alla crema di formaggio o alle pere caramellate con crema. Condimento di eccellenza, è appunto “Aska Eleivana”, ovvero l’Olio Extra Vergine di Oliva al 100% italiano, blend di diverse tipologie di olive Toscane “moraiolo, leccino e frantoio”, stu-
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diato per l’abbinamento con i cibi più prelibati ed esclusivi. “Far convivere i gusti del nostro territorio, dei nostri porti, con quelli eccellenti, che vengono dal resto del mondo – afferma Tognetti – questa è stata la mia idea che i clienti hanno condiviso, lasciandosi guidare dalle mie proposte. I clienti vengono al mio ristorante anche per scoprire cibi nuovi, in abbinamento con vini altrettanto particolari”. “Circa trecentottanta etichette italiane e duecentosettanta straniere nella cantina climatizzata. Mi fa piacere far convivere allo stesso tempo i nostri buonissimi e selezionati vini bianchi Italiani con Chablis o Sancerre francesi oppure degli spettacolari rossi Bolgheresi con dei grandi ed esclusivi Bordeaux. Non solo bollicine italiane, ma anche piccole maisons di Champagne, con produzioni limitate di alto livello, magari biologiche o biodinamiche, che accompagnano la proposta di blasonate Maisons di nomi eccellenti.” Una serata vissuta come un
evento, una pausa di benessere, dedicata ai piaceri del gusto. L’arredamento, le luci, la musica jazz di sottofondo accompagnano il palato. Il sommelier è a disposizione per abbinamenti e consigli, lo staff consolidato in cucina è una garanzia di continuità.
“Alex”, un’oasi culinaria a un soffio di brezza dal mare premiato con riconoscimenti di merito nelle Guide e Riviste di rilievo nel mondo enogastronomico italiano e internazionale, rimane aperto tutte le sere per soddisfare il piacere del gusto.
ALEX Ristorante Enoteca Via Versilia, 159 Marina di Pietrasanta Tel. +39-0584-746070 www.ristorantealex.it
Olio
L’arte dell’
Un nome antico per un olio speciale
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n nome di antica suggestione che va a ricercare le origini del suo territorio di produzione, quelle etrusche dal 600 al 550 avanti Cristo. “Aska Eleivana” è un’incisione in lingua etrusca su un’ampolla trovata durante uno scavo archeologico, il cui significato è semplicemente quello di “contenitore dell’olio”. Il produttore Alessandro Tognetti ha concepito questo prestigioso Olio Extra Vergine d’Oliva, blend di Cultivar Toscani straordinari “Moraiolo, Leccino, Frantoio”, con il proposito di abbinarsi perfettamente alle proposte di piatti prelibati ed esclusivi presenti nel menu’ del suo Ristorante Enoteca Alex di Marina di Pietrasanta, un’oasi culinaria a un soffio di brezza dal mare. Un olio che si fregia di una immagine addirittura artistica, quella dei quadri di paesaggio agreste di Domenico Monteforte. Sia il ‘Prestige’ che ‘Excellence’ accompagnano così al loro sapore di ‘cultivar’ toscani un’etichetta prestigiosa nella quale il cibo apre le porte all’arte e viceversa. Alessandro Tognetti durante i mesi invernali riesce a seguire la distribuzione e la commercializzazione nei mercati esteri del suo olio “Aska Eleivana” proveniente dalla selezione accurata delle varie zone di approvvigionamento, che il produttore conosce attentamente. La scelta dell’eccellenza toscana si fonde poi per-
fettamente con i gusti di coloro che hanno la cultura di enfatizzare i cibi locali prelibati e pregiati presenti nel loro mercato, con un condimento unico e prestigioso dato il suo soggettivo blend di Cultivar. Aska Eleivana è infatti presente sulle migliori tavole e cucine delle mete ristorative Gourmet di pregio soprattutto negli States e sulle grandi navi da crociera dirette nei Caraibi. E’ stato poi stato selezionato in Florida dai più importanti fornitori “Provisioner” di Super Yacht, specializzati in approvvigionamento di prodotti alimentari di alta qualità e reso disponibile per gli chef di bordo, infatti Aska Eleivana è stato presente anche all’ultimo Miami International Boat Show, l’importante fiera nautica che si svolge ogni anno nel soleggiato Sunshine State. Ha dedicato poi tributo alla sua etichetta “d’autore”, per l’inizio della fiera d’arte di Art Basel Miami Beach, con un’esclusivo Tasting Event al Victor Hotel in Ocean Drive. Durante la fiera “Sout Beach Wine and Food Festival”, tra le più rappresentative degli Usa per gli amanti dell’enogastronomia, l’abbinamento tra l’olio di Tognetti e l’Alaskan King Crab o lo Stone Crab o le Aragoste del New England, è stato definito dalla stampa “a match made in heaven”, un “abbinamento fatto in paradiso”.
Aska Eleivana - Olio Extra Vergine di Oliva 100% Italiano is a trademark of World Wine and Food Head Office: Via Versilia, 157/159 55045 Marina di Pietrasanta (LU) Tuscany Italy Tel IT. +39 335 8167196 Fax IT. +39 0584 747015 Tel USA in Miami +1 305 898 8346 www.askaeleivana.it e-mail: info@askaeleivana.it Aska Eleivana in Versilia è presente da ALEX Ristorante Enoteca Via Versilia, 157/159 Marina di Pietrasanta Tel. +39-0584-746070 www.ristorantealex.it
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SCRIVERE (E LOTTARE) per il cinema
Incontro con Michele Pellegrini, sceneggiatore in ascesa. “Mia madre mi ha insegnato ad amare i libri.” di Umberto Guidi
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desso che si cominciano a riscoprire vecchie verità del cinema, come il fatto che un film sia un’opera collettiva o che la sceneggiatura ne rappresenti l’anima più autentica, l’attenzione degli addetti ai lavori e in parte anche del pubblico si sposta sulla figura professionale dello sceneggiatore. Michele Pellegrini, nato a Forte dei Marmi nel 1975, è uno di questi. Scrive parole destinate a diventare immagini. Michele fa parte del gruppo di brillanti giovani di Forte dei Marmi che abbiamo già definito i “tre moschettieri” del cinema e della letteratura: con lui, lo scrittore Fabio Genovesi, e il regista e sceneggiatore Matteo Raffaelli. La sua carriera è lineare: dopo le superiori si iscrive al Dams di Bologna (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo), quindi ottiene l’ammissione al Centro sperimentale di cinematografia, corso di sceneggiatura. Nel 2001 vince il Premio Solinas con il soggetto “Ci vediamo lassù” che poi sarebbe diventato, cinque anni dopo, il film “Uno su due”, diretto da Eugenio Cappuccio e interpretato da Fabio Volo. Un avvocato rampante scopre che potrebbe avere un tumore maligno al cervello: le probabilità di cavarsela sono al 50 per cento. La sua vita cambierà. “E’ una storia con tratti
autobiografici – spiega Michele – perché da bambino sono stato molto malato, e ho riversato nella scrittura alcuni aspetti di questa esperienza”. Dopo la gavetta dei cortometraggi, il vero debutto nel cinema “da sala” era stato un film a più mani sul calcio, “4-4-2. Il gioco più bello del mondo” del 2006. Tra le altre opere sceneggiate da Pellegrini, “Nessuna qualità agli eroi” (Paolo Franchi), in concorso a Venezia nel 2007, “Non pensarci” di Gianni Zanasi, commedia rivelazione del 2008, “Nelle tue mani” (Peter Del Monte, 2008), “Figli delle stelle” (Lucio Pellegrini, 2010). Ha fatto anche televisione: le serie “Raccontami”, “Il
commissario De Luca”, “I liceali”. E’ entrato nel direttivo della società Centoautori, che riunisce scrittori e registi di cinema. A Roma, dove vive e lavora, gestisce insieme ad un gruppo di amici il Kino, una piccola sala da 36 posti ricavata da un vecchio cineclub in rovina, con annesso un piccolo bistrot. Come spieghi che in una città piccola come Forte dei Marmi ci siano tre giovani come te, Genovesi e Raffaelli, coetanei e amici, che vanno sempre più affermandosi in campo nazionale? Potrebbe sembrare improbabile. O magari c’è una spiegazione, qualcosa di sottile? “Un po’ è il caso, un po’ forse
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conta anche il fatto che il Forte è un paese a suo modo generoso. Ci sono gli stimoli, è un posto di mare aperto al mondo. Vedi gente diversa, ti incontri con idee nuove. In queste condizioni si può reagire in due modi del tutto opposti: o ti accucci completamente, oppure ti apri, accetti la sfida e magari parti per Roma, come abbiamo fatto io e Matteo. Ormai da dieci anni vivo nella capitale e devo dire che laggiù ho incontrato tanti
provinciali come me. Aggiungo che il Forte un po’ ti coccola, ti fa sentire il calore intorno. Quando vinsi il Premio Solinas, mi arrivò un telegramma di congratulazioni dell’amministrazione comunale. Quella cosa mi commosse. Dopo aver colto i miei primi, piccoli successi, nel corso dei miei periodici ritorni al Forte, i compaesani mi hanno fatto sentire la loro vicinanza, complimentandosi con sincerità. Tutti, anche quelli con i quali avevo avuto qualche discussione, prima di tentare la fortuna a Roma. Voglio dire che sei vai fuori e riesci in qualche modo ad affermarti, sei percepito come un ‘ambasciatore’ del Forte, tutti tifano per te. La partigianeria e il campanilismo fanno venire meno anche le piccole invidie. Non è così da tutte le parti”. Da che tipo di famiglia provieni? I genitori ti hanno aiutato? “La mia è una famiglia normale, non certo ricca. Il ricordo più importante è quello di mia ma-
dre, scomparsa prematuramente due anni fa. Era una donna che non aveva studiato, si era fermata alla quinta elementare ma aveva un gusto sicuro, istintivo, per la buona letteratura, non le ho mai visto un Harmony in mano, nemmeno in spiaggia, leggeva e rileggeva la Ginzburg, la Morante, Calvino e tutti gli scrittori italiani del dopoguerra che aveva amato da ragazza. Era comunista e ha cresciuto me e mio fratello Alberto con l’idea di dover sempre fare qualcosa per gli altri. Certe volte tutto questo poteva anche apparirmi pesante: come, per esempio, quando ‘raccattava’ immigrati clandestini e – per aiutarli – li portava a casa come se fossero gattini randagi. Succedeva regolarmente, io le chiedevo: ‘Ma è davvero così bisognoso, non è che si approfitta di te?’, lei mi rispondeva che ero diventato uno snob e che non dovevo fare lo stronzo. Ecco, quel ‘non fare lo stronzo’ che arrivava alla fine di ogni discussione fra noi è la cosa che più mi manca di lei”. Dopo la laurea sei stato ammesso al Centro sperimentale di cinematografia. Quali incontri sono stati per te importanti? “Posso citare Francesco Bruni e Paolo Virzì, due toscani come me. Sotto la loro supervisione ho debuttato come sceneggiatore per il grande schermo, con un film a episodi, ‘4-4-2. Il gioco più bello del mondo’, diretto nel 2006 da quattro giovani registi e prodotto, appunto, da Virzì. Io ho lavorato come autore all’epi-
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sodio ‘Il terzo portiere’, per la regia di Roan Johnson. Con Bruni e Virzì conta anche la toscanità. Noi toscani possiamo essere litigiosi quando siamo a casa nostra, ma quando ci incontriamo fuori, scatta immediatamente la solidarietà. Valuto molto positivamente anche l’incontro con Stefano Rulli, con il quale ho collaborato alla sceneggiatura della serie tv ‘Raccontami’. Infine mi piace ricordare il buon rapporto con Giorgio Arlorio, che potrebbe essere definito il ‘nonno’ dei giovani sceneggiatori. E’ un grande professionista e una persona generosissima nei confronti dei giovani”. Il tuo imprinting ‘alla Virzì’, i temi delle sceneggiature alle quali lavori, l’omaggio esplicito a grandi del cinema degli anni ’50-’60 fanno pensare alla stagione memorabile della commedia all’italiana, che ogni tanto qualcuno si mette in testa di risuscitare. Secondo te è ancora attuale questa modalità espressiva del nostro cinema? “Non credo che sia possibile riprodurre nei toni e nelle tematiche quella importante stagione. In parte perché siamo nel 2011 e i temi sociali sono del tutto cambiati. Il mutamento dei contenuti è dunque nelle cose. Preferisco parlare più in generale di commedia umana, alla Balzac, che gli autori cinematografici del giorno d’oggi hanno il compito di rinnovare. E’ un modello che non rinnego, anzi direi che è da lì che sono partito. L’obiettivo che vorrei darmi? Rinnovare
quel modello nella forma e non tanto nel contenuto. Scelgo perciò di concentrarmi sul ‘come’ raccontare la realtà di oggi, e non sul ‘cosa’. In film come ‘Non pensarci’ e ‘Figli delle stelle’ ci abbiamo provato, senza rinnegare la tradizione. ‘Figli delle stelle’ per esempio, è stato accostato a un classico come ‘I soliti ignoti’ perché come nel film di Monicelli c’è un gruppo di imbranati che tentano un’impresa votata al fallimento. Ma sono personaggi di oggi, alle prese con i problemi contemporanei”. Tu hai scritto anche per la televisione. Che giudizio dai della fiction per il piccolo schermo? “Se guardo al meglio della produzione internazionale non mi sento certo di snobbarla. Voglio dire: se mi chiedi se vorrei aver scritto una serie televisiva come ‘Mad Men’ o un film per il grande schermo come ‘The Social Network’, ti rispondo che la prima non è certo da meno del secondo. Un bel serial vale quanto un bel film. Purtroppo la situazione italiana è un po’ diversa. Vedo poca buona roba in giro, se si eccettua ‘Boris’ o ‘Il commissario Montalbano’. Ma questo accade per un discorso produttivo arretrato; nella nostra televisione la qualità viene sacrificata alla quantità. Per motivi di palinsesto sono stato costretto a scrivere episodi di 100 minuti per la serie ‘I liceali’. Se avessi potuto farli di 50 minuti, le puntate avrebbero avuto tutto un altro ritmo, guadagnando smalto”. So che stai lavorando molto.
Cosa bolle nella pentola dello sceneggiatore? “Sto scrivendo il nuovo film di Alessandro Angelini, è un progetto a cui tengo moltissimo. Stanno poi per iniziare le riprese di un film che ho scritto con Francesco Cenni; sarà interpretato da Jonny Groove (Giovanni Vernia), il comico di Zelig famoso per il tormentone ‘Ti stimo fratello!’. Poi c’è la seconda prova da regista di Edoardo Gabbriellini, un altro toscano vicino a Virzì. Dovrebbe intitolarsi ‘I padroni di casa’, nel cast ci sono Valerio Mastandrea, Elio Germano e Gianni Morandi. A fine estate è previsto il primo ciak del nuovo film di Susanna Nicchiarelli, la regista di ‘Cosmonauta’. La sua opera seconda, alla quale ho collaborato come sceneggiatore, è tratta dal libro di Walter Veltroni ‘La scoperta dell’alba’ e vede come protagonista Margherita Buy. Con Ugo Chiti sto scrivendo il remake di un classico degli anni ’50, ‘Il vedovo’ di Dino Risi: alla regia ci sarà Massimo Venier, il cast è ancora da definire. E’ pronto invece ‘Bar sport’, dal libro di Benni. La regia è di Massimo Martelli, nel cast Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Angela Finocchiaro. Sotto Natale infine è prevista l’uscita del film tratto dal libro di successo di Fabio Volo, ‘Il giorno in più’, diretto da Massimo Venier. Tra gli interpreti lo stesso Volo, Isabella Ragonese e Stefania Sandrelli. Ho collaborato all’adattamento del romanzo con l’autore del volume, Federica Pontremoli e Massimo Venier”.
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AURELIO MECCHERI di Domenico Monteforte
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urelio fa il bagnino al Bagno Vittoria e quando finisce la stagione estiva al Forte lui ci porta a mangiare la bistecca al Vignaccio, a Santa Lucia. Sarebbe meglio dire che viene con noi ragazzotti, a volte ragazzini, a mangiare fuori... A tavola racconta barzellette sconce e disegnando strane cose nell’aria con quelle grandi dita su enormi mani, assapora una meravigliosa fiorentina sorseggiando un vellutato bicchiere di rosso di Bolgheri. Aurelio è abbronzato e lucente come non mai. Una sera un
tizio di un tavolo accanto ci chiede per cortesia di smetterla con le barzellette.., è a cena con una bellissima ragazza straniera che non capisce una parola d’italiano e neanche capisce perché il ragazzo rida così tanto, cercando inutilmente di soffocarle quelle risa, ed inizia ad innervosirsi... “Ragazzi mi mandate in bianco, per favore basta sennò questa se ne va...”. Aurelio è l’amico grande, lo “zio” col quale uscire per sentirsi uomini, lui parla semplice ma non dice mai sciocchezze e quando poi lo riaccompagnamo a casa dopo la cena lui spesso è un pò allegro e preoccupato: sua moglie forse non capirà... A volte quando ha il turno di riposo si rifugia nel capanno dietro alle cabine dove tira una branda e s’addormenta con la bocca aperta, su un fianco. Una volta siamo entrati in quel capanno con un cucchiaio di sale che pian piano senza far rumore, qualcuno di noi gli ha versato sulle labbra. Se l’è mangiato senza accorgersi, tra le risa soffocate di tutti noi, che ci approfittiamo spesso della sua pazienza. Un’altra volta s’è addormentato accanto al pattino di salvataggio proprio vicino alla riva, il sole alto d’agosto batteva forte davvero. Abbiamo incrociato due scope, legandole insieme le abbiamo conficcate sulla sabbia proprio sopra la sua testa , una volta finito d’addobbare il “morto”, abbiamo spostato il pattino lasciando il povero Aurelio in bella vista dei passanti. La gente s’avvicinava timorosa ed incuriosita da quel corpo supino con tanto di croce e noi, maledetti, ci siamo allontanati per seguire la scena da distanza. Quando s’è svegliato il povero Aurelio aveva una ventina o forse più di persone intorno che lo scrutavano curiose e preoccupate... Le parole impronunciabili e gli epiteti del redivivo ve li potete facilmente immaginare, così come la fuga della gente insultata e di quelli che erano accorsi curiosi ed ora si davano un tono come a dire “siam qui per caso...”. Un’altra volta di notte gli tingemmo i pomodori dell’orto, di cui andava particolarmente fiero, col pennarello cercando poi di dargli ad intendere, vigliacchi, avessero preso chissà quale malattia. Aurelio Meccheri gioca a calcio con noi ragazzi sulla riva del mare, con Andrea in porta nell’acqua tra due pali improvvisati e pennella col sinistro cross magnifici, a volte fa “il colpo dello scorpione”: si butta con le mani avanti in terra e coi talloni sopra le spalle colpisce la palla al volo! Che spettacolo! Il giovane Alessandro Boniperti, figlio del Presidentis-
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simo a volte gioca, a volte ci guarda. Per Aurelio non esistono “signori” o poveracci, lui è l’umanità più vera e tratta tutti con la stessa cortesia ed educazione delle persone semplici, delle persone vere. Quante volte in riva al mare mondi lontanissimi si sfiorano in un brevissimo tempo, per poi allontanarsi definitivamente. Estati che bruciano, che si consumano nel breve tempo di una canzone o di un amore estivo. Quell’uomo dalle grandi dita, con quelle mani enormi che si muove caracollando sulla pedana di quel bellissimo bagno dipinto di giallo coi bordi e con le rifiniture celesti, quanti anni della sua vita e quante estati ha trascorso su quella spiaggia di sabbia fina e cocente, intrecciandosi con persone tanto diverse tra loro, conoscendo segreti di famiglie intere e vedendo nascere amori durati pochi giorni, altri forse una vita. Il bagnino in fondo, è l’anima della spiaggia, custode della memoria di fatti e persone, di epoche e di morali. Oggi quel bagno è dipinto di bianco. Forse più signorile, forse più alla moda ma asettico, inodore, incolore..., nemmeno sembra la solita spiaggia, è rimasto solo il nome di allora. Solo pochi anni prima un bagnino dal naso pronunciato e dalle gambe magre, che camminava caracollando con immancabile sigaretta in bocca dava un senso ad una stagione, tenendo insieme con la propria presenza, tante figure, tanti amici, tante serate che si sono poi dissolte, come evaporate, foglie volate via nel vento. Aurelio mi manca. Aurelio ci manca.
Ci manca quel modo di alleggerire la tensione quando l’estate sotto gli ombrelloni dei bagnini diventa pesante e faticosa come spostare una montagna. Ci manca la sua umanità fatta di piccole cose e di consigli di vita, dati mentre lui guardava il mare e sembrava non degnarti d’uno sguardo, ci mancano le serate che organizzava in riva al mare sotto la prima tenda di notte con pochi amici a mangiare pane con acciughe fatte a scapeccio (cotte nell’aceto), a bere vino bianco fresco e frizzante, finendo la serata con il cocomero e con i racconti dei tempi andati. Oggi tutto questo è finito chissà dove. Aurelio se n’è andato e s’è portato via anche queste notti in riva al mare che aspettavamo impazienti durante l’estate e che preparavamo già dal mattino del giorno fatidico quando in due o tre s’andava a pulire alle boe, in pattino, acciughe squisite e freschissime che poi lui avrebbe preparato per la sera.. Era pomeriggio quando Andrea m’ha telefonato dicendomi che Aurelio non c’era più, stavo dipingendo, ironia della sorte, un notturno coi pini col mare in lontananza. Un dipinto su carta applicata alla tela che ricordo così bene che potrei rifarlo adesso ad occhi chiusi. Quel quadro è pubblicato sul mio primo catalogo, la prima pubblicazione della mia carriera, ed è titolato “gli alberi misteriosi”, la persona che l’aveva comprato mesi dopo mi telefonò chiedendomi spiegazioni di quella dedica che era scritta dietro al dipinto: “Ad Aurelio Meccheri che se n’è andato portandosi via le estati più belle della mia vita...”
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IL PRINCIPE DEL GUSTO
Tiziano Nardini, da Forte dei Marmi alla conquista del jet set
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a cominciato nel settore dell’abbigliamento. Poi ha deciso che avrebbe avoluto occuparsi di forniture di arredo per case, uffici e alberghi, con la speranza di “lavorare un po’ meno” e di potersi così occupare con maggiore assiduità dei suoi tre figli. La convinzione di lavorare meno è naufragata quasi subito, ma la scelta professionale s’è rivelata vincente. Oggi Tiziano Nardini è un imprenditore di successo, titolare di un’azienda leader conosciuta non solo nel nostro paese, ma anche all’estero. Tiziano, fortemarmino verace dallo sguardo vigile e dal fisico asciutto, guida con mano sicura un’azienda di 26 dipendenti, la Nardini Forniture, tre negozi in centro a Forte dei Marmi e una sede operativa con showroom sulla via Provinciale, nel fabbricato che anni fa ospitava la concessionaria Fiat. Sulla sua scrivania c’è un mappamondo d’epoca risalente alla prima metà dell’Ottocento, se guardi la carta del Nord Ameri-
ca vedi che sono segnati i territori Apache. “E’ un oggetto che mi piace molto, ma siccome sono un commerciante, so che purtroppo prima o poi dovrò venderlo. Per il momento rimane qui”. Alla parete un display luminoso registra la quantità di energia elettrica prodotta da una copertura di 300 pannelli solari, la più grande della provincia. Prima il tetto era di eternit, Nardini ha voluto rimpiazzarlo con i pannelli fotovoltaici. Ha speso molto, ma si è liberato di un potenziale inquinamento e ha dato una chance alle energie rinnovabili. Questione di stile, per uno come lui che del gusto ha fatto una religione. Per il suo lavoro gli servono il talento del sarto, del confessore e dello psicanalista. Vale a dire la capacità di “cucire” su misura, interpretando i desideri reconditi del committente. Nardini sa ideare soluzioni di arredo per ogni tipo di ambiente. Non si contano i Vip (quelli veri) che ricorrono al suo know how. I nomi? Inuti-
le chiedere, la sua bocca rimane sigillata. Segreto professionale. Diciamo che si rivolge a lui il Gotha dello sport, dello spettacolo, dell’industria. Ha lavorato ed è apprezzato in molti luoghi che contano: Milano, Firenze, Roma, ma anche Sankt Moritz, Dubai, Malindi, Monte-Carlo e altre capitali del jet set. Chi si rivolge a Tiziano Nardini sa di poter contare su un servizio completo. Gli si può sottoporre una villa, un appartamento, un albergo completamente vuoti, con la certezza che lui, con il suo team, saprà escogitare la soluzione migliore di arredo, soprattutto rispettosa delle preferenze del cliente. Come è riuscito, partendo da Forte dei Marmi, a farsi conoscere in sede internazionale? “Ho investito tante ore di lavoro. Sono andato in giro per il mondo a cercare le soluzioni più appetibili e di qualità per interni ed esterni. Costruisco un rapporto di fiducia con la clientela, alla quale fornisco un prodotto ‘chiavi in mano’ per ville, negozi, uffici. Sono in grado di collaborare sia con il cliente che ha le idee chiare e sa quello che vuole, sia con chi si rimette completamente al mio gusto. Sia con quelli che si presentano accompagnati dal loro tecnico di fiducia”. Qual’è il suo metodo di lavoro? “E’ molto importante comprendere quali sono i desideri, anche quelli non chiaramente espressi, della persona che si rivolge alla nostra azienda. Per questo io, dopo aver visitato il luogo che dovrà accogliere il nostro intervento, programmo una lunga chiac-
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chierata con il cliente. Attraverso questo colloquio cerco di sapere più cose possibili: chi è, cosa pensa, cosa desidera. Alla fine il committente deve essere soddisfatto, deve condividere realmente le soluzioni proposte. Il mio obiettivo rimane quello di rispecchiare le esperienze e la sensibilità del proprietario”. E’ un metodo che ricorda i dialoghi di Socrate. Cosa succede se il cliente chiede qualcosa di incongruo o di cattivo gusto? Facciamo un esempio limite: un arredamento tirolese in riva al mare? “La mia impostazione è quella di rispettare sempre i desideri del committente. Se dovesse manifestarsi un problema di questo tipo, cercherei di guidare il mio interlocutore, senza forzature. Che so, nel caso del Tirolo in spiaggia, potrei suggerire di optare almeno per colori ‘marini’, più chiari... (sorride)”. Ricorda qualche richiesta particolare? “Me ne vengono in mente un paio. In una villa un cliente ha voluto un Buddha Bar, arredato come un tempio e con le pareti di cristallo. Un pulsante apriva una porta invisibile, che conduceva a un privé, un luogo segreto. Capitano
uomini di affari che richiedono uffici dotati di piscina e piccolo centro benessere, per il relax fra un contratto e l’altro”. La sua arma principale, accanto all’organizzazione, è il gusto estetico. E’ una dote innata o acquisita con lo studio? “Sono convinto che il gusto sia una questione di nascita. Lo si possiede, oppure no. Ciò non toglie che si possa e si debba affinare. Io ho cercato di farlo, visitando il mondo e curando l’aggiornamento”. Quanto conta il lavoro di squadra? “Moltissimo. Ho un gruppo di collaboratori di qualità, sui quali posso fare pieno affidamento. Non ce l’avrei fatta senza l’aiuto dei ragazzi e delle ragazze che lavorano con me. Tutti competenti e motivati”. La sua azienda è una risorsa, un fiore all’occhiello per Forte dei Marmi. Essere partito da qui le è stato utile per affermarsi? “Senza dubbio. Tanta gente che conta è ospite del Forte. Sono capitati da me per comprare un divano o scegliere delle tende. Poi molti mi hanno chiesto di arredare le loro case o i loro uffici nel Nord Italia, a Sharm el-Sheikh, a Miami, a New York o a Londra.
E io sono andato. Ho ricevuto diverse proposte per aprire uffici di rappresentanza all’estero, ma ho sempre declinato. Non mi sento un manager, sono semplicemente una persona che cerca di svolgere bene il proprio lavoro. La mia bussola sono il lavoro e la famiglia. Mia moglie Cristina, che gestisce insieme alle sorelle, il California Park Hotel, pur non facendo parte del nostro team, ci ha sempre dato un contributo notevole. E i miei figli: Caterina, la maggiore, è indirizzata verso questo lavoro; Giacomo studia legge e la più piccola, Costanza, frequenta il liceo. La mia famiglia è la mia forza. Faccio soltanto quello che mi sento di fare, così resto qui: se vogliono, sanno dove trovarmi”. Tiziano Nardini Via Provinciale int. 63 55042 Forte Dei Marmi (LU) Tel. +39 0584 89895 info@nardiniforniture.com www.nardiniforniture.com
IL BORGO DEL BALSAMICO L’ARTE DEL BALSAMICO TRADIZIONALE
“L’amore per la nostra terra, le tradizioni dei nostri padri, l’amore per le cose vere e il valore del tempo, questi i cardini su cui si fonda Il Borgo del Balsamico. Il nostro desiderio è tutelare l’autenticità dell’Aceto Balsamico Tradizionale, divulgare quindi l’eccellenza, ma nel frattempo, anche altri prodotti di grande qualità, nel rispetto della tradizione enogastronomica italiana. Il gourmet potrà così avvicinarsi quotidianamente ad un prodotto di alto livello”. A parlare è Cristina Crotti che, accanto alla sorella Silvia, porta nel mondo uno dei miracoli del gusto italiano, con intelligenza, competenza ed entusiasmo, elementi indispensabili per l’apertura di nuovi orizzonti. L’ACETAIA Un luogo segreto, il più lontano da sguardi indiscreti, dove le stagioni si susseguono con i loro sbalzi di temperatura, per costruire, anno dopo anno, il nettare nero. L’acetaia, attiva da oltre 40 anni, ospita batterie antichissime, provenienti da nobili famiglie delle province di Reggio Emilia e Modena. Le botti ed i vaselli, del ‘700 e dell’800, custodiscono, nel buio del solaio, i liquidi preziosi. I legni colorati dal tempo, rivelano forme che in passato appartenevano ad antichi mestieri. In ogni anfratto dei sottotetti, nei vecchi rustici e nelle serre passano e si fermano a dimorare centinaia di botticelle. Attualmente l’Acetaia di Tradizionale è composta da circa 950 piccoli caratelli che vanno dai dieci ai due tre litri di capacità. Le batterie sono mediamente costituite da 6/7 botticelle di legni diversi, come vuole il disciplinare. Il parterre più antico della nostra acetaia, circa 500 caratelli, può vantare botticelle appartenute a famiglie modenesi e reggiane vissute tra il ‘700 e l’800, altre 500 sono di più recente costruzione. Le botticelle che compongono una batteria sono co-
struite con legno di rovere acacia, ciliegio, ginepro, frassino e castagno. “Giallo, arancio e rosso (per i condimenti), aubergine (per il Tradizionale nei tre bollini), sono i colori scelti da Il Borgo del Balsamico, una firma, riconoscibile in ogni parte del mondo, una lingua, quella del colore, universalmente nota e facilmente riconducibile ad un gusto, ad un momento diverso. Le scatole colorate sono costruite come perfetti contenitori, realizzate in materiali solidi ma vellutati; doppie, per proteggere vetri preziosi e lavorati da mani esperte. Le bottiglie sono sigillate, una ad una, con lavorazioni artigianali, legature antiche e ceralacca firmata da timbri a secco. Ogni pezzo è unico, ogni volta ha qualcosa di diverso; chi lo sceglie ritrova la passione e la dedizione che Il Borgo del Balsamico esprime nell’accudire alla produzione di uno dei miracoli della tradizione gastronomica italiana. La trasparenza, la chiarezza, la comunicazione diretta diventano quindi il mezzo per trasmettere qualità, in un linguaggio comunicativo istintivo, in chiave immediata, moderna e raffinata. Cristina precisa: “Per questo vestiamo i nostri prodotti come fossero profumi, in grado di comunicare la loro rarità attraverso una confezione, un ‘abito’, facilmente decifrabile dal consumatore. Sono convinta, che i prodotti tipici della gastronomia italiana non abbiano rivali al mondo, è pertanto un dovere trasferire questo messaggio nel modo più conveniente, al dì là di ogni banale campanilismo e di ogni volgare imitazione. Solo così il nostro sistema gastronomico potrà tenere alta nel mondo la bandiera della sua eccellenza e unicità”. In questo modo, il gourmet, acquisisce la sua personale conoscenza, ed è accompagnato in un percorso di degustazione che gli permetterà di avvicinarsi ad un prodotto “misterioso” nel modo più chiaro.”
Botteghe di Albinea - 42100 Reggio Emilia - Italy - Tel +39 0522 598175 - www.ilborgodelbalsamico.it
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IL POETA DELLA CICCIA Parla il toscanissimo Dario Cecchini: “Vi spiego la filosofia della bistecca”. di Umberto Guidi
C’
è un paesino della campagna toscana, Panzano in Chianti, popolazione circa 1.200 anime, più o meno a metà fra Siena e Firenze, che è diventato la capitale mondiale della bistecca. E il merito è di un uomo solo: Dario Cecchini, 56 anni ancora da compiere, macellaio da otto generazioni. Veramente definirlo macellaio rischia di essere riduttivo. Cecchini, capelli corti e sguardo aperto, sorriso pronto e animo estroverso, è il gran sacerdote della carne, l’ermeneuta della fettina, il poeta della “ciccia”, per dirla alla maniera toscana. E’ diventato famoso nel 2001 quando, in piena emergenza “mucca pazza” (tecnicamente: encefalopatia spongiforme bovina), attirò l’attenzione di giornali e televisioni celebrando il “funerale della bistecca fiorentina”, con tanto di carro funebre e affissi mortuari. Così il mondo scoprì questo creativo macellaio che, con la colonna sonora di Verdi e Puccini e l’accompagnamento di citazioni dantesche, si impegna a teorizzare i migliori tagli e i metodi di cottura ideali. Con l’obiettivo di perseguire la qualità e diffondere lo stile gastronomico della Toscana più tipica e terragna. Oggi Dario Cecchini è un’autorità indiscussa per i gourmet amanti della buona carne. Tra i suoi clienti ci sono big come Sting, il principe Carlo d’Inghilterra o Elton John. Compare regolarmente sulle televisioni straniere come Discovery Channel, Food Network o National Geographic per spiegare i segreti della “T bone steak”, la bistecca fiorentina, quella con l’osso, alta almeno tre dita. Tiene seminari all’estero dedicati alla carne (non solo filetto e bistecca, ma anche altri tagli): a Kansas City, a Londra, in Belgio, a New York. Oltre alla storica macelleria di Panzano, oggi gestisce tre ristoranti dedicati
alla carne, con prezzi che vanno dai 10 ai 50 euro. ‘Dario +’, ‘Solociccia’ e l’Officina della bistecca. Frequentatissimi, meglio prenotare. L’abbiamo incontrato a Forte dei Marmi, dov’è intervenuto in una serata di “Forte divino” a Villa Bertelli, dedicata all’incontro fra la sua amata “ciccia” e il pesce del mare versiliese: “Per me essere in Versilia è il massimo, questo è un grande palcoscenico”, ha commentato. Poi il via alle domande. Come hai fatto, partendo da Panzano, a diventare il macellaio più famoso del mondo? “Non è stato facile (ride). Panzano è una realtà piccolissima, tagliata fuori dalle strade di grande comunicazione. Quando nel 1975 è morto mio padre, macellaio da diverse generazioni, ho abbandonato gli studi di veterinaria a Pisa e mi sono assunto il compito di continuare la tradizione di famiglia. Il momento non era favorevole: il macellaio era considerato un personaggio sostituibile. E infatti le botteghe tradizionali chiudevano, scalzate dalla grande distribuzione. Ho reagito puntando essenzialmente sulla tradizione e sulla qualità. Ho dovuto imparare strada facendo e superare molte difficoltà, ma piano piano ho cercato di allargare la cerchia delle clientela, superando anche il sospetto verso una figura professionale non particolarmente amata dagli animalisti: il macellaio è quello che ammazza le bestie e le fa a pezzi. Devo dire però che sono stato aiutato dalla nostra tradizione culinaria. In Toscana la carne – dal punto di vista gastronomico – continua a rivestire un ruolo centrale. L’importante è, ripeto, curare la qualità: mi definisco un artigiano, tratto solo bestie allevate per me in Catalogna e a Panzano. Animali che, dopo una buona vita e
una morte pietosa, si trasformano in gioia per il palato”. Indubbiamente il funerale della bistecca è stato un’alzata di ingegno che ti ha fatto spiccare il volo verso la notorietà. Hai trasformato un momento di oggettiva difficoltà, la cosiddetta epidemia della mucca pazza, in un trampolino di lancio… “Potrei commentare con le parole del Perozzi in ‘Amici miei’: ‘Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione’. Mi è venuta una bella idea, ispirata alla tipica ironia toscana. E’ anche per questo che la mia macelleria è oggi diventata un luogo di pellegrinaggio”. Parlare con te di bistecca fiorentina è come parlare di inconscio con Sigmund Freud. Esiste la cottura ideale? “Forse no, però ci si può avvicinare. Posso dirti come la intendo io. La carne deve essere ben frollata, alta
tre dita, non troppo magra. E’ decisiva la temperatura iniziale: non si può, non si deve assolutamente togliere la carne dal frigo e metterla subito sulla brace. Si crea uno sbalzo termico dannoso. E allora: la bistecca va estratta dal frigo 7-8 ore prima, in modo che sia alla temperatura ambiente quando inizia la cottura. Tenere su una brace ardente di legno buono (quercia o leccio), dai 5 agli 8 minuti per parte; più altri quindici minuti in “piedi”, appoggiata sull’osso. Niente condimenti durante la cottura. Servire accompagnata dal vino Chianti; alla fine se si vuole, si può aggiungere un leggero condimento”. Che differenza c’è la tra la Fiorentina e la bistecca alla Panzanese? “La Panzanese è il taglio monumentale del cuore della coscia di un manzo di selezione Cecchini. Potremmo dire che se la Fiorentina è il ‘lato A’, la Panzanese è il ‘lato B’. Mi pare che sia di moda”. Che cos’è il sushi del Chianti? “E’ la mia tartara: carne di manzo rossa e molto magra, sfibrata e condita con olio, sale, pepe nero, peperoncino, aglio, prezzemolo e succo di limone. Un po’ diversa, com’è giusto che sia, dalla ‘tartare’ alla Piemontese”. A New York hai cominciato una battaglia culturale riassunta nel marchio “La cena della vacca intera”, perché nulla vada sprecato. Puoi spiegare meglio? “Ho semplicemente sottolineato un concetto chiave: ogni parte dell’animale è buona e va usata al meglio. Oggi si tende a valorizzare al massimo il filetto e la bistecca, mentre Pellegrino Artusi, alla fine dell’Ottocento, metteva al primo posto il brodo di manzo. Ecco, io vorrei proporre una ‘rivoluzione culturale’, mettendo al pari ogni taglio. Così facendo si promuove una coscienza anti-spreco, nel rispetto dell’animale e del buon senso dei nostri nonni, che per me è sempre un punto di riferimento centrale”. C’è una linea di pensiero vegetariano, o comunque ostile alla ciccia, che dice: la carne rossa fa male alla salute, accorcia la vita. Cosa rispondi a personaggi come il professor Umberto Veronesi? “Gli rispondo che il toscano vuole arrivare alla fine consumato dal godimento. Rispetto molto il professor Veronesi, e i vegetariani in genere. Però voglio essere rispettato anch’io”.
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Ristorante - pizzeria Forte dei Marmi
6N - Piazza Garibaldi - Versilia - tel. 0584 80375
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L’arte, musica per gli occhi La pittura di Domenico Monteforte incontra Puccini di Umberto Guidi
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scoltare un colore, vedere le musica. Sono le magie della sinestesia, un processo al centro della più recente produzione artistica di Domenico Monteforte, pittore di Forte dei Marmi dal tratto e dalle cromie inconfondibili. Domenico prende vecchi spartiti di musica pucciniana dei primi del Novecento, li incolla su cartoncini per poi dare via libera alla fantasia creatrice. Ne risultano singolari fusioni pittorico-musicali di notevole suggestione. L’idea gli è venuta – spiega – in seguito all’incontro con il versiliese Nicola Luisotti, il direttore musicale dell’Opera di San Francisco che il New York Times ha definito “un prodigio italiano”. E’ nata un’amicizia, la voglia di avvicinarsi alla musica di Puccini. Sospesa tra un originale impianto figurativo e l’informale, la pittura di Monteforte si avvale di una tavolozza personalissima ed è attraversata da una pienezza e da una solarità che – è stato osservato – rimandano al paesaggio toscano. Girasoli, piante, ma anche la distesa del mare, ora gonfio per la tempesta, ora accarezzato da una brezza leggera. Domenico Monteforte ha fatto sua la lezione del passato, ma non ha timore di sperimentare tecniche nuove e diverse. Come dimostrano i suoi “quadri musicali”. Perché dipingi? Come hai cominciato? “Questa domanda me la fanno spesso, oggi dipingo, prima disegnavo, prima ancora scarabocchiavo fogli su fogli, da sempre. Per mia madre era semplice farmi stare buono, le matite colorate, qualche foglio e potevi scordarti di me... Alle superiori ho ‘scoperto’ il disegno, grazie ad Ernesto Altemura, un bravissimo artista che usa prevalentemente matite colorate e colpi di gomma, ma che ha una forza pittorica, pur non adoperando quasi per niente il pennello, che altri si sognano. Lui mi ha insegnato tanto per quanto riguarda il disegno. Poi ci sono stati gli anni dell’Accademia, gli anni dei sogni, dei progetti e delle mille paure di non riuscire poi a cavare un ragno dal buco... Ma la vita si forma sotto i nostri occhi, giorno per giorno senza quasi che noi ce ne accorgiamo. Così le prime collettive, la prima personale a Firenze e tutto è cominciato”. Quali sono le tue fonti di ispirazione, i tuoi
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riferimenti artistici? “Dire che mi ispiro alla natura è banale, ma in fondo è così. L’emozione muove la mia vita, da sempre e anche quando lavoro succede la stessa cosa. A volte è un limite, lo riconosco ma questa è la mia natura, e non posso farci nulla. Davanti a un campo di girasoli o di grano rimango sempre senza parole. Posso stare ore in silenzio ad ascoltare il vento che soffia tra i rami di un ulivo, rapito dai verdi delle foglie che cambiano ad ogni folata. I miei riferimenti artistici sono stati Carlo Mattioli, Ennio Morlotti e la pittura di Renato Birolli, fin dagli anni dell’Accademia, poi la pittura italiana degli anni ‘50, il fermento che attraversando tutta la penisola, ha visto decine di pittori, di artisti emergere: stili, tematiche nuove, correnti artistiche di prim’ordine! Hanno lasciato tanto a chi, come me, è venuto molto dopo. Oggi quel fermento artistico ce lo sogniamo, oggi è solo business. Basta vedere in giro, nelle fiere, si prende un giovane meglio se giovanissimo, e in pochi mesi si fanno cataloghi, mostre, articoli. Dopo un anno o due non esiste più, si passa ad un altro dopo averlo spremuto ben bene. Ed ogni volta il critico o il
gallerista di turno te lo ‘vendono’ come il nuovo Basquiat! E l’anno successivo toccherà ad un altro, e così via. Avevo un amico che se ne è andato pochi mesi fa, Arturo Puliti, lui veniva in studio da me ogni giorno e tra un caffè e un aneddoto dei suoi anni parigini, si stava ad ore a parlare di pittura. Questi sono i miei riferimenti, uomini che hanno fatto dell’arte la propria ragione di vita”. La cosa più bella della pittura e la cosa più difficile del
dipingere? “Quando ti poni di fronte ad una tela bianca, nella tua mente esiste già quel quadro che deve solo uscire fuori. A volte però la mano prende altre direzioni e quello che si forma pian piano sotto i tuoi occhi è diverso. Allora seguo quel momento, lo assecondo e guardo cosa nasce. Qualche volta il risultato è superiore all'idea iniziale, e lì c’è la gioia pura, più intima quella così difficile da descrivere, la più appagante. Il difficile forse, come dicevano i vecchi pittori, è capire quando fermarsi”. Come nasce il rapporto con Nicola Luisotti? “Nicola è un amico oltre che essere un grande artista. Ci siamo conosciuti solo pochi anni fa a Parigi, in quell’occasione lui dirigeva la ‘Tosca’
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all’Opera, e da allora siamo molto legati da affetto e stima. Ascolto i suoi aneddoti legati al suo mondo, alla musica. Lo stesso fa lui con me quando visitiamo musei o mostre d’arte, come lo scorso gennaio a New York quando in occasione della sua direzione ne ‘La Fanciulla del West’ di Puccini, ho trascorso con la mia compagna Pinuccia, dieci giorni spettacolari con lui e Rita, la
moglie. Mostre, concerti, musei... Credo si chiami affinità elettiva! Poi è un pessimo compagno di gioco a carte, ma questo è un altro discorso…” Arte e musica. Il legame è in un certo senso spontaneo; come funziona questa tua nuova esperienza? “Proprio questa conoscenza ‘musicale’ mi ha stimolato nel realizzare i miei ultimi lavori su spartiti musicali quasi prevalentemente di Puccini. Sono tecniche miste molto particolari, realizzate su spartiti manoscritti degli anni Venti di musicisti che eseguivano opere del Maestro lucchese. Si possono vedere a Montecatini presso le Terme del Tettuccio, in uno spazio gestito dalla Galleria Turelli, o in studio da me in via Mazzini al Forte, naturalmente. In agosto poi inauguro una mostra a Forte dei Marmi, sempre nel mio studio, con il mio caro amico Giuliano Grittini, il titolo dell’esposizione è tra musica e poesia dipinti anche a quattro mani su spartiti e poesie di Alda Merini, alla quale Giuliano era legatissimo. Una mostra tutta da vedere!”.
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La vita Nato a Pietrasanta (Lucca) nel 1966, Domenico Monteforte si diploma nel 1990 all’Accademia di Belle Arti di Carrara nel corso di pittura di Umberto Buscioni. Vive e lavora a Forte dei Marmi. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri: Vittorio Sgarbi, Dino Carlesi, Tommaso Paloscia, Teodosio Martucci, Domenico Montalto, Rossana Bossaglia, Paolo Levi, Emanuela Mazzotti, Romano Battaglia, Alda Merini, Paolo Rizzi, Marcella Coltri, Giorgio Pilla, Flavio Arensi, Marina Cotelli, Michela Danieli, Sergio Garbato, Lodovico Gierut, Mario Bernardi Guardi. Dal 2005 tre opere di Monteforte di cm 80x120, fanno parte della collezione del Senato della Repubblica presso Palazzo Madama in Roma. Nel 2007 un’opera di Monteforte “L’albero della vita”, cm 80x60 è stato donato al Santo Padre, Papa Benedetto XVI durante un’udienza pubblica a Roma. Premio “Torre di Castruccio” a Domenico Monteforte 16 ottobre 2010, Carrara, Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti. Assegnazione del Premio Torre di Castruccio per l’Arte a Domenico Monteforte: le motivazioni sono “per il suo impegno e qualità nel mondo dell’Arte e per essere un esempio per le nuove generazioni”. Il Premio viene assegnato annualmente ed è alla XVIII edizione, è sotto l’Alto Patricinio della Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dei Beni e Attività Culturali della Regione Toscana. È stato assegnato nelle scorse edizioni, tra gli altri a: Nelson Mandela, Papa Giovanni Paolo II, Margherita Hach, Luciano De Crescenzo, Sergio Zavoli, Stefano Zecchi, Vittorio Messori, Mario Luzi, Carlo Lucarelli, Vittorio Sgarbi, Floriano Bodini, Giò Pomodoro, Antonino Zichichi, Valter Veltroni.
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LA NUOVA FRONTIERA DELL’ARTE La stampa digitale spiegata da Alessandro Paron
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ià nel 1936 il filosofo tedesco Walter Benjamin si interrogava sulla sorte delle opere d’arte nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Avrebbero perso l’aura, quella sorta di patina magica che viene dalla loro unicità? Benjamin pensava alla fotografia, al cinema, alla stampa tipolitografica che permettono la duplicazione di opere d’arte. Lo sviluppo tecnico ha dato risposte chiare, e nel secolo che si è da poco concluso, i multipli serigrafici di Andy Warhol, sospesi tra unicità e serialità, hanno ampliato il concetto stesso di produzione artistica. Al giorno d’oggi la nuova frontiera della produzione artistica è la stampa d’arte digitale, che si avvale di computer e stampanti di alta tecnologia. In posizione d’eccellenza all’interno di queste ultime tendenze troviamo una ditta toscana, la Paron & C. srl di Livorno. Nata nel 1985, l’azienda livornese guidata da Alessandro Paron ha introdotto – per prima in Italia – la tecnica Digigraphie by Epson applicata alla pittura, un sistema di produzione di opere che assicura standard qualitativi elevatissimi basandosi sulla tecnologia messa a punto da Epson, uno dei leader mondiali dell’elettronica, in particolare nel settore delle stampanti digitali. Digigraphie garantisce una produzione ad alta definizione, con una qualità finale superiore sotto
vari aspetti alla litografia tradizionale, all’alogenuro d’argento o alla stampa offset. I colori sono più luminosi, la gamma tonale piena e ricca di sfumature. Le caratteristiche dei pigmenti rivestiti di resina utilizzati per gli inchiostri sono tali che l’immagine – riprodotta su una ampia varietà di supporti – non si altera nel tempo. Il concetto della produzione di un’opera originale in numero limitato, tipico della tradizionale litografia, è entrato dunque stabilmente nel mondo digitale. “L’impiego della procedura Digigraphie by Epson – spiega il responsabile del laboratorio Alessandro Paron – è cresciuto, tanto che questa tecnica, che avevamo battezzato ‘litografia 2.0’, una nuova generazione della grafica d’arte, può essere considerata un nuovo pennello, un ulteriore strumento in mano all’artista, sia esso
un pittore, un grafico o un fotografo”. Quali sono le nuove frontiere della stampa digitale? “Si fa strada una nuova interpretazione della riproduzione dell’originale analogico, che può portare non solo al multiplo, ma ad un nuovo originale, un’opera unica differente dal prototipo e quindi non più “riproduzione”, ma vera e propria “opera” sia unica o multipla.. Normalmente, come avviene per la litografia, si parte da un originale, per esempio un dipinto, che viene prodotto in un numero limitato e certificato. Se però l’artista decide di digitalizzare il suo dipinto, e su questo, supportato dal tecnico del nostro laboratorio, esegue personalmente degli interventi diretti di modifica (ritocchi, variazioni nella tonalità, nei colori, nei contrasti), in una parola introduce dei nuovi significati, delle emozioni personali, ottiene un’opera d’arte diversa dal dipinto di partenza. E può decidere anche di realizzarne un’unica copia. Avremo così un unicum digitale, che porta il segno della personalità dell’artista. In questo senso si parla di digigrafia come di un nuovo pennello, che permette al creativo di fare delle variazioni significative”. Questo quanto sta cambiando il modo di produrre arte? “Tutto quello che la storia ci ha dato rimane, non viene gettato
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via nulla. La digigrafia è soltanto un potente e affidabile strumento in più, messo a disposizione dell’artista. Il processo creativo non cambia, né muta la natura dell’arte. C’è soltanto un’opportunità in più. Le produzioni digigrafiche sono garantite da una filiera certificata, gli inchiostri e i supporti fine art impiegati (una cinquantina) consentono una ragguardevole durata nel tempo. Le stampe digitali da noi realizzate vengono sottoposte a prove di invecchiamento da parte di un laboratorio inglese indipendente, che ha certificato una durata superiore anche ai 100 anni. Il nostro laboratorio agisce secondo un codice deontologico, appone un timbro che certifica la qualità e la tiratura. Il controllo principale resta però nelle mani del singolo artista, che riconosce l’opera come propria e la firma. E’ fondamentale il rapporto che si crea fra noi stampatori e l’artista. Abbiamo un approccio artigianale in senso buono, basato sul dialogo e
la reciproca conoscenza”. Qual è la reazione degli artisti e dei collezionisti al primo impatto di fronte a questa nuova tecnica? “Noi collaboriamo da tempo con artisti di ottimo livello. Al primo approccio c’è ovviamente, da parte loro, una iniziale cautela. Poi, di fronte alle prime prove sul campo, c’è un apprezzamento e un vero e proprio entusiasmo. I collezionisti apprezzano, in un momento di crisi come l’attuale, una tecnica che dà risultati superiori alle tradizionali tecniche litografiche o tipografiche”.
Ci sono in campo nuovi progetti? “Quest’anno, il 17 gennaio scorso, abbiamo inaugurato la prima galleria d’arte digigraphie, la Tst Art Gallery. Proponiamo opere digigraphie di un artista diverso ogni mese, con buon successo di pubblico ma anche di vendite. Il visitatore mostra spesso stupore nell’esaminare i risultati: frequentemente i collezionisti vanno a sfiorare l’ opera con le dita, quasi a voler toccare con mano l’effetto di tridimensionalità tipico della digigrafia. Nelle prossime settimane lanceremo il primo concorso di arte in Digigraphie by Epson. E’ una novità assoluta per l’Europa, il bando è quasi pronto”. Paron & c. srl Laboratorio tistampotutto - TST Art Graphic - TST Art Gallery Corso Amedeo 190/196 57125 Livorno Tel. 0586 897771 cell. 348 8014120 alessandro.paron@gmail.com www.tistampotutto.com fb: TST Art Graphic premio celeste: TST Art Graphic
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GALLERIE IN FIERA pag. 90 AMSTEL ART GALLERY Stand 28-31 pag. 94 ANONIMA ART PROJECT Stand 27-32-33 pag. 100 ANSELMI ARTE Stand 09 pag. 102 ARTEMISIA Stand 05 pag. 103 ARETUSA ARTE CONTEMPORANEA Stand 12 pag. 106 ARTINVEST Stand 38-39-40-45-46-47 pag. 114 ARTPOINT FIRENZE Stand 26 pag. 118 BETTINI & CO. Gallery Stand 22-22 bis pag. 22 MARINO COLLECCHIA Stand 30
pag. 124 ENTROTERRA Stand 07 pag. 127 FANTASIO & JOE Stand 29 pag. 130 GALLERIA ASTROLABIO Stand 08 pag. 134 Galleria FILISETTI ARTE CONTEMPORANEA Stand 06 pag. 136 Galleria GS. SERATTINI Stand 34-35-41-42 pag. 138 Galleria LAZZARO BY CORSI Stand 19 pag. 140 Galleria WORLD ART Stand 03 - 04 pag. 144 GIOVANNI MARINELLI Stand 48 pag. 32 GIGI GUADAGNUCCI Stand 14 -15
pag. 146 LA TELACCIA BY MALINPENSA Stand 23 - 24 - 25 pag. 152 OUT ARTE Stand 21 pag. 154 PAVESI FINE ARTS Stand 10 pag. 158 ALBERTO PISTORESI Stand 01 - 02 pag. 94 CARLO PITERÀ Stand 13 pag. 163 PROGETTO FORMAE MENTIS Stand 16 pag. 166 PROPOSTE D’ARTE CONTEMPORANEA Stand 11 pag. 16 ALIGI SASSU Stand 18 pag. 170 SPIRALE MILANO Stand 36-37-43-44
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MArco lodola: illumination Dalla Amstel Art Gallery di Londra ad ArteForte 2011
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opo il successo ottenuto a Londra, Amstel Art Gallery porta ad ArteForte le tele e le sculture luminose di Marco Lodola, il virtuoso della luce che ha stregato ancora una volta Venezia e i suoi canali con la sua nuova e particolarissima installazione: “Ca’ Lodola”. L’artista quest’anno ha infatti partecipato nuovamente alla Biennale di Venezia, attraverso un particolarissimo evento collaterale organizzato da Luca Beatrice e Vittorio
Sgarbi, che ha visto sinuose ed intriganti opere scultoree avvolgere di luce neofuturista la storica Ca’ d’oro veneziana. E proprio parlando della luce, protagonista delle sue creazioni, Lodola dice: «È diventata più importante del colore. Siamo un’infinitesima parte dell’universo: l’unica via di fuga, il solo tentativo per l’uomo di farsi vedere è quello di ILLUMINARSI!». E questa luce si sprigiona avvolgente dalle sue icone senza volto, dalle con-
1 Marco Lodola 1) "Jacko" Scultura in perspex e neon, 147x77x12 cm 2) "Mini" Scultura in perspex e neon, 134x86x12 cm 3) "Coca Cola" Scultura in perspex e neon, 150x66x12 cm 4) "Bacio" Scultura in perspex e neon, 109x90x12 cm 5) "Vespa" Scultura in perspex e neon, 112x97x12 cm 2
turbanti pinup che viaggiano a tutta velocità sulle loro Vespa, che stringono chitarre elettriche come in un’assolo da concerto, accompagnate dalle grandi icone della musica come Jimi Hendrix o Michael Jackson o da teneri amanti che si baciano come sospinti da note di colore e di gioia. Emozioni di luce e colore vi aspettano quindi ad ArteForte da Amstel Art Gallery, stand 28 & 31. Amstel Art Gallery nasce nel 2008
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da un’idea di Leandro Amstel Grasso, giornalista, appassionato ed eclettico collezionista d’arte che, in poco tempo, diventa un punto di riferimento nell’ambito artistico internazionale.
Dopo soli due anni dall’apertura della sede di Milano, una nuova galleria viene aperta a Londra, la capitale europea del settore. Presenti nelle principali fiere di Arte Moderna e Contemporanea
italiane ed europee, entrambe le gallerie offrono servizi e soluzioni dedicati sia al collezionista più esigente che al neofita appassionato. Leandro Amstel fornisce ai propri clienti anche consulenza
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e valutazione gratuita di opere d’arte, oltre a curare mostre ed eventi in ambienti istituzionali e palazzi storici, con il patrocinio di Comuni ed istituzioni pubbliche e private.
6) "Il volto degli altri" Scultura in perspex e neon, 105x97x12 cm 7) "Jimi" Scultura in perspex e neon, 123x58x12 cm 8) "Love me Fender" Scultura in metallo sagomato e neon, 141x62x12 cm
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Amstel Gallery Viale Campania, 5 - 20133 Milano Tel. +393343311885 info@amstelgallery.it - www.amstelgallery.it Amstel Art Ltd 59 Fashion Street E1 6PX Brick Lane, London Tel. +447580853255 info@amstelart.com - www.amstelart.com
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ASSOCIAZIONE CULTURALE ANONIMA ART PROJECT Chi siamo. associazione culturale Anonima Art Project nasce dal progetto di un consulente d’arte e collezionista in collaborazione con un critico, allo scopo di rinnovare e consolidare un’esperienza pluridecennale maturata in ambito espositivo ed organizzativo in sinergia con artisti che da molto tempo collaborano,
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a diverso titolo, alle iniziative, allo scopo di valorizzare i diversi talenti sul piano commerciale e promozionale consentendo a chi non ha ancora un’identità accreditata presso il grande pubblico di uscire dall’anonimato. L’associazione deve il proprio nome sia ad una riflessione auto ironica sia ad una provocazione nei confronti dell’esasperato
individualismo che costituisce il profilo di molti ambienti artistici suggerendo contemporaneamente l’idea di un progetto artistico sostenibile. Tutti coloro che ancora non hanno avuto un’occasione ma si qualificano attraverso un lavoro originale e accurato hanno la possibilità di trovare spazi adeguati e visibilità attraverso un’organizzazio-
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Marc Kostabi 1) Olio su tela, 2008, 30x30 cm Domenico Monteforte 2) “Ginestre”, 2011 Dipinto su spartito manoscritto del 1921, 40x60 cm Marino Collecchia 3) “Contadino nel colore” Tecnica mista, 63x63 cm Marc Kostabi 4) “Hight Line”, 2009 Olio su tela, 30x40 cm
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ne che privilegia le esposizioni fieristiche e cura mostre presso spazi privati e pubblici. Nell’ambito delle varie attività artistiche di Anonima Art Project si è costituito un
gruppo di lavoro a cui hanno aderito artisti che si occupano della promozione e produzione dell’arte contemporanea nelle sue diverse espressioni. Gli artisti che desiderano condivide-
re con noi questa esperienza e aderire al progetto possono dare la loro adesione gratuitamente contattando direttamente l’organizzazione.
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Che cosa facciamo. Da più di quindici anni siamo presenti alle manifestazioni fieristiche nazionali più significative: Arte Padova, Arte Genova, Fiera d’Arte di Reggio Emilia, Bergamo, Carrara, Forte dei Marmi. In queste occasioni,maestri di fama internazionale trovano posto accanto agli artisti che di norma partecipano al progetto espositivo; curiamo inoltre mostre personali e collettive in sedi istituzionali. Il nostro progetto si completa con la progettazione e redazione di cataloghi, brochure, testi critici e articoli su importanti riviste specializzate.
Carlo Piterà 5) “Caronte”, 2009 Olio su tavola, 180x187 cm 6) “L’Esca”, 2008 Olio su tavola, 132x202 cm 7) “L’Era di Caino”, 1998 Olio su tavola, 240x200 cm 7
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Antonio Barrani 8) “Viaggio su Marte”, 2011 Tecnica mista, 110x50 cm Luciano Viani 9) “Elefanti” Olio, 50x50 cm
Anonima Art Project Via Rotella, 1 35040 Barbona (PD) Tel. 348 4112981 (Claudio Biondani) Tel. 349 3989755 (Emanuela Mazzotti)
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STUDIO D’ARTE FRANCO ANSELMI di Vittorio Sgarbi - Da: “Le scelte di Sgarbi” ed. Mondadori Milano
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ranco Anselmi è un artista che ha due doti: la preziosità della stesura del colore e la vena ludica che suscita giocosità e divertimento. La stesura del colore non è qui un gesto qualsiasi, ma il risultato di una istintualità preveggente, di una capacità di progettazione che lascia tuttavia libera la mano all’estro del momento. Troppo spesso l’arte contemporanea giustifica la sua ragione di esistere lanciando messaggi impegnati. Franco Anselmi , al contrario, ci comunica la giocosa serietà dell’infanzia con la sua capacità di evocare immagini dalle fiabe e di dare concretezza ai sogni . Anselmi è un pittore che si distingue sulla scena contemporanea per il coraggio che dimostra nel respingere la tentazione di fare filosofia o sociologia, come troppi suoi colleghi. II suoi quadri ci conducono nel mondo degli animali, spassosi gatti guerrieri, o mici monocoli un po’ sbronzi davanti ad una bottiglia in cui annegano chissà quale dolore , civette e gufi ilari e inoffensivi. Il divertente
zoo di Franco Anselmi è anche un palcoscenico di animali grossi ma non grossolani, pensiamo agli elefanti a cui fanno da contrappunto i cavalli che sembrano un po’ matti. Il suo universo è popolato anche di giocolieri baffuti, in stile anni trenta , di signore incappellate e persino di Madonne con bambino che si intrecciano in un immaginario pseudo-cubista. Anselmi è un poeta del quotidiano che guarda il mondo che lo circonda riscrivendolo poeticamente, come se fosse la visione di chi per la prima volta riepiloga dentro di se l’alfabeto della vita. Che siano animali o giocolieri in un paesaggio impossibile egli riesce a trascinarci per mano e con garbo in un mondo bidimensionale e coloratissimo. La caratteristica comune nelle raffigurazioni umane e animali di questo artista è il fatto di avere quasi sempre un occhio solo; la semicecità è risparmiata solo ai gufi forse perché nottambuli e quindi più prossimi al mondo onirico. Per gli altri, donne, uomini, cavalli, gatti, tartarughe e iguana,
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quell’occhio solo è un ammiccamento gentile e forse lo specchio della nostra stessa incapacità di distinguere il vero dal falso. Il mondo di Anselmi è un mondo arcano e arcaico che ha il potere di incantarci, nei suoi piccoli borghi medioevali, silenziosi e metafisici, la fiaba si intreccia alla storia. In altri casi sono addirittura rievocati gli stilemi
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Franco Anselmi 1) “Gufo” Olio su tela, 100x100 cm 2) “Colazione” Olio su tela, 50x50 cm 3) “Gufo” Olio su tela, 60x60 cm
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dell’antico Egitto e della simbologia azteca . Queste figure in particolare evocano i reperti archeologici e da tutto questo Franco Anselmi riesce, senza traumi, ad assemblare e creare una scenografia di insieme vivace ed esplosiva . Le sue opere si sviluppano su una voluta mancanza di profondità. Avendo evidentemente approfondito l’arte medioevale non prospettica , nella sua ricerca si rintraccia - al di là della evidente ironia che irrompe dalle sue composizioni, come una sorta di avvertimento a non prenderlo troppo sul serio- una precisa rivisitazione delle stesure grottesche e una cultura molto ben radicata nella tradizione italiana prerinascimentale dell’affresco. In particolare il ricordo dell’arte bizantina sembra aver impresso alle immagini di Anselmi una sorta di blocco, che congela la gestualità delle figure rappresentate. Artista indubbiamente colto, direi che egli ha anche compiuto incursioni nell’arte del lontano Oriente, da cui derivano certi suoi modi grafici e calligrafici. Nel suo horror vacui, che lo porta a non lasciare neanche il minimo spazio libero sulla superficie affrescata delle sue opere, nello spessore del colore squillante troviamo la personalità intrigante di un artista di forte manualità e di notevole intelligenza. Studio d’Arte Franco Anselmi Via del Borgo Botteon, 74 Vittorio Veneto (TV) - Tel\Fax 0438 568900 gallery@anselmiarte.it
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Roberto RASCHIOTTO Roberto Raschiotto è nato in Azzano Decimo nel 1950. Dagli anni settanta lavora nel campo dell’arte come pittore e scultore. Negli anni ottanta abbandona la pittura per dedicarsi completamente alla scultura orientando la sua ricerca nel figurativo di corrente espressionista. Al suo attivo si contano numerose opere di carattere monumentale in Italia ed all’Estero.
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1-2) Roberto Raschiotto “Figura femminile” 3) “Biciclette”
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GIUSEPPE
info@gfioroni.it - www.gfioroni.com
FIORONI
La selva oscura, 2011, tecnica mista su tela, cm 100 x 120
Un mondo semplice e popolare fatto di valori concreti e immediatamente percepibili, valori che siamo abituati a condividere come patrimonio comune delle abitudini dei nostri avi, dei nostri padri, di noi stessi dotato di una sua particolare delicatezza, pieno di saggezza secolare nella sua serenitĂ da filastrocca, per niente compiaciuto quando conduce la vena primitiva, memore di Chagall e di Matisse. Viaggio astrale, 2011, tecnica mista su tela, cm 100 x 120
Opere in permanenza
Perugia
Exhibited in
London
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INTERVISTA A MARCO LUPORINI Q
uando è nata l’idea di fondare una galleria? L’idea di fondare una galleria d’arte mi è venuta nel 2001, quando a 27 anni avevo ormai interrotto i miei studi alla facoltà di beni culturali di Pisa per gravi problemi di salute. Pensai di aprire uno spazio per l’arte a Marina di Carrara, la mia città per poi trasferirmi a Pietrasanta detta, anche la piccola Atene,
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dove era tutto un fiorire di gallerie, nel 2008, aiutato in questo da mia madre, anche lei grande appassionata d’arte e già collezionista. Qual’era la situazione del mercato, quale pubblico frequentava la sua galleria? La situazione nel mondo dell’arte era allora migliore di adesso, perché la crisi ci aveva appena sfiorato. La galleria era frequentata
da amici, conoscenti, collezionisti che ci iniziavano a conoscere. Quali sono state le sue scelte all’inizio? Quali artisti ha privilegiato? Ho sempre privilegiato artisti già affermati e storicizzati contemporanei, quali Scatizzi, Mondino, Schifano, Carroll, Angeli, Festa, Dorazio etc. Continuo a preferire questi artisti, allargandomi anche a quelli più attuali, quali Ronda,
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Pignatelli etc. e dando spazio anche a qualche giovane emergente quale Lofilo, Di Ciolo e altri. Quanto è importante per un gallerista conoscere la Storia dell’arte? Credo sia importante conoscere la storia dell’arte perché ti permette di capire meglio anche gli artisti contemporanei e di trovare in loro degli elementi di richiamo al passato. Che cosa apprezza di più in un lavoro d’artista, che sia commercialmente interessante, oppure le tecniche esecutive, l’idea originale? I materiali usati? (Anche se capisce che è poco commerciale?) Sicuramente in un artista apprezzo l’originalità ma anche il talento esecutivo e la capacità di suscitare emozioni. In che modo la critica influenza il mercato? I critici d’arte influenzano sicuramente il mercato dell’arte,ma bisogna fare attenzione a quelli che veramente hanno una grossa formazione culturale e che non si fanno influenzare da elementi di carattere economico e commerciale. Le piacerebbe aprire una galleria all’estero, magari in America o in Inghilterra? Mi piacerebbe aprire una galleria a New York, che è sede del maggior mercato dell’arte nel mondo. Quali sono i suoi interessi oltre l’arte contemporanea? M’interessa tutta l’arte, da quella antica, greca, romana, medievale, rinascimentale a quella contemporanea.
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Quale artista preferisce da sempre? Il mio artista preferito è il Caravaggio per il passato, attualmente in Italia è Schifano, per il resto del mondo è il tedesco Anselm Kiefer. Quale mostra le ha dato maggiori soddisfazioni? Fra le tante mostre che ho presentato, quella di maggior successo è stata una mostra di acqueforti di Picasso.
1) Mondino “Turcata”, 40x40 cm 2) Rabarama Bronzo dipinto
Aretura Arte Contemporanea Viale Guglielmo Oberdan, 8/10 55045 Pietrasanta (LU) Tel. +39 339 6744450 aretusa.arte@live.com www.aretusarte.it
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pietrasanta
via stagio stagi, 68 +39 0584 791364 ristoroilgiglio@gmail.com
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DA PICASSO AI GIOVANI TALENTI Un percorso nella storia con la gioia di ammirare opere straordinarie di Paola Simona Tesio, ufficio stampa Artinvest srl
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a più antica torre di Rivoli, alle porte di Torino, conosciuta dai più come “Torre della Filanda”, torna a risplendere ed essere parte attiva della Città. Situata in Via Al Castello, 8 la costruzione risale all’incirca al 1200 e si pensa che sia stata innalzata, vista la sua vicinanza al Castello, per una funzione difensiva dello stesso e come casaforte per ospitare gli armigeri e occasionalmente, il Signore che ne deteneva il titolo. Dopo anni
di abbandono, nell’ottocento, la Torre fu inglobata nel complesso di fabbricati occupati da una filatura che ne determinò il nome attuale “La Torre della Filanda”. Nuovamente abbandonata per diversi anni andò in completa decadenza. E’ stata recentemente restaurata ed ora adibita a galleria d’arte moderna. La struttura è costituita da più livelli. Al piano terreno l’ingresso conduce a due sale espositive con ampie aperture finestrate verso via al Castello e verso la sala caffè ed i locali di servizio. Una scala in pietra porta ai tre livelli superiori a pianta quadrata, tipico di tali costruzioni medioevali. L’ultimo livello è un eccezionale punto panoramico a 360° gradi sulla città di Rivoli, arco alpino e Torino. Un ampio soppalco è utilizzato ad uso ufficio privato. Tutti i livelli sono collegati da un ascensore. La location è suggestiva: una torre medioevale del 1200 nel centro storico urbano, dislocata su cinque livelli con un belvedere all’ultimo piano, un punto panoramico a 360° sulla città cui fa da cornice l’arco alpino. La destinazione è quella di museo e galleria d’arte dove trovano spazio i grandissimi dell’arte mondiale del passato, Picasso, Chagall Leger, e giovani emergenti, i grandi di domani. «La nostra - spiega il direttore artistico Roberto Girardi, creatore, tra l’altro, del portale didattico Artinvest 2000, una sorta di
Wikipedia dell’arte consultato da circa 8 milioni di persone al mese – è una galleria che vuole proporre nuovi talenti, perché sono loro che consentono all’arte di continuare a vivere. Un’arte, quella contemporanea, che noi concepiamo come fruibile, comprensibile, soprattutto arte informale e concettuale». Alle sale espositive della torre, destinate ad ospitare le mostre personali, si aggiunge poi il museo, «un museo dove sono esposte opere importanti che tutti possono ammirare gratuitamente». E ad ottobre, annuncia Girardi, la galleria promuoverà la prima edizione del concorso “Tower prize”, rivolta ad artisti nazionali e internazionali. «Giungeranno da varie parti del mondo, dall’Europa, dall’America, dai paesi dell’est. Il concorso si articolerà in due sezioni, una a tema libero e l’altra legata alla riflessione “L’uomo e il contemporaneo”. In palio ci saranno premi importanti e per i vincitori l’occasione di esporre alla galleria». La vocazione di Artinvest è quella di tornare a fare il mestiere del gallerista, cercare nuovi artisti e farli crescere, portarli in giro per il mondo e farli ammirare da quanta più gente possibile, solo così può nascere il consenso, aggiungendo valore. I due soci, Roberto Girardi e Giuseppe Magnotta sono fermamente convinti che
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La sala museo
l’Arte non possa prescindere da un percorso artistico, non ci si può improvvisare pittori, perché è bello o pensando che sia un modo per guadagnare facilmente, l’Arte è sacrificio, sudore è un pizzico di follia unita al genio. Spesso ci troviamo spiazzati dice Magnotta, quando ci troviamo difronte a pseudo-artisti che si presentano in galleria con prodotti inguardabili offerti a prezzi stratosferici, pensano che il prezzo giustifichi il valore di chi lo ha dipinto, come fosse un equazione “prezzo alto=grande artista”.
Il grande artista lo si riconosce non dall’esaltazione ma proprio dal suo opposto. E’ l’umiltà e la consapevolezza che le sue opere siano imperfette a caratterizzare il grande artista, l’Arte è un percorso che non finisce mai, ogni giorno ci si confronta e si cercano nuove idee per rendere l’opera sempre più vicina al proprio pensiero, nulla è perfetto, tutto è perfettibile. “Gli artisti che cercano la perfezione in tutto sono quelli che non la raggiungono in nulla.” Diceva Delacroix e quello che ci dicono i nostri artisti…….
Arte come piacere della vista, cibo per saziare i palati più raffinati, un connubio unico per cui partecipare diventerà un piacere tutto esclusivo dedicato a persone raffinate e che ci consentirà di dimostrarvi che esistono ancora luoghi elitari e persone che vi credono tali. Fra gli artisti di riferimento spiccano i nomi di Giorgio Flis, Martino Bisacco, Mario Giammarinaro, Vincent Poche, Giuseppe D’Antonio, Katarzyna Jasiukiewicz, Amerigo Dorel, Ma-
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Un nostro vernissage
Un nostro vernissage. nuela Raimondo, Elisa Donetti, un patrimonio degno di nota. bilità, la nostra ideazione è oraAntonio Saporito, Vittorio VarPresenti nell’esposizione permai diventata un icona, l’area Arte comeScaggion, piacere della vista, cibo per saziarelai palati più raffinati, un connubio unico percon cui arredi partecipare rè, Doris Angela Betmanete pregevole “Tête de viene allestita rossi ta Casale.un A piacere questi situtto uniscono Pablo Picasso, si stagliano su pareti nere, diventerà esclusivofemme” dedicatodia persone raffinatetele e che che ci consentirà di dimostrarvi che altri numerosi talenti, nazionali di Wassily Kandinsky, Marc atte ad esaltare le opere espoesistono ancora luoghi elitari e persone che vi credono tali. ed internazionali, che di volta in Chagall, Giacomo Balla, Mario ste. Il nome di ogni artista viene volta adriferimento incrementare la iSchifano oltre quadri di pregeevidenziato da marinaro, apposita iscrizioFra glivanno artisti di spiccano nomi di Giorgio Flis, Martino Bisacco, Mario GiamVincent rosa di presenze. vole raffina raffinatezza e di inne e vi potranno trovare spazio Poche, Giuseppe D’Antonio, Katarzyna Jasiukiewicz, Amerigo Dorel, Manuela Raimondo, Elisa Donetti, La galleria, una delle più grandi dubbia valenza storica del Treanche delle sculture. Come sotAntonio Saporito, Vittorio Varrè, Doris Scaggion, Angela Betta Casale. A questi si uniscono altri numerosi d’Italia, partecipa a molteplici cento. tolinea il direttore della galleria talenti, nazionali ed internazionali, che di volta in volta vanno ad incrementare la rosa di presenze. fiere e manifestazioni di caraFra le recenti fiere a cui ha parRoberto Girardi «La nostra pretura internazionale, allestendo tecipato lo staff di Artinvest ocsenza è sempre salutata con faLa galleria, una delle più grandi d’Italia, partecipa a molteplici fiere e manifestazioni di caratura stand che sono sempre salutati corre menzionare quelle di Porvore dai media sia per la qualità internazionale, allestendo stand che sono sempre salutati con successo dai mass media per la qualità delle con successo dai mass media denone, Cremona e Genova. delle opere, la ricerca dell’amopere proposte e per la presenza di pezzi di indubbio valore. Non bisogna infatti dimenticare che vanta di per la qualità delle opere probientazione e sia per la presenza un patrimonio degno di nota. Presenti nell’esposizione permanete la pregevole “Tête de femme” di Pablo poste e per la presenza di pezzi I nostri stand sono sempre partidi pezzi di caratura storica che Picasso, tele di Wassily Kandinsky, Marc Chagall, Giacomo Balla, Mario Schifano oltre quadri di pregevole di indubbio valore. Non bisogna colarmente curati, per far si che siamo soliti esporre in questi raffina di indubbia storica ricevano del Trecento. infatti raffinatezza dimenticareeche vanta divalenza gli artisti un’alta visieventi. È un modo per creare un Fra le recenti fiere a cui ha partecipato lo staff di Artinvest occorre menzionare quelle di Pordenone, Cremona e Genova.
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Il nostro stand ad Arte Pordenone
Il nostro stand ad Arte Pordenone Iincontro nostri stand sono contemporasempre particolarmente curati, per far siinvestiche gli artisti ricevano un’alta la quindici giorni nuovivisibilità, vernissacon l’arte na di opere. Intendiamo nostra ideazione è oramai diventata un icona, l’area viene allestita con arredi rossi che si stagliano su pareti ge, perché crediamo che la dinea tenendo però vivo il legame re sui nomi emergenti e sull’arte nere, atte ad maestri. esaltare le opere esposte. Il nome di ognied artista viene evidenziato da apposita iscrizione e vi versificazione significhi sopratcon i grandi locale, nazionale internaziotutto investimenti. potranno trovare spazio anche delle sculture. sottolinea il direttore della galleria Roberto Girardi «La Da settembre apriremo un nuonale. NonCome si tratta soltanto di un vo spazio nella metropoli nostra presenza è sempre torisalutataampliamento con favore dai sia una per la qualità delle opere, la ricerca ma media anche di A nostro avviso insolo operando nese, sarà una location diversificazione concettuale. dell’ambientazione e siaall’avanper la presenza di pezzi di caratura storica che siamo soliti esporre questi eventi. sceltevivo vincenti è possibile evitadi oltre 300 metri quaAlla l’arte “Torre della Filanda”tenendo po- però Èguardia un modo per creare un incontro con contemporanea il legame con i grandi re la crisi del mercato dell’arte e dri, in una zona centrale della tranno essere organizzati eventi maestri. dare spazio adeguato ai talenti». città, accessibile e fruibile grazie in tema le peculiarità archiDa settembre apriremo un nuovo spazio nellacon metropoli torinese, sarà una location all’avanguardia di oltre In quest’ottica s’inserisce anche all’ampio tettoniche eleganti del luogo, 300 metri parcheggio quadri, in circostanuna zona centrale dellaedcittà, accessibile e fruibile grazie all’ampio parcheggio il concorso “Tower Price” le te. Le sale espositive verranno mentre nella nuova location, circostante. Le sale espositive verranno suddivise in differenti ambienti in cui si potranno realizzare cui iscrizioni sono appena state suddivise in differenti ambienspazio più “metropolitano” capersonali multiple o collettive di ampio respiro. Ogni area sarà differenziata ed esclusiva, basti pensare che aperte e che la possibi-e ti insingolo cui siartista potranno ratterizzato da di uno “urban stun potràrealizzare esporre anche una trentina opere. Intendiamo investire suiprevede nomi emergenti di partecipare personalilocale, multiple o collettive di yle” intendiamo apriresoltanto le portedi unlità sull’arte nazionale ed internazionale. Non si tratta ampliamento ma gratuitamenanche di una te alla prima fase, fino ampio respiro. Ogni area sarà a differenti linguaggi espressivi diversificazione concettuale. Alla “Torre della Filanda” potranno essere organizzati eventi ininviando tema con le a tre immagini di opere pittoridifferenziata ed esclusiva, basti che siano interessanti dal punto peculiarità architettoniche ed eleganti del luogo, mentre nella nuova location, spazio più “metropolitano” che,linguaggi scultoreeespressivi o fotografiche. Da pensare che un singolo artista di vista estetico caratterizzato da uno “urban style” intendiamo apriree lecontenutistiporte a differenti che siano una giuria composta di esperti potrà esporre anche una trentico. eOffriremo al pubblico ognial pubblico interessanti dal punto di vista estetico contenutistico. Offriremo ogni quindici giorni nuovi vernissage, perché crediamo che la diversificazione significhi soprattutto investimenti.
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verranno decretati i quaranta finalisti che, a fronte di una quota di iscrizione, potranno così accedere al momento finale. Il tema è libero ma vi è un’apposita sezione, dedicata al premio della critica, in cui i partecipanti dovranno interrogarsi oltre che su un tema libero, sull’argomento“ L’uomo e il contemporaneo”. A tal proposito si potrebbe citare una fine riflessione espressa dal filosofo Giorgio Agamben «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso,
Mario Giammarinaro
inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». L’evento, patrocinato dalla Città di Giaveno, culminerà con l’esposizione della collettiva dei finalisti presso la rinomata location di “Torre della Filanda” dal 25 settembre al 9 ottobre, in quest’ambito è previsto anche il giudizio del pubblico che potrà intervenire decretando, attraverso la compilazione di schede messe a disposizione, il nome dell’artista che preferisce, indipendentemente dalla sezione
libera o a tema a cui si è iscritto ed esso verrà gratificato con una reflex digitale. Il primo premio per coloro che prendono parte al settore libero consiste nella vincita di un esposizione individuale di quindici giorni presso la galleria “Torre della Filanda” mentre il riconoscimento della critica, destinato a chi avrà interpretato ed espresso meglio il significato del tema proposto nella relativa sezione, sarà la partecipazione a due fiere d’arte nazionali a cui presenzierà Artinvest. Tutta la modulistica per le iscrizioni è a disposizione sul sito www.artin-
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vest.it ed è stata istituita una mail per le adesioni ed informazioni: prize@artinvest.it La città di Giaveno, rinomata località della Provincia di Torino, è stata già partnership di un altro rilevante evento che si è tenuto il 10 aprile scorso ed ha visto la presenza della bellissima attrice Marina Suma, invitata ad esporre per la prima volta in una
Giorgio Flis
galleria i suoi creativi monili della collezione Leni. Come sottolinea l’assessore Stefano Tizzani «È stato un onore patrocinare l’iniziativa che ha visto la presenza di una personalità di rilievo del calibro Marina Suma che tutti conosciamo e ricordiamo per la sua intensa carriera artistica. Artinvest è anche un importan-
te portale didattico (www.artivest2000.com) in cui il fruitore può essere informato delle più significative correnti artistiche ed inoltre apposite pagine del sito vengono dedicate agli artisti che prendono parte anche ad un singolo evento fra quelli proposti. Ad ognuno di loro viene offerta un’apposita sezione in cui è possibile inserire contenuti quali
112 ARTINVEST
Martino Bissacco
immagini e testi critici, promuovendone la visibilità. Come precisa Giuseppe Magnotta, responsabile delle acquisizioni «Cerchiamo di curare gli artisti in modo completo ed è doveroso che si sentano gratificati. Abbiamo inoltre dei critici di riferimento che si occupano della stesura dei testi ed il nostro sito è
fra i più visitati del settore. Pensiamo che investire significhi innanzitutto innovare e rinnovarsi costantemente. Il nostro obiettivo è di crescere in termini di strutture e di far crescere i talenti che intendiamo scoprire. Artinvest è una porta aperta sul mondo dell’arte».
ARTINVEST srl, galleria d’Arte Via al Castello 8, 10098 Rivoli (TO) Tel. 0119589313 - info@artinvest.it
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Vittorio Varrè
Elisa Donetti
Katarzyna Jasiukiewicz
La più antica torre di Rivoli, alle porte di Torino, conosciuta dai più come "Torre della Filanda", torna a risplendere ed essere parte attiva della Città. Situata in Via Al Castello, 8 la costruzione risale all’incirca al 1200 e si pensa che sia stata innalzata, vista la sua vicinanza al Castello, per una funzione difensiva dello stesso e come casa-forte per ospitare gli armigeri e occasionalmente, il Signore che ne deteneva il titolo. Dopo anni di abbandono, nell'ottocento, la Torre fu inglobata nel complesso di fabbricati occupati da una filatura che ne determinò il nome attuale "La Torre della Filanda". Nuovamente abbandonata per diversi anni andò in completa decadenza. E’ stata recentemente restaurata ed ora adibita a galleria d’arte moderna. La struttura è costituita da più livelli. Al piano terreno l’ingresso conduce a due sale espositive con ampie aperture finestrate verso via al Castello e verso la sala caffè ed i locali di servizio. Una scala in pietra porta ai tre livelli superiori a pianta quadrata, tipico di tali costruzioni medioevali. L’ultimo livello è un eccezionale punto panoramico a 360° gradi sulla città di Rivoli, arco alpino e Torino. Un ampio soppalco è utilizzato ad uso ufficio privato. Tutti i livelli sono collegati da un ascensore. La location è suggestiva: una torre medioevale del 1200 nel centro storico urbano, dislocata su cinque livelli con un belvedere all’ultimo piano, un punto panoramico a Giorgio Flis Antonio Saporito 360° sulla città cui fa da cornice l’arco alpino. La destinazione è quella di museo e galleria d’arte dove trovano spazio i grandissimi dell’arte mondiale del passato, Picasso, Chagall Leger, e giovani emergenti, i grandi di domani. «La nostra - spiega il direttore artistico Roberto Girardi, creatore, tra l’altro, del portale didattico Artinvest 2000, una sorta di Wikipedia dell’arte consultato da circa 8 milioni di persone al mese – è una galleria che vuole proporre nuovi talenti, perché sono loro che consentono all’arte di continuare a vivere. Un’arte, quella contemporanea, che noi concepiamo come fruibile, comprensibile, soprattutto arte informale e concettuale». Alle sale espositive della torre, destinate ad ospitare le mostre personali, si aggiunge poi il museo, «un museo dove sono esposte opere importanti che tutti possono ammirare gratuitamente». E ad ottobre, annuncia Girardi, la
La Torre della Filanda
Giuseppe D’Antonio
Vincent Poche
Manuela Raimondo
Galleria d’Arte ARTINVEST - Via al Castello 8, 10098 Rivoli (TO) - Tel. 011 9589313 - info@artinvest.it
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Luca Alinari 1) “Angelo, Centauri, Argento”, 2010 acrilico e resina su tela, 110x120 cm 2) “Senza titolo”, 2007 acrilico e resina su tela, Ø 100 cm
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ARTPOINT FIRENZE Galleria d’Arte Contemporanea
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’attività artistica della Galleria d’Arte Contemporanea Artpoint Firenze ha il suo esordio nello storico quartiere di Santa Croce a Firenze nel 1996 con la denominazione Art Point-Black. Nello spazio espositivo di Borgo Allegri si susseguono interessanti rassegne d’arte presentate dal titolare della Galleria Rolando Giovannini e coadiuvate dall’amico e critico d’arte Pier
Paolo Castellucci; dal 2002 gli eventi più significativi sono ideati e curati dalla direzione artistica di Marinella Di Gennaro. Nel 1998 viene istituito il premio di pittura “Abstracta” che rappresenta un’importante tappa nel percorso storico/artistico della Galleria e che raggiungerà nel 2006 la IX edizione. Nel 2004 e nel 2005 la Galleria riceve degli speciali contributi
letterari, stimabili e preziosi: sono quelli di Mario Luzi, di Piera Degli Esposti e di Lucia Poli per il progetto artistico/letterario/teatrale denominato “L’Uomo e il suo doppio” ideato da Marinella Di Gennaro. Si tratta di un ciclo di rassegne d’arte tematiche condensate, a conclusione mostre, nella pubblicazione di due libri/cataloghi - nelle rispettive copertine opere di Luca Alinari e Edi Brancolini. Nel 2009 si condensano il progetto della mostra e la pubblicazione del piccolo libro “L’Immagine identità delle parole”, rassegna artistico-letteraria su racconto fantastico di Angelo Orlando, a cura di Marinella Di Gennaro. Per la Galleria Artpoint Firenze è da considerarsi un capitolo a se stante il rapporto di collaborazione e amicizia con Luca Alinari. Nel febbraio 2011 nella Sala Alabardieri del Palazzo Comunale di Cremona prende forma la personale “GELO” a cura di Marinella Di Gennaro che in seguito redige il testo critico “Liriche metafisiche e pensieri luminosi per una sublime narrazione” pubblicato nel catalogo GELO ALINARI (2011 Petruzzi Editore, Città di Castello).
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Liriche metafisiche e pensieri luminosi per una sublime narrazione Marinella Di Gennaro La pittura di Luca Alinari conduce negli spazi più liberi della coscienza attraverso l’astrazione della memoria ed un linguaggio allegorico, unico. È l’origine dei sensi, la vera essenza dell’uomo dove e quando la bellezza e l’inquietudine sono ancora una cosa unica, appena prima di giocare ad inseguirsi. Il linguaggio è solo ad una prima visione figurativo. In effetti avvicinarsi alle opere di questo grande artista a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, significa saper ascoltare attraverso lo sguardo, filtrare le immagini, disporsi alla lettura di visioni laterali che implicano un ottimo grado di osservazione subliminale e superare la concezione secondo cui un quadro è bidimensionale. Allora osservare è come circumnavigare le condizioni umane e i relativi stati psicologici, tutto è tradotto in visioni dai quasi impossibili attracchi. Osservare è come assistere alla generazione di una sorta di brodo primordiale, un mare criptico costituito da elementi eterogenei non ancora troppo relazionanti tra loro, soggetti alla mutevolezza del caso, delle situazioni, tanto che paradiso e inferno spesso si succedono così velocemente da intersecarsi. Ma osservare significa anche non smettere mai di sorprendersi, difatti è lo stupore
la prima istanza imperativa a coglierci dinanzi alle opere di Luca Alinari. Sorprendersi come quando assistiamo alla contemporanea esplosione di quattro vulcani urlanti, come sostiene l’autore, da ogni lato del quadro e tutto intorno è fuoco e nero di lava, e lapilli zigzaganti d’ogni forma e vita propria, capaci d’incenerire qualsiasi cosa come in una novella Pompei. L’irrefrenabile ed esuberante spinta creativa talvolta sembra rasen-
tare l’ingovernabilità degli elementi, succede spesso anche nei paesaggi, ma non è vero, non vi è mai un’insubordinazione su queste tele sottilissime e controllatissime, fermo restando che tutto è pura genialità d’intento e traduzione di vita emotiva ed emozionale nonché letteraria. Insomma rigore ed ancora rigore per stabilire i canoni che celebreranno bellezza e alterazioni. Trasformazioni di senso; rapidissime e sconcertanti non
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fanno mai riposare lo sguardo e il pensiero. Alinari ci riferisce frequentemente di realtà dicotomiche miracolosamente e perfettamente armonizzate tra loro, capaci di coniugare l’inconiugabile, quasi virtuosistiche, sembrano appartenere ad una chiave metaforica onnipresente, vero passe-partout decodificatore. Come nelle de-
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scrizioni delle antiche battaglie tra nobili condottieri, vediamo dipinti i conflitti più aspri e stridenti tra moderne controparti, che siano cose o personaggi, tirannie di microsistemi in lotta tra loro offrono stridenti rivelazioni di guerre sommesse o sommerse per il dominio dello spazio delle tavole intelate di Luca Alinari. Oppure, nei casi più incantati,
Luca Alinari 3) “Senza titolo”, 2011 acrilico e resina su tela, 90x120 cm 4) “Senza titolo”, 2011 acrilico e resina su tela, 110x120 cm
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figure sembrano amoreggiare con fredda passione dei sensi imprigionati. I protagonisti? Apparentemente involontari. Forte ed emblematica la presenza/assenza di ciascuno, ognuno è intento a se stesso, lo sguardo come fosse introiettato. Tutto è involucrato. Si pensa pure che queste figure siano colte in quell’interregno del fiato, frazione brevissima tra un respiro e l’altro affacciato sui pensieri, rarefatto sui pensieri. Come è noto che l’apparenza delle cose non può essere solo descrizione delle stesse, così come la parte emersa di un iceberg suggerisce ben altre dimensioni e morfologie, anche in questa circostanza siamo indotti a pensare alla complessità delle cosmogonie umane e della natura tutta. E così percependo che quel che è insondabile per il solo intelletto non è facilmente visibile e riconoscibile, chi si trova di fronte ad un’opera di Alinari corre il rischio di instaurare un rapporto di dipendenza psicologica dello sguardo. Siamo all’angolo, catalizzati tra abbandono e coscienza, perché non si può, non si deve prescindere dal mistero di un sogno lucido fatto di angeli sospesi investiti di laica sacralità, di donne dalla bellezza iperbolica, di figure irriverenti e linguacciute dal naso seghettato, da vulcani facili all’eruzione di coni e streptobacilli, di improbabili e meravigliosi centauri con lo sguardo ancora interrogativo, stupito, per esser stati appena colti dall’immaginario. Invenzioni a ritmo continuo dialogano ininterrottamente con l’interlocutore/osservatore.
Se è vero che rimane il mistero delle figure gentili costantemente alimentato da irrisolvibili decifrabilità, anche gli sfondi, gli scenari, sono argomento molto articolato, a volte possono raggiungere estreme astrazioni. Astrazione e figurazione coabitano magnificandosi come in una pala d’altare trecentesca, segnando i confini tra visibile ed invisibile, tra uomo e trascendenza. E la luce, la sua crudezza spiazzante quasi artificiale, a voler sopra-identificare i particolari nei minimi dettagli. È come se le opere di Alinari fossero permeate da un’emulsione dosatissima, scrupolosa, dei colori, delle forme, degli intenti… quanto di più dolce e soave, quanto più di perentorio nel repertorio delle
Artisti presenti ad ArteForte 2011 Luca Alinari Raoul Dufy René Magritte Man Ray Franca Buffoni Gabriella Ceccherini Amerigo Dorel Riccardo Perale Caroline van der Merwe Mario Vidor
più severe austerità, risoluta visione come affermazione di verità. Dolcezza e crudeltà. Eppure il sogno non è mai annullato, anzi, è perpetuato in ogni modo, eletto e protetto nell’immensità dell’esistenza. Del sogno non si conosce l’inizio e non si conosce la fine. Nel sogno ripetuto le cose hanno la dimensione di ombre cinesi, non qualificano mai fino in fondo la propria identità ma esistono come veri e propri numi tutelari, presenze mute ricorrenti e benevole. Munifico fabbricante di sogni ed eccelso narratore dell’altrove, Alinari è capace di tradurre e trasferire instancabilmente le proprie pulsioni e visioni evocatrici davanti ai nostri increduli occhi, come se attingesse da meticolosi taccuini dell’onirico quotidiano corredati da annotazioni tecniche sui voli pindarici dell’anima e da un personale archivio allegorico della memoria, irrinunciabile fonte e alimento per l’ambiente emozionale delle sue opere. Liriche metafisiche e pensieri luminosi per una sublime narrazione. (testo tratto da GELO ALINARI - 2011 Petruzzi Editore, Città di Castello)
Artpoint Firenze Galleria d’Arte Contemporanea Cell. 340 5098703 artpointblack@virgilio.it www.artpointblack.com
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INTERVISTA A FRANCESCO BRUSCIA di Emanuela Mazzotti
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hi è Francesco Bruscia? (Intendo dire come hai costruito il tuo profilo artistico?, quando hai capito che la tua arte poteva essere apprezzata? Quali sono le tue aspettative, i tuoi desideri per il futuro?) Sono cresciuto in una famiglia dove l’arte faceva da padrona, un padre gallerista e una casa stracolma di quadri di tutti gli artisti più famosi, quindi senza volerlo, mi sono trovato dentro a questo mondo tanto affascinante che mi ha ispirato fin da piccolo. Non avendo ancora una identità artistica, ho iniziato a copiare i
maestri che mi affascinavano di più, al tempo erano Botero e Tamara De Lempicka, realizzavo delle copie perfette, avevo affinato una tecnica molto valida. Quello che sognavo però era avere un mio stile e che la gente riconoscesse le mie cose come mie e non come copie pertanto mi sono cimentato a fare ritratti, sempre con tecnica a olio quindi classici. Era una cosa che mi divertiva ma allo stesso tempo non mi soddisfaceva, li trovavo obsoleti e non al passo con i tempi. Qua entra in gioco l’influenza di Warhol. Tu e Warhol.....che cosa ti ha
colpito di lui? Ti ha affascinato il personaggio o piuttosto il suo lavoro? Come artista mi ha sempre affascinato e anche il suo stile di vita, le sue opere mi hanno influenzato molto, ho trovato geniale il fatto che usava la fotografia per realizzare ritratti e ho voluto iniziare anche io a fare quadri usando un immagine fotografica di fondo, chiaramente è stata solo un ispirazione in quanto ritengo che i miei quadri si differenziano molto dai suoi essendo impreziositi con materiali molto più ricchi e diversi da quelli che usava lui.
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Francesco BRUSCIA 1) “My kiss”, Tecnica mista, 93x150 cm 2) “Brigitte Bardot”, Tecnica mista, 40x50 cm
Sei entrato di fatto nel mondo dello star system, in che modo questo ha condizionato il tuo lavoro? O all’opposto, questo ti ha avvantaggiato? Sono sempre stato affascinato da questo mondo, mi ha gratificato molto poter realizzare ritratti di personaggi famosi, chiaramente mi ha aiutato molto a farmi conoscere, quando posso sono sempre presente a eventi, sfilate e trasmissioni a cui vengo invitato. A parte Warhol, quale artista contemporaneo apprezzi di più? Adoro Rotella, Fontana, Arman, Schifano. 2
FRANCESCO BRUSCIA: IL NIPOTE DI WARHOL di Piero Tomassoni Nel riprendere modalità espressive tipiche dell’arte Pop e specie di Andy Warhol, a cui dedica un’intera serie di opere, Francesco Bruscia arricchisce la Fotografia con interventi pittorici che ampliano e reinterpretano l’immagine conferendole nuova vitalità. Se la foto garantisce una vita eterna ma devitalizzata al suo soggetto – che è infatti lo Spectrum, come ha spiegato Barthes – la mano dell’artista le fornisce nuova linfa intervenendo su di essa con acrilici, glitter ed altri materiali pittorici rielaborandola
alchemicamente. La trasposizione di queste immagini in uno spazio nuovo, più psichedelico che onirico, le decontestualizza e le rende allo stesso tempo nuovamente contemporanee. Le figure di grandi attori e musicisti, ormai mitiche e consacrate nell’immaginario collettivo, sono così sottratte al flusso disorientante del sistema mediatico, nel quale valgono ormai solo come trademarks, come loghi, senza più rimandare all’aspetto umano del soggetto rappresentato. Allora Charles Mingus, Miles Davis, Dizzy Gillespie e gli altri protagonisti di questa scena non
rivivono solo quando si suona il loro jazz (raffinato, cool, allegro…) ma anche grazie al pennello e agli smalti di Francesco Bruscia che consentono a ciascuno di noi – gli Spectatores – di ripensare l’icona, vederla sotto nuove prospettive e rinnovate energie. Nella postmoderna Società dello Spettacolo, in cui i media si insinuano in ogni aspetto e oggetto della vita quotidiana, neanche il superlativo pianista Keith Jarrett, capace di interrompere uno spettacolo solo perché vede un flash o una Kodak nella platea, può sottrarsi alla mercificazione della propria immagine.
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Questa sorta di reificazione è stata perfettamente interpretata e sfruttata da quella parte della cultura visiva che nasceva nel mondo anglosassone negli anni ’60 (Pop Art) il cui massimo esponente, Andy Warhol, attraverso il suo lavoro sulla fotogra-
fia riduceva appunto le celebrità a meri simboli (Marilyn, Liz, sé stesso) mentre elevava oggetti banali a veri idoli fluorescenti, monumenti alla merce, totem della modernità (la zuppa Campbell, il detersivo Brillo, la frutta Del Monte).
L’omaggio che Francesco Bruscia vuole tributare a Warhol consiste proprio nella citazione delle più celebri tra queste opere e nel ritrarre l’artista stesso mentre ne eseguiva qualcuna o mentre scattava foto. L’autoritratto in compagnia del grande maestro, infine, è la massima dimostrazione del debito intellettuale che Francesco Bruscia sente, a ragione, di avere nei confronti di questo carismatico Guru, e mostra altresì le incredibili capacità mistificatorie delle odierne tecniche grafiche di comunicazione, che consentono di far credere (a chi non sapesse che alla morte di Warhol Francesco aveva solo 14 anni) che i due si conoscessero bene e frequentassero insieme il jet set NewYorkese degli anni Settanta e Ottanta. APPARIRE ED ESSERE NELLA PITTURA di Stefano Tonti L’arte contemporanea si caratterizza anche dipanandosi nella scelta delle tematiche espressive e nel contesto della definizione delle tecniche rappresentative in un caleidoscopico ventaglio di possibilità e di esperienze. A volte tradizionali e tradizionaliste a volte sperimentative e propositive queste possibilità la sciano spazio a chi ha talento, estro ed originalità per afferrarne ed interpretarne le potenzialità espressive, meglio ancora se definite in un contesto di tradizione storica della pittura all’interno della cultura figurativa occidentale ed europea. 3
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Questo è ciò che avviene per le opere di Francesco Bruscia il quale, lavorando secondo una dinamica originale, parte da un’ipotesi d’intervento “decorativo” che si sviluppa e si decanta, nel risultato finale dell’opera, in un vero e proprio esito pittorico. Il risultato è un’opera figurativa alla quale si può attribuire un valore di pratica della pittura esattamente contrario all’operazione di decollage di Rotella, dove quello che prima veniva tolto ora viene aggiunto attraverso il concreto uso del colore e della trama della pittura. Si tratta infatti di dipinti realizzati su riproduzioni di fotografie originali di ritratti di personaggi famosi (primi piani, mezzi busti o figura intera) sulle quali, al contrario di Rotella, l’artista interviene con una operazione per niente affidata alla casualità, ma con un progettato e ponderato processo di “vestizione”, secondo un rapporto cromatico caratterizzato da trame e segni che, quasi sempre, è anche in stretto legame linguistico con il fondo. I personaggi, per lo più “miti” della contemporaneità, si stagliano nelle policromie sfavillanti e luminose degli sfondi contestualmente riprodotte o diversamente ricreate nell’abbigliamento o, altre volte, differentemente interpretate nella raffinatezza di tinte monocrome appena decorate da una trama o da un oggetto che tende a implementare la riconoscibilità del soggetto oltre quella fisionomica. La resa pittorica figurativa dei soggetti di Francesco Bruscia è
caratterizzata, inoltre, per una sapiente valorizzazione degli atteggiamenti dei personaggi, nel contesto dell’intervento pittorico che tende ad interpretarne l’edonismo o la naturalezza, il valore “mitologico” e quello espressivo. Infine, in tutte le opere, traspare
Francesco BRUSCIA 3) “Jennifer Lopez”, Tecnica mista, 90x120 cm 4) “Marilyn Monroe”, Tecnica mista, 100x134 cm 4
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una costante comune attenzione di Bruscia alla valorizzazione della bellezza in ogni sua possibile e variabile forma sotto la quale questo valore si presenta. In conclusione non si tratta di opere che hanno la presunzione di proporsi spavaldamente per aprire davanti ai nostri occhi un nuovo spazio o un’inedita scena pittorica cosiddetta “altra” da quella in cui si svolge quotidianamente la nostra esistenza, come oramai troppo frequentemente ed in modo abusato si usa dire. Piuttosto, a mio avviso, quella di Francesco è una formula pittorica inedita ed efficace e di alto valore estetico che fonde, in maniera mirabile, il percorso formativo dell’artista, speso nel campo della moda, con quello del novello artigiano pittore nella rivalutazione della valenza della pittura e della figurazione in ambito contemporaneo, ottenuta attraverso una sapiente e originale sintesi di temi e tecniche secondo una personale interpretazione delle possibilità interpretative e rappresentative offerte dall’arte contemporanea.
Francesco BRUSCIA 5) “Marilyn Monroe”, Tecnica mista, 39x50 cm 6) “Marilyn Monroe”, Tecnica mista, 30x30 cm 7) “Sofia Loren”, Tecnica mista, 70x83 cm
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Questa attualizzazione della pittura diventa allora una corretta interpretazione di quella alterità estetica di cui si diceva, per una restituzione della personale visione del mondo realizzata senza
compiacimento, ma caratterizzata da una condivisa quotidianità, assecondata dalla contemporanea possibilità di apparire e di essere per una quanto più possibile e afferrabile riconoscibilità.
Bettini & Co. Gallery Srl V. Vecchia Ferriera, 22 36100 Vicenza Tel. 0444561563 - 347 4623195 www.francescobruscia.it
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ENTROTERRA L’
Angelo ubriaco accoglie sbracato i visitatori di Arteforte, inquietante figura tentatrice che attira per le sue belle membra rilassate. E’ una scultura in resina, a cavallo tra classicità e fumetto, di Giuseppe Tirelli, artista presentato a Forte dei Marmi da Entroterra, associazione nata con lo scopo di valorizzare l’arte figurativa contemporanea sia italiana che straniera. E’ uno dei vanti
dell’associazione quello di lavorare anche all’estero e presentando artisti non ancora conosciuti in Italia. E’un omaggio alla cultura italiana il Nectar container, la moka di Josh George, eseguita con pezzetti di carta, ritagli di tappezzeria e interventi dipinti, una delle tecniche più originali del panorama attuale. Ed ecco le coloratissime opere del toscano Marco Manzella, grande cultore della tecnica a
tempera della pittura toscana del ‘400 che interpreta in forma contemporanea e metafisica, come nell’Opportuna relazione tra le parti dove una canoa si staglia su un liquido azzurro mediterraneo dividendo lo spazio con movimento teatrale. GIUSEPPE TIRELLI è nato in Tanzania nel 1957. Vive e lavora a Piacenza dove ha frequentato l’Istituto d’Arte alla fine
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2 1) Giuseppe TIRELLI, “Angelo ubriaco”, Resina, 180x50x105 cm 2) Josh GEORGE, “Nectar container”, 2006, Tecnica mista, 30x22 cm 3) Marco MANZELLA, “L’opportuna relazione tra le parti (II)”, 2010, Tempera su tavola, 80x60 cm 3
degli anni ‘80 dopo una lunga esperienza nel mondo del sindacato. Espone regolarmente dagli anni ‘90 nelle maggiori gallerie italiane ed all’estero. JOSH GEORGE, nato nel 1973 a Kansas City, dopo aver frequentato gli studi accademici presso l’università del Missouri si è trasferito a Brooklyn e poi in Virginia. Utilizza una sua particolarissima tecnica mista usando carta, stoffe incollate, olio ed acrilici. La sua attenzione si incentra soprattutto su un magistrale gioco di composizione della scena e della prospet-
tiva, che rimanda sia ai grandi maestri del passato sia ai contemporanei. Le sue opere sono presenti in importanti gallerie americane, in spazi prestigiosi come la catena degli Hotel Sheraton ed in altre collezioni di importanti compagnie. MARCO MANZELLA, nato a Livorno nel 1962, vive e lavora ora tra Brescia e Viareggio. Diplomatosi in restauro, ha lavorato molti anni in questo settore specializzandosi in antiche tecniche pittoriche. Dal 1993 si dedica solo alla pittura. Ha iniziato la sua attività espositiva
nel 1985. Lavora con gallerie italiane e straniere. L’ interesse per la pittura figurativa anglosassone lo ha portato ad alcuni soggiorni in Spagna, Irlanda e negli Stati Uniti, da dove nascono alcuni dei disegni e dei quadri più recenti.
Entroterra Viale Bornata - Borgo Wuhrer, 43 25123 Brescia Tel. 030 5233558 - 340 7781096 press@entroterra.it - info@entroterra.it www.entroterra.it
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FANTASIO & JOE D
opo un inverno ricco di appuntamenti fieristici, la galleria Fantasio&Joe di Lucca partecipa col consueto entusiasmo alla quarta edizione estiva di Arte Forte. Giovanni Possenti, titolare della galleria oltre che artista egli stesso, ha selezionato per questa occasione un mix di proposte dove qualità tecnico-stilistica, colore e innovazione contraddistinguono l'unicità degli artisti rappresentati. Si tratta di Raffaello Di Vecchio, Marco Saviozzi e Mirta Vignatti che, insieme allo stesso Giovanni Possenti, compongono la storica squadra di artisti presenti nello stand di Fantasio&Joe. Raffaello Di Vecchio: Prende in considerazione l'attività ludico-creativa tipica del periodo
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estivo: il cruciverba. La sua personale interpretazione sfida le caselle bianche e nere con l'inserzione di coloratissime vocali e consonanti di legno, ritagliate in modo ironico e minuzioso. Un gioioso omaggio a tutti gli artisti che giocano con le parole e al grande Baccio Pontelli. Marco Saviozzi: Echi di Pop Art e luminosità dei colori primari caratterizzano le
proposte dell'artista, sempre arricchite da vivacità ironica e irriverenza nel trattamento delle icone del mondo contemporaneo e dell'immaginario collettivo. Mirta Vignatti: Nelle sue tele un rigoglioso giardino popolato non solo di complessità botanica ma anche da svariati elementi sottratti all'infanzia: vecchi giocattoli, orsacchiotti, ciambelle zuccherate, ranocchie, strani marinai e grandi gattoni dal pelo lucido corvino. Giovanni Possenti: Sui consueti supporti lignei, un caleido-
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scopio di zoologie fantastiche, ardite e generatrici di stupore negli accostamenti e nelle mutazioni. Espone anche alcune carte, che costituiscono gli studi per le opere più complesse su tavola. 1) Mirta Vignatti “Finestra al mare blu”, 2010 Acrilico su tela, 100x100 cm 2) Raffaello di Vecchio “Cruciverba”, diametro 23 cm
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3) Giovanni Possenti “Gabinetto del dott. spallanzani” 30x30 cm
Fantasio & Joe Via S. Andrea, 11 - 55100 Lucca Tel. e Fax 0583 495679 giovannipossenti@virgilio.it
4) Marco Saviozzi “Duck zero”, 2011 13x18 cm
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INTERVISTA A TAMARA CIbEI responsabile della Galleria Astrolabio
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uando nasce la galleria? La galleria è nata nell'anno del Giubileo, nel 2000, con una mostra, che ha riscosso all'ora tantissimo successo, dello scultore veneto Ciro Nena. Ora siamo in una nuova sede sempre a Roma in Via Monreale,3/A, praticamente ad un Km dal Gianicolo. 2
Che finalità si propone? Il mio scopo è quello di selezionare, promuovere ed indirizzare giovani artisti contemporanei. La mia soddisfazione più grande è vedere che i miei consigli e la mia opera danno i loro frutti, uno degli ultimi esempi, è l'artista Ottorino Stefanini che già alla fiera di Arezzo ha ricevuto tantissime attestazioni di stima e riscontri di pubblico. Che artisti storici presenti in Fiera? Ad Arteforte porterò alcune opere del Maestro A. Possenti, A. Faccincani, D. Purificato, Diodati e dello scultore Pazzagli. Progetti per il futuro dell'attività? Intendo cambiare strategia e non portare più alle manifestazioni così tanti artisti, ma due o tre giovani talenti, un paio di "con3
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ferme" e alcuni artisti storici. Adesso mi dica come nasce la storia di Tamara Cibei..... Nasco come pittrice alcuni anni fa, ero un'artista molto produttiva, i miei temi preferiti erano legati al degrado ambientale e all'ecologia, ho fatto anche numerose mostre con discreto successo, poi l'attività attuale se la fai con passione ti ruba tutto il tempo ed ora sto trascurando questo mio lato artistico. Il prossimo anno a che Fiere intendi partecipare? Sicuramente a Carrara "Giorni d'Arte" e ad "Arte Forte", sono due fiere che hanno dato soddisfazione a me e ai miei artisti, poi io sono originaria di Massa e la Toscana ce l'ho nel cuore, per cui ogni occasione è buona per tornare alla mia terra. 6
1) Il Cristo dell’olocausto di inestimabile valore, un’opera da Unesco 2) Carlo D’Antonio “Elisabeth” Olio su tela, 70x80 cm 3) Elisa Lorenzelli “Sirena”, 74x44x2.5 cm Marmo bianco venato di Carrara 4) Minedi “Un giocattolo con l’artifurto” Tempera all’uovo 5) Alessandro Trani “Fuga oltre l’orizzonte” Olio su tela, 80x120 cm 6) Patrizia Veschi “Pensieri in blu” Olio su tela, 50x60 cm 7) Claudia Piccoli “Scorci Metropolitani” Tecnica mista su tavola, 70x100 cm 8) Massimo Sonnini “Interno con sedia” Olio su tela, 75,5x70,5 cm
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9) Iro Goretti “Pettinati dal Vento” Olio su tela, 100x50 cm 10) Ottorino Stefanini “Cappelli rossi su camicie rosse” Acrilico su carta telata, 86x54 cm 11) Claudio Beranzoli “Mancata collisione” Olio su tela, spatola e pennello, 100x100 cm 9 10
12) Antonella Laganà “L’araba Fenice” Acrilico su tela, 100x100 cm 13) Cristina Anna Adani “Penelope”, 2011 Criptonite, h. 132 cm
Galleria d’Arte Astrolabio Via Ludovico di Monreale, 3/A 00152 Roma Tel. 339 6030795 galleria.astrolabio@email.it www.galleriaastrolabio.net
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GALLERIA FILISETTI ARTE L
a Galleria d’Arte Filisetti apre al pubblico a Caravaggio nel 2007. Una realtà motivata da una sola grande passione, quella per l’arte, una esperienza maturata in trent’anni a contat-
to con artisti di grande talento, italiani e internazionali, partecipando a grandi manifestazioni e progetti nel campo dell’arte contemporanea, prima come collezionista e appassionato
d’arte fino ad aprire al pubblico la propria Galleria, offrendo ai collezionisti ed appassionati d’arte opere di grande prestigio, presenti sul mercato nazionale e internazionale.
1 1) Fausto Bertasa, 120x140 cm 2) Evgeni Dybsky, 100x150 cm 3) Nes Lerpa, 200x120 cm 4) Klaus Mehrkens, 100x120 cm 5) Klaus Mehrkens, 100x120 cm
Artisti presenti in galleria: Evgeni Dybsky, Nes Lerpa, Fausto Bertasa, Klaus Karl Mehrkens, Silvano Costanzo, Alfredo Canata, Francesco Trabattoni, Fabio Maria Linari, Zaccaria Cremaschi e molti altri.
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Galleria Filisetti Via Prata, 3 - Caravaggio (BG) Tel +39 036 350283 filisettis@live.it
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GALLERIA GS. SERATTINI
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1) Francesco Clemente “Senza titolo”, 1986 Tecnica mista, 124x82 cm 2) Angerman “Paesaggio”, 1994 Olio su tela, 30x40 cm 3) Guy Harlof “Caccia all’uomo”, anni ‘50 Tecnica mista, 32x26 cm 4) Pino Pascali “Esplosione”, 1959 23x33 cm 5) Pino Pascali “Tristano e Isotta (muffa)”, 1960 24x34 cm 4
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Galleria GS. Serattini Faenza Tel. +335 6794645 eserattini@virgilio.it
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GALLERIA LAZZARO BY CORSI
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a Galleria Lazzaro by Corsi ritorna ad Arte Forte per il quarto anno consecutivo proponendo una personale di Walter Lazzaro : un excursus sulla pittura del Maestro dagli anni ’30 agli anni ’80. Molte delle opere esposte hanno caratterizzato la mostra D’infinito azzurro, principale avvenimento del programma espositivo 2010/2011, che, dopo l’inaugurazione nella sede milanese a dicembre, è stata in seguito ospitata alla Galleria Capricorno di Vigevano (5-31 marzo), a CARRARA – GIORNI D’ARTE (Fiera d’Arte
Moderna e Contemporanea di Pittura e Scultura, 9-17 aprile) ed alla Galleria Estense Arte di Cernobbio (Como). Ancora una volta protagonista dell’evento è il senso dello spazio, il suo equilibrio nella composizione di ogni opera supportata sempre, nel senso più classico del termine, dalla rigorosa scansione geometrica. Mentre le opere degli anni ’30 mostrano un Lazzaro più dedito al dettaglio e al particolare, quelle degli anni ’50 e successivi rivelano un’inclinazione alla sintesi : un solo elemento, sia
esso barca, capanno o ombrellone, immerso nella spazialità che sembra essere senza confini in un silenzio poetico e a un tempo loquace ed emozionante. Un cambio di registro pittorico che ha avuto il suo preludio nel mutamento dell’uomo Lazzaro dopo la riscoperta gioia di vivere che ha fatto seguito all’umanità offesa dalla detenzione nel campo di concentramento di Biala Podlaska. Più che al silenzio delle cose o all’assenza dell’uomo, i dipinti di Walter Lazzaro rimandano a un senso di sospensione e di
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attesa, o meglio a una pausa, a un intervallo frapposto tra lo stato emotivo dell’osservatore e una realtà “altra”, fitta di mistero ma anche intrisa di spiritualità. Condizione, si dirà, che è propria dell’emozione estetica, e che solo la grande arte, quando è davvero grande, è in grado di produrre e di sollecitare, ma che in Lazzaro va a toccare corde segrete, fa emergere desideri rimossi, provoca una domanda di trascendenza che solo lui, con la rarefatta levità del suo tocco riesce a far affiorare. Il fatto è che l’uomo, la parola, la vita non sono mai assenti, nelle marine di Lazzaro, ma vi figurano per elisione, per sottrazione, come allusioni. Su queste spiagge versiliesi temporaneamente deserte la presenza fisica si è come dissolta nel crepuscolo, suoni, corpi e rumori risultano ormai accampati altrove, assenti dal nostro campo percettivo. Ma tra i capanni e gli ombrelloni di queste marine è come se risuonassero ancora le grida dei bambini, i richiami delle mamme, i discorsi dei pescatori e le strida dei gabbiani, mentre sulla battigia, con le prime ombre della sera, si allunga un senso di nostalgia per la giornata al tramonto e già si profila l’attesa del giorno che verrà. L’ombrellone e il capanno abbandonati per qualche ora dalla folla dei bagnanti, la barca tirata in secco dopo una giornata di lavoro rimandano a loro volta a un’idea di vacanza, di riposo, di quiete e conducono l’uomo a interrogarsi su se stesso.
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2) “Dialogo”, 1983 Olio su cartone telato, 30x40 cm
Galleria Lazzaro by Corsi Via Cenisio 50, 20154 Milano Tel. 338 8279372 Via Pascoli, 8/A 55042 Forte dei Marmi (LU) Tel. 347 0464253 www.gallerialazzaro.it - lazzarocorsi@tin.it
3) “Barca bianca”, 1956 Olio su masonite, 30x40 cm
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Walter Lazzaro 1) “La draga”, 1933 Olio su tavola, 24x34 cm
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GALLERIA WORLD ART L
a galleria sorge nel centro di Cape Town e propone artisti sudafricani ed internazionali. Dalla collaborazione con l’artista Gavin Rain e Luca Carniato, amico e collaboratore, nasce nel 2011 il progetto di scambio e promozione di giovani artisti sui diversi continenti. Artisti presenti: Gavin Rain GAVIN RAIN Hidden in plain sight Gavin Rain, artista sudafricano nato a Cape Town il 23 marzo 1971, partecipa alla 54a Biennale di Venezia, nel Padiglione della 1
Repubblica del Costa Rica, con un’opera di forte impatto ideologico che si inserisce nell’ambito del progetto “Stupore”, ideato dell’artista costaricense Francisco Còrdoba. Stupore è ciò che si avverte di fronte all’armoniosa contaminazione di linguaggi artistici e socioculturali diversi che si fondono all’insegna di una visione transnazionale dell’arte che, superando dogmi e barriere spazio-temporali, erige un maestoso monumento alla libertà delle menti e della conoscenza, all’uguaglianza e alla pacifica convivenza come inalienabili diritti di ogni essere umano.
L’obiettivo è la riscoperta e il recupero di alcuni lasciti culturali e storici del passato, più che mai attuali in un’epoca caratterizzata da confusione ed incognite, ma anche dal bisogno di confutare certe scelte politico-culturali per lo sviluppo di una società più equa, fraterna e progredita. In questo ambizioso progetto si inserisce a pieno titolo l’opera di Gavin Rain che fa della condivisione con gli altri e dell’influsso dell’ambiente sull’individuo i concetti chiave del suo messaggio artistico. Sebbene dipinga da sempre, Rain comincia a dedicarsi seriamente alla carriera artistica intorno al 2002, spinto da una sorta di disillusione nei confronti dell’arte che, nel suo sentire, «non aveva più cose da dire». Convinto che essa, al pari della scienza, abbia come fine l’ampliamento degli orizzonti visivi e cognitivi delle persone, l’artista si propone l’obiettivo di trovare per il suo lavoro un messaggio profondo ed incisivo che tutti possano comprendere. Il primo passo verso l’auspicato coinvolgimento dell’osservatore lo compie lavorando sullo stile delle sue opere, anch’esso portatore di un messaggio al pari del contenuto. Chiunque si trovi al cospetto di una sua opera si rende conto che per vedere bene e capire ciò che ha proprio di fronte deve allontanarsi, compiendo alcuni passi indietro (you have to step back to see my work). Il messaggio è lì: per acquisire consapevolezza di ciò che è nascosto in bella vista (hidden in plain sight) spesso bisogna arre-
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Richard Scott 1) “My Best”, 2011 Tecnica acrilico su canvas, 150x150 cm Paolo Loschi 2) “Pinocchio”, 2011 Tecnica scultura in alluminio
trare. E questo vale non solo per la sua arte, ma per ogni contesto socio-politico-culturale. La sua tecnica, definita Neo-Pointillism o Pixelism, nasce proprio dal suo desiderio di comunicare con le persone, sfidandole, ma anche dialogando con loro. Spesso, infatti, non ci rendiamo conto di quante persone sono ‘legate’ a noi; ignoriamo la moltitudine di individui che hanno contribuito a plasmare le nostre vite e le cui impronte sono nel nostro stesso DNA. Ecco perché dovremmo condividere di più, fare un passo indietro, entrare in contatto con queste persone e celebrarle, cominciando da quelle che ci sono immediatamente vicine fino ad includere figure eroiche quali Steven Biko, attivista sudafricano anti-apartheid la cui morte contribuì a farne un eroe della resistenza contro il regime afrikaner. Da questo intento celebrativo nasce l’imponente opera che l’artista presenta alla Biennale di Venezia: il ritratto di Aung San Suu Kyi, pacifista birmana attiva da molti anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo paese devastato da una pesante dittatura militare. Fortemente influenzata dagli insegnamenti di Mahatma Gan-
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dhi, Aung San Suu Kyi si impone come leader del movimento non-violento, tanto da essere insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1991. Il 27 settembre 1988 fonda la Lega Nazionale per la Democrazia, ma neanche un anno dopo le vengono comminati gli arresti domiciliari, con la concessione di poter abbandonare la Birmania se volesse farlo. Aung San Suu Kyi rifiuta la proposta del regime, compiendo un doloroso sacrificio personale ed anteponendo a tutto il suo impegno umanitario e civile, la sua fede incrollabile nella libertà e la convinzione che tutti gli esseri umani hanno diritto ad una vita libera dalla paura e dall’oppressione. Meditando su come dare visibilità alla vicenda dell’attivista birmana, Gavin Rain pensa di rea-
lizzare 15 dipinti a lei dedicati – uno per ogni anno dei suoi arresti domiciliari – e di farli girare per il mondo, fermamente convinto che ogni nazione abbia un ruolo da svolgere nel promuovere una nobile causa. Da qui l’idea di creare una versione a cerchi concentrici della bandiera di tutti i paesi del pianeta. L’insieme di questi punti colorati, più o meno grandi e luminosi, fondendosi nella retina dell’osservatore, avrebbe generato l’immagine della donna che, dopo circa sei mesi di complesso lavoro, emerse dalla tela, plasmata e sostenuta da tutte le nazioni. Mentre l’artista si allontanava dall’opera per guadagnare una certa distanza, le bandiere si dissolvevano e il viso sorridente, coraggioso e fiero di Aung San Suu Kyi, nascosto alla vista ravvicinata, prendeva
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forma e lo fissava, determinato a proseguire la sua battaglia per la riconciliazione anche quando la volubile attenzione dei media si sarebbe inevitabilmente rivolta altrove. «Senza persone come lei e Nelson Mandela, senza la sua influenza, il suo impegno e il suo amore, il mondo sarebbe più povero», afferma l’artista la cui speranza è che la sua arte spinga l’individuo alla riflessione e all’acquisizione di una più solerte consapevolezza di se stesso e del suo ruolo nella società. Lo spregiudicato sfruttamento dell’immagine femminile in pubblicità di ogni tipo, il vergognoso commercio delle spose russe su Internet (solo per citare due esempi a lui cari)… tutto questo accade e noi lo permettiamo semplicemente perché non vediamo, scegliamo di non vedere o comunque non prestiamo abbastanza attenzione. Dunque dobbiamo pensare di più e più profondamente. Questo suggerisce la sua tecnica che si presta a molteplici livelli di compren-
sione: dapprima c’è l’estetica tangibile, il contatto ravvicinato in cui l’osservatore può godere dell’esperienza viscerale e tattile della pittura (close up is tangible); successivamente, nell’indietreggiare dall’opera, subentra la componente cerebrale e cognitiva (far off is intellectual) in cui l’immagine, nascosta nell’intrico di punti variopinti o tra irregolari forme materiche in rilievo, si risolve in una forma riconoscibile: un viso, una parte anatomica, un paesaggio, un soggetto non immediatamente percepibile che muta costantemente, a seconda della distanza tra l’artefatto e il fruitore. Una duplice esperienza condensata dall’artista in una metafora eloquente: «Fermati ad odorare le rose, ma poi rendi omaggio al roseto in cui ti trovi, di chiunque esso sia». Un chiaro invito ad un progressivo distacco per meglio cogliere ciò che spesso ci sfugge per disattenzione, riconoscendo altresì il contributo delle persone che ci circondano. Ma non è solo il desiderio di di-
vulgare il suo ‘step back message’ ad orientare Rain verso la tecnica del Pixelismo. L’artista vuole anche discutere il valore della tecnologia nella nostra società. In una sua lettera, Rain mi confida di essere affascinato da Marte e da tutto ciò che lo riguarda. Era il 2000 o 2001 quando gli capitò di vedere un’immagine di Marte scattata da un satellite orbitante intorno al pianeta; una foto in bianco e nero con una regione piuttosto confusa. Continuando ad osservarla, si accorse che in realtà quella zona indistinta forniva delle precise informazioni, ad esempio sull’irraggiamento solare o sulla modalità operatività del circuito satellitare. Improvvisamente ciò che era sullo sfondo balzò in primo piano; lo spazio negativo diventò positivo. Riallacciandosi ai suoi studi di neuropsicologia e al modello comportamentale degli autistici, l’artista spiega anche il ruolo della tecnologia nella selezione delle informazioni assimilabili dal cervello umano. Attraverso
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Alec Von Bargen 3) “Shade me an existence”, 2010 Tecnica foto su alluminio, 300x41 cm Gavin Rain 4) “City Trees”, 2009 Tecnica acrilica su canvas, 100x200 cm 5) “Portrait of Audrie Hepburn”, 2011 Tecnica acrilica su canvas, 100x100 cm 6) Particolare de “Portrait of Audrie Hepburn”, 2011 Tecnica acrilica su canvas, 100x100 cm
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la sua pittura, caratterizzata da file di punti offset simili ai pixel che compongono le immagini visualizzate sul monitor di un televisore o di un computer, Gavin Rain vuole enfatizzare gli spazi scuri, ossia la mancanza di informazione, tra gli elementi costitutivi dell’immagine digitale. Le moderne macchine fotografiche, così pratiche e facili da usare, ci fanno dimenticare che la qualità dell’immagine è minore in quanto nello spazio scuro intorno ai pixel l’informazione viene persa. Lo stesso vale per la musica la
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cui qualità risulta molto più alta se ascoltata da un disco in vinile. Non sfuggono le implicazioni critiche di queste riflessioni: nella nostra società, rapida e superficiale, barattiamo la qualità per la convenienza. L’artista però non lancia anatemi; con garbo e sottigliezza, si limita a stimolare l’osservatore, spronandolo a ri-
flettere, a valutare per se stesso e a discostarsi il più possibile dal livello letterale, immediatamente e facilmente percettibile. Solo una più flessibile ed articolata interpretazione della realtà e della società gli permetterà di cogliere ciò che è intrinseco e recondito, ma immensamente più veritiero ed appagante.
Galleria World Art +27 (0)21 423 3075 54 Church Street | City Bowl www.worldart.co.za info@worldart.co.za
Stand 3 - 4
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L’IMMOBILITÀ DEL SILENZIO di Marianna Perazzini
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’arte fotografica di Giovanni Marinelli è uno stato d’animo. E’ contemplazione e silenzio. Nell’epoca della contemporaneità, portatrice di tangibili cambiamenti non solo legati alla socialità ed al linguaggio, ma anche all’universo percettivo, l’individuo si è trovato a doversi misurare con un tempo ed uno spazio mutati, fragili e frammentati, rapidi e virtuali, che spesso non lasciano posto alla contemplazione individuale.
L’indagine artistica di Marinelli è, invece, tesa ad affermare con forza la sua appartenenza ad un ambiente culturalmente e fisicamente definito, un ambiente in cui è, forse, ancora possibile approfondire un dialogo intimo con il proprio io e ricreare un nuovo rapporto con il mondo attraverso l’arte. Deciso a non lasciarsi travolgere dall’ ammiccante facilità esecutiva del digitale, Marinelli rimane rigorosamente lega-
to alla seducente tattilità della pellicola e al fascino trepidante dell’attesa che la caratterizza. Rinuncia anche alle possibilità offerte dal colore, prediligendo il rigore formale e la neutralità del bianco e nero, dove luci ed ombre invadono le forme creando evocative trame emozionali. Nel corso della sua, ormai quarantennale, carriera di fotografo il suo sguardo si è soffermato ad indagare le realtà a lui più intimamente ed emotivamente
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vicine, situazioni e luoghi che sono diventati il mezzo per riflessioni di natura estetica. I sentimenti profondi che da sempre lo legano alla musica – fu per anni fotografo ufficiale del Fano Jazz Festival - diventano protagonisti nella serie di scatti dedicati al jazz. Il suo sguardo affascinato, attraverso il teleobbiettivo, si fa medium affettivo dell’evento; si muove indisturbato tra le vibrazioni armoniose degli strumenti, congelando in uno scatto ogni estasi sonora. Nelle sue fotografie, tutte rigorosamente senza titolo per lasciare il fruitore libero da condizionamenti emotivi, l’immagine è come sospesa, trasfigurata in un tempo ed uno spazio non più riconoscibili. I paesaggi naturali, molto amati da Marinelli, sono dominati da profondi silenzi. Immersa nell’abbagliante vibrazione della luce, la Natura perde la sua fisicità, diventando un luogo dell’anima. Sono immagini dal forte potere evocativo in cui l’uomo non viene contemplato. Le sue fotografie aeree, riprese con pellicole ad infrarossi, catturano le rughe della terra che diventano geometrie di sapore concettuale, fortemente stranianti, forme di un linguaggio dove arte e natura si mettono in relazione nell’ impianto stesso dell’opera. Di toccante suggestione anche la “vita silente” delle riprese d’interni. L’obbiettivo di Marinelli si insinua mestamente tra ciò che resta di un luogo abbandonato, catturando le tracce di un universo dimenticato; racconta
il senso inquietante dell’assenza attraverso il lirico silenzio di quelle stanze spoglie, diventando il testimone di una realtà che è stata e che trasuda ancora tutta la sua antica memoria. Non c’è volontà di denuncia nel suo lavoro, ma una ricerca estetica tesa a riscoprire la bellezza dell’esistenza in ogni sua forma. Al frastuono cromatico e all’osservazione fugace che caratterizza la nostra epoca, Marinelli propone il silenzio della riflessione attraverso la purezza formale della sua impalcatura compositiva, offrendoci una mappatura emozionale del reale, capace di addentrarsi nel variegato vocabolario del linguaggio dell’arte.
Giovanni Marinelli per info: Anonima Art Project Cell. 348 4112981
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LA TELACCIA BY MALINPENSA GALLERIA D’ARTE “L’arte, la nostra passione”
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Da sinistra Gianfranco Malinpensa, Monia Malinpensa, Dario Ballantini e Giuliana Papadia
Mostra personale dell'artista Dario Ballantini alla galleria d'arte La Telaccia
a Galleria d’Arte la Telaccia si trova in un antico palazzo del 1860 ed è situata nel cuore di Torino nella zona di Piazza Statuto. E’ stata fondata nel 1972 dal direttore artistico Giuliana Papadia che da sempre è spinta dalla grande passione per l’arte e conduce la Galleria con sentimento e accurata analisi. Un connubio estremamente importante che caratterizza il suo percorso artistico. La galleria partecipa a numerose ed importanti expo sia a livello nazionale che internazionale tra le quali: Miart Milano - Baf Bergamo Insbruck-Padova Genova - Forli - Reggio Emilia - Parma - Brescia- Reggio Emilia - Arteforte - Nimes - Grenoble. La Telaccia propone artisti italiani e stranieri di varie tendenze garantendo serietà, esperienza e professionalità del personale operativo. Grazie alla costante partecipazione della Galleria alle manifestazioni italiane e straniere più prestigiose e ai contatti con numerose Gallerie europee, così come la collaborazione con i critici, quest’anno, dal 21 al 26 marzo 2012, la galleria conduce la 5° Biennale d’Arte a Montecarlo. La mostra nasce con lo scopo di proporre sul mercato internazionale nuovi e validi artisti contemporanei. L’esposizione delle opere selezionate si terrà nelle prestigiose sale dell’Hotel de Paris a Montecarlo. La Telaccia by Malinpensa Galleria d’Arte, organizzatrice dell’evento, sarà
affiancata da esperti del settore artistico internazionale e procederà alla selezione delle opere a suo insindacabile ed inappellabile giudizio. UGO NESPOLO Nespolo, che espone oltre ad alcune preziose carte, una nutrita serie di puzzle realizzati con tessere di legno laccato, è uno dei protagonisti del nostro tempo sia nel campo dell’arte, del design, del cinema, della pubblicità. Ugo Nespolo nasce a Mosso in provincia di Biella nel 1941: diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, laureato in Lettere Moderne, vive e lavora a Torino. I suoi esordi nel panorama artistico italiano risalgono agli anni Sessanta, alla Pop Art, ai futuri concettuali e poveristi, seguendo poi una propria strada artistica personalissima, caratterizzata subito da un’accentuata impronta ironica, trasgressiva, da un personale senso del divertimento che rappresenterà sempre una sorta di marchio di fabbrica. Dapprima prevale la tecnica del puzzle: nel 1963/1964 superfici in tela o carta scomposte in termini geometrici (girandole e grandi origami). Nel 1966 le prime scacchiere mobili con tessere magnetiche su metallo o in legno laccato, nel 1967 macchine e oggetti condizionali, nel 1969 superfici in alluminio fresato sensibilizzate a pittura a macchia. La tecnica artigianale dell’intarsio è usata inoltre
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per costruire veri e propri giocattoli, scomponibili o animati. Gli anni Settanta rappresentano per Nespolo un passaggio fondamentale: vince il premio Bolaffi, realizza il Museo, quadro di dieci metri di lunghezza che segna l’inizio di una vena mai esaurita di riletturascomposizione-reinvenzione dell’arte altrui. Negli anni Settanta inizia anche la sperimentazione con tecniche (ricamo, intarsio) e materiali inconsueti (alabastro, ebano, madreperla, avorio, porcellana, argento). Nespolo si esprime anche attraverso il cinema: in particolare quello sperimentale, d’artista. Ai suoi film hanno dedicato ampie rassegne istituzioni culturali come il Centre Georges Pompidou di Parigi o il Philadelphia Museum of Modern Art. Gli anni Ottanta rappresentano il cuore del “periodo americano”: Ugo Nespolo trascorre parte dell’anno negli States e le strade, le vetrine, i venditori di hamburger di New York di-
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1) Ugo NESPOLO, “Puppets” Acrilici su legno, 50x70 cm 2) “Vetrina”, 1989 Intarsio, 60x40 cm
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ventano i protagonisti dei suoi quadri. In questi anni si accumulano anche le esperienze nel settore dell’arte applicata. Sono degli Anni ‘90 e del decennio successivo prestigiose collaborazioni artistiche come la campagna pubblicitaria per Campari, le scenografie e i costumi per il Teatro dell’Opera di Roma, la nomina a direttore artistico della Richard-Ginori, la collaborazione con la storica vetreria d’arte Barovier & Toso di Murano, la nomina a consulente delle comunicazioni artistiche nelle stazioni della Metropolitana di Torino, la collaborazione con il marchio Brooksfield. 3) Daniela ZOCCA, “Ade”, 2011, Smalto su tela, 90x120 cm 4) Bruno DONZELLI, “La grande mela”, 2011, Tecnica mista, 100x100 cm 5) Stefano MASTROCINQUE, “Creature del mare”, 2011, Pennarello su carta, 24x33 cm
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PICCHIO di Dalmazio Ambrosioni “Light‑Art” ‑ Arte della Luce. Quadri astratti di giorno che, nella notte, diventano opere di luce. Hanno titoli in forma di metafora come “Workforce”. “Tod der Sterne”, “Human Communication”, “Life Insurance” (...) costituiscono lo sviluppo più recente dell’opera di Picchio e sono strutturate sulla drammaturgia dei contrari: giornonotte, realtà‑apparenza, chiaro‑scuro, luce-ombra, dipinto‑oggetto, superficie‑scultura. Con Light Art si accentua la progressione nell’evoluzione artistica di Picchio, che subisce un’ulteriore accelerazione ad un tempo rivoluzionaria e coerente.
Rivoluzionaria perché procede con la stessa organizzata creatività con cui Picchio (Dieter Specht) ha fondato e diretto per quarant’anni un’impresa, nonché recuperato e rilanciato la sua passione per l’arte: innovazione, libertà da schemi e modelli precostituiti, obiettivi ulteriori, tensione alla ricerca sia nello stile che nei materiali. In particolare al principio della segmentazione delle immagini, cioè della composizione pittorica ed ora anche scultorea concepita come un agglomerato di segmenti che, 6) RABARAMA, “Poker”, 2011, Bronzo dipinto 8-8, 36x21x32 cm 7) PICCHIO, “Lune e l’amore” 7
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strutturandosi tra loro, formano composizioni ad un tempo astratte e figurative. Con la Light Art si potenzia la ricerca di conquista dello spazio attraverso sia l’iconografia prima scomposta nei singoli segmenti e poi riunita in nuove sintesi poetiche, sia l’applicazione di forme plastiche grazie alle quali il dipinto diventa oggetto, installazione e finalmente scultura. L’opera acquisisce nuove dimen sioni e si proietta nello spazio. Con la serie Light Art il principio dinamico della proiezione dell’opera nello spazio e, a livello filosofico, della metamorfosi della realtà, viene irrobustito tanto sul piano oggettuale quanto dei rapporti spaziali. I plastici oggetti‑immagine di Picchio nascono da dipinti astratti ma diventano installazione e scultura. Decisiva è la funzione della luce artificiale LED, che continua e trasforma l’opera di quella naturale.
L’ARTISTA DARIO BALLANTINI SARA’ PRESENTE ALLO STAND DELLA TELACCIA IL 31 LUGLIO ALLE ORE 18,00 CON LA SUA MOSTRA.
Picchio 8) “Life-insurance night”
La Telaccia by Malinpensa Galleria d’Arte Via P. Santarosa, 1 - Piazza Statuto 10122 Torino - Tel. e Fax 011 5628220 cell. 347 2500814 - 347 2257267 www.latelaccia.it - info@latelaccia.it
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“toccami l’anima”
Esplosione cosmica e sculture inedite
Elvino Motti Parco San Marco
Lago di Lugano e Como Beach Resort, Golf & Spa info@parco-san-marco.com
14 aprile - 31 dicembre 2011 STUDIO CORTESE ARTE Via Camusso, 20 - 13833 Portula (Biella) - Italia - Tel. (39) 015 7655277 - Fax 015 7655246- info@corteseg.it - Cell. 338 6441049 elvinomotti@virgilio.it
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a galleria nasce nel 2007 per curiosità e per mia volontà personale, dopo parecchi anni di lavoro svolto come grafico in un importante studio di Venezia. Infatti attraverso il lavoro di grafico mi sono interessato all’arte diventando prima un collezioni-
sta legato soprattutto a temi di carattere concettuale, poi body art e minimal, non tralasciando la pittura informale. Sono passato quindi dal collezionismo all’attività di gallerista offrendo alla città di Mestre spunti per la crescita culturale 3
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delle persone, riempiendo una lacuna tutt’ora presente in città: la mancanza di sedi espositive. Attualmente la galleria occupa una piccola sede nella zona pedonale della città, ed è diventata un punto di riferimento per collezionisti ed artisti. 4
Franco COSTALONGA 1-2) “Oggetto Cromocinetico”, 1971 Tecnica mista, 80x80 cm 3) “Strutturazine”, 2000 Tecnica mista su tela, 50x35 cm 4) “Destrutturazine”, 2000 Tecnica mista su tela, 50x35 cm 5-6) “Mokubi”, 1998 Tecnica mista, 40x40 cm 7-8) “Oggetto Cromocinetico”, 1990 Tecnica mista, 47x47 cm
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Artisti presenti in galleria: Afro, Accardi, Aubertin, Alviani, Baj, Biasi, Boetti, Calzolari, Cingolani, Costalonga, Christo, Dadamaino, De Maria, Dorazio, Fontana, Galimberti, Griffa, Guidi, Hartung, Kounellis, Mathieu, Munari, Nido, Nitsch, Paladino, Piacentino, Pistoletto, Pusole, Rainer, Scanavino, Shimamoto, Spalletti, Stefanoni, Uncini, Vedova, Villeglè, Zorio. 7
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Out Arte Via San Girolamo, 30 30174 Mestre Venezia info@antigallery.it - www.antigallery.it Tel. 3392861642 - 3357481797
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FUNGO - ON THE ROAD AGAIN di Marta Palazzesi
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al 29.07.11 al 1.08.11, in occasione di Arteforte, la Galleria Pavesi propone On the road again, la personale del writer di fama internazionale Fungo. Un artista che ha trasferito quel graffitismo che esprimeva su metropolitane e vagoni dei treni, a tele adrenaliniche ed emozionali. On the road again proprio perché l’arte di Fungo è nata così, sulla strada e lungo la strada. La strada percorsa per spostarsi di città in città per portare avanti la propria arte di writer, la strada dove il graffitismo è nato. L’idea dello spostamento e del percorso come metafora di una ricerca artistica e interiore, ma anche come volontà di non fermarsi mai, di andare avanti,
di trovare nuove regole. Un omaggio a Jack Kerouac e alla Beat Generation. A quella generazione che aveva fatto della scoperta di se stessi, dalla vita sulla strada, del sesso e della droga liberi da pregiudizi e moralismi il proprio manifesto. Una generazione che viveva la musica, il beat, come un’esperienza catartica e liberatoria. Così nascono le collezioni Billionaire Rock ed Ego War. Da una visione personale del mondo, dalla voglia di liberarsi dagli schemi e i preconcetti della società di oggi. Questa voglia di libertà Fungo la comunica non solo attraverso l’emozionalità delle proprie tele, ma anche tramite un utilizzo fantasioso di forma e materia. La sua capacità di maneggia-
Particolare del quadro: “Psychedelic Wall”, 1979-2009, tecnica mista su tela, 320x170 cm
re e trasformare in arte cartone spellato, cemento, schiuma refrattaria, gomma e materiali per l’edilizia è indice di una versatilità e di un estro che pochi artisti – soprattutto così giovani – possono dire di possedere. Cromatismi violenti, materia e graffitismo pittorico si fondono, dando vita a tele uniche, metaforiche e dal forte simbolismo. BILLIONAIRE ROCK Un mondo in cui i soldi sembrano essere l’unico veicolo di felicità, l’unica strada da percorrere per arrivare ad affermarsi all’interno di una società consumistica e sempre più votata al “Dio Denaro”. Una visione della società senza fronzoli o falsi moralismi quella di Fungo, che interpreta questo tema così forte e attuale con l’ausilio della musica - una delle forme espressive che maggiormente rappresentano le generazioni giovani. È dall’enorme carica emotiva, provocata dalla musica, che nascono esplosioni di colori e forme dinamiche che si fondono a cromie ombrose e a linee statiche, che rappresentano i dogmi della società. ROCK THE FUTURE Uno sfondo composto da colori scuri invaso da una miriade di schizzi e linee colorate. Un contrasto tra negatività e positività, che manifesta in modo esplicito la spaccatura tra il tema della staticità e quello della voglia di guardare avanti, oltre.
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“Bisex”, tecnica mista su tela, 100x100 cm.
SEX DRUG&ROCK’N’ROLL Sesso, droga e rock’n’roll. Rifugiarsi in un mondo di perdizione per sfuggire a dogmi e imposizioni. Vivere al massimo, infrangendo ogni regola e limite. Sbagliato? Forse, ma la realtà è questa e Fungo non la vuole nascondere dietro a falsi perbenismi e castelli di carta. Una tela vibrante, carica di forza e simbolismo. MUSIC STAR Ancora la musica come veicolo di espressione e interpretazione della realtà. Colori scuri che fanno da sfondo a esplosioni di cromie vivaci e d’impatto. GOLDEN AGE Un immaginario di crescita e di conquista, l’idea dell’andare avanti, del guardare “oltre” tipico della Beat Generation in contrasto con una realtà afflitta da crisi e staticità. Colori caldi e ricchi che rappresentano l’idea
“Dig out your soul”, tecnica mista su tela, 100x100 cm.
di un futuro positivo e diverso. EGO WAR Una serie composta da cinque tele che vogliono comunicare interiorità e personalità. Sviscerare la propria mente e le proprie idee fino all’estremo, liberare se stessi. I dogmi fondamentali della Beat Generation che Fungo adotta e rielabora trasferendoli sulla tela attraverso una vera e propria lotta tra colori, che si sovrappongono cercando di imporsi l’uno sull’altro. Una sovrapposizione che coinvolge non solo cromatismi, ma anche materia: gomme, smalti, materiali per l’edilizia, tutto in Ego War tende a esprimere la personalità del singolo. LIGHT LIFE Una tela minimalista, dallo sfondo completamente bianco sul quale si stagliano i nomi di quattro grandi città: città vive, città che non dormono mai,
città che vivono di illusioni, di spettacolo e moda. La volontà del momento di appropriarsi delle simbologie del successo per emulare vip e rockstar. BISEX Due tele sovrapposte, due colori antagonisti per eccellenza. Rosa e azzurro. Una linea di divisione netta, ma che negli ultimi anni non lo è più. Non aver paura di esprimere la propria personalità, il proprio essere. Un messaggio positivo quello di Fungo, che incita a uscire dagli schemi per affermare il proprio ego. DIG OUT YOUR SOUL Massima espressione della collezione Ego War, questa tela è un inno alla libertà. Libertà di esprimere se stessi e le proprie idee, uno stimolo a non farsi schiacciare dalla realtà della crisi combattendola con personalità e movimento.
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sopra:
“Rock the future”, tecnica mista su tela, 100x70 cm.
sotto: “Golden
Age”, tecnica mista su tela, trittico - 270x200 cm.
La Galleria Pavesi Fine Arts è specializzata nel talent scout di artisti americani ed europei, caratterizzati da uno spirito e una visione contemporanea, internazionale e multi culturale, artisti sensibili agli aspetti sociali e attenti nel cogliere i cambiamenti di una realtà, quella americana in particolare, sempre più complessa, sfaccettata e in costante mutazione, quella che da loro stessi viene chiamata: the everchanging urban landscape. Un’attenzione costante è focalizzata sul fenomeno della street art e ai polimeri che da questa scaturiscono - graffitismo, sticker art, stencil. Un crogiolo di idee e personalità che continua a fermentare e a produrre visioni esoteriche, sogni irrealizzabili o caustici J’accuse. L’intento della Galleria è quello di unire diverse forme artistiche - che vanno dalla musica alla pittura, alla fotografia - per trasmettere una visione della realtà eterogenea, filtrata dalla sensibilità dei singoli artisti. Arnaldo Pavesi
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1) “Light Life”, Tecnica mista su tela, 100x100 cm 2) “Sex Drug&Rock’n’roll” Tecnica mista su tela, 98x100 cm. 3) “Music Star”, Tecnica mista su tela, 100x100 cm
Pavesi Fine Arts Via Guido d’Arezzo, 17 - 20145 Milano Tel. 02/87398953 arnaldopavesi@fastwebnet.it www.pavesifinearts.it
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ALBERTO PISTORESI di Tommaso Paloscia Firenze, maggio 1986
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uasi vent’anni fa; la galleria Ghelfi è in cima alla lista cronologica delle mostre fatte 1
da Alberto Pistoresi: 1967; era la seconda, a dire il vero, perché il debutto, avvenuto quello stesso anno, era stato accompagnato in una mostra alla Casa di Danteda una nota di Silvio
Polloni che può essere definito il padre putativo, in arte, di questo pittore popolano verace, educato al mestiere da maestri di grande fama fra i quali, in primissimo luogo, Annigoni (cerchiamo di ricordarcelo). C’era quella volta la penna di Bargellini a illustrare la «poesia» di Pistoresi che si riversava soprattutto nei paesaggi, molto misurati, riproposti in una gamma di grigi, su toni prevalentemente chiari. C’era una falsa luce. un po’ riflessa, che tuttavia era rimasta lì ad attendere il momento buono e l’occasione opportuna per manifestarsi senza infingimenti, per esplodere con quella grande intensità di colori che oggi travolge quasi l’immagine in un empito di vita esuberante, gioiosa. Certo, dall’Arlecchino picassiano del 67 ai paesaggi attuali, c’è, cammino faticoso, quasi un’av ventura spericolata nel rapporto di Pistoresi col mondo che lo circonda: un rapporto di amore ossessivo per la natura che talvolta assume aspetti di fanatico entusiasmo; come quel conservare i fiori secchi (i cardi soprattutto; ve ne sono nel suo studio, a contatto col cielo nella Firenze storica, esemplari di trent’anni) ai quali egli torna di volta in volta a restituire la vita sulle tele, ripristinandone i colori. Una sorta di rito. Ma la figura e il paesaggio sono i compagni indivisibili di questo artista, e ne subiscono gli umori, assai diversi nel tempo e tuttavia coerenti nel distruggere un periodo, come a cancellarlo d’impeto, per poi riassumerlo nella proget-
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tazione visuale, per riassorbirne i valori. La mostra di oggi ancora alla Ghelfi dunque, potrebbe anche intitolarsi «Dalla laguna veneta al Serchio» perché le immagini più «forti» e intensamente espressive ripropongono il bacino di San Marco e il tratto lucchese del fiume già pronto a slargarsi verso l’ampio letto di Migliarino. Su quell’ansa verdissima, Pistoresi ha piantato le tende: rammentandosi di una certa serie dipinta da Monet che volle ritrarvi la cattedrale di Reims in diverse ore del giorno e a ogni momento magico dedicare un’immagine di quel monumento già splendido di suo; ricordando queste cose, dunque, il pittore di Altopascio (Pistoresi risiede a Firenze dal 1950) ha ritratto il «suo» fiume in quattro momenti suggestivi, al mattino, al meriggio, al tramonto e di notte. E un poco nella tranquillità del fiume che scorre senza increspature riflettendo la flora assai fitta, rievoca le fatiche dello stesso Polloni che sull’Arno a Rovezzano impiegava la sua vita a ritrarre le molteplici «apparenze» del fiume amico, di cui non disconosceva ormai i segreti più remoti e persino gli umori improvvisi. La strada percorsa negli ultimi anni conferisce alla pittura di Pistoresi un ruolo che si sviluppa con l’azzardo nel nuovo nella conservazione. Sembra un paradosso ma non lo è. L’artista è invaghito di questo giuoco di contraddizioni che si rivela anche col movimento della staticità dello schema compositivo. Ed è
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un ciclonico ritmo di pennellate a suscitare l’impressione di un dinamismo fatto più semplicemente di colori accesi. Tuttavia rileggendo la breve nota di Bargellini agli albori di questa pittura, ci si accorge che ancora regge quella sottolineatura di una poesia, popolare nella primitività della fonte, sempre presente nel gesto, nel
segno, nella forma, nelle cromie in cui si dipana l’immagine «naturalistica». Una bella coerenza, non c’è che dire.
Alberto Pistoresi 1) “Composizione”, 1972 2) “Notturno dal mio studio”, 1972
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di Gastone Breddo Giugno 1968
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o conosciuto Alberto Pistoresi, pittore toscano, a Verona quest’inverno. Fu in occasione di una sua vasta personale per la quale Piero Bargellini aveva scritto una prestigiosa paginetta. Confesso che standomene molto in disparte dalla vita cittadina e vivendo, fra campi e colline, ne gli splendidi dintorni di Firenze, non avevo mai avuto l’opportunità di. vedere un così notevole numero di quadri del Pistoresi, né l’occasione di conoscere personalmente il loro autore. Ebbene debbo dire, scusandomi con lui per questa mia imperdo-
nabile ignoranza nei suoi riguardi, che è la conoscenza dell’opera e quella dell’artista mi sono state oltremodo gradite. Misurato, pieno di tatto, chiuso in un suo naturale pudore il pittore, schivo da ogni chiasso, egli mi è parso il primo naturale protettore del suo lavoro. Pur nell’umiltà, non atteggiata, trapelava una chiara coscienza per le sue cose, una completa adesione al suo mondo, alla sua natura radicata nella semplicità e nella probità. Pistoresi si è certo formato nell’osservazione diretta del vero. Coi venti che spirano chis-
sà quale impressione può produrre una tale affermazione! Ma noi sappiamo che la stagione dei baracconi a livello nazionale e internazionale, sta morendo finalmente di consunzione, per esaurimento, dopo aver inflitto dolori e sacrifici a tanti artisti ai quali domani sarà resa giustizia. Pistoresi è ancora uno dei pochi artisti che amano vagare, per ore, lungo le sponde dell’Arno o su per le colline che chiudono Firenze e dalla commozione diretta per lo spettacolo naturale, col suo bel bambino silenzioso accanto, ama dipingere con l’animo gioioso, disteso, quanto ha prodotto in lui un’emozione. Un cielo, un albero, il profilo di un monte, una casa abbandonata, i suoi temi dominanti. Ma anche il senso del dolore, così larga e incisiva componente della vita dell’uomo è uno degli ingredienti d’anima che Pistoresi mescola nella sua opera. Infatti dall’incanto diretto delle serene visioni paesistiche l’artista si cala nel mondo dei vecchi, dei derelitti, dell’umanità sofferente. Assiduo visitatore di case di riposo, di luoghi di cura, di ambienti dove si assiepa un’umanità carica di tempo e di acciacchi, trae anche da qui i suoi accenti più acuti. Ricordo d’avergli detto dei pericoli gravi nell’affrontare una tematica tanto complessa e difficoltosa da trasferire in termini pittorici: ma Pistoresi non si arrende, pensa lealmente ai suoi limiti ma sente di dover andare avanti anche per questa strada. L’assunto
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è particolare, i pericoli tutti all’erta ma lo spirito del pittore non resiste ad uno stimolo che è più forte di lui. Pistoresi non è, si pena poco a capirlo, uno degli artisti che oggi si dicono «sulla cresta dell’onda»: è e rimane un uomo di pena, di intensa sensibilità con l’intelligenza tesa a scoprire a sé e agli altri ogni piega del suo animo, del suo sentimento. Esiste una fertilità nel suo essere, una ricchezza di umori, un generoso abbandono alle cose che, se lo pongono al riparo da avventure e deviazioni di calcolo costituiscono una impagabile garanzia per poter affermare che l’approdo alle rive non sospette della poesia è la sua meta ambita, nei casi migliori tanto amabilmente raggiunta. 5
Alberto Pistoresi 3) “Mattino sul Serchio” Olio su tela, 80x60 cm 4) “Meriggio sul Serchio” Olio su tela, 80x60 cm 5) “Notturno sul Serchio” Olio su tela, 80x60 cm
Pistoresi Alberto Via Dei Vagellai, 2 Firenze (Fi) Tel. 055 219586
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Giordano Pini un artista a tutto tondo di Chiara Innocenti
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iordano Pini é un orafoscultore ma sarebbe meglio definirlo un artista a tutto tondo in quanto si cimenta nella realizzazione di opere e materiali sempre diversi e nuovi, le sue opere sono una sintesi di arte moderna e contemporanea cioè l’unione tra arte figurativa e concettuale. Ad una prima osservazione si rimane estasiati e attratti dalla bellezza delle sue opere, dalla varietà delle tecniche e dei materiali utilizzati, per questo la sua arte può essere considerata arte moderna; la sua bellezza oggettiva è indiscutibile ma allo stesso tempo è arte contemporanea perché cela significati diversi
tra loro e molto profondi. Una costante dell’artista è l’energia in movimento, la fluidità del tutto che si ritrova nelle sue opere, egli risente del pensiero orientale e cerca costantemente di recuperare il rapporto con la natura, con l’origine del mondo e la nascita della vita. Particolare attenzione ha dedicato all’analisi dell’uomo, alla sua ingenuità di rincorrere il progresso e di guardare al futuro: l’uomo si affanna nel cercare una verità che in realtà è dentro di lui, pensa ingenuamente di essere superiore e al di fuori del tutto e non si rende conto di farne parte ed esserne protagonista. Ha esposto in mostre personali e collettive in Italia come a Pistoia, Udine, Firenze, Massa, Milano, Pescia, Montecatini Terme, Finale Ligure, Querceto (Pisa), S. Gimignano (Siena); ma anche all’estero come a Bruxelles e a Parigi. Attualmente alcune delle sue opere sono esposte nella Galleria Turelli, all’interno delle Terme Tettuccio di Montecatini Terme e nello studio del pittore Domenico Monteforte a Forte dei Marmi. Degne di nota sono le opere Onda infranta e Diversità con lo stesso destino, presenti nella collezione del Gioiello Contemporaneo presso il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze. Il pianeta musicante, in acciaio
inox e ottone dorato, è stato donato dall’artista al Museo Marino Marini di Pistoia, nel bookshop del quale é possibile acquistare ciondoli che Pini ha realizzato ispirandosi al cavallo, uno dei temi preferiti di Marino. Altre sue opere sono in vendita nel bookshop della Galleria dell’Accademia di Firenze. In alcune opere come anelli, collane, ciondoli ma anche oggetti di arredo sono presenti due costanti: la superficie increspata che rimanda alla teoria del Big Ben e alla nascita della terra e la luna, anch’essa rimanda al tema della nascita, alla successione del giorno e della notte e all’influenza che la luna ha su di noi. Pini, a differenza di altri artisti, vive a pieno la società del suo tempo e ha realizzato anche opere d’arte che diventano oggetti d’uso quotidiano con la differenza che non sono prodotti in serie ma unici e irripetibili nel loro genere.
Centro Diamanti - via Pagliucola 115 - PISTOIA - Tel. 0573 308474
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PROGETTO “FORMAE MENTIS” S
tefania Quartieri come portavoce del Progetto-Movimento "Formae mentis" conferma che questo progetto, come in passato, continuerà ad essere portato nelle manifestazioni fieristiche e negli spazi istituzionali per promuovere gli artisti che vi aderiscono. 1
Anche quest’anno Formae mentis partecipa ad Arteforte con una nutrita schiera di artisti di ottimo livello e che si riconoscono nel progetto. La massima che connota il movimento, che è stata estratta da un testo di Maria Rita Montagnani è:
Ciò che determina i fasti del pensiero, che provoca le turbolenze dell’emozione, che altera e dilata a dismisura la sensazione, che agita e inverte le correnti dell’istinto,è la FORMA MENTIS. Essa è l’archetipo su cui si fonda e si foggia la visione suprema, quella che permette alle deformità dell’anima di tradursi in “opus contra naturam”.
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1) Patrizia Rampazzo “La montagna sacra” 2) Ettore Saccà “La sedia elettrica” 3) Laura Papini Particolare de “Untitled” 4) Stefania Quartieri Serie “Unicum”
Progetto “Formae Mentis” Pisa Cell. 348 2842349 - 347 8721073
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PROPOSTE D’ARTE CONTEMPORANEA
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a Galleria Proposte d’Arte Contemporanea nasce nell’aprile 2003 nei locali dell’ex galleria Cardelli & Fontana. Propone da sempre collettive di grandi artisti con specifico indirizzo per la Pop Art. Grande attenzione viene data al gruppo Romano: Schifano, Angeli e Tano Festa, senza trascurare Giulio Turcato, Piero Dorazio, Ruggero Savinio, Carla Accardi
e Antonio Corpora. In campo internazionale si interessa particolarmente al Nuovo Espressionismo tedesco: Markus Lupertz, Yorge Immendorf e Gerog Baselitz (Die Neue Wilden). La Galleria Proposte d’Arte Contemporanea effettua stime su opere di artisti italiani ed internazionali al fine di redigere valutazioni patrimoniali per compravendite e divisioni ereditarie.
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Mino Maccari 1) 1975 Olio su tela, 30x40 cm 2) Anni ‘70 Olio su cartoncino, 25x19 cm
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3 Mino Maccari 3) 1967, Olio su tavola, 20x30 cm Provenienza Galleria Bonaparte Gianni Dova 4) Tempera su tavola, 70x50 cm Mino Maccari 5) 1950 Olio su tela, 38x32 cm
Proposte d’Arte Contemporanea Ing. Marco Golzi Via Barsanti, 18 55045 Pietrasanta (Lu) Tel. 0584 70407 - Cell. 329 3032661 www.propostedarte.com info@propostedarte.com
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GIAMPAOLO TALANI di Emanuela Mazzotti di necessità interiore, sovrapposizione di sogno e vigile presenza nel proprio tempo, o più radicalmente sintesi di istinto e ragione. L’assenza di dinamismo delle figure - quasi un’opposizione all’inarrestabile divenire del tempo - è l’ancora di salvezza insita nell’espressione attonita dei suoi personaggi – veri e propri pellegrini, eterni viaggiatori di un percorso senza fine. L’opera d’arte registra l’assenza, l’incompletezza del viaggio, l’esito incerto: il suo destino è la terra del dubbio. A COLLOQUIO CON GIAMPAOLO TALANI
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arte nella sua forma più alta è espressione di un linguaggio che trova nell’esistenza estetica la sua forza comunicatrice. Il linguaggio come sistema di segni , parole dipinte dell’arte, si condensa ed organizza nell’opera pittorica, scultorea e grafica; si qualifica in altrettanti significati, traduzione per immagini di una necessità di esistenza interiore del suo autore. Il sistema dei segni non conosce limiti o barriere imposte al genere artistico, per questo motivo TALANI coniuga pittura e poesia, musica e scultura quale costituzione di un unicum come premessa ed esito di ogni intervento estetico, insieme organico di relazioni. All’interno delle categorie significanti trova posto la rassegna di essere umani, sequenza di vite, declina-
ta come percorso ed estensione dell’esistenza stessa dell’artista a ribadire che l’opera d’arte serra indissolubilmente in sé una visione intimista e al contempo meta- storica: il passato e il presente di molte altre vite colte in una dimensione corale. In questo modo è possibile comprendere il senso che TALANI attribuisce alle antiche e nobili tecniche dell’affresco, del disegno e dell’incisione che consentono, attraverso il possesso del procedimento tecnico, di superare quanto di effimero e contingente l’arte contiene in sé e al contempo permettere un controllo assoluto del mezzo espressivo che governa e sopraintende il momento istintivo – creativo. L’arte, quindi, non si rivolge all’esterno ma, al contrario, vive
Si può confermare l’esito dubitativo dell’arte? In sostanza l’arte non dà nessuna risposta ai grandi interrogativi dell’uomo? L’arte non ha mai dato risposte a nessun interrogativo dal momento che questa nasce dall’uomo, che da sempre si interroga in cerca di una possibile risposta. Ma l’arte dà forse una cosa più importante delle risposte: dà speranza e questa è il bene più prezioso di un uomo assieme al grande dono della libertà che sempre l’arte può portare. C’è un’apparente felicità fanciullesca nelle Sue opere che contrasta con ciò che di più profondo emerge ad una lettura più attenta.... Più che felicità c’è malinconia per un periodo trascorso... un diritto alla serenità per tutti perché la fanciullezza è il periodo che introduce alla vita futura e tutti
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i futuri umori e comportamenti si disegnano li. La mia infanzia è stata serena e perciò ne sento forte la malinconia. Il contrasto che ne emerge è quello dell’adulto disilluso che già molto ha visto e vissuto con la certezza che non
c’è scampo dalla vita, ma proprio per questo non rinuncia ai suoi giochi di irrequieto sognatore. Esiste uno “stile “ Talani, come nasce un segno inconfondibile in arte? Si esiste uno stile Talani, ormai
Giampaolo Talani 1) “Partenza degli uomini rossi” Affresco strappato, 80x80 cm
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da tempo ne ho coscienza e controllo ma ho dovuto cercarmi attendermi e scavarmi dentro per anni, spesso non senza soffrirne, per trovare ciò che comunque è già scritto nel tuo codice genetico. Se hai qualcosa dentro lo hai già da subito o non ce l’hai da mai, ma per scoprirlo devi tuffar-
ti in profondità, ci vuole volontà, coraggio, un po’ di incoscienza, caparbietà ma soprattutto amore per quello che vorresti essere. Si chiama ricerca. Se poi infine qualcosa trovi da dirti e da dire agli altri, l’elaborazione del linguaggio è esercizio faticoso si, ma di sola tecnica.
A proposito del tema dell’ombra: la presenza -assenza è il dato che contraddistingue la gran parte della sua produzione.... Siamo presenze e saremo assenze per noi stessi e per gli altri, il gioco dell’esistenza in fondo sta tutto qua. Viviamo di presenze e ci nutriamo spesso di assenze per
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continuare a vivere. Le mie ombre sono sempre ombre buone di chi mi manca ogni giorno, o assenza per un tempo che non torna più ma che mi stimola a cercare e ad amare ancora di più la vita. L’ombra poi e’ la prova che esistiamo ed è la cosa che più mi fa pensare all’anima, invulnerabile, fluida, inafferrabile che neanche l’acqua la può bagnare e neanche il vento più forte la può portare via. Solo il buio la cancella. In che modo si può creare una relazione fra arte e musica? La musica stessa è arte come lo è la danza la poesia o la mimica, cambia solo il linguaggio ma i messaggi possono essere espressi e comunicati tutti quanti in egual misura, non c’è proprio nessuna differenza, tutto è fatto con gli stessi toni, semitoni, ritmi, pause, silenzi, fragori, linee, compo-
sizione e soprattutto matematica. E’ tutto quanto un grande calcolo dell’anima e soprattutto di fede. Le Sue figure rimandano ad una sorta di sacralità che ha origine nella tradizione dell’Umanesimo specie toscano.... Le mie figure sono protagoniste di ogni dipinto così come l’uomo dovrebbe essere al centro di ogni pensiero che può migliorarlo, se riuscissimo a fare della nostra fragilità la vera forza che ci accompagna non avremmo più bi-
Giampaolo Talani 2) “L’isola che c’è”, 2010 Strappo d’affresco, 100x100 cm 3) “Storia del marinaio”, 1994 Olio su tavola, 100x200 cm 4) “Notte di San Lorenzo”, 2007 Olio e tempera su tavola, 90x7 cm
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sogno di dei per non aver paura di riconoscere che siamo soli. Il rinascimento e l’umanesimo che lo caratterizza è l’espressione più grande e coraggiosa che l’uomo ha saputo dare nelle sua storia e che lo ha avvicinato alla sacralità, del dubbio e della ricerca di se stesso. Che cos’è il sacro, oggi? E’ ogni piccolo pensiero buono che possa servire agli altri.
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5) Xhixha “Senza titolo” Metallo dipinto 6) “Luce del futuro 2012” Scultura in acciaio inox lucidato a specchio, 68,5x34,5 cm
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