Claudio Cicconi - Alla Scoperta di Elcito

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Claudio Cicconi

ALLA SCOPERTA DI ELCITO Associazione PRO ELCITO Queste brevi note non pretendono di essere un complesso studio storico sui secoli di vita di Elcito, cosa che avrebbe richiesto più tempo, ma solo uno sguardo semplice e fugace per arrestare quel silenzio a cui lo spopolamento sembra voler condannare una tra le più belle località montane marchigiane. Spero comunque che questo lavoro torni gradito a tutti coloro che abbiano l’opportunità di visitare Elcito e sia stimolo ed invito a quella ricerca approfondita ed esauriente che il paese merita. Colgo l’occasione, infine, per ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto con i loro preziosi consigli la mia giovane passione per le ricerche storiche ed in particolar modo il Prof. Pier Luigi Falaschi, il Prof. Gualberto Piangatelli, Mons. Quinto Domizi ed il Dott. Raul Paciaroni, nonché Enrico Ilari, Presidente dell’Associazione Pro Elcito e Piergiorgio Della Mora (Studio 44) per le fotografie che corredano la presente pubblicazione.

PRESENTAZIONE ELCITO E LA SUA STORIA L’ABBAZIA DI SANTA MARIA DI VAL FUCINA IL CASTELLO LA CHIESA PARROCCHIALE

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PRESENTAZIONE Parlare di Elcito e dell’abbazia di Val Fucina sembra, oggi, cosa ovvia, quasi gioiosa; ma il pensiero corre subito agli anni trascorsi, anche se recenti, quando il paese di pastori e di piccoli agricoltori, inerpicato sulla parete rocciosa con le abitazioni color della pietra, era popolato da una gente povera eppur combattiva, preda di inverni e di nevicate senza pietà, da sempre abituata a pasti frugali e semplici: la minestra con il battuto, la fetta di cacio pecorino, arrostita sulla graticola, la carne ogni tanto, ma non troppa perché era un lusso. la neve penetrava allora nelle case da mille pertugi, le finestre, anche se piccole, e le porte consunte non riuscivano a tener fuori la violenza del maltempo. Tutto concorreva ad una vita grama affrontata però senza mai farne un dramma, accettata come veniva. Così era settanta, ottanta anni fa e lo ricordano i più anziani. In quei tempi, il nome di Elcito veniva storpiato in “Lurgitu” ed era sinonimo di luogo lontano, aspro, disagevole, i cui abitanti però dietro l’aspetto esteriore rude, tanto che si suoleva dire: “Che si de Lurgitu?”, nascondevano una sorprendente sensibilità e delicatezza d’animo. Allora a tutto si poteva pensare meno che ad una storia di quel sito anche se ne aveva una sua, ed antica, storia; era nascosta negli archivi e pochi la conoscevano. La guerra gli dette una certa notorietà per il fatto che a Valdiola, e quindi a poca distanza, si era stabilito il comando dei partigiani del battaglione Mario che le forze tedesche per assicurarsi la ritirata alla linea gotica attaccarono con le loro milizie; e si ebbe lo scontro al Sasso Tagliato e la distruzione del “palazzo dei canonici” al centro del paese. E’ il dopoguerra e gli anni successivi che videro Elcito affrancarsi dalla marginalità in cui era lungamente vissuta e si ebbero allora episodi di intervento delle istituzioni a vario livello, promosso però, e spesso, dagli stessi abitanti di Elcito. Ci fu poi una lunga stagione, ormai pienamente attuale, della valorizzazione di Canfaito che si riflesse in Elcito quando ormai il paese andava spopolandosi come le altre frazioni di campagna; vennero i cittadini, acquistarono le dirute case e le restaurarono, intervenne la Soprintendenza ai Monumenti a salvaguardare, con i suoi regolamenti, il valore etnologico della zona, nacque anche un camping e così via; comunque i vecchi abitanti pur essendosi trasferiti, per


la maggior parte in città, vecchi e giovani, conservavano il culto del natio luogo ed hanno mantenuto, per i figli e per i nipoti, la vecchia casa dei loro avi e magari hanno adattato ad abitazione gli antichi covili e tornano ad Elcito ogni anno per ritrovarsi insieme, per rivivere i tempi di una volta, particolarmente il 16 agosto, in occasione della festa annuale del santo patrono San Rocco. Va quindi rivolto un vivo elogio a Claudio Cicconi che risveglia, con la seguente pubblicazione, alcuni tratti della memoria storica di Elcito e del suo territorio e ne illustra l’ambiente, i monumenti ed i momenti più significativi, permettendo ad ognuno di noi di sapere qualcosa in più di un luofo che ci è caro e che diventa sempre più tale nella misura che meglio lo si conosce. Gualberto Piangatelli San Severino Marche, luglio 1996

ELCITO E LA SUA STORIA La piccola località di Elcito si raggiunge da San Severino Marche percorrendo la strada per Apiro fino alla frazione di Castel San Pietro dove si imbocca la strada, 5 Km circa, che conduce al paese.1 Annoverata tra le località più caratteristiche ed interessanti del comune saseverinate, a differenza dei familiari insediamenti marchigiani siti sui dolci pendii collinari, sorge su uno scoglio alto e dirupato a 821 m. di altezza, sito alle falde del monte San Vicino.2 La sua ubicazione fa agevolmente intuire che in passato è stato un castello, conservando la località aspetti inconfondibili di una rocca medioevale, pur restando poche le tracce di fortificazioni, quali mura o torri; e la storia lo conferma. Giunti al bivio che conduce ai piani di Canfaito, continuando a destra, si arriva dopo una breve salita nella piazzetta antistante la chiesa, dedicata a San Rocco. Da qui è possibile volgere lo sguardo sulla Val Fucina e scorgere agevolmente, alle pendici dell’altopiano di Canfaito, la località chiamata “Abbadia di Elcito”. Difficilmente, oggi, il visitatore potrà immaginare che quelle poche case coloniche e la piccola chiesa siano tutto ciò che resta della potente e famosa Abbazie benedettina di Santa Maria di Val Fucina. La presenza di tale importante monastero nelle immediate vicinanze del castello di Elcito fa rilevare un quadro storico particolarmente interessante di questi luoghi; e dalla storia di questo cenobio si deve necessariamente partire per avere un quadro completo delle passate vicende che hanno interessato nei secoli il pittoresco paese.

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ELCITO dista da San Severino 22 Km e nelle cartine topografiche comunali è indicato con la dicitura “frazione geografica T”. 2 Il monte San Vicino è il monte più alto della dorsale appenninica orientale (m. 1479). Diviso tra le province di Ancona e Macerata, il massiccio calcareo offre una serie di ambienti interessanti. La vegetazione forestale, assai sviluppata, è a prevalenza di ornello e carpino nero, con vaste faggete alle quote superiori: la più bella è quella denominata Piani di Canfaito cioè “campi di faggio”, intorno ai 1000 metri, dove il bosco è alternato a radure, nelle quali campeggiano faggi secolari. In tal modo dovevano apparire in passato anche il monte Pereta che sovrasta Elcito e la Val Fucina prima che i monaci e gli abitanti del luogo abbattessero gli alberi per consentire una cultura cerealicola che purtroppo, con il trascorrere dei secoli, ha reso sterili i terreni.


L’ABBAZIA DI SANTA MARIA DI VAL FUCINA Chi nel Medioevo avesse voluto recarsi all’Abbazia avrebbe dovuto intraprendere un viaggio faticoso simile a quello descritto da Umberto Eco nel Nome della Rosa. Abbandonate, infatti, le brevi pianure del Musone e le numerose colline che si susseguono lungo il corso del fiume, il pellegrino, a differenza dell’odierno visitatore, doveva inerpicarsi per il sentiero che tuttora sale ripido sui pendii del monte Pereta, tra sassi e vegetazione, sino ad incontrare la porta orientale del castello di Elcito. Quindi, oltrepassata la rocca e dopo una breve discesa, il suo viaggio terminava in un’ampia e verde conca, circondata da monti ricoperti di foreste incontaminate. Il monastero benedettino, con i suoi allora numerosi edifici, la Chiesa e le dipendenze, era adagiato proprio al centro di quella florida vallata. 3 Quando sia stato fondato non è dato saperlo, ma il documento più antico che lo riguarda risale al 1058.4 Tale fonte non rappresenta certamente un’espressione del periodo iniziale della storia dell’eremo, bensì va considerata come testimonianza di una fase piuttosto avanzata, la quale presuppone che in quell’epoca vi era già un nucleo stabile e fiorente. La fondazione sarebbe avvenuta quindi intorno ai primi anni dell’XI secolo, mentre la circostanza che l’abbazia venne dedicata alla Vergine potrebbe far sospettare che il nucleo originario provenisse da un più antico eremo contiguo, dedicato a San Vito, e di proprietà della celebre e potente abbazia reatina di Farfa, la quale all’epoca aveva diversi possedimenti proprio nelle Marche.5 3

Le Marche furono tra le prime regioni italiane ad accogliere il messaggio di San Benedetto. Fin dal VIII secolo è provata la presenza di insediamenti benedettini nel territorio sanseverinate. Essi si attestarono infatti ai margini del distretto nel “Fanulunum Sanctum Abundium”: tale corte con la sua chiesa, la cui ubicazione è tuttora sconosciuta, secondo un placito dell’828, era stata donata all’abate di Farfa (vedi nota n°5) nel 768. F.Allevi, I Benedettini nel Piceno e i loro centri di irradiazione, in “I Benedettini nelle valli del maceratese”, Atti del II convegno del Centro di Studi Storici Maceratesi, Ravenna 1966. L’apporto che San Severino ha dato alla vita monastica benedettina non si limitò, però, al solo cenobio di Sant’Abbondio: ne fanno fede i due monasteri femminili di San Claudio al Sassuio, sito prima vicino al castello di Carpignano e San Giovanni “in Campo Idonico”, ubicato nei pressi dell’attuale giardino pubblico, dei quali non rimangono tracce, ed i sei maschili: 1) San Lorenzo in Doliolo, che presenta ancora la grandiosa chiesa abbaziale retta dal 1765 dai Cistercensi; 2) San Michele Arcangelo, detto poi Sant’Eustachio di Domora, sito presso le omonime grotte e di cui rimangono notevoli avanzi pur se in grave stato di abbandono; 3) La pieve di San Clemente, nei pressi di Castel San Pietro; 4) L’abbazia della SS. Trinità, fatta costruire nel 1049 da San Pier Damiani alle pendici del San Vicino; 5) San Mariano in Valle Fabiano, ubicata originariamente nei pressi di Colleluce e di cui rimane la chiesa; 6) Santa Maria di Val Fucina. O. MARCACCINI, La storia del monastero benedettino di S. Mariano in Valle Fabiana attraverso le sue pergamene, in I Benedettini nelle valli del maceratese, op. cit., pag 273. 4 Si Tratta di una donazione ad usufrutto di un pezzo di terra sito in località S. Lucia di Paterno presso Serrone di San Severino, fatta dall’abate Giovanni ad un certo Pietro di Alberico. La pergamena è tuttora conservata presso l’archivio capitolare di San Severino. G. BORRI, L’area benedettina del monte S. Vicino, in Aspetti e problemi del monachesimo nelle Marche (Biblioteca Montisfani I,6), Fabriano 1982, pag. 75. 5 L’abbazia di Farfa (che è attualmente una frazione del comune di Fara Sabina, in provincia di Rieti) fu fondata, secondo una leggenda, sulle rovine di un antico tempio della Siria. Distrutto nell’epoca barbarica e ricostruito verso il 680 per opera di un pellegrino franco, Tommaso di Morienna, il monastero era assurto nel sec. IX ad un alto grado di potenza e di splendore, grazie ad elargizioni ed a privilegi di duchi, re e imperatori, per cui estendeva i suoi possedimenti dall’Abruzzo alla Lombardia. Ma sul finire del sec. IX, con l’invasione dei saraceni, ebbe inizio una fase di decadenza: i monaci furono costretti a rifugiarsi nei loro possedimenti marchigiani tra i quali, secondo il Caccialupi, la stessa Santa Maria di Val Fucina, la cui fondazione, se tale ipotesi fosse provata, potrebbe risalire, come sosteneva il Gentili, a quel periodo. Passato il pericolo alcuni monaci tornarono e, grazie all’abate Ugo (997-1038), l’abbazia venne ripotenziata ed aderì prima alla riforma


Il monastero di Val Fucina consolidò, nei decenni successivi, le proprie ricchezze estendendo la sua giurisdizione in terre sempre più lontane, il tutto grazie a numerose donazioni ed acquisti, tanto da trovarsi ben presto nell’impossibilità di coltivare gli stessi fondi a causa della carenza di manodopera monastica e delle lunghe distanze che intercorrevano tra questi e l’abbazia.6 Per far fronte a tale situazione gli abati pensarono bene di concedere le terre in enfiteusi anche a compensi annui di modesta entità.7 L’attività degli operosi monaci si mantenne intensa per tutto il XII secolo raggiungendo l’apice tra il 1227 ed il 1236 periodo nel quale vennero rogati ben quarantadue tra contratti enfiteutici e di compravendita.8 La lettura di tali atti consente di ricostruire analiticamente un quadro abbastanza ampio e preciso dei beni fondiari appartenuti ai monaci di Val Fucina. 9 Prima di tutto l’abbazia possedeva numerose terre sia nella stessa vallata dove era ubicata ed in tutta la zona circostante, compresa la vicina valle di San Clemente,10 sia in diverse altre frazioni sparse nei dintorni di San Severino quali Castel Sant’Angelo, Moscosi, Gabbiano, Villastrada ed Avenale.11 Il monastero, però, estendeva le sue proprietà nella zona iesina ed in aree più lontane: alcuni atti attestano infatti diritti nel territorio di Osimo, Numana, Recanati, Matelica, Camerino e Cerreto d’Esi.12 Oltre ai citati latifondi, il monastero aveva alle sue dipendenze numerose chiese, celle ed eremi, i quali possedevano a loro volta fondi sufficienti al sostentamento di una piccola comunità monastica o del solo monaco rettore che li abitava.13 Tale consistenza è infatti ampliamente documentata da due preziose bolle papali conservate presso l’Archivio capitolare di San Severino: trattasi della bolla che Lucio III inviò, in data cluniacense poi a qella cistercense fino a decadere anch’essa nel XV secolo. D. PACINI, I monaci di Farfa nelle valli picene del Chienti e del Potenza, I Benedettini, op. cit., pag 129 ss. M. CACCIALUPI, Da Settempeda a San Severino. Storia della trasformazione d’un Municipio romano in Comune durante i secoli dell’alto medioevo (datt. in Biblioteca comunale di Macerata – 1930 circa) pag. 63. G. C. GENTILI, De Ecclesia Septempedana, II, Macerata 1836, pag. 133. 6 G.BORRI, op. cit., pag 76 e ss. G.C.GENTILI, De Ecclesia Septempedana, II, Macerata 1836, pag. 133. O. TURCHI, De Ecclesia Camerinensis Pontificibus libri VI, sive Camerinum Sacrum, Roma 1762, pag. 236. 7 Presso l’Archivio capitolare di San Severino Marche sono tuttora conservati quaranta contratti di varia natura stipulati dal 1150 al 1212, cinquanta tra il 1212 ed il 1226. G. BORRI, op. cit., pag. 76, note n°11 e 12. L’enfiteusi medioevale venne utilizzata dai Benedettini soprattutto per intensificare la bonifica dei latifondi acquistati o ereditati: tale contratto stabiliva che il proprietario di un fondo concedeva ad altri il diritto di utilizzarlo in perpetuo o per un periodo molto lungo (in genere “a terza generazione”), con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un annuo canone in danaro o in natura. Quest’ultimo, solitamente assai tenue, consentì un sensibile miglioramento delle condizioni sociali dei servi e coloni che si trovavano alle dipendenze monastiche. D. PACINI, op. cit., pag. 131, nota n°7. 8 G. BORRI, op. cit., pag. 76. 9 Ibidem, pagg. 76 e ss. 10 La valle di San Clemente è situata tra le frazioni di Castel San Pietro e Isola. La piccola chiesa, sita all’interno del cimitero dell’omonima valle, conserva un portale a sesto acuto, la decorazione absidale ad archetti e lesene e parte della navata centrale di un’antica pieve canonicale, la quale potrebbe essersi sovrapposta ad una più antica presenza benedettina. Infatti in un atto del 1343 si parla solo di un “Plebanus canonici et capitulus plebis S. Clementis et S. Benedicti”. Nella stessa chiesetta è tuttora presente un’antica iscrizione duecentesca in lettere gotiche del seguente tenore: ANNI D(OMI)NI MCCXXIII / R(EGNANTE) F(EDERICO) I(M)P(ER)ATORE TEMPO / RE ONORII P(A)P(E) I(N)DICTIO(N)E (XI) Il significato, non molto chiaro, dovrebbe verosimilmente riferirsi a lavori di restauro eseguiti in quel tempo. G. BORRI, op. cit., pag. 269. 11 G. BORRI, op. cit., pag. 77. 12 Ibidem, pag. 80. I monaci di Val Fcina furono legittimi proprietari della Chiesa di San Maurizio di Jesi fino al 1275, anno in cui passò alla cattedrale di quella città. 13 Ibidem, pag. 81.


04.04.1184, all’abate Giovanni di Val Fucina, con la quale il pontefice prendeva sotto la protezione della sede apostolica l’abbazia con tutte le sue chiese ed i suoi possedimenti, 14 e della bolla che riconfermava beni, privilegi e giurisdizioni, inviata da Gregorio IX il 10.04.1236.15 La vita monastica trascorse così per secoli sicura; ora et labora erano le occupazioni principali dei monaci di Val Fucina dove, secondo gli storici, si trovava anche una biblioteca che venne potenziata nell’anno 1245 per volontà dell’abate Bonomo.16 Purtroppo, però, già al volgere della metà del XIII secolo si manifestarono i primi segni di crisi, i quali interessarono non solo Val Fucina, ma anche gli altri centri benedettini: iniziarono infatti proprio in questo periodo gli accorpamenti causati dal minor numero di monaci, la riduzione dei contratti enfiteutici e la perdita di numerosi beni fondiari. A questo stato di cose tenteranno inutilmente di opporsi gli abati anche perché il sorgere di nuovi movimenti spirituali, più rispondenti ai tempi, privarono loro di ogni velleità in proposito.17 E’ datato 1464, infatti, l’ultimo segno di vitalità della nostra abbazia che si manifestò con il versamento di una considerevole somma di denaro, forse tutto ciò che restava a disposizione dei monaci di Val Fucina, a favore della crociata indetta dal pontefice Pio II.18 Per ironia della sorte, poi, l’ultimo abate di cui si ha memoria si chiamava Benedetto e resse il monastero almeno fino al 1483.19 Nel 1487 la nostra comunità, priva della sua guida spirituale e giuridica, era ridotta di numero a tal punto da non essere più in grado di amministrare i pochi beni rimasti ed abbandonò per sempre l’abbazia. In quello che fu un potente e ricco monastero, da ora in poi regnò il silenzio: la sala capitolare, i corridoi, le anguste celle, i magazzini, i cortili e la stessa chiesa, non risuonarono più delle preghiere e dei canti dei monaci. Al fine quindi di evitare nuove perdite patrimoniali volle intervenire personalmente lo stesso Innocenzo VIII, il quale ritenne opportuno darne in commenda l’amministrazione, prima ad un chierico parmense chiamato Giacomo Castellani, poi, morto costui, al potente Cardinal Raffaele

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Ibidem, pag 81 G.C. GENTILI, op. cit., pag. 128 O. TURCHI, op. cit., app. doc. pp. 33-3415 G.BORRI, op. cit., pag. 81; G. TALPA, Memorie dell’antica e nuova città di Settempeda detta oggi Sanseverino, vol. XIII, ms. 8 (sec. XVIII) in Biblioteca comunale di San Severino M., (in seguito B.C.S.) c. 128. Per un elenco dettagliato delle chiese appartenenti a Val Fucina vedasi G. BORRI, op. cit., pagg. 81-82, nota 61. 16 Il gentili infatti scriveva “… in literarum instauratione monasterii vallis-fucinae splendori non parum contulit Bonomus abbas anno 1245, die 3 decembris. Ipse enim… providit ut recolligeretur una bibliotheca dicti monasteri”. Non abbiamo però notizie sulla sorte di questo fondo librario, il quale non risulta tra quelli secolarizzati dal Governo Italiano nell’Ottocento. G.C. GENTILI, op. cit., pagg. 133-134. 17 Per tali motivi nel 1327 il monastero benedettino di San Nariano in Valle Fabiano venne incorporato a quello di Val Fucina. G.C. GENTILI, op. cit., pag. 136. O. TURCHI, op. cit., pag. 250. G. TALPA, op. cit., IV, C.123: O. MARCACCINI, op. cit., pag. 237 ss. 18 G. BORRI, op. cit., pag. 83. 19 G.MAZZA, Miscellaneo sagre settempedano, ms. 41-42, sec. XVIII, in B.C.S., c.23; O.TURCHI, op. cit., pag.252. Dice quest’ultimo a proposito di Benedetto. “…et hic fuit ultimus abbas utriusque cenobi ; Manfredus anno 1327 fuit primus abbas coenobiorum simul unitorum”. Lo scrittore si riferisce ai monasteri uniti di Val Fucina e San Mariano.


Riario20, il quale però il 15 maggio 1488 vi rinunciò ed il pontefice li aggregò ai possedimenti dei Canonici maceratesi.21 Appresa la grave decisione, intervennero immediatamente due Sanseverinati, Liberato Bartelli22, Priore della Collegiata, ed il famoso giurista Giovanni Battista Caccialupi, avvocato concistoriale ed intimo consigliere dello stesso Innocenzo VIII.23 I due illustri personaggi riuscirono non solo a far revocare il breve papale, ma, dopo l’ennesima rinuncia del Cardinale Riario, ad ottenere che gli stessi beni, con breve datato 13/07/1489, passassero direttamente al Capitolo di San Severino che li ha mantenuti sino al 1986, quando furono assegnati all’istituto diocesano per il sostentamento del Clero.24 Dell’antica abbazia e delle opere faticosamente eseguite dai monaci, restano oggi poche testimonianze. L’ampia vallata, detta oggi “Abbadia di Elcito”, ricca di pascoli e di campi, non presenta visibili tracce dell’antico e vasto monastero. La piccola chiesa, edificata nei primi anni dell’Ottocento sulle rovine di quella monastica andata distrutta nel terremoto del 1799, non ha particolari pregi, salvo due interessanti iscrizioni scolpite su pietre poste ai lati dell’entrata. La prima a sinistra reca un’iscrizione a caratteri gotici dal seguente tenore: A.D.M CCLX VII TCL ID ON. VIII.D.IIII dove, secondo l’Aleandri, dovrebbe leggersi “Anno domini MCCIXVII tempore Clementis (pape IV) Indictione IX die IV”, cioè “Nell’anno del Signore 1267 al tempo di Clemente IV (12651268) indizione nona, giorno quarto” l’altra invece, datata 1501, reca l’arma della famiglia del Priore Bartelli e la sigla L.P., che dovrebbe interpretarsi quale Liberatus Prior.25 20

Il Cardinale Raffaele Riario fu figura di primo piano nella Sede Apostolica del XV secolo. Nominato Cardinale all’età di 16 anni dallo zio Sisto IV, essendo ospite dei Pazzi il giorno della congiura contro Lorenzo e Giuliano De Medici, venne imprigionato quale congiurato, ma poi fu rilasciato per mancanza di prove. Partecipò, quando era decano del Sacro Collegio, alla congiura del Cardinal Alfonso Petrucci, figlio di Pandolfo, Signore di Siena, contro la vita di Leone X (1513-1521) ma anche in questo caso ottenne salva la vita perdendo però ogni carica. Morì a Napoli nel 1521. C.RENDINA, I Papi, storia e segreti, Roma 1983. 21 O.TURCHI, op. cit., pagg .250, 251 (n.2). 22

Liberato di Sensino Franchi Bartelli apparteneva alla nobile famiglia Franchi, un ramo dei Conti della Truschia come i Caccialupi. Fece i primi studi in patria, poi si laureò a Roma in filosofia, diritto canonico e teologia. Ben presto fu annoverato tra i più dotti canonisti del tempo, segretario del cardinale Stefano Nardini, quindi Vicario della Basilica di Santa Maria in Trastevere. Nel 1489 venne nominato Priore, cioè capo del Capitolo, della Collegiata sanseverinate dove operò con rara maestria fino alla sua morte avvenuta nel 1513. Fu lui che donò al Duomo di San Severino il dipinto del Pinturicchio, la Madonna della Pace. S.SERVANZI COLLIO, La Madonna della Pace nel Duomo di San Severino dipinta dal Pinturicchio, Macerata 1872, pag.17; G.CONCETTI, op.cit. pag. 144. 23 Giovanni Battista Caccialupi insegnò diritto civile a Siena poi diritto canonico a Roma. Scrisse numerosi trattati ed ebbe eccellenti allievi, fra cui Bartolomeo Socino. Morì a Roma il 23.07.1496. C.CICCONI, Giovanni Battista Caccialupi giurista sanseverinate, Tesi di laurea in copia dattiloscritta presso B.C.S. 24 Ibidem, pag. 63 Con la revisione del concordato tra il governo Italiano e la S.Sede del 1984 cambiava anche il sistema di sostegno alla Chiesa Italiana con la riunione dell’intero patrimonio immobiliare di parrocchie, capitoli etc. in un unico Ente, l’Istituto per il sostentamento del clero, costituito nel 1985 ed entrato in vigore nel 1986. Quindi anche i beni del capitolo della Cattedrale di San Severino Marche confluirono nell’Idsc (Istituto diocesano sostentamento clero), che dalla fusione delle due diocesi del 30.09.1986, dal 15/02/1987 si nominò Idsc di Camerino – San Severino Marche. 25 V.E.ALEANDRI, Nuova guida di San Severino Marche, S.Severino M. 1898, pag 195.


Ma il tempo ci ha conservato un monumento che non tutti conoscono, la Cripta: è di stile romanico e potrebbe risalire al secolo XI, se non prima. Essa si presenta a tre navate con pareti di travertino e con volte reali di mattoni a crociera che sorgono da colonne di pietra sormontate da capitelli trapezoidi, smussati agli angoli. Motivi geometrici si alternano, nell’ornamentazione di essi, ai simboli degli evangelisti scolpiti, mentre l’abside è munito di due finestrelle lunghe e strette che ora non danno più luce perché ricoperte quasi totalmente all’esterno dal terriccio accumulatosi nel corso dei secoli.26 Tale sotterraneo edificio, dopo essere stato utilizzato come sepoltura, è tuttora in stato di completo abbandono e solo un intervento sapiente potrebbe riportare alla luce quel che rimane dell’antica abbazia, dando così la possibilità ai turisti di ammirarne il valore storico-architettonico. 27 Nella vicina casa colonica rimane infine un avanzo di parete dell’antico eremo e vi è una pietra recante le lettere gotiche A.L. ed un simbolo a forma di martello. Di notevole interesse poi, di fronte alla chiesetta, la cava da dove i monaci hanno estratto il travertino per la costruzione dell’abbazia, e la sorgente, di poco sovrastante, popolarmente denominata “fonte dei trocchetti”, la cui acqua, secondo il parere di qualche medico, ha un contenuto di radioattività che garantisce benefici effetti, specie per la calcolosi renale, se consumata, meglio sul posto, nel corso di qualche ora.28

IL CASTELLO Abbiamo detto che l’abbazie di Val Fucina si raggiungeva passando nei pressi del castello di Elcito, il quale vigilava sulla sicurezza del monastero. Guardando la vallata sottostante si comprende agevolmente la funzione strategica della rocca, la cui costruzione venne voluta dagli stessi Benedettini: essi avevano bisogno di un valido punto di difesa posto nell’unica via di accesso che eventuali razziatori dovevano necessariamente seguire per poter attaccare il ricco eremo;29 nessuna macchina da guerra poteva arrivare lassù, tanto che neppure le milizie pontificie riuscirono a cacciare i nobili ribelli che vi si erano asserragliati in più di un’occasione.30

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Ibidem, pag. 196 A.GUBINELLI, Guida storico artistica, Macerata, pagg. 104-105. L.PACI, op. cit., pag 269. 27 Prima del rifacimento del pavimento della chiesa c’era un’apertura per scendere nella cripta (sacellum) sottostante che, nella visita pastorale del 16.08.1759, il Vescovo M. Forlani (1757-1765) ordinò di chiudere “ad effectum evitandi scandala in dono Dei”. Quindi, essendo fino a quel tempo il cimitero a fianco dell’abbazia, ordinò di elevare il pavimento del presbiterio e ricavarne sotto tre sepolture: per uomini, donne e bambini, le cui ossa però si depositarono nella cripta sottostante e solo grazie a Mons. Otello Gentili di Macerata, che riportò alla luce la cripta, vennero in gran parte trasferite nell’attuale cimitero, edificato nella seconda metà dell’Ottocento. Archivio vescovile di San Severino Marche (in seguito A.V.S.), Visita pastorale di S.E. mons. Francesco M. Forlani del 16.08.1759. 28 O. MARCACCINI, Le salutari acque di Elcito, in Appennino camerte, n. 34 del 28.08.1965. 29 Risulta che i Benedettini mantenessero nel castello un torresano (custode) fisso e che spesso, in casso di pericolo, vi dimorasse lo stesso abate: si rammenti che i monaci dell’Abbazia di Farfa avevano dovuto subire la distruzione dell’eremo da parte dei saraceni nel IX secolo così come quelli di San Mariano da parte delle truppe imperiali del Barbarossa. Q. DOMIZI, Lo stendardo del castello di Elcito, in Voce settempedana, n°32 del 10.08.1991. 30 Vi si era rifugiato infatti, tra il 1444-45 Smeduccio Smeducci, rampollo degli antichi Signori di San Severino, che solo grazie al tradimento venne arrestato da Giovanni Vitelleschi, allora comandante dell’esercito pontificio. La rocca ritornò quindi sotto il dominio papale, ma il Legato della Marca decise di distruggerla affinché non vi si rifugiassero altri ribelli. Il Consiglio di Credenza di San Severino ne deliberò così la demolizione che però, verosimilmente, non venne eseguita. R. PACIARONI, La ricostruzione di un castello sanseverinate alla fine del sec XV: Truschia, in Studi Maceratesi, Atti del XXIV convegno, Macerata 1988, pag. 529.


Come per l’abbazia anche per il castello di Elcito non è possibile individuare con certezza la data di fondazione, la quale dovrebbe però risalire al XII secolo.31 Il nome, invece, deriva dai boschi di leccio che ricoprivano gran parte dei monti circostanti, le cui ghiande saporose, come quelle delle querce, cadevano in autunno inoltrato quale prezioso alimento per le greggi del monastero.32 Dai documenti e dagli autori esaminati, risulta inoltre che l’abbazia aveva sul castello ed i suoi abitanti una “latissima gladii potestas” tale da impedire a quest’ultimi di comparire in tribunale, di fare testamento e di stipulare contratti.33 Non era cosa eccezionale a quei tempi, giacché la storia ci dice che monasteri e vescovi esercitavano una giurisdizione temporale su rocche e castelli per esigenze difensive dei propri possedimenti. Gli stessi abati di Val Fucina si preoccuparono molto di mantenere efficienti le fortificazioni di Elcito tanto da ricostruirne più volte le mura, risalendo al Duecento quelle che tuttora, in qualche punto, circondano l’agglomerato urbano. Ma quando anche lassù penetrarono gli ideali comunali, gli abitanti non vollero più sapere di essere soggetti all’autorità monastica. Essi guardavano con attenzione l’espansione militare del Comune di San Severino, il quale dopo aver assediato e distrutto nel 1218 il castello della Truschia, sito nei pressi della frazione di Sant’Elena, ed aver acquistato nel 1257 il castello di Aliforni, si affacciava nella stessa valle di San Clemente.34 Furono così gli stessi 114 capifamiglia di Elcito, rappresentati da Crescione Gozio e Ugolinuccio di Ugolino da Accorambona, anch’essi abitanti del castello, che nel 1298 prima appoggiarono alcune incursioni dei Cingolani, quindi chiesero un aiuto economico ai Sanseverinati per ottenere, la libertà dai monaci. La trattativa venne condotta dal sanseverinate Viviano Alliato, per gli Elcitiani, e da Frate Jacopo ed Aldobranduccio di Bartolo della Truschia per i monaci, i quali chiedevano la cifra di 2.750 lire ravennate ed anconetane per liberarli.35 Viviano, però, violando i patti acquistò per i Sanseverinati il castello con la giurisdizione civile e criminale sugli stessi abitanti di Elcito, ottenendo inoltre uno sconto di ben 800 lire: per questo venne nominato dal Consiglio di Credenza sanseverinate Barone di Elcito. I Benedettini mantennero però su di esso qualche diritto baronale, quale lo ius pascendi, e la presenza di un amministratore, conservando integre tutte le altre proprietà e quanto prima ne vennero fissati i confini poiché i Sanseverinati si erano impegnati formalmente a difenderle dalle continue incursioni dei Cingolani. 31

V.E. ALEANDRI, op. cit., pag.194. I notai scrivono il toponimo in modi diversi: “Fundis castri Ilciti” o “Elciti” o “Ylciti” o “Leciti” o “Lecceti” forse derivato da ilcitum, ilex-ilicis o elex-elicis che potrebbe essere stato un fitonimo di “leccio”. Q. DOMIZI, op.cit.; G. BORRI, op.cit., pag.76, nota 14. 33 Gli abitanti del castello si trovavano quindi in condizione servile rispetto ai monaci: essi erano legati alla terra che lavoravano, anche se potevano avere famiglia, possedere ed essere messi in libertà (divenire cioè liberi). Essi venivano ceduti insieme ai fondi, portandosi via le poche sostanze che avevano; la stessa sorte toccava anche ai famuli, ossia ai servi addetti ai servizi modesti, come ai porcari e vaccari. Bisogna però ricordare che, nel proprietario del fondo a cui erano vincolati, essi vedevano più che un padrone, un protettore; e, se non essi almeno i loro figli, avevano la speranza di cambiare la loro condizione di servi in quelli di coloni, i quali potevano invece stipulare contratti, testimoniare e testare; quindi erano interessati a ben coltivare il terreno per farlo rendere di più. D. PACINI, op.cit., pag.134, nota 14; G.CONCETTI, op.cit., pagg.106 ss: G.TALPA, op.cit., IV, pag.127. 34 La particolare ed importantissima posizione strategica in cui era posto il castello per il controllo delle vie di comunicazione con i centri dei due versanti appenninici, come più volte aveva invano tentato, finché non riuscendo con le armi ne trattò l’acquisto. 35 G.C. GENTILI, op.cit., III, pagg. 197 ss. 32


L’atto di unione fu firmato il 25 giugno 1298 nella chiesa di San Biagio di Fontecupa presso San Severino alla presenza di numerosi nobili, tra i quali l’allora podestà, Branca da Bettona, e lo stesso abate Manfredo.36 L’anno seguente gli Elcitani dovettero giurare obbedienza al Comune di San Severino seguendone le sorti durante le Signorie degli Smeducci e di Francesco Sforza. Nel XV secolo, in seguito alla citata annessione dei beni monastici al Capitolo dei Canonici di San Severino, i diritti mantenuti dall’abate Manfredo su Elcito passarono a questi ultimi, i quali in più occasioni li rivendicarono nei confronti degli abitanti del castello. Nel 1560, infatti, i Canonici ricorsero all’autorità ecclesiastica per difendersi dagli Elcitani i quali, spinti dalla povertà del luogo ed approfittando della lontananza dei Canonici, avevano tagliato legna e pascolato le proprie greggi nelle selve dell’ex monastero. Intervenne in quest’occasione il vescovo di Camerino, Berardo Bongiovanni (1537 – 1574), il quale minacciò per i trasgressori la pena di tre scudi di multa nonché la scomunica.37 Ma gli Elcitani non si intimorirono; anzi pensarono bene di modificare gli stessi confini dei terreni e la loro destinazione: quelli atti al pascolo furono trasformati in campi da semina, riducendo così lo spazio riservato al Capitolo e sostenendo, infine, di aver diritto di pascolare su tutte le proprietà di Val Fucina. La causa diede però ragione ai Canonici, i quali invocarono a sostegno dei prorpi diritti l’applicazione delle condizioni contrattuali contenute nel laudo del 1299, con il quale gli abitanti di Elcito si erano sottomessi al Comune di San Severino.38 L’esame delle visite pastorali conferma che i contrasti si mantennero vivi per alcuni secoli, tanto che ad un certo momento fu costretto ad intervenire lo stesso Governatore della Marca: egli nel 1575 decretò la pena di scudi due nei confronti di chi venisse sorpreso a pascolare “abusivamente” sulle citate proprietà, e nessuna esenzione valeva per gli abitanti di Elcito. A parte queste banali liti, la vita nel castello di Elcito continuò tranquillamente sotto la dominazione pontificia, ma la sua posizione strategica perse progressivamente importanza. Le mura, infatti, non vennero più potenziate ed andarono pian piano in rovina, le stesse pietre vennero riutilizzate per la costruzione di abitazioni. Anche la torre, un tempo vigile sulla sicurezza dell’abbazia, andò persa agli inizi dell’Ottocento, colpita anch’essa mortalmente, come l’antica chiesa abbaziale, dal terremoto del 1799.39 Doveva essere gravemente danneggiata già da molti anni se il pittore Emidio Toriani, alla fine del Settecento, incaricato dal Comune di dipingere lo stendardo del castello, fu costretto quasi certamente a copiarla dal vecchio vessillo cinquecentesco, epoca in cui la stessa era ancora in buone condizioni.40 Lo stendardo infatti è l’unica opera che ci mostra l’antico aspetto di Elcito: il piccolo castello, con le case racchiuse dalle mura merlate a forcella o coda di rondine di fattura ghibellina, la torre già smussata in cima, ma alta ed imponente, è presentato dal lato est, con la porta orientale che si apre sull’antica strada che saliva dalla valle di San Clemente. Ha a fianco l’immagine della “Pietà”, con la Vergine che, sostenendo il Cristo morto, allarga le braccia al cielo in accettazione del sommo dolore.41 36

L’atto è riportato in forma quasi integrale in G. CONCETTI, op.cit., pag. 107, nota 31. Ibidem, pag. 144 38 Ibidem, pag. 145 39 R.PACIARONI, Memorie sismiche sanseverinati, pag. 65, n.63 S.Severino M. 1989 Il Ranaldi scriveva infatti alla fine del Settecento: “quella di Elcito… è tutta quasi ruinata”. G:RANALDI, Memorie di belle arti, vol. II, ms. 31, sec. XVIII, in B.C.S., p.136/4. A conferma di quanto sopra vedasi anche A.V.S. Visita Pastorale del Vescovo mons. M. Forlani del 13/10/1759, dove si legge: “arcum turris iam dirutae”. 40 Gli stendardi venivano portati in processione l’8 giugno in occasione della festa annulae del patrono di San Severino, e quello del castello di Elcito era al quinto posto. Il Toriani girò tutta la campagna sanseverinate per ritrarre più fedelmente possibile, con pochi tocchi essenziali, i castelli. R:PACIARONI, Gli stendardi dei castelli di Sanseverino Marche, Città di San Severino M. 1983, pagg.20 ss. 41 A prima vista questo dipinto sorprende perché il titolare della chiesa è San Rocco, ma probabilmente il pittore dello stendardo ha tenuto conto di altri elementi, tra cui la pala dell’altare maggiore che ritrae proprio la “Pietà”. 37


LA CHIESA PARROCCHIALE L’assistenza religiosa alla popolazione del luogo fino al 1489 fu esercitata dai monaci. Trasferiti i beni al Capitolo dei Canonici di San Severino, l’impegno passò a questi che lo esercitarono per mezzo di un “vicario”. Egli risiedette presso la chiesa abbaziale fino a quando il popolo di Elcito ebbe una seconda chiesa, costruita all’interno del castello e dedicata a San Rocco, 42 richiesta e concessa per comodità della gente nel 1577, ed officiata come parrocchia dal 1581.43 Scriveva in proposito, agli inizi del nostro secolo, il parroco don Augusto Cruciani: “Dedicata a San Rocco ha l’ingresso verso mezzodì, è ad una sola navata larga 8 metri e lunga 13.50, mentre l’abside lunga 5 metri; che è separata dalla nave mediante balaustra in ferro fuso e capitelli con arco di trionfo semicircolare. Il volto della nave a cielo di carrozza è sostenuto da 6 colonne a mattoni su cui poggiano tre archi pure a mattoni. E’ poi assicurata da cinque chiavi e fornita di un pulpito con relativo Cristo verniciato, una cantoria e due confessionali… La piccola sacrestia è annessa alla chiesa ed ha l’ingresso sulla piazzetta in comune colla comunanza d’Elcito. Ha pure una torre campanaria con piccole campane benedette nel 1844”.44 La chiesa aveva però già subito rilevanti modifiche, infatti, in un inventario più antico, datato 13/10/1759, leggiamo: “La chiesa di S.Rocco è situata nel castello, vicino alla porta del castello servendo le muri (sic) della medesima chiesa per muraglie castellane da una parte verso tramontana e alla altra parte verso mezzogiorno vi è una casa diereta (sic) la piazzetta ed una torre alta; da piedi vi erano le muraglie castellane da capo è unita con la casa del SS. Sacramento come si ha per tradizione. Nella medesima chiesa vi è il campanile con due campane nella più grossa vi è scritto …D.ni Liberati Prioris MCCCCCIII… Nella piccola verso mezzogiorno vi è la testa del N.ro Sig.re Salvatore con intorno le seguenti parole ‘Ego sum via veritatis” e verso tramontana vi è il croci ficco, incima (sic) vi è scritto “campana facta sumptibus hereditatis Salvatoris de Salvatoribus A.D. MDLXXXXIIII conventui S.Salvatoris capucinorum facta’.”45 Grazie a tale documento, inoltre, è possibile conoscere quale fosse stato originariamente il suo aspetto interno: Sono in essa chiesa tre altari. In quello a man dritta vicino alla porta vi è il quadro nel quale è dipinto S. Carlo in forma orante avanti ad un crocifisso…da capo alla medesima chiesa vi è l’altare maggiore… il quadro dove ci è dipinta la Madonna SS. ma con in grmbo Gesù Cristo morto, dipinto S. Rocco, S. Severino, S. Nicola e S. Dionisio… a man dritta vi è una campanella… nella quale è scritto – Jesus Maria ora pro nobis MDLXXXII 46…a mano sinistra vi è l’altare del Q.DOMIZI, op.cit. 42 Non sappiamo di preciso il perché di questa scelta, ma lo si può intuire dalle frequenti e gravi epidemie che in quel secolo fecero più volte stragi di animali e di popolazioni. Vedasi R:PACIARONI, Epidemie in San Severino nel 400 e nel 500, in Miscellanea Settempedana, I, San Severino M. 1976. San Rocco fu il santo tra i più venerati dalla fine del XIV secolo e l’inizio del XIX secolo, quale intercessore contro la peste, le malattie del bestiame, la filossera della vite e le catastrofi naturali. Poche le notizie sulla sua vita: nato in Francia, dopo aver venduto tutto, si mise in viaggio verso Roma ed in tale occasione ebbe la fama di guaritore. Arrestato perché sospettato di spionaggio morì in carcere il 15 agosto del 1378/79. 43 La spesa per la costruzione venne sostenuta dal popolo e dal Capitolo di San Severino, come era stato previsto nell’adunanza del 1577, e la sua prima dizione la qualificava come “comparrocchia” essendo ancora reggente quella di Val Fucina. A.V.S., Visite patorali, Inventario della chiesa di S. Rocco di Don Augusto Cruciani, 1905. 44 Ibidem, pag.1-2 45 A.V.S., Visite pastorali, Inventario della chiesa di S. Rocco in data 13/10/1759 da S. E. mons. Francesco M. Forlani, f.1. 46 La campanella è stata rubata alcuni anni fa da ignoti.


SS.mo Rosario… il quadro del medesimo altare è dipinto nel muro e vi è l’immagine della Madonna SS.ma e il suo figlio Gesù, che con una mano stende il Rosario alla presenza di S. Domenico e vi è l’altra figura di Santa Monica che prende la cintura della SS.ma Vergine…”.47 Quest’ultimo, però, non era l’unico affresco presente, infatti continua il resoconto: “Da piedi alla medesima chiesa vi è un quadro grande con l’immagine di Gesù crocifisso dipinto al muro, vi sono dipinte parimenti nel muro le immagini di S.Severino, S.Rocco, S.Nicola da bari, S.Giovanni Evangelista e S.Vito, salvo errore”. Grazie ad un'altra relazione pastorale apprendiamo poi che la stessa chiesa era stata consacrata nel 1581,48 non godeva di alcun privilegio, non vi erano annesse indulgenze, ma vi erano custodite diverse reliquie; le pitture presenti non erano di celebri autori e non vi erano sepolture gentilizie; unico era il parroco ed amministratore direttamente nominato dal Capitolo; aveva sotto la propria giurisdizione due chiese filiali, la vecchia chiesa parrocchiale di S. Maria di Val Fucina e la piccola cappella dedicata a S. Maria ad Nives,49 sita in località “Palazzo” di Elcito.50 Due erano invece le confraternite presenti: del SS.mo Sacramento e del SS.mo Rosario.51 La prima, detta anche del “Corpus Domini”, venne fondata nel 1565 a Val Fucina ed aveva quattro ufficiali: due priori, un sindaco e un camerario; la seconda eretta nel 1616 a San Rocco era composta da due ufficiali: un priore ed un camerario.52 Dalla ristrutturazione delle parrocchie, effettuata a seguito della fusione delle due diocesi di Camerino e San Severino Marche nel 1986, Elcito non è più parrocchia, ma fa parte di quella di Castel San Pietro.

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Ibidem, f.2. L’antico parroco, però, non identifica bene i santi posti ai piedi della Vergine poiché si tratta di S. Rocco, S. Antonio da Padova, S. Emidio, protettore dei terremoti, e S. Giovannino. Q. DOMIZI, op.cit. 48 La data si rilevava in un’antica iscrizione, ora inesistente, posta sopra l’ingresso, la quale indicava 1581, anno in cui fu soppressa in suo favore la parrocchia di Santa Maria di Val Fucina. A.V.S., Visite pastorali, Inventario della chiesa di S.Rocco in data 27/04/1848 per la Visita Pastorale di S.E. Mons. Francesco Mazzuoli, f.2. 49 Questa chiesa, distante circa un miglio a sud-est del castello, fu edificata dalla famiglia Tesei di Matelica, proprietaria del bosco adiacente adatto per la caccia. Terreno e chiesa passarono poi al Capitolo, che li comperò, insieme all’impegno di far celebrare tre messe il giorno della festa, 5 agosto. 50 Attualmente nel territorio di Elcito vi sono quattro chiese: San Rocco, Santa Maria di Val Fucina con cripta, Santa Maria ad Nives, e la cappella del Cimitero. Dalla lettura della Visita pastorale del 1759 di F.M. Forlani rileviamo la presenza di un’altra piccola chiesa rurale, raramente officiata, dedicata alla Madonna detta “Somiliola”, ma non è stato possibile saperne altro, ne trovarne l’ubicazione. 51 Ibidem, f. 3/4. 52 La prima si distingueva dal camice bianco ed aveva l’impegno di accompagnare il SS.mo Sacramento nelle processioni, nella comunione agli infermi e nei funerali. La seconda si riuniva avanti all’altare della Madonna del Rosario ogni mercoledì, sabato e domenica per recitare ad alta voce il Rosario alla presenza di tutto il popolo. Si estinse per mancanza di fondi prima del 1848. A.V.S., Visite pastorali, Inventario della chiesa di S.Rocco in data 1634 per la Visita Pastorale di S.E. Mons. Ascanio Sperelli, passim.


Concludendo, va detto che dopo il XVI secolo, tranne l’istituzione del Monte Frumentario, 53 non vi furono rilevanti mutamenti nella vita dei semplici pastori di Elcito, i quali continuarono, come avevano sempre fatto, a pascolare e a far legna sui fondi del Capitolo. 54 Una tranquillità che però venne bruscamente interrotta durante l’ultima guerra mondiale quando, a seguito di una rappresaglia tedesca contro i partigiani che vi si erano asserragliati, venne minato e distrutto il cosiddetto “palazzo dei canonici”, ricco di affreschi e suppellettili, sito all’epoca nei pressi dell’antica torre e di cui rimane ora solo parte del muro perimetrale che costeggia la via principale del piccolo paese.55 Il Vescovo Ferdinando Longinotti (1934-1966) ed il Capitolo della Cattedrale di San Severino nel dopoguerra ebbero come risarcimento del palazzo perduto il contributo per la costruzione nei prati dell’Abbadia della “Villa del Seminario”, terminata nel 1956 e destinata ora a casa di accoglienza diocesana per campi scuola ed iniziative pastorali. Come per l’abbazia di Val Fucina, anche del castello medioevale di Elcito restano pochi avanzi: qualche traccia di mura e, verso oriente, la porta arcoacuta, costruita in pietra corniola verso il XII secolo. Sono tutto quello che rimane dell’antica rocca. La stessa chiesa di S. Rocco venne ristrutturata alla fine del secolo scorso e ben poco è rimasto fedele alle descrizioni degli antichi parroci: gli affreschi vennero purtroppo ricoperti con la malta e dei quadri rimane soltanto la tela posta nell’altare maggiore, della quale, tra l’altro, non si conosce l’autore ed è di modesta fattura. Nell’urna scavata nel muro è racchiuso, invece il simulacro della “Pietà”, che dicesi opera di Venanzio Bigioli, Autore pure dell’altare in legno.56 Caratteristica, poi, è la lapide posta all’interno della chiesa nell’agosto del 1921, tra le prime nelle Marche, secondo le consuetudini dell’epoca, per ricordare i figli di Elcito caduti per la patria.57 Le case, molte delle quali recentemente ristrutturate, sono tutte in pietra; umili e senza un carattere architettonico particolare, esse si presentano unite una all’altra. Le scale pietrose per limitare i dislivelli, le piccole finestre e qualche feritoia costituiscono precisi richiami alla semplice, ma dura vita dei vecchi pastori del luogo. Il paese ebbe infatti l’energia elettrica solo nel 1933, il telefono pubblico e la strada carrozzabile negli anni cinquanta, mentre la scuola elementare, sita nei locali attigui alla sacrestia parrocchiale ed ora di proprietà della locale Comunanza agraria, fu operativa fino all’anno scolastico 1970-71.58 53

Il monte frumentario fu un’iniziativa della chiesa per venire incontro alle famiglie povere dei contadini che, per consuetudine, dovevano mettere tutta la semina del grano, ma non sempre ci riuscivano data la scarsità del raccolto e le tante bocche da sfamare. Erano quindi costretti spesso a chiederla agli stessi padroni, pagandola però anche fino al quintuplo. Al monte frumentario poterono prenderla in prestito a condizioni vantaggiose: il grano veniva dato, infatti, come si diceva allora a “coppa rasa” per essere riconsegnato poi, dopo il raccolto, a “coppa piena”. La differenza era l’interesse che, stando ai calcoli del tempo si aggirava intorno al 3,75%. Il monte frumentario di Elcito, fondato con i beni delle confraternite sembra nel Settecento, venne chiuso dal Governo Italiano insieme agli altri ventitre delle parrocchie di San Severino, nel 1881, per essere unito alla Cassa di credito agricolo. Vedasi Statuto per la conversione dei monti frumentari in una cassa di Credito Agricolo, S. Severino M. 1883. 54 In un censimento parrocchiale datato 1730 rileviamo che all’epoca vi dimoravano 63 nuclei familiari per un totale di 576 persone. Nello stesso anno erano decedute 30 persone. 55 G. PIANGATELLI, Tempi e vicende della Resistenza a San Severino Marche, ANPI, Macerata 1985, pag. 56. 56 Q. DOMIZI, op. cit.. 57 Allo scoprimento della lapide, una delle poche poste all’interno della chiesa, intervennero numerose autorità religiose e civili. G. PIANGATELLI, op. cit., pag. 26. 58 Riguardo la scuola elementare è stato possibile, grazie alle informazioni fornitemi dal maestro Cesare Striglio, individuare qualche nome degli insegnanti ed il numero di alunni: A.S. 1905/06 Don Augusto Cruciani, con stipendio di 200 lire annue, alunni 20 (10 e 20); 1909/10 e 1910/17 Sparapani Eleonora, alunni 22 e 42 (10, 20 e 30); 1922/23 Anna Taddei, alunni 22 (10, 20 e 30); 1950/51 Corradetti Lorenzo, alunni 12 ed infine Cristalli Francesco, A.S. 1971/72, alunni 7.


Oggi Elcito si presenta cosĂŹ: un paese, curato con sufficienti servizi, in cui risiedono stabilmente una decina di persone,59 diretti discendenti degli antichi abitanti; si anima nei mesi estivi soprattutto in occasione della tradizionale festa di San Rocco che, il 16 agosto di ogni anno, raduna gli amanti della natura e tutti coloro che sanno apprezzare questo incantevole paesino “arrampicatoâ€? sulla roccia.

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Qualche dato sulla popolazione residente in tutto il territorio di Elcito: 1936 (111 paese, 247 parrocchia); 1961 (48 paese, 81 parrocchia); 1971 (38 paese, 55 parrocchia); 1990 (27); 1996 (21).


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