Luce Serafica 1/2013

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Numero 1/2013 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica

Vedo la Chiesa viva!

L’Italia Il ricordo La scelta di Benedetto XVI dell’Eurispes di Julien Ries

Il tempo di Pasqua

Reti sociali: verità e fede

La bellezza di vivere il Vangelo


La redazione augura una Santa Pasqua

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Editoriale

Sommario 1/2013 4 5 6 8 9 10 12 14 18 19 20 21 22 23 24 26 27 28 30 32 33 34 35 37 38 40 41 42 44 45 46

Editoriale di Edoardo Scognamiglio Finestra sul mondo di Felice Autieri Il Punto di Filippo Suppa Politica-Economia di Vienna Iezzi Psicologia di Caterina Crispo Costume-Società di Carmine Vitale Dialogo di Francesco Celestino Voci di Chiesa di Boutros Naaman Liturgia di Giuseppe Falanga Catechesi di Pietro De Lucia Mistica di Raffaele Di Muro Spiritualità di Clara Fusciello Asterischi francescani di Orlando Todisco Orizzonte Giovani di Luca Baselice Missione di Giambattista Buonamano Mass-Media di Giuseppe Cappello Ordine-News di Giorgio Tassone Cronca di Antonio Petrosino L’intervista di Boutros Naaman Teologia di Florinda Cioffi Poesie di Silvano Forte Testimoni di Renato Sapere Pastorale di Antonio Vetrano Arte di Paolo D’Alessandro Musica di Monica Cioffi Noviziato-News di Alfredo Avallone Teatro di Maria Teresa Esposito In book La Redazione Eventi La Redazione Sport di Pietro Manna Cinema di Giuseppina Costantino Cucina di Nonna Giovannina Numero 1/2013 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

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Vedo la Chiesa viva!

Luce Serafica

Vedo la Chiesa viva!

L’Italia Il ricordo La scelta di Benedetto XVI dell’Eurispes di Julien Ries

Il tempo di Pasqua

Reti sociali: verità e fede

La bellezza di vivere il Vangelo

Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana. Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006. Anno VII – n. 1/2013 Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro – e-mail: pdart@libero.it

Abbonamento annuale 20 euro CCP: 11298809, intestato a E. Scognamiglio, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli

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ono queste le ultime parole che Benedetto XVI ci ha consegnato nell’udienza di mercoledì 27 febbraio 2013. Sì, la Chiesa è un corpo inquieto, in movimento! Ecclesia semper reformanda: perché è attraversata dalla forza dello Spirito Santo e dalle dinamiche del peccato che la mettono continuamente in crisi, facendole percepire, in tutte le sue membra, la sua inadeguatezza rispetto al Regno dei cieli – da cui dipende la sua missione e la stessa sua origine – e anche nei confronti del mondo, con il quale condivide le attese e le speranze, le gioie e i dolori degli uomini e delle donne di tutti i tempi. In questo momento di grande crisi – nella Chiesa (soprattutto nella sua gerarchia), nel mondo (specialmente per il governo italiano e per l’economia dell’Europa che non trova alcuna forma di stabilità) –, come ha titolato qualche settimana fa un famoso quotidiano italiano, siamo senza papa e senza re, privi di riferimenti istituzionali! È, forse, questo tempo di krisis un’occasione favorevole per crescere – un tempo di grazia – per diventare più responsabili, come cattolici e cittadini europei, nel fare scelte concrete in ambito religioso e politico, ecclesiale e sociale. Dobbiamo decidere nelle nostre famiglie e comunità, in ogni città e quartiere, Comune e centro di aggregazione, se “subire” od “orientare” il cambiamento in atto. Krisis è un termine che lascia intendere un mutamento prossimo e repentino, che c’è nell’aria: sopravvivere o vivere bene dipende dalla nostra capacità di agire su tale cambiamento senza subirlo, cioè partecipando attivamente alla nostra storia di credenti e di cittadini. Quali sono, dunque, i nostri punti di riferimento? In quanto cattolici, sicuramente la Pasqua di Gesù che vince la morte e ci introduce nel mondo del Padre, nella forza inimmaginabile dello Spirito di vita. Come italiani, certamente il diritto al lavoro, alla tutela della vita, alla salvaguardia del nostro ambiente e all’unità delle famiglie e al rispetto dei diritti dell’infanzia. Chissà se, mentre è in stampa la nostra rivista, le istituzioni religiose e civili non abbiano già provveduto a donarci nuovi punti di riferimento: un papa e un governo! Nel frattempo, ci auguriamo una buona e santa Pasqua. Cristo, il Risorto, pieno di Spirito Santo, è la nostra gioia, la vera unica speranza del mondo e della sua Chiesa! P. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.


FINESTRA SUL MONDO di Felice Autieri

La scelta profetica di Benedetto XVI

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utto il mondo è stato sconvolto dall’annuncio di Benedetto XVI di “lasciare il pontificato”. Molti sono ricorsi al famoso precedente storico di Celestino V, l’unico pontefice che in questi 2013 anni di storia della chiesa ha avuto “il coraggio” di lasciare. Le ragioni possono essere molteplici e i commenti di diverso spessore si sono “sprecati” in questi giorni e ciascuno ha ritenuto opportuno dare il proprio contributo. Sono fermamente convinto che dal testo che il Pontefice ha letto lunedì 11 febbraio, emergono una serie di realtà che rendono Benedetto XVI un profeta del nostro tempo. Il papa è avanti a molti nel percorso umano e spirituale, egli ci testimonia che la propria coscienza è un criterio fondamentale nel rapporto con Dio e delle relative scelte che ne conseguono. Maturare la reale consapevolezza delle proprie capacità

umane rispetto a un compito che è stato affidato, è segno di una persona di grande maturità umana e spirituale. Analizzare in modo lucido i problemi, le sfide del mondo e tenere in considerazione l’ambiente in cui si lavora e i collaboratori con i quali si collabora ha avuto un ruolo complessivo fondamentale nella scelta del papa. In un mondo come il nostro, dove spesso conta la cultura dell’immagine e l’attaccamento alla poltrona per un’eventuale carriera, il papa ci fa comprendere che esiste in Cristo libertà più grande di ogni ruolo o posizione: la propria coscienza nel rapporto con Dio. Il discernimento maturato dal pontefice ci fa comprendere che nessun ruolo o qualsivoglia attaccamento umano può costringere l’uomo in profonda e autentica ricerca di Dio di scendere a forme di compromesso con i valori del credente e con logiche di

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convenienza più o meno significative. Certo ognuno è libero di giudicare questo in base ai propri criteri, spesso umani, ma la libertà di Benedetto XVI sta nel superare queste logiche, andando oltre in una radicalità autenticamente cristiana, che sa guardare con fede in Cristo nel proprio percorso umano e spirituale, al bene fatto e agli errori compiuti. Il papa ci ha testimoniato come in Cristo il credente sa guardare con lucidità alle critiche e ai consensi, non per distacco affettivo o disprezzo verso l’altro, ma perché la sequela di Cristo vale più di qualsiasi logica e strategia umana. Benedetto XVI ha indicato in modo chiaro la via che ci conduce al Padre, con un gesto che ci offre una meravigliosa libertà del cuore, forse non pienamente comprensibile a noi che abbiamo vissuto questo evento storico, ma che in futuro sarà compreso con tutta la carica profetica che questo gesto ha in sé.


IL PUNTO di Filippo Suppa

«Grillo fondi un partito e vediamo» Una profezia avverata?

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embra che Piero Fassino, dagli studi di Repubblica tv, tanto tempo fa, consigliava a Beppe Grillo, reo di essersi auto-candidato alle primarie del Pd, di fondare un partito per i fatti suoi: “poi vediamo quanti voti prende”, aveva aggiunto con evidente scetticismo. Una frase che oggi torna indietro come un boomerang e rimbalza in Rete accompagnata dalla consueta ironia dei social network. La profezia del sindaco di Torino torna d’attualità proprio per una trovata dei 5 Stelle che, nelle tappe dello tsunami tour, la rimandavano puntualmente in onda sul maxischermo rallentando la frase incriminata per consentire all’intera piazza di udire e riflettere sulla lungimiranza dell’esponente dem, come spiegato dal palco. Chi è Beppe Grillo? Non il comico, ma l’uomo che ha messo in scacco l’Italia con i suoi otto milioni e mezzo di seguaci (e anche qualcuno di più). Anche da lui dipenderà la governabilità del Paese, quella sulla quale tutti si stanno interrogando. Ma forse, come anche gli analisti stanno dicendo in questi giorni, sarebbe stato meglio, per i partiti, interrogarsi con un po’ di anticipo su cosa Grillo poteva rappresentare a medio e lungo termine. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e anche se può sembrare antipatico sostenerlo a posteriori, c’era chi l’aveva detto già qualche tempo fa. Chi conosce perfettamente il fenomeno Beppe Grillo, dalla A alla Z, è una modenese, Elisabetta Gualmini, professore ordinario di Scienza della Politica all’Alma Mater di Bologna e

presidente dell’Istituto Carlo Cattaneo. È sua la firma sul libro “Il partito di Grillo” (scritto con Piergiorgio Corbetta ed edito da Il Mulino) che con grande anticipo aveva previsto ciò che oggi è successo. Gualmini, giovane studiosa della politica italiana, ha avuto il merito di aver capito per prima ciò che in Italia stava per esplodere. E andando a scovare le radici del movimento ha evidenziato aspetti che in un primo momento sembravano quasi impossibili. Alcuni di questi sono stati oggetto di un suo articolo pochi giorni fa, scritto prima dell’esito elettorale ma dal sapore rivelatore, commentando l’avvento di quasi 100 neofiti totali in Parlamento, così come lei li ha definiti. Precisando: «Certo – scrive la Gualmini – il rischio che si corre, che corre Grillo e corriamo tutti noi, è che siano troppi, ingovernabili e che gravino su di loro troppe responsabilità. Che da loro finisca per dipendere la possibilità di dare un governo al Paese nella fase più critica che ci sia capitata dalla fine degli Anni Settanta. Al netto di questa incognita, il partito di Grillo ha già ottenuto uno straordinario successo. Ha dato la mazzata finale al bipolarismo logorato e consunto, messo in scena in questa campagna elettorale, incapace di regalare visioni e progetti all’altezza dello stato di profonda disgrazia in cui versa il Paese. Si sa che molte persone decidono per chi votare nelle ultime settimane. I sentimenti anti-casta che sostengono Grillo rischiano di contaminare gli indecisi sull’onda di un indignato “tanto peggio di così non può

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andare”. Peccato che Grillo non sia la soluzione, e che i normali-per-bene non siano nemmeno lontanamente in grado di sopperire alla mancanza di una classe dirigente capace e lungimirante». Alla domanda “Chi ha votato Grillo?”, la professoressa ha così risposto: «Il Movimento Cinquestelle è trasversale, si basa su radici anticasta e populiste, come la Lega Nord dei primi anni o alcuni tratti che hanno caratterizzato la nascita dell’Idv. È qualcosa che si espande, che disegna un’Italia interclassista, non solo di giovani. Oggi ci sono operai ma anche piccoli imprenditori, studenti e professionisti. Tutti uniti dalla volontà di partecipare al cambiamento della politica, partendo dal basso in maniera organizzata. E questo la dice lunga sulle condizioni di disagio che il Paese sta vivendo. Grillo conquista tutti senza distinzioni geografiche, altro aspetto da non trascurare… I flussi vanno sempre analizzati con grande attenzione, ma è chiaro che, anche per il Pd, è stata una Caporetto. Fino al 2012 Grillo, che nasce a sinistra e comincia a fare politica con i suoi discorsi alle Feste dell’Unità, conquista il suo consenso nella sinistra più radicale e libertaria. Penso ai discorsi contro il capitalismo, le banche e la difesa della componente ecologista. Poi, piano piano, si sposta verso il centro e va oltre, approfitta degli scandali della Lega e della sparizione momentanea di Berlusconi. Oggi, quindi, arriva a prenderli ovunque, ma è chiaro che è il Pd ad averne fatto maggiormente le spese».


POLITICA-ECONOMIA di Vienna Iezzi

Eurispes 2013 Gli italiani non arrivano a fine mese

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econdo l’ultimo rapporto Eurispes 2013, gli italiani non arrivano a fine mese. Aspettano i saldi e cercano e offerte al super mercato. Meno uscite fuori casa a partire dalla rinuncia a cinema e ristoranti, più trasporti pubblici per risparmiare benzina, un taglio anche alle spese mediche. Queste le “vite low cost”, degli italiani. I consumi al tempo della crisi descritti da un sondaggio nel rapporto Italia di Eurispes, che rileva una riduzione generalizzata di quasi tutti i tipi di spesa, indice di una condizione di sofferenza delle famiglie. Considerano le tasse sempre troppo alte e considerano l’Imu iniqua. Nell’ultimo anno, un italiano su quattro si è rivolto a un “compro oro” per fronteggiare la crisi, e sei 10 fanno shopping online. Nove su dieci soffrono lo stress da lavoro e in pochi possono permettersi un progetto per il futuro, perché lo stipendio non basta: due su tre non arrivano a fine mese. Nonostante le difficoltà economiche non rinunciano a internet e alla tecnologia: solo cinque persone su cento non lo usano, mentre la Tv non è guardata dal 7,3% del campione. Oltre un terzo di chi naviga (34,8%) ha incontrato dal vivo una persona cono-

sciuta su Internet: il 16,9% ha avuto una storia d’amore con una persona conosciuta in Rete. Il 38,3% ha trovato un amico. Due su tre non arrivano a fine mese. Niente progetti per il futuro, stipendi insufficienti per accendere un mutuo o comprare la macchina o anche solo mantenere la famiglia. Una visione assai fosca e pessimista della condizione economica del paese accompagna l’inizio del 2013: è opinione diffusa che la situazione economica italiana sia peggiorata negli ultimi 12 mesi e che l’anno appena iniziato non vedrà miglioramenti, anzi sarà peggiore. Insomma, secondo l’Eurispes, il disagio economico delle famiglie si è aggravato (indica questa condizione il 70% degli italiani). Il ricorso ai propri risparmi per far fronte alla crisi e la sindrome della quarta settimana (quando non della terza) riguardano ormai 3 italiani su 5. Nella maggior parte dei casi risparmiare qualcosa è impossibile (79,2%). Il lavoro uno stress per 9 su 10. Il lavoro e lo stress, un rapporto sempre più stretto. Solo l’8 per cento degli italiani non è sottoposto alla pressione di eventi psicologici a causa del lavoro, il restante 92%, seppur con modalità e intensità differenti, 6

al contrario, riconosce sintomi di stress derivanti dal lavoro e dalle mansioni che svolge. Il 59,5% solo qualche volta, il 21,9% spesso, mentre il 10,6% addirittura sempre. Tra le principali fonti di stress dichiarato dal campione, al primo posto troviamo le scadenze e le pressioni sui tempi di consegna (59,5%), segue la mancanza di tempo da dedicare a se stessi (51,7%), e i carchi eccessivi di lavoro (51,5%). Ma anche l’assenza di stimoli professionali può provocare disagio (50,5%). L’Imu una tassa iniqua per 8 sue dieci. Il fisco pesa sempre più sulle tasche degli italiani che bocciano l’Imu e invocano un taglio delle tasse per ridare fiato all’economia e rilanciare i consumi. In particolare, secondo il Rapporto Italia 2013 dell’Eurispes, il carico fiscale che ha gravato sulle spalle delle famiglie nell’ultimo anno risulta nettamente aumentato per il 41,7% degli italiani e un po’ aumentato per il 27,5%. A non trovare alcuna differenza è il 13,8%, mentre il carico fiscale è diminuito leggermente o nettamente rispettivamente per il 5,5% e il 5,2%. Uno su quattro va al “Compro oro” e fa shopping online. Oltre un italiano su 4 si è rivolto nell’ultimo


anno ad un “Compro oro” per fronteggiare la crisi, e un'analoga percentuale ha venduto on-line oggetti di valore, la perdita del potere d’acquisto sia ormai diventata una realtà per 7 italiani su 10. Nel 30,9% dei casi si è fatto ricorso al credito al consumo nell’ultimo anno (nella precedente rilevazione la percentuale era del 25,8%), ma il bisogno di liquidità delle famiglie fa emergere un fenomeno diffuso e preoccupante: il 28,1% degli italiani si è rivolto a un “Compro oro”, con una vera e propria impennata rispetto all’8,5% registrato lo scorso anno. Parallelamente, cresce il rischio usura rispetto al numero di quanti hanno chiesto denaro in prestito a privati (non parenti o amici) non potendo accedere a prestiti bancari (dal 6,3% al 14,4%). La metà, comunque, non rinuncia agli animali. Più della metà delle famiglie italiane, il 55,3%, ha in casa uno o più animali domestici, un dato in netta crescita rispetto al 2012 quando la percentuale si atte-

stava al 41,7% (+13,6). L’animale più diffuso nelle case degli italiani è il migliore amico dell’uomo, il cane, presente nelle dimore del 55,6% degli italiani, seguito al secondo posto dal gatto (49,7%). Il 46,7% di chi possiede un animale riesce a sopperire alle sue necessità con meno di 30 euro al mese. Uno su quattro ha un tablet.La mania dei tablet ha ormai contagiato quasi un quarto degli italiani. Lo rivela il rapporto Eurispes 2013, che nel capitolo sull’uso delle tecnologie certifica anche il primato del telefonino che batte la tv. Secondo il sondaggio “La passione degli italiani per la tecnologia”, solo il 5,1% degli italiani non usa mai il telefonino, mentre la Tv non è guardata dal 7,3% del campione. Il campione degli utilizzatori del telefonino si divide tra chi possiede un modello base (47,1%) e chi uno smartphone (41,5%).Quasi un decimo dei soggetti dispone, invece, di più di un tipo di telefonino (9,3%). Oltre alla funzioni di base è la foto-

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camera quella più usata (59%) mentre il 40% degli utenti naviga su Internet. Un italiano su 4 non ascolta mai la radio e meno della metà usa il Dvd. La maggioranza degli intervistati non utilizza il lettore Mp3 (64,5%), la console per videogiochi (70,6%), l’iPad/tablet (73,2%) e, nonostante la recente diffusione, l’EBook (80,3%). La televisione si riprende il primato nelle abitudini degli italiani per quanto riguarda l’utilizzo: durante la giornata la guarda per più di 4 ore al giorno il 15,5% del campione e da 2 a 4 ore il 27,8%, mentre il 31,6% la guarda da 1 a 2 ore. Segue il cellulare, per il quale prevale un consumo giornaliero fino a un’ora (54,9%). Anche tra i mezzi di informazione è la tv a dominare. Quasi la metà degli intervistati (48%) guarda il telegiornale almeno una volta al giorno, mentre solo uno su dieci compra il giornale quotidianamente. In mezzo si piazza l’informazione on line, consultata tutti i giorni dal 22% del campione.


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Le nostre insoddisfazioni: zioni: come vincerle erle

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’insoddisfazione è un sentimento di non appagamento e, di conseguenza, di malessere più o meno accentuato. Essa è presente in noi, alternandosi con il suo opposto “soddisfazione”, fin dai primi attimi della nostra vita, allorché i nostri bisogni primari, di cui si occupa la mamma, sperimentano l’appagamento (per esempio, dopo la poppata) e l’inappagamento (la fame che precede la poppata) più volte al giorno. Nell’adulto l’insoddisfazione lascia gli schemi della prima infanzia e si porta su piani più maturi: esistenziale, che vivono di poco e sono felici di creativo, sentimentale, sessuale, pro- quello (ciò non toglie ovviamente fessionale, ambientale, potendo ta- che ci siano dei ricchi felici e dei polora restare legato in profondità ad veri infelici…). Ci sono persone che antiche frustrazioni da bisogni. hanno dato l’anima per avere la vita Avere ciò che serve. La parola “insod- che credevano “necessaria per essere disfazione” deriva dal latino satisfa- felici” (ad esempio, riconoscimenti, cere, che letteralmente significa fare partner ideale, successo) e, invece abbastanza, produrre il necessario. sono sempre frustrati e inappagati, e Satisfactum è perciò colui che ha il altri che, con naturalezza, stanno necessario. Ed è proprio su quest’ul- bene senza sforzo nella loro vita. tima parola, che si basa il senso vero Come mai? L’equivoco nasce dal fatto dei termini soddisfazione e insoddi- che la maggior parte dei bisogni che sfazione. A seconda, infatti, di quello credi di avere sono indotti dalche ognuno di noi ritiene necessario l’esterno, dai modelli, dai genitori, per se stesso e per la propria vita, è dagli insegnanti, dalla cultura e dalla possibile essere appagati o no, felici o società, e anche da ciò che di tutto infelici. Basta dunque un attimo per questo è entrato nel nostro super-Io. comprendere come gran parte della Pensiamo di aver bisogno di certe nostra felicità dipenda dalla capacità cose ma non è così, e una volta ragdi intuire il “vero necessario”. giunte si apre il “non senso”. E da Solo il vero necessario dà la felicità. adulti è difficile poi sapere cosa ci Ci sono persone agiate o ricchissime serve davvero e cosa no. Ma l’inche hanno non solo il necessario, ma ghippo è tutto qui. anche tutto il superfluo e sono degli Se riuscissimo a fare silenzio, a far tainsoddisfatti cronici, dei depressi alla cere tutte le mille voci – non nostre ricerca continua di stimoli che alla – che ci urlano nel cervello, e ci metfine si rivelano vacui; e ci sono altri tessimo in una condizione di estrema 8

semplicità, in breve emergerebbe il nostro “vero necessario”, che è fatto proprio per noi e che è ben più raggiungibile di quanto pensiamo. Anzi, spesso è già qui. Bisogna solo accorgersene. I si e i no dell’insoddisfazione. Spesso, crediamo di avere bisogni che in realtà sono indotti dal mondo esterno. Ma ciò di cui abbiamo bisogno, in realtà, è già qui e aspetta solo d’essere riconosciuto. SI: Fai digiuno dei soliti appagamenti senza uscire dalla vita che stai facendo – quindi senza agriturismi “monastici” salubri ma disorientanti – rendi più semplice la tua vita quotidiana, inserendo spazi e momenti in cui non fare nulla che sia finalizzato ai soliti bisogni. Questo digiuno di qualche giorno ti aiuterà a capire se essi fanno parte dei tuo “vero necessario”, l’unico che può renderti felice. NO: Lamentarsi non serve, anzi ricrea nel cervello un continuo senso di frustrazione, allontanando la possibilità di risolvere la situazione.


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TUME OCIETÀ

di Carmine Vitale

Gli italiani a tavola tra gusto e cattive abitudini

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iovani in sovrappeso, spuntini veloci e pasti saltati: gli italiani sono considerati da sempre buone forchette, ma forse sono poco attenti a quello che mangiano. Abitudini poco regolari, ritmi di studio e di lavoro serrati e genitori poco presenti a tavola sono tra le cause di un’alimentazione poco sana e da fast food. A tavola gli italiani non mangiano frutta e verdura: nel 2012 – a causa anche della crisi economica e del caro-prezzi – il consumo di frutta è sceso del 2,6%, quello di olio del 2,8% mentre una leggera flessione ha riguardato anche il consumo di verdura (solo lo 0,8%). È aumentato, invece, il numero di italiani che pranzano fuori casa almeno cinque volte in una settimana, superando quota tre milioni e mezzo. Tra i 14 ed i 17 anni si prediligono panini, consumati nei sempre affollati fast food, nelle mense e davanti ai distributori, mentre i teenager che tornano a casa per pranzo devono spesso fare i conti con un frigo vuoto e con l’assenza dei genitori. A pagare sono la salute, la forma e la buona alimentazione.Le proposte per controllare il fenomeno sono svariate: c’è chi propone l’istituzione di un Ministero dell’Alimentazione e del Benessere, chi sostiene che sia necessario informare sulle calorie dei cibi nei menù dei ristoranti e chi consiglia menù vegetariani e/o salutisti nelle scuole.Ma anche tra gli adulti la situazione non cambia. Anche i più grandi peccano a tavola, saltando i pasti o mangiando very fast ma notverygood. Gli italiani mangiano troppi cibi grassi: via libera a carne, formaggi, salumi, biscotti e dolci, a scapito dei più salutari e nutrienti legumi, verdura, frutta, pesce e latticini. Con

buona pace della tanto celebrata dieta mediterranea che garantisce gusto e buona salute. Ma che fiducia hanno gli italiani nei prodotti che mangiano? Secondo la ricerca Gusto Responsabile della Doxa-Federalimentare, nonostante le allarmanti notizie sulla mozzarella alla diossina e su prodotti dalla provenienza quasi sconosciuta, circa il 73% degli intervistati si ritiene soddisfatto del cibo che mangia e di chi lo produce. Inoltre il 51% preferisce affidarsi alle grandi marche rispetto ai prodotti acquistati nei piccoli punti vendita. Un’alimentazione corretta aiuta a migliorare lo stato di salute generale e a prevenire il rischio di malattie cronicodegenerative come la malattia coronarica, l’ictus, il diabete e i tumori.Per coloro che hanno già avuto una malattia cardiovascolare (infarto cardiaco, ictus, angina pectoris), una giusta alimentazione può rappresentare una vera e propria cura e ridurre la probabilità di andare incontro a nuove manifestazioni della malattia. L’infarto e l’ictus cerebrale rappresentano attualmente la maggiore causa di mortalità nei Paesi industrializzati.La comparsa di queste malattie è facilitata dal rischio cardiovascolare globale generato dalla presenza di alcuni fattori predisponenti, chiamati fattori di rischio cardiovascolare: colesterolo elevato, pressione arteriosa alta, fumo, sovrappeso e obesità,diabete e sedentarietà. Se è presente uno solo di questi fattori, il rischio di essere colpiti da una malattia cardiovascolare aumenta. Se sono presenti contemporaneamente 2, 3 o 4 fattori, il rischio cresce vertiginosamente, anche di 10-20 volte. L’abitudine di saltare i pasti porta a mangiare in modo disordinato.

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DIALOGO di Francesco Celestino

el sacro L’uomo e l’esperienza del Il contributo di Julien Ries

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l Cardinale Julien Ries si è spento il 23 febbraio 2013 a Tournai, in Belgio, all’età di 92 anni. Benedetto XVI, nel suo messaggio di cordoglio inviato a mons. Guy Harpigny, vescovo di Toournai per la morte di Ries, afferma: «Attraverso l’insegnamento e la ricerca di cui era esperto riconosciuto ha sempre avuto il desiderio di testimoniare la sua fede tra i suoi contemporanei, in uno spirito di dialogo». Dobbiamo ringraziare il Signore perché ci ha dato questo grande studioso che ha dedicato una vita all’uomo e al sacro e che è stato fedele ministro di Dio nel servizio svolto con umiltà, tenacia e passione. Julien Ries è oggi considerato il più grande storico delle religioni ancora vivente. Nacque ad Arlon in Belgio. Si addottorò in teologia nel 1953 con una tesi sul manicheismo e, in seguito, insegnò storia delle religioni, organizzò diversi convegni e svolse diversi servizi sia nella chiesa locale che in quella universale. Il 18 febbraio 2011, Ries è stato creato cardinale da Benedetto XVI. Ha pubblicato numerose opere, tradotte in diverse lingue. La sua opera più importante rimane l’Opera omnia, di cui sono stati pubblicati, dalla casa editrice Jaca Book, dieci volumi (circa cinquemila pagine) e ancora ne restano da pubblicare sette. Ries ha ricevuto diversi riconoscimenti che dimostrano quando egli sia, nel suo lavoro di studioso, infaticabile e zelante, come pure di grande competenza nell’approfondimento scientifico e metodologico. Ries, negli anni della sua attività accademica, è riuscito a creare una rete di pensiero scientifico che ha come base un’indagine storica, che lo porta a creare cultura, ricerca e soprattutto passione per l’uomo religioso, indagando nelle diverse epoche, attraverso i documenti e i reperti che ci rendono partecipi della esperienza simbolica dell’uomo primitivo (cf. J. RIES, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, vol. II, Milano 2007, 22-23). Gli uomini di duemila e cinquecento anni fa, non sono solo laboriosi, tecnici e sociali, ma sono uomini simbolici. L’uomo rimane un produttore di cultura e, prima della religione, c’è il senso religioso che è parte costitutiva dell’essere umano. Il Direttivo della Fondazione «Comunità», per lo studio delle Radici della cultura dell’uomo, ha conferito il Premio internazionale di cultura «Il Labirinto d’Argento» al prof. Julien Ries, per l’insieme della sua opera di storico ed ermeneuta delle religioni sviluppata in decenni di esemplare attività accademica attorno ai fondamenti dell’esperienza religiosa dell’umanità. Ries coglie il concetto di Homo religiosus non come reperto del passato, ma come una realtà

antropologica sempre attuale, creatrice di cultura e civiltà. Il prof. Natale Spineto, docente di Storia delle religioni all’Università di Torino e collaboratore di molte opere di Ries, nella presentazione del libro Storia religiosa dell’umanità, al Convegno di Comunione e Liberazione, a cui ho partecipato, il 24 agosto 2012, ha affermato: «Come tanti autori, anche Ries è molto prolifico, ma se vogliamo conoscere il suo pensiero, c’è un saggio a cui possiamo fare riferimento, che è stato ripubblicato nella sua quarta edizione nel 2012, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità». Ries è stato sempre ottimista, convinto che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo: partire dal sacro per arrivare all’uomo, ma anche partire dall’uomo per riscoprire il suo essere religioso. Convinto dell’efficacia del sacro, Ries ripropone il concetto di sacro in controtendenza alle concezioni demolitrici di tale concetto; egli sostiene che il sacro ci permette di capire che cosa le religioni hanno in comune e l’humus in cui si sviluppano le religioni. Ries afferma che il sacro rappresenta da millenni uno strumento per comprendere la propria condizione, per trasformare il caos in cosmo, per creare una scala di valori. Nella dimensione religiosa del sacro, Ries, citando Mircea Eliade, afferma che il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia pur trovando nella storia la sua manifestazione concreta attraverso diverse forme rappresentative (cf. M. ELIADE, Fragments d’un journal, Paris 1973, 555). Lo studioso di Lovanio, nella sua ricerca, si è distinto per aver inventato, come lui stesso ama dire, l’antropologia del sacro: s’interessa all’uomo in quanto creatore e utilizzatore dell’universo simbolico del sacro e in quanto portatore di credenze religiose che orientano la sua vita e il suo comportamento. Ries afferma che il senso religioso appartiene alla natura dell’uomo che lo porta ad elevare le braccia verso il cielo per appagare il senso dell’infinito che è presente in ogni essere umano. L’uomo di sempre è religioso e simbolicus. Capace di creatività,l’uomo di ogni tempo sente il bisogno di esternare, attraverso miti, riti e simboli, il suo bisogno di trascendenza. Il nostro presule ha cercato sempre le tracce di quest’uomo, sopratutto nelle prime tombe datate centomila 10


anni fa, dove si mostra come i viventi si sono occupati dei defunti: è qui che si trovano alcunisegni che dimostrano la credenza nella trascendenza (cf. J. RIES, Il pellegrinaggio nella vita dell’«Homo religiosus», in M. MARAGNO [cur.], Il Pellegrinaggio nella formazione dell’Europa. Aspetti culturali e religiosi, Padova 1990, 13). Nell’homo religiosus, Ries scopre il bisogno di porsi in relazione con il trascendente, e attraverso il simbolo tende di andare oltre se stesso: crede sempre che esiste una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, in questo mondo si manifesta e per ciò stesso lo santifica e lo rende reale. L’homo erectus è anche uomo simbolico. La presa di coscienza della sua situazione e la posizione assunta nell’universo fanno si che l’uomo scopra la sua dimensione religiosa e sente il bisogno di rendere partecipe gli altri della sua esperienza. L’uomo inventa i segni e le parole che gli sono necessari per la comunicazione della sua esperienza religiosa:«l’homo erectus è un homo simbolicus, un artigiano che diventa creatore di cultura […]. L’uomo in piedi, desto ai simboli e al simbolismo, è cosciente della propria esistenza. La paleontologia ci mostra uno sviluppo rapido del cervello, dell’encefalo, e delle notevoli modifiche nell’alimentazione. L’uomo sa di sapere ed è cosciente di creare, cioè realizza qualcosa che prima non esisteva»(J. RIES, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, vol. III, Milano 2007, 127). L’homo religiosus si riconosce dal suo stile di vita che si esprime in numerose forme religiose che sono mostrate dalla storia. Le varie situazioni esistenziali mettono quest’uomo in rapporto con il trascendente, infatti crede che esiste un realtà che sorpassa questa esistenza. Eliade, per indicare la manifestazione del sacro vissuta dall’uomo religioso, utilizza il termine ierofania. La manifestazione del sacro resta un elemento misterioso. La manifestazione del sacro ha bisogno di una mediazione che richiede un’azione simbolica. Grazie al simbolo, che è segno, si ha la possibilità di passare dal visibile all’invisibile.

Il simbolo è un significante che conduce a un significato visibile per mezzo della mediazione. Il simbolo permette una risonanza nella coscienza dell’uomo, è dinamico e si mantiene a livello dell’immagine. È grazie allavia simbolica che l’uomo è entrato nella realtà del mistero. Dalla ricca documentazione esistente, grazie anche al contributo della paleoantropologia, lo storico delle religioni è arrivato alla seguente conclusione:«a partire dall’emergere della sua coscienza e nel fatto stesso del suo emergere, l’uomo si presenta come uomo religioso. Perciò, nella storia dell’umanità, l’uomo religioso è l’uomo normale» (J. RIES, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, vol. III, Milano 2007, 128). Benedetto XVI,trattando il tema della preghiera ha affermato: «L’uomo è per sua natura religioso, è homo religiosus come è homo sapiens e homo faber: “il desiderio di Dio – afferma ancora il Catechismo – è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio” (n. 27). L’immagine del Creatore è impressa nel suo essere ed egli sente il bisogno di trovare una luce per dare risposta alle domande che riguardano il senso profondo della realtà; risposta che egli non può trovare in se stesso, nel progresso, nella scienza empirica. L’homo religiosus non emerge solo dai mondi antichi, egli attraversa tutta la storia dell’umanità. A questo proposito, il ricco terreno dell’esperienza umana ha visto sorgere svariate forme di religiosità, nel tentativo di rispondere al desiderio di pienezza e di felicità, al bisogno di salvezza, alla ricerca di senso. L’uomo “digitale” come quello delle caverne, cerca nell’esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena. Del resto, la vita senza un orizzonte trascendente non avrebbe un senso compiuto e la felicità, alla quale tendiamo tutti, è proiettata spontaneamente verso il futuro, in un domani ancora da compiersi» (Catechesi tenuta all’Udienza generale del Mercoledì, L’uomo in preghiera, 11 maggio 2011).

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VOCI DI CHIESA di Boutros Naaman

Vedo la Chiesa viva... Il congedo di Benedetto XVI

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apparso commosso Benedetto XVI nell’ultima sua udienza lo scorso mercoledì 27 febbraio 2013. Con una semplicità disarmante, Ratzinger ha accolto i numerosissimi pellegrini in Piazza san Pietro invitandoli alla preghiera e assicurando loro la sua vicinanza. Il Santo Padre ha esordito ringraziando il Creatore per il tempo bello concesso in quell’occasione e ha fatto sue le parole dell’apostolo Paolo nel ringraziare Dio che guida e fa crescere la Chiesa. Ecco le sue testuali parole: «In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le “notizie” che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo. Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cf. Col 1,9-10). In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto,

dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia». Gettare le reti nella sua Parola Ratzinger ha poi ricordato gli inizi del suo pontificato e il dialogo interiore avuto con il Signore: «È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze». I suo ministero è stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili. Testualmente il papa ha affermato: «mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore». 12

Rinnovare la fiducia nel Signore Il papa ha poi ricordato l’anno della fede che ha voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. «Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano… Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine… Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi… Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso… Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!».


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LITURGIA di Giuseppe Falanga

Vivere il Tempo di Pasqua dalla passione alla risurrezione...

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roviamo a rileggere in queste pagine i momenti più importanti del Tempo di Pasqua che si conclude con la Pentecoste, a partire dalla Domenica delle Palme che è quasi vicina.

Alla fine del Vangelo per la benedizione delle palme udiamo l’acclamazione con cui i pellegrini salutano Gesù alle porte di Gerusalemme. È la parola dal Salmo 118 (117), che originariamente i sacerdoti proclamavano dalla Città Santa ai pellegrini, ma che, nel frattempo, era diventata espressione della speranza messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118[117],26; Lc 19,38). I pellegrini vedono in Gesù l’Atteso, che viene nel nome del Signore, anzi, secondo il Vangelo di san Luca, inseriscono ancora una parola: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E proseguono con un’acclamazione che ricorda il messaggio degli Angeli a Natale, ma lo modifica in una maniera che fa riflettere. Gli Angeli avevano parlato della gloria di Dio nel più alto dei cieli e della pace in terra per gli uomini della benevolenza divina. I pellegrini all’ingresso della Città Santa dicono: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!”. Sanno troppo bene che in terra non c’è pace. E sanno che il luogo della pace è il cielo – sanno che fa parte dell’essenza del cielo di essere luogo di pace. Così questa acclamazione è espressione di una profonda pena e, insieme, è preghiera di speranza: Colui che viene nel nome del Signore porti sulla terra ciò che è nei cieli. La sua regalità diventi la regalità di Dio, presenza del cielo sulla terra. La Chiesa, prima della consacrazione eucaristica, canta la parola del Salmo con cui Gesù venne salutato prima del suo ingresso nella Città Santa: essa saluta Gesù come il Re che, venendo da Dio, nel nome di Dio entra in mezzo a noi. Anche oggi questo saluto gioioso è sempre supplica e speranza. Preghiamo il Signore affinché porti a noi il cielo: la gloria di Dio e la pace degli uomini. Intendiamo tale saluto nello spirito della domanda del Padre Nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra!”. Sappiamo che il cielo è cielo, luogo della gloria e della pace, perché lì regna to-

Portare frutti con le buone opere Nell’orazione della Domenica delle Palme, con cui vengono benedetti i rami di palma, noi preghiamo affinché nella comunione con Cristo possiamo portare il frutto di buone opere. Da un’interpretazione sbagliata di san Paolo, si è sviluppata ripetutamente, nel corso della storia e anche oggi, l’opinione che le buone opere non farebbero parte dell’essere cristiani, in ogni caso sarebbero insignificanti per la salvezza dell’uomo. Ma se Paolo dice che le opere non possono giustificare l’uomo, con ciò non si oppone all’importanza dell’agire retto e, se egli parla della fine della Legge, non dichiara superati e irrilevanti i Dieci Comandamenti. Non c’è bisogno ora di riflettere sull’intera ampiezza della questione che interessava l’Apostolo. Importante è rilevare che con il termine “Legge” egli non intende i Dieci Comandamenti, ma il complesso stile di vita mediante il quale Israele si doveva proteggere contro le tentazioni del paganesimo. Ora, però, Cristo ha portato Dio ai pagani. A loro non viene imposta tale forma di distinzione. A loro viene dato come Legge unicamente Cristo. Ma questo significa l’amore per Dio e per il prossimo e tutto ciò che ne fa parte. Fanno parte di quest’amore i Comandamenti letti in modo nuovo e più profondo a partire da Cristo, quei Comandamenti che non sono altro che le regole fondamentali del vero amore: anzitutto e come principio fondamentale l’adorazione di Dio, il primato di Dio, che i primi tre Comandamenti esprimono. Essi ci dicono: senza Dio nulla riesce in modo giusto. Chi sia tale Dio e come egli sia, lo sappiamo a partire dalla persona di Gesù Cristo. Seguono poi la santità della famiglia (quarto Comandamento), la santità della vita (quinto Comandamento), l’ordinamento del matrimonio (sesto Comandamento), l’ordinamento sociale (settimo Comandamento) e infine l’inviolabilità della verità (ottavo Comandamento). Tutto ciò è oggi di massima attualità e proprio anche nel senso di san Paolo – se leggiamo interamente le sue Lettere. “Portare frutto con le buone opere”: all’inizio della Settimana Santa preghiamo il Signore di donare a tutti noi sempre di più questo frutto. 14


in preghiera, nella sua Preghiera sacerdotale, il cui sfondo gli esegeti hanno individuato nel rituale della festa giudaica dell’Espiazione. Ciò che era il senso di quella festa e dei suoi riti – la purificazione del mondo, la sua riconciliazione con Dio – avviene nell’atto del pregare di Gesù, un pregare che, al tempo stesso, anticipa la Passione, la trasforma in preghiera. Così nella Preghiera sacerdotale si rende visibile in una maniera del tutto particolare anche il mistero permanente del Giovedì Santo: il nuovo sacerdozio di Gesù Cristo e la sua continuazione nella consacrazione degli Apostoli, nel pieno coinvolgimento dei discepoli nel sacerdozio del Signore. La richiesta più nota della Preghiera sacerdotale è la richiesta dell’unità per i discepoli, per quelli di allora e quelli futuri. Gesù prega per i discepoli di quel tempo e di tutti i tempi futuri. Guarda in avanti verso l’ampiezza della storia futura. Vede i pericoli di essa e raccomanda questa comunità al cuore del Padre. Egli chiede al Padre la Chiesa e la sua unità. È stato detto che nel Vangelo di Giovanni la Chiesa non compare – ed è vero che la parola ekklesia non c’è – ma qui essa appare nelle sue caratteristiche essenziali: come la comunità dei discepoli che, mediante la parola apostolica, credono in Gesù Cristo e così diventano una cosa sola. Gesù implora la Chiesa come una e apostolica. Così questa preghiera è propriamente un atto fondante della Chiesa. Il Signore chiede la Chiesa al Padre. Essa nasce dalla preghiera di Gesù e mediante l’annuncio degli Apostoli, che fanno conoscere il nome di Dio e introducono gli uomini nella comunione di amore con Dio. Gesù chiede dunque che l’annuncio dei discepoli prosegua lungo i tempi; che tale annuncio raccolga uomini i quali, in base ad esso, riconoscono Dio e il suo Inviato, il Figlio Gesù Cristo. Egli prega affinché gli uomini siano condotti alla fede e, mediante la fede, all’amore. L’Eucaristia proviene dall’amore e fa nascere l’amore. In essa pure è iscritto e definitivamente radicato il comandamento dell’amore. «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”» (Gv 13,34). Ecco l’ultima cena: il mistero della Pasqua. D’ora in poi l’amore e la morte cammine-

talmente la volontà di Dio. E sappiamo che la terra non è cielo fin quando in essa non si realizza la volontà di Dio. Salutiamo quindi Gesù che viene dal cielo e lo preghiamo di aiutarci a conoscere e a fare la volontà di Dio. Che la regalità di Dio entri nel mondo e così esso sia colmato con lo splendore della pace. L’ultima cena e la preghiera sacerdotale di Gesù In modo più ampio degli altri tre evangelisti, san Giovanni, nella maniera a lui propria, ci riferisce nel suo Vangelo circa i discorsi d’addio di Gesù, che appaiono quasi come il suo testamento e come sintesi del nucleo essenziale del suo messaggio. All’inizio di tali discorsi c’è la lavanda dei piedi, in cui il servizio redentore di Gesù per l’umanità bisognosa di purificazione è riassunto in questo gesto di umiltà. Alla fine, le parole di Gesù si trasformano

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ranno insieme attraverso la storia dell’uomo, fino a quando verrà di nuovo colui, che li ha uniti con un legame inscindibile e ce li ha lasciati nell’Eucaristia, affinché noi facciamo lo stesso in memoria di lui. La Veglia nella Notte Santa: il passaggio dalla morte alla vita Nella notte del Sabato Santo, la Chiesa ritorna sul posto della morte e della sepoltura di Cristo. Il Venerdì Santo, il giorno prima del Sabato, è stato tolto il suo corpo dalla croce ed è stato deposto nella tomba. In precedenza il soldato romano aveva trafitto il costato di Gesù con una lancia, per constatare se egli fosse veramente morto. Hanno deposto il suo corpo, in fretta nel sepolcro, perché il giorno della preparazione alla Pasqua stava per terminare. Nella Notte Santa, la Chiesa viene di nuovo a questo sepolcro e presso la tomba chiusa del Crocifisso celebra la sua veglia pasquale. Il fatto di vegliare implica un tempo di attesa. La Chiesa viene al sepolcro di Cristo con la consapevolezza della morte, che questo sepolcro significa. Viene con la certezza che Gesù di Nazaret è veramente morto! E al tempo stesso rilegge durante questa veglia il Vangelo dell’alba pasquale. Oggi è il Vangelo secondo Luca. In questo modo la veglia della Chiesa è la veglia pasquale. Nel corso della santa Notte - grazie al Cristo crocifisso e deposto nel sepolcro - la morte sarà vinta dalla Morte: mors, ero mors tua. Pasqua significa “passaggio”. È il passaggio verso la vita attraverso la morte, così come una volta, nell’antica alleanza, Israele è passato verso la vita attraverso la morte dell’agnello pasquale. Tuttavia quello fu soltanto un passaggio verso un’altra vita su questa terra: dalla schiavitù d’Egitto verso la libertà nella terra promessa. La Pasqua della Chiesa significa il passaggio verso la Vita Eterna che viene da Dio, che è la vita in Dio. Nessuna terra promessa in questo mondo può assicurare una tale libertà, può assicurare una tale vita. Tuttavia, la Pasqua di Cristo si è compiuta su questa terra. In questa terra la morte è stata distrutta dalla morte. In questa terra Cristo è stato crocifisso e deposto nel sepolcro e all’alba, “il giorno dopo, il sabato” (cioè la domenica), la tomba si è presentata vuota. La prima causa della morte è il peccato. Tutte le tombe sparse sulla faccia della terra parlano della morte delle successive generazioni umane. Tutte le tombe nel globo terrestre rendono testimonianza al peccato, all’eredità del peccato nell’uomo. Cristo, nel mistero pasquale, è passato dalla morte alla vita. Ciò vuol dire: ha distrutto alla radice l’eredità del peccato mediante la sua obbedienza fino alla morte. Dunque, la Pasqua di Cristo significa anche pas-

saggio attraverso la storia del peccato dell’umanità fin dall’inizio: fin là, dove «per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5,19). Perciò la Chiesa professa: “Fu crocifisso, morì e fu sepolto - discese agli inferi (“descendit ad inferos”) - il terzo giorno è risuscitato”. Prima di essere risuscitato, con la sua morte ha toccato il peccato dell’uomo in tutte le generazioni di quanti sono morti. Le ha visitate con la potenza della sua morte: con la potenza redentrice della sua morte. Con la potenza vivificante della sua morte. O mors, ero mors tua! La morte di Cristo, la morte redentrice, la morte vivificante ha distrutto l’eredità del peccato che è in ciascuno di noi. Infatti, “siamo stati battezzati in Cristo Gesù” (cf. Rm 6,3). C’è di più: «per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (cf. Rm 6,4). In questo spirito partecipiamo alla veglia pasquale insieme con tutta la Chiesa. Insieme con tutti i nostri fratelli e sorelle nella fede, ovunque vegliano in questa Notte

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primo sentimento di paura, gli apostoli furono ripieni di gioia al vedere il Maestro, Cristo disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21) Queste furono le prime parole del Risorto ai suoi discepoli. «Dopo aver detto questo – scrive l’evangelista Giovanni – alitò su di loro». Quanto è eloquente questo particolare: Cristo alitò sugli apostoli e disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). L’avvenimento della Pentecoste ha dunque il suo inizio nel giorno della risurrezione. Colui che la tradizione della Chiesa chiama “l’aspirazione salvifica” del Padre e del Figlio, lo Spirito Santo, Pneuma, è stato dato agli apostoli a seguito della risurrezione. Si può dire che Cristo l’ha portato nel cenacolo direttamente dalla croce. L’alitò “su di loro nella potenza della sua morte e della risurrezione” e la manifestazione di questa potenza redentrice erano le stigmate della crocifissione nelle mani, nei piedi e nel costato. Tutto questo avvenne “a porte chiuse” nel cenacolo, cinquanta giorni fa. La liturgia della presente solennità che noi celebriamo nel cuore di questa notte, concentra la nostra attenzione sull’evento del Cristo risorto, che dona lo Spirito. Soltanto in questo modo possiamo comprendere veramente tutto ciò che accadde in quel mattino di Pentecoste: dopo che erano trascorsi cinquanta giorni dalla Pasqua. Ne parla la lettura degli Atti degli apostoli. Racconta la nascita della Chiesa. La Chiesa è nata nello stesso cenacolo di Gerusalemme. È nata quando il soffio dello Spirito di Verità ha compenetrato le anime degli apostoli, così che «cominciarono a parlare in altre lingue» (At 2,4). Soprattutto, però, hanno avuto rinnovata in sé la potenza interiore, per dare testimonianza a Cristo crocifisso e risorto. Allora si è spalancata la porta del cenacolo e gli apostoli uscirono nelle vie di Gerusalemme. Si misero in cammino nel mondo: in tutto il mondo così come il Cristo aveva loro ordinato. «Avrete forza dallo Spirito Santo . . . e mi sarete testimoni a Gerusalemme . . . e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). La Chiesa è nata dal soffio dello Spirito Santo, il Paraclito. È nata come missione apostolica che cresce “organicamente” dalla missione di Cristo stesso. Le prime parole del Risorto sono state: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21). La Chiesa è se stessa mediante questa missione. È se stessa e non cessa di esserlo, esistendo “in statu missionis”. Questa missione ha la sua ultima sorgente nel Padre, si radica in Cristo crocifisso e risorto, si comunica con la potenza dello Spirito Santo che egli ha mandato sugli apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22).

santa presso il sepolcro della morte e della risurrezione di Cristo. Gioiremo insieme con loro, perché verranno toccati dalla potenza salvifica della morte di Cristo, perché, “sepolti insieme con lui nella morte, come Cristo fu risuscitato dai morti, così anche loro possano camminare in una vita nuova”. La risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito Santo La liturgia della Pentecoste ci conduce nel cenacolo di Gerusalemme. Come è noto, la porta di questo cenacolo in un primo tempo rimane ben chiusa. Il primo giorno dopo il sabato, mentre le porte erano chiuse, gli apostoli si trovavano in questo luogo, santificato dalla memoria dell’ultima cena. E benché già dall’alba di quel mattino si fosse diffusa la notizia della “tomba vuota”, essi continuavano ad avere paura. Cristo risorto si recò da loro, che stavano raccolti “a porte chiuse”. Entrato si fermò in mezzo ad essi e li salutò con le parole: «Pace a voi». L’Evangelista dice che «mostrò loro le mani e il costato» (cf. Gv 20,19ss.), con impressi i segni delle ferite dovute alla crocifissione. Quando, superato, il

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CATECHESI di Pieitro De Lucia

È la fede che fa il cristiano e ci rende credibili nell’annuncio del Vangelo

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on so se avete mai osservato e meditato sui nomi che i discepoli di Gesù hanno ricevuto o si sono dati al sorgere del cristianesimo. Negli Atti degli Apostoli abbiamo tracce che durante la vita di Gesù essi furono chiamati “galilei” (At 2,7; cf. anche Mc 14,70; Lc 22,59), “nazareni” (At 24,5), a partire dall’identità del loro maestro. Nella stessa opera essi ricevono titoli diversi: “quelli della via” (cf. At 9,2; cf. 19,9.23; 24,14), “cristiani” (cf. At 11,26). Sfugge però sovente che in At 2,44 i discepoli di Gesù subito dopo la Pentecoste siano stati definiti “i credenti”. Non erano forse credenti anche quando non erano ancora discepoli di Gesù ma già figli del Dio di Abramo? Non erano forse credenti gli ebrei non cristiani? Questa qualifica dei discepoli di Gesù dovrebbe interrogarci: la loro fede, il loro credere era così specifico, così caratterizzante, che essi meritavano questo nome. D’altronde già i giudei li chiamavano minim, titolo derivante dal verbo aman, “credere”. Sì, io credo che ciò sia avvenuto per la centralità della fede nell’esperienza religiosa dei discepoli di Cristo: essi sono innanzitutto credenti, capaci di fede e particolarmente attenti a essa. Come dirà l’Apostolo Paolo, non l’esperienza della Legge è centrale e fonte di salvezza per i discepoli, ma la fede (cf. Rm 3,20-22; Gal 2,16). Questo ci consente di ricordare come la fede per noi cristiani sia decisiva anche riguardo alla religione stessa che viviamo. È la fede che fa del cristianesimo – per usare la bella formula di Marcel Gauchet – “la religion de la sortie de la religion”; è la fede che giudica ogni nostra appartenenza religiosa; è la fede che fa il cristiano, così come la Torah fa l’ebreo. Nel 1967 Paolo VI aveva indetto l’anno della fede, in un’ora in cui molte verità della fede venivano contestate o dimenticate: allora occorreva custodire la fides quae, ossia i contenuti della fede. Benedetto XVI ha indetto a sua volta l’anno della fede, in una situazione nuova e forse inedita, non prevista. Ciò che infatti oggi è venuto a mancare è la fides qua, la fede con cui crediamo, la fede come fiducia, come atto umano in cui diventano possibili la speranza e la carità. Nel clima d’indifferenza alla religione che ci circonda noi oggi percepiamo – ed è una grazia – quanto sia decisiva la fede, la fede innanzitutto umana, quella senza la quale Dio non può innestare nell’uomo la fede come dono, come virtù teologale.

La fede-fiducia è un atto di libertà dell’uomo, è un atteggiamento che l’uomo deve scegliere, assumere, a cui deve esercitarsi: fede è entrare in una relazione, in un rapporto vivo, uscendo da se stessi. È una realtà antropologica fondamentale senza la quale – lo possiamo dire con certezza – non ci può essere umanizzazione, cioè quel cammino che l’uomo compie per realizzare se stesso. Noi uomini abbiamo bisogno di mettere fiducia in qualcuno e di ricevere a nostra volta fiducia da qualcuno, perché non è possibile diventare uomini senza porre e ricevere fiducia. È possibile crescere senza mettere fiducia nei genitori, in qualcuno che ci mette al mondo? È possibile crescere senza mettere fiducia in qualcuno, non foss’altro che per vivere una storia d’amore? Come scrive Julia Kristeva, c’è un “incredibile bisogno di credere” in ogni uomo, in ogni donna. Ecco dove oggi dobbiamo constatare la crisi della fede: prima di essere crisi di fede in Dio è crisi di fede come atto umano, come fiducia nell’uomo, nella vita, nel domani, nella terra, nell’amore. È sulla capacità di credere che si gioca il futuro dell’umanità: non si può essere uomini autentici senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro. È a questo livello – lo ripeto – che oggi verifichiamo la crisi della fede. È significativo al riguardo che Régis Debray, interrogato sulla patologia dell’attuale società occidentale, abbia parlato di “depressione del credere”. Ora, l’urgenza del tema della fede inteso in questo senso ampio l’ha capita la chiesa e la capiscono anche i non cristiani. La grande sfida che ci attende nel XXI secolo sarà dunque quella di re-imparare a credere, affinché Dio possa innestare la fede in Cristo nei cuori degli uomini e delle donne di oggi. Una vita cristiana come la nostra dovrebbe sentire tale urgenza come primaria e risponderci attraverso una vita che appaia “vita di fede”: fiducia nell’umanità e nel suo futuro; fiducia in questa terra che geme ma attende anch’essa la redenzione (cf. Rm 8,22-23); fiducia nelle nuove realtà emergenti, quelle delle culture delle genti non occidentali; fiducia nell’affacciarsi della soggettività dei poveri, degli ultimi. 18


MISTICA di Raffaele Di Muro

Vivere da risorti

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a risurrezione di Cristo proietta l’umanità intera in una dimensione nuova. I credenti sono chiamati a “sentirsi” risorti, poiché sanno che la loro patria e la loro felicità sono date dalla vita eterna, da quella beatitudine che Gesù, attraverso i misteri della passione e della risurrezione, ci ha conquistato. La consapevolezza di questa meta cambia e orienta la vita del credente che fonda la propria esistenza sui valori del Vangelo, sulle promesse di Cristo e sulla pratica della virtù. In sostanza, è proprio il mistero risurrezione ad animare la vita spirituale del santo e del martire. È la certezza di essere risorti con Cristo ad aver permesso ai martiri di tutti i tempi di andare incontro gioiosi e fiduciosi alla sofferenza ed alla morte; questa certezza ha permesso ai santi di praticare in modo eroico le virtù appartenute allo stesso redentore; questa certezza ha permesso alle Chiese perseguitate (anche la prima Chiesa) di vincere lo scoraggiamento della persecuzione e della prova. Vivere da risorti vuol dire essere avviati alla santità. La vita di chi si sente un risorto in Cristo vuol dire porre al primo posto alcuni importanti valori quali la comunione con Dio, la pratica delle virtù e dell’ascesi. La spiritualità della risurrezione ha la preghiera come fulcro. Se la nostra patria è in cielo, dove sarà piena la comunione con Dio, è fondamentale instaurare con lui un rapporto di amore intenso, continuo, profondo. Io credo che ogni cristiano, ad esempio, debba tendere con forza e determinazione alla vita mistica che rappresenta l’anticipo della vita eterna. La mistica non è solo una realtà che riguarda pochi fortunati: ad essa tutti possiamo aspirare, anche se è dono gratuito di Dio che si rende presente in modo immediato e diretto nell’uomo in grazia. Noi prepariamo ora la nostra vita eterna: la nostra unione con Dio di oggi si rivela fondamentale per la nostra beati-

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tudine eterna. In questo senso particolare importanza riveste la partecipazione attiva e fruttuosa all’eucaristia e al sacramento della riconciliazione. Anche la contemplazione gioca un ruolo importante nella vita cristiana. Contemplare è possibile se il credente si percepisce risorto, contemplare vuol dire sperimentare un itinerario di ricerca di Dio in ogni cosa, in ogni evento, in ogni divino mistero, soffermarsi con affetto ed acume sulla presenza salvifica di Dio. La pratica delle virtù, la penitenza, l’umiltà caratterizza un cammino ascetico che consiste in quelle lotte necessarie per purificare l’uomo da tutto ciò che è mondano ed impedirebbe un cammino spirituale autentico e lo rendono sempre più pronto e puro per i suoi incontri quotidiani con il Signore. Che senso ha oggi vivere l’ascesi, in una realtà sempre più materialistica che sembra quasi ridicolizzare questa importante realtà della vita cristiana? Se il nostro obiettivo è la vita eterna, se ci sentiamo risorti e fortemente chiamati alla santità, la rinuncia non è più avvertita come sforzo insormontabile ma come cosa necessaria per progredire nella propria vita cristiana. Questa è l’esperienza, ad esempio, di chi si converte e scopre Dio come assoluto della propria esistenza. Questo hanno vissuto i santi ed i martiri: il distacco da tutto ciò che è mondano, da tutto ciò che è vanità per cercare solo Dio. San Francesco ci fornisce un importante esempio circa il sentirsi risorti ed il considerare Gesù risorto. Egli nella preghiera dava del “tu” a Gesù, segno che lo percepiva vivo, presente concretamente nella sua vita. L’eucaristia era per lui l’espressione massima del Risorto che, mediante il sacramento, continua a sostenere il fedele in cammino. L’esempio del santo ci aiuta a capire che, attraverso il dialogo costante con Gesù, possiamo avere l’esperienza del suo essere risorto e del nostro essere tali in lui.


SPIRITUALITÀ di Clara Fusciello

Vidi un’acqua «

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nche disse essa testimonia che, avendo una volta la preditta santa madre madonna Chiara udito cantare dopo Pasqua Vidi aquam egredientem de templo a latere dextro, tanto se ne rallegrò e lo tenne a mente, che sempre, dopo mangiare e dopo compieta se faceva dare a sé et alle sore sue l’acqua benedetta, e diceva ad esse sore: «Sorelle e figliole mie, sempre dovete recordare e tenere nella memoria vostra quella benedetta acqua, la quale uscì dal lato destro del nostro Signore Iesu Cristo pendente in croce» (Processo di canonizzazione XIV,8: FF 3111). È suor Angeluccia di Messere Angeleio di Spoleto, XIV testimone al Processo di canonizzazione, che ci regala questo breve ricordo di Chiara, uno squarcio sulla sua vita interiore nutrita e plasmata dalla liturgia. L’episodio accade nel periodo dopo la Pasqua, quando durante il rito dell’aspersione domenicale si cantava l’antifona di cui sr. Angeluccia riporta l’inizio: «Vidi un’acqua uscire dal tempio, dal lato destro, alleluia: e tutti coloro ai quali giunge quest’acqua sono salvati e cantano: alleluia!». L’antifona riprende la visione del profeta Ezechiele (47) che in terra d’esilio a Babilonia vede il tempio di Gerusalemme riedificato e dal tempio fluire un’acqua che dove arriva risana, fa germogliare il deserto e perfino le acque del Mar Morto, talmente salate da non permettere la vita, brulicheranno di «pesci, secondo le loro specie e saranno abbondanti come i pesci del Mare Grande» (47,10). È una visione di speranza e di consolazione per i deportati: l’esilio non è la fine di tutto, ma il Signore non è venuto meno alla sua promessa, ridarà la vita in una situazione che sembra senza uscita: farà ritornare il popolo nella sua patria. Chiara, ascoltando l’antifona, ne comprende il senso ultimo: il nuovo tempio è il corpo del Signore e dal suo fianco squarciato pendente in croce escono sangue e acqua (cf. Gv 19,34): il sacrificio di Gesù, la sua vita, la sua passione e risurrezione, ci genera figli di Dio attraverso il battesimo e mediante l’eucaristia ci rende commensali del Regno annunciato dai profeti. Ed è fonte di gioia per Chiara: «tanto se ne rallegrò», la gioia di chi si sa voluto e amato, di chi sa che la morte non è l’ultima parola sulla propria storia. Chiara volle ricevere per sé e per le sue sorelle l’acqua benedetta dopo il pasto e dopo compieta. È un modo per vivificare l’evento della propria salvezza ogni giorno in due momenti significativi: il pasto, l’unico, ricordiamolo, che la comunità faceva, a voler dire che il cibo ci fa sussistere, ma solo Dio ci fa vivere; e dopo compieta per inoltrarsi nella notte, simbolo delle tenebre, con piena fiducia in Colui che ha dato se stesso per noi. Per suor Angeluccia la

santità di Chiara è molto “familiare”, fatta di preghiera assidua, pazienza nella malattia, benevolenza verso tutti, e nel suo guardare dentro lo spessore del quotidiano i segni della presenza di Dio sapendoli indicare alle sorelle. La riforma liturgica del Vaticano II ha ridato la possibilità di celebrare ogni domenica l’antico rito dell’aspersione che sostituisce l’atto penitenziale e prepara l’assemblea all’eucaristia. Nel rito si fa memoria degli eventi di liberazione che il Signore ha operato nella storia della salvezza attraverso l’acqua: il passaggio del Mar Rosso, l’acqua scaturita dalla roccia nel deserto, l’acqua viva come segno dell’alleanza, l’acqua del Giordano santificata da Cristo. L’acqua benedetta che troviamo nelle nostre chiese ci ricorda il mistero della nostra salvezza, ma anche ci offre la possibilità ogni volta che varchiamo la soglia della casa di Dio di segnarci la fronte, il petto, le spalle cioè tutto di noi in ricordo del battesimo inizio e fondamento della celebrazione eucaristica, perché il Signore ancora ci purifichi con la sua grazia e ci sostenga con la sua benedizione. L’acqua lustrale, infatti, è un “sacramentale”, cioè «un segno sacro per mezzo del quale, con una certa imitazione dei sacramenti, sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1667). Segno della nostra liberazione dalla schiavitù del peccato (il servizio di Dio ci rende uomini e donne liberi!), ci ricorda anche la nostra vocazione a un sacerdozio regale. Vorrei concludere queste riflessioni ricordando l’usanza domestica da parte del padre di famiglia di aspergere i commensali della tavola di Pasqua con l’acqua nuova benedetta durante la veglia della notte. Un’usanza, fino a pochi anni fa, molto diffusa nel nostro meridione. Qualcuno ancora ricorderà le bottigliette in vetro che si immergevano nel fonte battesimale e i rami di ulivo conservati dalla domenica precedente. Un piccolo gesto ma tanto significativo di un esercizio particolare della dignità e vocazione sacerdotale che ciascuno di noi ha in forza del battesimo ma che i genitori, in quanto tali, possono esercitare sulla propria famiglia. Benedicendo! 20


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Il francescano vive all’«aperto»

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diffusa la linea, secondo cui ciò che è accaduto non solo condiziona ciò che sta per accadere, ma traccia il percorso, lungo il quale tutto ciò che può accadere deve accadere. È diffuso l'atteggiamento del piccolo dittatore. L’effettivo – il già accaduto e la sua interpretazione – diventa griglia di lettura rigida e esigente, fuori della quale c’è l’impossibile, e cioè ciò che non accade perché non può accadere o anche, si impegna perché non accada. È il tramonto dell’inedito o dell’imprevedibile. La ragione con i suoi principi è il fossato scavato attorno al campo del possibile, onde evitare eventuali devastazioni o sconfinamenti nell’ambito dell’impossibile e dunque dell’illogico. La stessa iniziativa divina deve prender volto entro un certo scenario e rispettare certi principi, altrimenti rigettata come super-stizione, nel senso di ciò resta di un’antica tradizione. Noi i padroni di Dio! Ora – ecco la proposta francescana – è possibile abbandonare questa prigione e vivere all’aperto, come stile abituale di vita, senza immaginare il futuro come inevitabile prolungamento del passato. Cosa ciò comporta? La presa d’atto che tale atteggiamento, che previene e comanda come le cose debbono apparire, rinvia a una diffidenza profonda verso il nuovo. Perché questa diffidenza? Quale la genesi del timore del nuovo? La risposta a quest’interrogativo è decisiva. La diffidenza è nutrita dal fatto che crediamo che il nuovo sia qualcosa che non torni a nostro favore – il primato dell’altro come ostile – homo homini lupus (Hobbes) – e questo è conseguente all’assunto originario secondo cui l’essere è un diritto da rivendicare, secondo la logica della mors tua vita mea sullo sfondo del primato dell’io in conflitto con il tu, ritenuto contendente e rivale. Questa la sorgente remota della diffidenza verso il nuovo, e cioè l’essere come diritto-a-essere e il primato dell’io, che legifera senza ascoltare, perché padrone del territorio. Il francescano sottrae i fenomeni alla gabbia categoriale, entro cui per lo più li co-stringiamo, e invita a guardare con favore che qualcosa accada oltre o contro le nostre acquisizioni anteriori e quindi oltre o contro ogni nostra

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logica. È l’itinerario di libertà che dal possibile, come prolungamento del passato, porta al possibile come versione dell’impossibile, rispetto alle nostre forze, lungo un percorso che non delimita pregiudizialmente i fenomeni che possono accadere. Questo atteggiamento è legittimo sostenerlo solo sullo sfondo di un nucleo teorico con un duplice versante, uno propositivo e l’altro critico o negativo. Tale nucleo comporta la concezione di Dio come assoluta libertà, nel senso che ciò che è non è perché abbia dirittoa-essere, ma perché liberamente voluto; inoltre, la coscienza della dipendenza da quel gesto gratuito, grazie al quale siamo-al-mondo, con un conseguente atteggiamento d’interpreti di ciò che accade, non di legislatori: al primo posto non c’è l’io ma il tu, grazie al quale siamo. A complemento, non si trascuri che siamo voluti non come un qualsiasi altro essere – pianta o animale – ma come esseri liberi, posti nella libertà, di cui guadagnare la trascendenza, vivendo in libertà, cioè non lasciandoci dominare da alcunché. Tutto ciò ha senso se abbiamo coscienza che veniamo dall’Infinito e siamo nell’Infinito, fonte di libertà. Questa consapevolezza ci spinge ad attivare un processo per il quale ci sia spazio per il possibile non solo come prolungamento del passato, ma anche come versione dell’impossibile, nell’assunto che ciò che accade o si decide di mettere in atto può risultare irrazionale rispetto alla razionalità acquisita, ma non rispetto alla razionalità infinita di Dio, e che se risulta impossibile per le nostre forze, non lo è per quelle di Dio. Il francescano non è ingenuo, ma fiducioso; sente il peso della libertà, nel senso che vive la sua libertà contribuendo alla liberazione dell’orizzonte da pregiudizi sterili o da acquisizioni, ormai consumate. In questo contesto vien meno la diffidenza per il nuovo, perché espressione di una libertà oblativa, non rivendicativa, e di un desiderio di ampliare l’orizzonte della razionalità, non di ridurlo. Il che è legittimo purché l’essere sia percepito e vissuto come dono da donare, non come diritto da rivendicare, non dimenticando che si è nel contesto del primato del tu, se è vero che nessuno è da sé.


ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

QUARESIMA «Tempo favorevole di pace, di conversione e di salvezza»

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l cammino formativo dei giovani della gioventù francescana è sempre interessante e apre il cuore a nuove strade, per vivere in maniera adeguata e al passo dei tempi, il cammino della salvezza. I nostri giovani, non soltanto hanno sete della Parola di Dio, lasciandosi plasmare dal Vangelo, ma cercano sempre nuovi itinerari per un cammino serio di fede, fatto di concretezza e di saggezza. Infatti, Sabato 16 Febbraio, hanno vissuto un momento di preghiera in preparazione alla Santa Quaresima, con le nostre sorelle di santa Chiara, sparse nei monasteri della Campania e della Basilicata. Quale momento favorevole, siamo chiamati a vivere questo tempo di salvezza e di pace, meditando, come ci esorta Benedetto XVI, sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri. La carità è la risposta personale al dono dell’amore con il quale Dio ci viene incontro. E la fede è l’adesione personale alla rivelazione dell’amore gratuito che Dio ha per noi, e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. E nei giovani, nasce spontaneo questo atteggiamento, perché si sentono chiamati a testimoniare l’amore di Dio , manifestando la Carità immensa di Cristo nel servizio alla Chiesa, agli ultimi come fratelli. Tra fede e carità c’è questo legame indissolubile , che non può essere separato. Senza la fede in Gesù Cristo, non è possibile testimoniare la carità. E senza la carità che è sorgente di misericordia e di pace, non è possibile vivere l’esperienza della fede. Siamo chiamati quindi a vivere l’esperienza forte della fede, ricordandoci che per primo, Francesco d’Assisi, ha vissuto quest’esperienza interiore di sentirsi profondamente amato da Gesù Cristo e di averlo donato in egual misura su tutti i fratelli. Anche in questo abbiamo

un insegnamento. L’Amore non fa calcoli, l’Amore tutto scusa, tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Abbiamo vissuto quest’esperienza regionale di evangelizzazione nella fede e nella carità, con i giovani della gioventù francescana, a Benevento, il 12 Gennaio scorso. La loro esperienza di fede e carità, si è avvertita nei loro volti sorridenti e pieni di pace, che invitavano le persone a fare esperienza di Dio, esperienza di fede e di riconciliazione. Essi ci insegnano ancora una volta, a puntare sull’essenziale, su ciò che veramente conta, la carità fattiva e operosa, senza la quale non è possibile chiamarci cristiani. 22


MISSIONE di Giambattista Buonamano

Gli operatori pastorali uccisi nel 2012: testimoni del Vangelo

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ell’anno 2012 sonostati uccisi 12 operatori pastorali, 10 sacerdoti, 1 religiosa, 1 laica. Per il quarto anno consecutivo, figura al primoposto, con il numero più elevato di operatori pastorali uccisi, l’America, bagnata dal sangue di 6 sacerdoti. Segue l’Africa, dove sono stati uccisi 3 sacerdoti e una religiosa. Quindi l’Asia, dove hanno trovato la morte un sacerdote e una laica.Come avviene ormai da tempo, il computo di Fides non riguarda solo i missionari ad gentes insenso stretto, ma tutti gli operatori pastorali morti in modo violento. Non viene usato di proposito il termine “martiri”, se non nel suo significato etimologico di “testimoni”, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro, e anche per la scarsità di notizie che si riescono a raccogliere sulla loro vita e sulle circostanze della morte. La maggior parte degli operatori pastorali uccisi nel 2012 ha trovato la morte in seguito a tentativi di rapina: alcuni hanno scoperto i ladri nella propria abitazione e i loro corpi sono stati ritrovati anche con segni di ferocia e di tortura. Altri sono stati aggrediti in strada e derubati di quanto portavano con sé o della loro automobile. Gli operatori pastorali uccisi nel 2012 non hanno compiuto gesti eclatanti, non si sono proposti all’attenzione dei mass media per iniziative o prese di posizione spettacolari, ma semplicemente “hanno confessato la bellezza di seguire il Signore Gesù là dove venivano chiamati a dare testimonianza del loro essere cristiani”. Hanno vissuto la loro fede nell’umiltà della vita quotidiana, in contesti di particolare povertà umana e spirituale, di degrado, di violenza, dove il rispetto della vita e la dignità della persona sono valori che non contano, cercando di portare in questi ambienti la loro testimonianza di amore, di quell’amore del Padre che Gesù Cristo è venuto a mostrare. Agli elenchi provvisori stilati annualmente dall’agenzia Fides, deve sempre essere aggiunta la lunga lista dei tanti di cui forse non si avrà mai notizia, o addirittura di cui non si conoscerà il nome, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano con la vita la loro fede in Cristo, la “nube dei militi ignoti della grande causa di Dio” secondo l’espressione di Giovanni Paolo II. Questi sono i testimoni della fede uccisi nel 2012: AMERICA LATINA Don David Donis Barrera, 70 anni, da due anni parroco della parrocchia della Sagrada Familia ad Oratorio, nella diocesi di Santa Rosa da Lima, in Guatemala, assassinato il 27 gennaio 2012. Don JenaroAviña García, 63 anni, parroco della parrocchia

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dell’Immacolata Concezione ad Atizapande Zaragoza, nell’arcidiocesi di Tlalnepantla Messico, assassinato nella sua abitazione il 28 gennaio 2012. Don Luigi Plebani, 62 anni, missionario italiano della diocesi di Brescia, è stato assassinato in Brasile, a Rui Barbosa, nello Stato di Bahia. Don Pablo Emilio Sanchez Albarracin, della diocesidi Cucuta, Colombia, è stato aggredito nella sua abitazione presso la parrocchia Santa Maria Madre de Dios nel comune di los Patios a Cucuta, nel nord della Colombia, durante una rapina,la mattina dell’8 agosto 2012, è morto l’11 agosto, dopo tre giorni di agonia. Don Teodoro Mariscal Rivas, 45 anni, è stato trovato morto assassinato nella propria abitazione, nel quartiere di Santa Fe. Don Eduardo Teixeira, sacerdote brasiliano, 35 anni, è stato assassinato la sera di domenica 16 dicembre 2012, nella località Novo Hamburgo. AFRICA Suor Liliane Mapalayi, della congregazione delle Suore della Carità di Gesù e Maria, pugnalata a morte da un individuo il 2 febbraio 2012 a Kananga, nel Kasai occidentale, Repubblica Del Congo. Don Anastasius Nsherenguzi, sacerdote della diocesi di Kayanga, Tanzania, 43 anni, è stato gravemente ferito da alcuni giovani il 6 aprile, Venerdìsanto, ed è deceduto l’indomani, 7 aprile. Padre Valentim Eduardo Camale, dei Missionari della Consolata, 49 anni, è stato barbaramente ucciso la sera del 3 maggio 2012, duranteuna rapina alla missione di Liqueleva, Mozambico. Padre Bruno Raharison, sacerdote gesuita di nazionalità malgascia, economo della congregazione Giovanni XXIII di Mahamasina, Madagascar. È stato ucciso domenica 30 settembre 2012, nel corso di una rapinain strada. ASIA Padre Elie Gergi al-Makdessi, 51 anni monaco dell’Ordine Libanese Maronita, viveva in un convento del villaggio di Bhersaf. È stato ucciso durante un tentativo di rapina. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato il 25 agosto 2012 sulla strada marittima di Naameh, 10 km a sud di Beirut. La laica cattolica Conchita Francisco, 62 anni, operatrice pastorale, vedova e madre di due figli, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco da uomini non identificati davanti alla cattedrale cattolica di Bongao, Filippine, nel Sud dell’arcipelago, il 13 novembre 2012.


MASS -MEDIA di Giuseppe Cappello

Reti Sociali: porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione

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n prossimità della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2013 che si celebrerà il 12 maggio 2013, Benedetto XVI ha proposto alcune riflessioni su una realtà sempre più importante che riguarda il modo in cui le persone oggi comunicano tra di loro: lo sviluppo delle reti sociali digitali che stanno contribuendo a far emergere una nuova agorà, una piazza pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità. Questi spazi, quando sono valorizzati bene e con equilibrio, contribuiscono a favorire forme di dialogo e di dibattito che, se realizzate con rispetto, attenzione per la privacy, responsabilità e dedizione alla verità, possono rafforzare i legami di unità tra le persone e promuovere efficacemente l’armonia della famiglia umana. Lo scambio di informazioni può diventare vera comunicazione, i collegamenti possono maturare in amicizia, le connessioni agevolare la comunione. Se i network sono chiamati a mettere in atto questa grande potenzialità, le persone che vi parte-

cipano devono sforzarsi di essere autentiche, perché in questi spazi non si condividono solamente idee e informazioni, ma in ultima istanza si comunica se stessi. Impegni e sfide Lo sviluppo delle reti sociali richiede impegno: le persone sono coinvolte nel costruire relazioni e trovare amicizia, nel cercare risposte alle loro domande, nel divertirsi, ma anche nell’essere stimolati intellettualmente e nel condividere competenze e conoscenze. I network diventano così, sempre di più, parte del tessuto stesso della società in quanto uniscono le persone sulla base di questi bisogni fondamentali. Le reti sociali sono dunque alimentate da aspirazioni radicate nel cuore dell’uomo. La cultura dei social network e i cambiamenti nelle forme e negli stili della comunicazione, pongono sfide impegnative a coloro che vogliono parlare di verità e di valori. Spesso, come avviene anche per altri mezzi di comunicazione sociale, il significato e l’efficacia delle differenti forme di espressione sembrano determinati più dalla loro popolarità che dalla loro intrinseca importanza e validità.

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La popolarità è poi frequentemente connessa alla celebrità o a strategie persuasive piuttosto che alla logica dell’argomentazione. A volte, la voce discreta della ragione può essere sovrastata dal rumore delle eccessive informazioni, e non riesce a destare l’attenzione, che invece viene riservata a quanti si esprimono in maniera più suadente. I social media hanno bisogno, quindi, dell’impegno di tutti coloro che sono consapevoli del valore del dialogo, del dibattito ragionato, dell’argomentazione logica; di persone che cercano di coltivare forme di discorso e di espressione che fanno appello alle più nobili aspirazioni di chi è coinvolto nel processo comunicativo. Dialogo e dibattito possono fiorire e crescere anche quando si conversa e si prendono sul serio coloro che hanno idee diverse dalle nostre. La sfida che i network sociali devono affrontare è quella di essere davvero inclusivi: allora essi beneficeranno della piena partecipazione dei credenti che desiderano condividere il messaggio di Gesù e i valori della dignità umana, che il suo insegnamento promuove. I credenti, infatti, avvertono sempre più che se la Buona Notizia non è fatta conoscere anche nell’ambiente digitale, potrebbe essere assente nell’esperienza di molti per i quali questo spazio esistenziale è importante. L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani. I network sociali sono il frutto dell’interazione umana, ma essi, a loro volta, danno forme nuove alle dinamiche della comunicazione che crea rapporti: una comprensione attenta di questo ambiente è dunque il prerequisito per una significativa presenza all’interno di esso.

fede, ma anche nella testimonianza, cioè nel modo in cui si comunicano “scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il Vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita”. Un modo particolarmente significativo di rendere testimonianza sarà la volontà di donare se stessi agli altri attraverso la disponibilità a coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso dell’esistenza umana. L’emergere nelle reti sociali del dialogo circa la fede e il credere conferma l’importanza e la rilevanza della religione nel dibattito pubblico e sociale. Per coloro che hanno accolto con cuore aperto il dono della fede, la risposta più radicale alle domande dell’uomo circa l’amore, la verità e il significato della vita – questioni che non sono affatto assenti nei social network – si trova nella persona di Gesù Cristo. Strumenti di evangelizzazione I social network, oltre che strumento di evangelizzazione, possono essere un fattore di sviluppo umano. Ad esempio, in alcuni contesti geografici e culturali dove i cristiani si sentono isolati, le reti sociali possono rafforzare il senso della loro effettiva unità con la comunità universale dei credenti. Le reti facilitano la condivisione delle risorse spirituali e liturgiche, rendendo le persone in grado di pregare con un rinvigorito senso di prossimità a coloro che professano la loro stessa fede. Il coinvolgimento autentico e interattivo con le domande e i dubbi di coloro che sono lontani dalla fede, ci deve far sentire la necessità di alimentare con la preghiera e la riflessione la nostra fede nella presenza di Dio, come pure la nostra carità operosa: “se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita” (1Cor 13,1). Esistono reti sociali che nell’ambiente digitale offrono all’uomo di oggi occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio. Ma queste reti possono anche aprire le porte ad altre dimensioni della fede. Molte persone stanno, infatti, scoprendo, proprio grazie a un contatto avvenuto inizialmente on line, l’importanza dell’incontro diretto, di esperienze di comunità o anche di pellegrinaggio, elementi sempre importanti nel cammino di fede. Cercando di rendere il Vangelo presente nell’ambiente digitale, noi possiamo invitare le persone a vivere incontri di preghiera o celebrazioni liturgiche in luoghi concreti quali chiese o cappelle. Non ci dovrebbe essere mancanza di coerenza o di unità nell’espressione della nostra fede e nella nostra testimonianza del Vangelo nella realtà in cui siamo chiamati a vivere, sia essa fisica, sia essa digitale. Quando siamo presenti agli altri, in qualunque modo, noi siamo chiamati a far conoscere l’amore di Dio sino agli estremi confini della terra.

I nuovi linguaggi La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta non tanto per essere al passo con i tempi, ma proprio per permettere all’infinita ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di raggiungere le menti e i cuori di tutti. Nell’ambiente digitale la parola scritta si trova spesso accompagnata da immagini e suoni. Una comunicazione efficace, come le parabole di Gesù, richiede il coinvolgimento dell’immaginazione e della sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare a un incontro col mistero dell’amore di Dio. Del resto sappiamo che la tradizione cristiana è da sempre ricca di segni e simboli: penso, ad esempio, alla croce, alle icone, alle immagini della Vergine Maria, al presepe, alle vetrate e ai dipinti delle chiese. Una parte consistente del patrimonio artistico dell’umanità è stato realizzato da artisti e musicisti che hanno cercato di esprimere le verità della fede. L’autenticità dei credenti nei network sociali è messa in evidenza dalla condivisione della sorgente profonda della loro speranza e della loro gioia: la fede nel Dio ricco di misericordia e di amore rivelato in Cristo Gesù. Tale condivisione consiste non soltanto nell’esplicita espressione di

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ORDINE-NEWS di Giorgio Tassone

La bellezza di seguire il Vangelo in semplicità e fraternità

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ono queste le parole con le quali Benedetto XVI, lo scorso 6 febbraio, in occasione dell’udienza generale, ha salutato la delegazione dei ministri provinciali del nostro Ordine accompagnati dal neo-eletto ministro generale, fra Marco Tasca: «Un caloroso saluto rivolgo anche ai Frati Minori Conventuali, che celebrano il loro duecentesimo Capitolo generale. Cari Fratelli, testimoniate agli uomini di oggi la bellezza di seguire il Vangelo in semplicità e fraternità». La bellezza di seguire il Vangelo è stato, forse, il liet-motiv del Capitolo generale che si è svolto ad Assisi, dal 17 gennaio al 17 febbraio 2013. Il neo-eletto ministro generale, fra Marco Tasca, conformato per il secondo sessennio alla guida dell’Ordine dei Frati minori conventuali, ha più volte, durante le sessioni capitolari, accennato al bisogno urgente di “rischiare per il Vangelo” e di lasciarci prendere da un “soprassalto del Vangelo”. Ha usato, poi, due metafore molto belle per orientare i frati a recuperare il tema dell’identità carismatica (la vita fraterna) e il tema della missione (la nuova evangelizzazione): radici e ali. Da una parte, infatti, le nostre comunità devono avere i piedi ben saldi e impiantati nella terra per essere fedeli al carisma francescano che si esprime essenzialmente nella conventualità. Dall’altra, invece, l’immagine delle ali è significativa per dire il bisogno di aprirci al mondo e di prendere sul serio l’impegno della nuova evangelizzazione nella fedeltà al mandato missionario della Chiesa cattolica. Forse, si potrebbe riprendere l’espressione di Benedetto XVI – “la bellezza di seguire il Vangelo in semplicità e fraternità” – in questo modo: “la bellezza di annunciare il Vangelo in semplicità e fraternità”. Francesco è stato un interprete vivo del Vangelo e non un semplice fondatore di un Ordine religioso. Nel Poverello, infatti, appare con chiarezza la sua ricerca della somiglianza con Cristo, anzi, con il Cristo del Vangelo. Il Poverello, d’altronde, non ha assunto un modello di vita religiosa per poi innestare in esso il Vangelo, ma, al contrario, ha scelto il Vangelo come forza capace di generare una forma di vita religiosa. È questo il particolare che fa di Francesco un unicum tra gli stessi testimoni del Signore nella vasta e complessa tradizione religiosa della Chiesa cattolica. Parlare del primato di Dio nelle nostre fraternità significa impegnarsi a riconoscere nelle nostre vite e fraternità l’egemonia del Vangelo, cioè il primato di Cristo stesso. Il Vangelo è il primato che anticipa ogni altra forma

di vita, è ciò che viene prima di ogni altro ministero o progetto di missione. Attraverso il primato del Vangelo nella vita di Francesco, la gente vede il volto concreto di Dio, cioè il volto stesso di Cristo. Nelle nostre comunità, vivere l’anno della fede, ossia riconoscere concretamente il primato di Dio nella vita spirituale, significa impegnarsi a conoscere solo Gesù Cristo e Cristo crocifisso (cf. 1Cor 2,2), cercando di crescere nell’amore di Gesù che è immagine del Dio invisibile (cf. Col 1,15). Il nostro vivere in fraternità ci deve far avvertire l’urgente bisogno di riscoprire la fede come dono, come incontro con Gesù Cristo, come volontà di stare con lui e come gioia di annunciare il Signore risorto. Il primato di Dio che può emergere nelle nostre fraternità è quello di una vita di fede, cioè di persone che hanno fiducia in Dio e si stimano reciprocamente e riescono a dare fiducia agli uomini, alle persone, al mondo, alle nuove realtà emergenti. Una fraternità che è capace di dare fiducia alle persone che accoglie è già evangelizzatrice, cioè è già impegnata in un’opera di trasformazione degli uomini e del mondo. Per essere veramente credenti, come Francesco, dobbiamo essere capaci di far vedere Gesù a chi ce lo chiede (cf. Gv 12,21). Se Francesco è colui che più assomiglia a Cristo – è Alter Christus o anche il Somigliantissimo – anche noi possiamo diventarlo, riscoprendo il primato di Dio nella nostra vita come primato della fede. La forma e lo stile di vita di Gesù devono plasmare un’immagine di Cristo stesso in noi. 26


CRONACA di Antonio Petrosino

Il pellegrinaggio dei Ravellesi a Potenza

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n altro importante evento, nel nome del Beato Bonaventura, si è svolto a Potenza, nel giorno in cui si faceva memoria della sua nascita e del suo Battesimo (4 gennaio 1651): il pellegrinaggio dei ravellesi e dei tanti devoti sparsi nel territorio dell’Arcidiocesi di Amalfi-Cava de’ Tirreni nel capoluogo della regione Basilicata. Hanno preso parte al pellegrinaggio, insieme alle istituzioni civili (il sindaco Paolo Vuillumier con alcuni assessori e consiglieri comunali), ecclesiali (il nostro arcivescovo Orazio Soricelli) e religiose (fra Antonio M. Petrosino, guardiano della comunità francescana di Ravello) tanti fedeli che, con l’offerta dell’olio e della lampada votiva, hanno voluto rendere omaggioalla città di Potenza e alla locale comunità dei frati minori conventuali, per aver ricevuto in dono dal Signore uno dei suoi figli più illustri per santità di vita. Una giornata storica, è stata quella di venerdì 4 gennaio 2013. Così l’hanno definita il sindaco di Potenza, il dott. Vito Santarsiero e fra Cosimo Antonino guardiano della comunità religiosa dei fratiminori conventuali di Potenza e parroco nella medesima città della prima comunità parrocchiale posta sotto il patrocinio del beato Bonaventura, in quanto per la prima volta, i ravellesi, in veste ufficiale,

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hanno onoratoquesta terra benedetta nella quale il Beato è nato e cresciuto fino all’età di 15 anni. Insomma, una promessa che soloora è divenuta realtà con la formalizzazione di un gemellaggio istituzionale tra la città della musica e quella della cultura. Infatti, il 14 ottobre 2012, prima che giungesse al termine l’anno giubilare (2011 – 26 ottobre – 2012), indetto in occasione del terzo centenario della morte del Beato frate potentino (1711 – 26 ottobre – 2011), alla presenzadi numerosi suoi concittadini – giunti presso la chiesa del nostro convento francescano per l’annuale offerta dell’olio e accensione della lampada votiva – facendomi interprete dei sentimenti dei presenti, avanzai la proposta di organizzare un pellegrinaggio a Potenza in un giorno significativo per la vita del Beato. Si pensò subito al prossimo 4 gennaio, giorno della sua nascita e del suo battesimo. Lo scopo era quello di rendere sempre più intensi i vincoli di fratellanza che da tempo legano alla semplice figura del beato Bonaventura la città di Potenza e quella di Ravello. Ospitale, fraterna e solare è stata l’accoglienza che i potentini hanno riservato ai ravellesi, alle istituzioni civili, ecclesiali e religiose che li accompagnavano e ai devoti del Beato presenti nella divina Costiera Amalfitana e nellaValle Metelliana.


L’INTERVISTA di Boutros Naaman

I giovani libanesi: «Noi, spiazzati dal papa»

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er i maroniti incaricati di redigere i testi della Via Crucis al Colosseo, la rinuncia di Benedetto XVI «è stata uno choc». Padre Toufic Bou Hadir, coordinatore dell’Ufficio patriarcale ha affermato: «Ci mettiamo alla luce dello Spirito Santo». Ha poi continuato dicendo: «Ci sentiamo nel cuore della Chiesa. Le sofferenze della nostra terra e dei popoli del Medio Oriente saranno al centro delle meditazioni. Siamo felici dell’attenzione che il Pontefice riserva al Libano e a tutto il Medio Oriente. Il suo invito a redigere i testi per la Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo ci rende orgogliosi e riconoscenti e ci conferma nell’impegno di testimoniare l’amore di Cristo». Con queste parole padre Toufic Bou Hadir, coordinatore dell’Ufficio patriarcale per i giovani maroniti, alla fine di gennaio, commentava a Daniele Rocchi, del Sir, la notizia che sarebbero stati proprio i giovani libanesi a scrivere i testi della Via Crucis al Colosseo guidata da Benedetto XVI il prossimo Venerdì Santo. Oggi, invece, testimonia «lo smarrimento e lo choc» per le dimissioni del papa ma anche la «speranza in Cristo, la fiducia nella Chiesa e l’impegno a proseguire nell’annuncio del Vangelo» come richiesto dallo stesso Benedetto XVI nell’Esortazione apostolica post-sinodale “Ecclesia in Medio Oriente” pubblicata durante il suo viaggio apostolico nel Paese dei Cedri nel settembre 2012. Padre Bou Hadir, come hanno reagito i giovani libanesi alla notizia della rinuncia del Papa?

siano essi cristiani o musulmani, ammirano la personalità di questo Pontefice il cui ricordo, nella visita di settembre scorso, resta scolpito nel loro cuore e nella loro mente.

Per tutti noi, per i giovani, in modo particolare per quelli che hanno redatto, su invito del Pontefice, i testi per la Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo, è stato uno choc. Abbiamo consegnato le meditazioni il 10 febbraio e il giorno dopo abbiamo saputo delle dimissioni. Non volevamo crederci. I giovani hanno tempestato di domande il patriarcato e il nostro Ufficio di pastorale giovanile, per sapere se la notizia fosse vera. I social network sono andati in tilt, siamo stati invasi da sms e telefonate.

Il Papa ha avuto per i vostri giovani parole di grande speranza e apprezzamento, affidandovi il compito di redigere le meditazioni della Via Crucis...

Il suo invito a redigere i testi per la Via Crucis al Colosseo ci rende orgogliosi e riconoscenti e ci conferma nell’impegno di testimoniare l’amore di Cristo. Ma è anche una grande responsabilità. Siamo, tuttavia, memori delle sue parole che il 15 settembre del 2012, a Bkerké, invitavano noi giovani a non avere paura ad aprirci a Cristo perché in lui si trovano la forza e il coraggio per avanzare sulle strade della vita, superando le difficoltà e la sofferenza. Ora sappiamo che leggeremo le meditazioni con

Cosa dicevano questi messaggi?

Che questo è un grande papa che resterà nella loro vita come un modello da seguire. Benedetto XVI occupa un posto importante nel cuore dei libanesi. I nostri giovani, 28


il prossimo Pontefice. Per un attimo i giovani libanesi saranno come un piccolo ponte che unirà Benedetto XVI al suo successore. È troppo presto per comprendere quanto è accaduto nella Chiesa in queste ore, dobbiamo metterci alla luce dello Spirito Santo per capirne il messaggio e il senso. Per questo motivo, in spirito di comunione, vogliamo pregare per lui e per il suo successore. Con queste intenzioni, a breve cominceremo una serie d’incontri di preghiera e di adorazione eucaristica.

cati al potere. Dobbiamo servire coloro ai quali siamo mandati. Benedetto XVI, in questi otto anni di pontificato, ha sempre mostrato amore e attenzione per il Medio Oriente e per i suoi popoli segnati da violenze e tensioni...

Le nostre meditazioni avranno al centro anche i dolori della nostra terra e dei popoli che l’abitano. Non possiamo, per questo motivo, non pensare al luogo della Via Crucis, quel Colosseo che ha visto morire da martiri moltissimi cristiani, denigrati, perseguitati, come sta accadendo ancora oggi in molte parti del mondo. Il nostro compito non si esaurisce con le meditazioni. Siamo, infatti, al lavoro per l’applicazione dell’Esortazione post sinodale Ecclesia in Medio Oriente e continueremo a impegnarci per portare avanti questo grande compito che ha assegnato alle Chiese della nostra regione.

Il gesto di rinuncia di Benedetto XVI cosa dice, invece, ai leader religiosi delle vostre Chiese?

Oggi più che mai il papa rappresenta un modello per tutti noi responsabili, politici, civili e religiosi. Benedetto XVI c’insegna che abbiamo dei limiti e che dobbiamo avere il coraggio di riconoscerli, ma soprattutto ci ricorda, con grande forza, che non dobbiamo essere attac-

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TEOLOGIA di Florinda Cioffi

Lo Spirito Santo: dono e presenza

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gnazio IV Hazim è il patriarca della Chiesa greco-ortodossa di Antiochia. A lui dobbiamo questa riflessione sullo Spirito Santo che fu ripresa in apertura all’anno che Giovanni Paolo II volle mettere all’insegna di questa persona della SS. Trinità spesso dimenticata dalla pietà, dalla stessa teologia e dalla pastorale, soprattutto all’interno della Chiesa d’Occidente: «Senza lo Spirito, Dio è lontano, Cristo resta nel passato, l’evangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità dominio, la missione propaganda, il culto un’evocazione e l’agire cristiano una morale da schiavi. Ma nello Spirito il cosmo si solleva e geme nelle doglie del Regno, il Cristo risorto è presente, l’evangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione trinitaria, l’autorità è servizio liberante, la missione è Pentecoste, la liturgia è memoria e anticipazione, l’agire umano è deificato».

“vento”). I simboli del nulla, secondo questa lettura, diventerebbero allora quattro: il deserto, la tenebra, l’abisso e il vento devastatore. C’è, però, un’altra lettura, che è stata adottata dalla nostra versione: essa intende letteralmente l’espressione come “Spirito di Dio”. Avremmo in questo caso l’irruzione dell’azione creatrice divina sul nulla. Apparirebbe, così, la funzione cosmica dello Spirito divino, una funzione che è confermata da altri testi biblici. Ne vogliamo citare tre molto limpidi. Sal 104,29-30 (è uno splendido “cantico delle creature”): «Se tu togli il respiro, muoiono e ritornano alla polvere. Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati e rinnovi la faccia della terra». Gb 34,14-15 (è Elihu, il quarto amico di Giobbe, a parlare): «Se Dio ritirasse a sé il suo Spirito e il suo respiro, ogni creatura morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere». Sap 12,1 (con un rimando anche alla filosofia stoica greca, considerando l’origine tardo-ellenistica di questo libro deuterocanonico): «Il tuo Spirito incorruttibile è in tutte le cose». A questa scena primordiale, nella quale appare lo Spirito creatore, ne associamo un’altra di grande suggestione. Si tratta della visione surreale di Ez 37. Davanti al profeta si stende un’impressionante valle tutta lastricata di ossa calcificate. Di fronte a questo panorama rabbrividente, egli riceve una comunicazione divina che annunzia l’ingresso dello “spirito vitale” (ruach) in questi scheletri. Sarà, però, lo Spirito divino, attraverso l’invocazione imperativa ed efficace del profeta, a far penetrare nelle ossa aride la vita: «Spirito, vieni dai quattro venti e soffia in questi morti perché rivivano» (37,9). A queste parole le ossa, che già avevano cominciato a congiungersi e a rivestirsi di carne, nervi e pelle, si levano in piedi, ed ecco «erano un esercito grande, sterminato» (37,10). Siamo in presenza, in questo caso, di una ri-creazione che il profeta interpreterà nel suo valore simbolico di rinascita

Chi è lo Spirito Santo? La prima scena a venirci incontro è posta proprio nell’incipit della Bibbia (Gen 1,2): «La terra era informe e deserta, le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Prima di spiegare questo versetto, dobbiamo fare una premessa ermeneutica importante: l’Antico Testamento non concepisce lo Spirito di Dio secondo la visione cristiana di una persona divina trinitaria. Potremmo in qualche caso parlare di “personificazione”: in realtà, come le categorie “Parola” e “Sapienza”, si tratta di un attributo divino che viene messo in azione per intessere un contatto diretto con l’umanità o col cosmo. Tra parentesi ricordiamo che il termine ruach (“spirito”), che ricorre 389 volte nell’Antico Testamento, ha spesso un valore puramente antropologico, indicando lo “spirito vitale” della creatura vivente, umana e animale, oppure cosmologico, rimandando al “vento”. Ritorniamo al nostro versetto. Tre simboli rappresentano il nulla in modo comprensibile agli Orientali poco inclini all’astrazione (e il nulla è ovviamente un concetto filosofico): il deserto è l’assenza della vita, le tenebre sono l’assenza della luce, l’abisso è l’assenza della realtà. Su questo caos, su questo silenzio dell’essere si fa aleggiare la ruach Elohim, lo “Spirito di Dio”. Si confrontano qui due interpretazioni. C’è chi vede nell’espressione una forma superlativa composta – come non di rado accade in ebraico – con il nome di Dio: il risultato sarebbe “un vento fortissimo” (sappiamo, infatti, che ruach può evocare anche il 30


teria, dei corpi – il cristianesimo è anche una religione corporale – il messaggio, il logos, che lo Spirito ci dà. Cito il Sal 19 (18): «i cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia al firmamento». È bellissimo anche questo viaggio del sole, la sua orbita che viene considerata come una rivelazione, ma vorrei anche ricordarvi un inno bellissimo della liturgia sinagogale ebraica di pentecoste, dello Spirito quindi, in cui si immagina che tra il cielo e la terra Dio abbia disteso una pergamena, che è il mondo, sulla quale ha scritto i suoi messaggi, e conclude dicendo che noi dobbiamo scrivere su questa pergamena il nostro alleluja, la nostra lode. Il secondo luogo in cui lo Spirito si rivela è la storia. La religione ebraico-cristiana è una religione storica. Non devi cercare Dio prima di tutto nella sua trascendenza; è anche nei cieli, ma non è un imperatore impassibile; attraverso il Figlio suo che si fa carne, uomo come noi, parla un dialetto locale, appartiene ad una provincia sperduta dell’impero, Dio è nei crocevia delle nostre strade, della nostra storia. I dipinti di Chagall rappresentano bene questo spirito della Bibbia. Dio con il suo Spirito è presente nell’interno del villaggio, il villaggio da cui veniva, lo spettro ebraico. Gli angeli escono dai comignoli delle case dove si sta cucinando la cena; svoltato l’angolo trovi Dio e i profeti. Ed è per questo che allora è importante riconoscere lo Spirito all’interno della nostra esistenza. Quando siamo venuti al mondo, abbiamo ricevuto questo respiro di vita dai nostri genitori che ci hanno generato. Questo respiro fisico è preziosissimo, è quello che ci permette di parlare, di vivere. In tutte le culture il simbolo è il respiro della vita, della vita fisica. Abbiamo poi ricevuto il battesimo e in quel momento un altro spirito, un altro respiro che è lo Spirito stesso di Dio. Vedi Gal 4 e Rm 8, quando Paolo dice «voi potete chiamare Dio non più re, sovrano, signore, onnipotente, potete chiamarlo Abbà, come lo chiamava il figlio suo Gesù», perché tra lui e voi c’è questo stesso respiro ed è per questo che dobbiamo ininterrottamente ricordarlo. La Chiesa tutta allora, è una raccolta di respiri dello Spirito. In spirito ecumenico cito un passo di un vescovo patriarca della Chiesa greco-ortodossa di Antiochia, Ignazio IV Azim che dava questa bellissima rappresentazione della chiesa, teologicamente ineccepibile: senza lo Spirito Santo Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il Vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un dominio, la missione una propaganda, il culto un’evocazione, l’agire cristiano una morale da schiavi. Con lo Spirito Santo il cosmo si solleva e geme nelle doglie del regno, il Cristo risorto è presente, il Vangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione, l’autorità è servizio liberatore, la missione è Pentecoste, la liturgia è memoriale e prefigurazione, anticipazione. E l’agire umano è deificato.

della nazione ebraica dalle ceneri dell’esilio babilonese. Si ha, così, come spesso accade nella Bibbia, un trapasso dall’orizzonte cosmico a quello storico, dominato sempre dallo Spirito di Dio. A margine ricordiamo una curiosità. Nell’Antico Testamento la locuzione “Spirito Santo” ricorre solo cinque volte. Nel Miserere così si implora: «Non privarmi del tuo Santo Spirito» (Sal 51,13). In Is 63,10-11 si legge per due volte: «Gli Israeliti si ribellarono e contristarono il suo Santo Spirito... Dov’è colui che infuse (in Mosè) il suo Santo Spirito?». In apertura del libro della Sapienza si afferma che «il Santo Spirito che ammaestra fugge l’inganno» (1,5) e, sempre nello stesso libro, Salomone si rivolge a Dio così: «Chi avrebbe potuto conoscere, o Dio, il tuo consiglio, se tu non avessi concesso la sapienza e inviato il tuo Santo Spirito dall’alto?» (9,17). Due luoghi dello Spirito Santo Ecco allora, a questo punto io vorrei ricordarvi semplicemente due tra i tanti luoghi in cui lo Spirito fa il suo discorso. Primo luogo: la creazione, il cosmo, la materia. La religione biblica è una religione materiale, non solo spirituale, esistenziale, storica. Vi ho citato l’incipit del libro della Genesi «lo Spirito di Dio – si dice al versetto 2 – aleggiava sulle acque». Nel Sal 104 (103) «Mandi il tuo spirito, sono creati», le creature sono tenute insieme da questo respiro, vento e Spirito al tempo stesso. Gli arabi chiamano il vento che arriva dal deserto “vento di Giuda”, il respiro di Dio. Dio respira sulla sua creazione e quindi la tiene in vita. Ecco un appello, un logos da scoprire: è contemplare la natura. Lo scrittore inglese Chesterton diceva giustamente: “il mondo perirà per mancanza di meraviglie”. Sono un numero sterminato le meraviglie del mondo. Il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non ha più lo stupore. Ecco perché dobbiamo ritrovare ancora la capacità di controllare all’interno della natura, dell’essere, della ma-

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POESIE di Silvano Forte Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra (Gv 8,6) Per noi, che polvere ritorneremo, hai scritto nella polvere. Da duemila anni ci chiediamo che cosa hai scritto. Giovanni non ce l’ha detto. Forse era coperto dalla folla che Ti ha circondato appena Ti sei chinato. O forse, riportando alla mente quel gesto dopo quasi sessant’anni, non ricordava più le parole che per pochi secondi avevi stampato nella polvere. Giovanni e Matteo quella notte, illuminati dalla Tua Sapienza, hanno meditato riascoltando nei loro cuori il rumore dei sassi che, uno ad uno, cadevano dalle mani degli scribi e dei farisei e l’eco della Tua sentenza: “...va’ e d’ora in poi non peccare più”.

Il vento ed il calpestio di quelli che cercavano di leggerle da vicino le avevano subito portate via. E così anche la seconda volta (cf. Gv 8,8). Che strano. Il Verbo non usava inchiostro. Il Verbo parlava. L’unica cosa che ha scritto è volata via: Scripta volant, Verbum manet.

“Non per abolire, ma per dare compimento era venuto” concludeva Matteo, appisolandosi. Giovanni annuiva ed aggiungeva: “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. E anche il discepolo che Gesù amava si abbandonava al sonno del giusto e pensava al dito di Gesù: Dio è Amore.

I presenti, beati loro, hanno seguito il Tuo dito mentre scriveva sulla terra, e tutti in essa si sono specchiati. “A cominciare dai più anziani” che andavano via rimuginando le centinaia di precetti del Levitico, battendosi di nascosto il petto.

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TESTIMONI di Renato Sapere

Ven. Domenico Girardelli O.F.M.Conv. (1632 - 1683)

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acque a Vietri di Potenza il 9 giugno 1632 da Giovan Camillo Girardelli e da Giulia di Franco e fu battezzato con i nomi di Domenico e Alessandro. La piccola famiglia era di modeste condizioni sociali ma di grande onestà e laboriosità. Alla pietà istillata dai genitori il piccolo Domenico unì la formazione spirituale che ricevé nel contatto e nella pratica della Chiesa. Ascoltava le prediche e le ripeteva agli altri fanciulli e se qualcuno non seguiva attentamente era ripreso non solo verbalmente dall’impertinente chierichetto. Fu inviato a Muro Lucano affidato alle cure dei Frati Minori Conventuali per la formazione spirituale ed intellettuale. I bravi frati non tardarono ad accorgersi che Domenico era un ragazzo non comune per pietà e studio. Da parte sua il ragazzo rimase colpito dalla vita austera dei frati, vita di preghiera e di penitenza per cui rese di chiedere l’ammissione al noviziato il che avvenne nello stesso convento di Muro Lucano. Visse il noviziato nello slancio del suo giovane cuore desideroso di perfezione: «ripieno di tutte le virtù cristiane di modo che i maestri e i religiosi ne restavano consolati ed oltre modo meravigliati ed insinuavano agli altri novizi di imitarlo». Al termine del noviziato fu ammesso alla professione solenne dei voti. In tutte le cose fra Domenico si regolava secondo il criterio dei più poveri che vivono dello stretto necessario e si contentano del poco. A chi voleva donargli di più egli sapeva amabilmente opporre un rifiuto, accettando solo il necessario. Dipese sempre dai suoi superiori come un fanciullo dalla propria madre: in tutte le sue azioni voleva il sigillo dell’obbedienza. Nel suo ministero notevole volle dipendere sempre dal proprio guardiano: stare in cella o in chiesa o fuori convento, predicare o confessare, aiutare i confratelli o assistere i moribondi, tutto e solo per obbedienza. Fra Domenico fu un vero frate minore per la sua umiltà, diceva di se stesso di essere un miserabile peccatore e sacco di vermi, si chiamava frate asino e fra saccone, si considerava una canna vacante e uno sciagurato peccatore. Si esercitava negli uffici più umili in comunità e nel servire i religiosi infermi e all’esterno si presentava come un povero frate questuante che preferiva la compagnia dei più poveri e rifuggiva qualsiasi onore e stima. Appena compiuti gli anni e gli studi richiesti venne su-

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bito ammesso all’ordinazione sacerdotale e da allora l’eucaristia divenne l’oggetto più caro delle sue tenerezze. Tutto il tempo che gli avanzava quando non poteva dedicarlo alla salvezza del prossimo lo spendeva nel fare orazione per lo più dinnanzi al Santissimo sacramento. P. Domenico aveva studiato con grande profitto le scienze sacre ed eccelleva particolarmente nella teologia morale e nella dottrina ascetica. Per questa ricchezza di dottrina poteva svolgere con frutti straordinari la missione di confessore e direttore spirituale, di predicatore e consigliere per ogni categoria di persone. Fu trasferito al convento di Napoli e dopo un anno a quello di Amalfi. Era il 1662 e aveva ventinove anni, pieno di ardore serafico al pensiero di trovarsi in un convento fondato secondo la tradizione dal Serafico Padre nel 1220. Tutti i frati lo scelsero come confessore e direttore spirituale delle loro anime per progredire nell’aspro cammino della perfezione. Così anche da altri diversi conventi i religiosi cominciarono a chiedere ai superiori di essere trasferiti ad Amalfi, cenacolo di spiriti ardenti. Il discepolo più prestigioso che ebbe in Amalfi fu il il beato Bonaventura da Potenza che vi rimase sette anni con splendidi frutti, sia per il discepolo che per il maestro. Un cammino di totale rinnegamento di sé, dell’annientamento del proprio volere, della morte dell’amor proprio per far vivere l’amore di Dio pieno e perfetto nella trasformazione in Cristo. Poco dopo il suo arrivo in Amalfi, P. Domenico, fu chiamato dall’arcivescovo che gli affidò la cura spirituale delle monache benedettine della SS. Annunziata, chiamato comunemente monastero piccolo. Un compito ingrato e delicato: non tutte le monache volevano accettare la nuova guida spirituale, ci furono lamentele e resistenze ma vinse la tempra paterna, delicata e forte del P. Domenico. Attraverso frequenti istruzioni alla comunità, colloqui personali, confessione e direzione delle singole monache avviò la sospirata ripresa della vita religiose di quella comunità in declino. Le due specialità del P. Domenico erano la predicazione e la confessione. Egli aveva il dono della sapienza soprannaturale che lo faceva parlare sempre con frutto, perché il suo discorso si adattava mirabilmente ai bisogni e alle condizioni di chi ascoltava.


PASTORALE di Antonio Vetrano

È

che Dio arriva quando meno te lo aspetti. Magari lo cerchi tutta la vita. O credi di cercarlo. O sei convinto di averlo trovato, e quindi dormi sugli allori. E, intanto, la vita ti passa addosso. Oppure proprio non ci pensi, travolto come sei dalle cose da fare. Il mutuo da pagare, la rata dell’auto. Disperatamente galleggiando in questo sfilacciato tramonto di civiltà che stiamo vivendo. È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora. E la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni; le sue scoperte e le sue pause; le sue paure e le sue ironie; i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa. E fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, intorno al quale far girare tutto il resto. È che intorno tutti “gufano”, ma tanto. E anche ad essere ottimisti, a voler sempre vedere il bicchiere mezzo pieno, c’è da vivere in ansia perenne: la crisi e l’instabilità politica sono alle stelle. Nessuno riflette che su 387 leggi approvate nel corso dell’intera ultima legislatura, 297 sono di iniziativa governativa e solo 90 di iniziativa parlamentare. Cioè che le leggi le ha fatte il governo per il 77% (i principi costituzionali gli assegnano tale ruolo solo in maniera del tutto eccezionale…); le iniziative legislative di deputati e senatori hanno percentuale di successo dell’1%; mentre 0% è la percentuale di successo delle iniziative legislative di cittadini, o delle regioni. I tempi… Alcune leggi sono “lepre” (in genere presentati dal governo…) e altre (in genere di iniziativa parlamentare) “lumaca” (fino a 1456 giorni…). Il governo (l’“esecutivo”!) dovrebbe essere controllato dal Parlamento: è in scacco costantemente con l’arma del voto di fiducia. Il potere del Parlamento e la sua autorevolezza sono stati, ormai, “ridimensionati”… È stata inferiore al 30% la percentuale di volte in cui i ministri del governo hanno “avvertito il dovere” di rispondere alle interrogazioni dei parlamentari. I ministri della Repubblica, a cui la legge impone di rispondere alle questioni rivolte loro dai parlamentari! Oligarchia? L’impegno. Percentuali “imbarazzanti” persino per il peggiore degli scolari: fino al 91,70% di assenze, ma dell’81,20% quelle di avvocati il cui seggio è servito, sostanzialmente, a consentire di imputare ai cittadini italiani gli onorari (di avvocato) per l’assistenza prestata, quasi a tempo pieno, nei numerosi giudizi. E il trasformismo parlamentare del cambio casacca? Ben 267 cambi… Nella straordinaria farsa elettorale di scena in questi giorni, nell’inutilità di un Parlamento che funzioni così, proprio i due maggiori partiti sono quelli che registrano indici di produttività parlamentare più bassi. Non lo si dice. Sono dati pubblici. Gesù, al solito, è straordinario: in Matteo cita gli eventi simbolici di Noè. Dice che intorno a lui c’era un sacco di

Vegliare, star desti

brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Nessuno riflette che la corruzione dei politici e la sfiducia del popolo verso i politici è simile a quella del 1929 (si cavalcò un voto di protesta eleggendo un romagnolo)… forse l’Italia fallisce, forse l’Europa fallisce, dopo tutti i bei sogni di unità. E chi si ritrova senza un lavoro: tutti, intorno, sembrano cani rabbiosi che scattano appena li sfiori… Consapevolezza, non fuga. Consapevolezza, per poi decidere di agire. E allora cambiamo il taglio di questo nostro, non il registro. Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci. Almeno qualche minuto. Di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende. Riprendiamoci la nostra umanità! Si avvicina la Pasqua… Io ho voluto prepararmi. Ho sentito il bisogno di capire come poter trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Ho voluto poterlo vedere questo Dio, consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti sofferenti. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so. Io cerco di farlo, ritagliandomi – a fatica – uno spazio quotidiano di incontro, di rapporto, di preghiera, per meditare la Parola. Lo rubo in auto, durante gli spostamenti, o mentre compio azioni ripetitive che mi permettono la riflessione. Chi riesce a prendersi una domenica pomeriggio “per un paio d’ore” di silenzio e di preghiera. Chi fa una piccola deviazione, andando al lavoro. Per entrare in una chiesa; per passare davanti a quella edicola. Combattere contro la distrazione… contro il buonismo delle cose costruite, della finta fede, della finta pasqua, della finta famiglia, dei finti bisogni. 34


ARTE di Paolo D’Alessandro

Da Ecce Homo a Christus Patiens

FIG. 1

Un’immagine miracolosa ntrando nella basilica di S. Lorenzo Maggiore a Napoli, notiamo a sinistra della navata una grande cappella. I frati, nel 1628, concessero due cappelle più piccole, Manso e D’Aprano, ai fratelli Giovan Battista e Giulio Cesare Buonajuto che decisero di realizzarne una sola, dedicata alla Santissima Concezione della Madre di Dio. Il progetto fu affidato, l’anno seguente, all’architetto e scultore veneziano Giorgio Marmorano. Di cultura palladiana ma attivo a Napoli, il Marmorano la impreziosì con un altare il cui paliotto di marmo intarsiato è di una rara finezza. Sopra l’altare possiamo notare un elegante ciborio che in origine era ornato di pietre preziose molte delle quali oggi andate perdute, come si evince dalla descrizione emersa negli atti notarili: «sia di marmo e tutta adornata di pietre di gioye come di aspri, agati corniole amatiste lapislazari ballasti topacy, et amatiste bianche, con fare le ligature dove farà di bisogno di rame dorato, con fare quattro Angeli sopra detta custodia di rame dorati, et altre ligature di gusto de padroni». Il ciborio doveva essere così prezioso perché destinato a racchiudere l’immagine di antichissima pittura,ritenuta miracolosa,detta dell’Ecce Homo (fig. 1). Si narra, infatti, che nel 1577 tre ladri rubarono alcuni vasi d’argento e, dopo esserseli divisi, uno di loro

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si giocò a carte la sua porzione sull’altare. Avendo perso tutto, arrabbiato, colpì con il pugnale la santa immagine e fu testimone di un evento straordinario: dalla ferita sgorgò sangue vivo e l’immagine dell’Ecce Homo, che teneva le braccia incrociate sul petto, portò la destra sulla ferita per contenere il sangue che usciva e trattenne con l’altra il ladro fino al momento dell’arresto. Nel 1652 l’argentiere Salomone Rapi eseguì una pregevole custodia, oggi perduta, intorno a questa veneratissima immagine. Purtroppo nel corso degli anni l’immagine ha subito varie ridipinture, di cui due certe: nel 1660 dal “maestro pittore” Vincenzo Abbate e l’altra nel 1883 circa come ci dice il Filangieri, per cui è difficile l’attribuzione ad un autore preciso. La venerazione per questa immagine miracolosa aumentò nel tempo grazie alla sua riproduzione a stampa. È pervenuta a noi una del 1838 (fig. 2) che, nei sette ovali che la circondano, narra il miracolo del 1577 e altri due avvenuti dopo aver pregato davanti all’immagine. Oggi, purtroppo, ci si è dimenticati di questa immagine miracolosa e la sua venerazione è andata ormai perduta anche per la chiusura della basilica al culto a causa delle varie soppressioni. L’affresco presenta sullo sfondo di un cielo stellato Gesù raffigurato a mezzo busto, ma ritto, nel sepolcro. La testa, reclinata sulla spalla destra e circondata da un’aureola raggiante d’orata, presenta una corona di spine sui lunghi capelli. Il volto ovale con il naso lungo, labbra sottili e barba corta, ha gli occhi chiusi in un’espressione dolente ma serena della morte. La magrezza simboleggia lo stato di povertà e di essenziale spiritualità di Gesù. Le mani riportano i segni dei chiodi. La sinistra è posta sul seno destro, mentre la destra è raffigurata sotto la ferita del costato. Iconograficamente l’immagine di S. Lorenzo Maggiore è stata erroneamente chiamata fin dall’inizio Ecce Homo, mal’iconografia dell’Ecce Homo raffigura Gesù vivo, coperto da un mantello rosso e con una canna in mano. Qui invece, è raffigurato il Cristo della Passione,

che s’innalza dal sepolcro, detto Christus Patiens o Imago pietatis, (tema iconografico devozionale presente anche sulle tombe trecentesche della basilica di S. Lorenzo). Il tema, sviluppato nell’Oriente bizantino è passato poi in Occidente nel XIII secolo, soprattutto dal 1204 presa di Costantinopoli. L’affrescodella basilica di S. Lorenzo Maggiore (cm 67 x 48) è del XIV secolo esi presenta oggi in un precario stato di conservazione. Ci auguriamo un suo urgente restauro non solo al fine di una esatta lettura artistica e di una attribuzione precisa dell’autore, ma soprattutto per ridare alla vita di fede del popolo napoletano questa importante e miracolosa immagine devozionale.

FIG. 2 36


MUSICA di Monica Cioffi

Il grande successo di Nina Zilli

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inza Zilli è nata a Piacenza e ha trascorso l’infanzia a Gossolengo. Ha iniziato ad esibirsi già a 13 anni con alcune band. Ha studiato al conservatorio canto lirico e ha trascorso la seconda parte dell’infanzia in Irlanda dove ha potuto apprendere bene la lingua inglse. Nel 1997 fonda una band: i The Jerks. Dopo le scuole superiori al liceo scientifico Respighi di Piacenza, vive per due anni negli Stati Uniti (Chicago e New York). Debutta in televisione come veejay di MTV e poi nel ruolo di coconduttrice al fianco di Red Ronnie dell’ultima edizione di Roxy Bar, su TMC2. Nel 2001, con una nuova formazione, Chiara&Gliscuri, pubblica per Sony il singolo Tutti al mare. Seguono collaborazioni con artisti e gruppi della scena rocksteady/reggae, quali gli Africa Unite (Bomboclaat Crazy) e i Franziska, con cui intraprende un tour europe. Nel 2009, con il nome d’arte, che combina il nome della sua cantante preferita, Nina Simone, con il cognome della madre, firma il contratto con la Universal. Il 31 luglio 2009 pubblica il singolo di debutto 50mila eseguito in coppia con Giuliano Palma; si tratta del singolo apripista del suo primo EP omonimo, Nina Zilli. 50mila viene incluso nella colonna sonora del film Mine vaganti di Ferzan Özpetek e nel videogioco Pro Evolution Soccer 2011, insieme a un altro suo pezzo, L’inferno. In gara nella categoria Sanremo Nuova Generazione al 60º Festival della canzone del 2010 con il brano L’uomo che amava le donne, Nina Zilli raggiunge la finale a quattro, dove si classifica terza, e vince il Premio della Critica Mia Martini, il premio Sala Stampa Radio Tv e il Premio Assomusica 2010, quest’ultimo per la migliore esibizione dal vivo. Il brano viene certificato disco d’oro con oltre 15.000 download digitali. Il 19 febbraio 2010 esce il suo album Sempre lontano, che raggiunge la quinta posizione nella classifica FIMI e viene certificato

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disco di platino con oltre 60.000 copie. A maggio 2010 partecipa ai Wind Music Awards all’arena di Verona e viene premiata come New Artist. Il 5 novembre esce il suo nuovo singolo Bacio d’a(d)dio il primo estratto da Sempre lontano Special Edition, la nuova release del primo album. Il 18 febbraio 2011 è ospite al 61º Festival di Sanremo per duettare con i La Crus nel brano Io confesso. Nel febbraio 2011 la cantante riceve due nomination ai TRL Awards 2011 nelle categorie Best Look e Italians Do It Better, e proprio lei, insieme a Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, ha presentato la cerimonia tenutasi a Firenze il 20 aprile. 2012: Sanremo, Eurovision Song Contest e collaborazioni con MTV Italia. Il 15 gennaio 2012 è annunciata la sua partecipazione alla 62ª edizione del Festival di Sanremo con il brano Per sempre, che anticipa l’uscita del suo secondo album L’amore è femmina. li. Il brano Per sempre viene certificato disco di platino con oltre 30.000 download digitali. Nina Zilli, dal 5 marzo 2012 affianca Giorgio Panariello nella conduzione di Panariello non esiste su Canale 5. Il 18 febbraio 2012, nel corso della serata finale del Festival di Sanremo, viene annunciato da Ell e Nikki che la cantante è stata scelta per rappresentare l’Italia all’Eurovision Song Contest 2012 che si è tenuta a Baku. La cantante si esibirà con il brano L’amore è femmina (Out of Love), e si classificherà nona. A novembre 2012 l’album viene certificato disco d’oro per le 30.000 copie vendute. Sempre nel 2012 prende parte agli MTV Days. Esce nel luglio dell’anno stesso il suo nuovo singolo Per le strade. Nina Zilli possiede un registro vocale da soprano. La cantante è caratterizzata da una voce potente dal sapore vintage; i suoi punti di riferimento musicali sono soprattutto Nina Simone ma anche Otis Redding e Etta James.


NOVIZIATO-NEWS di Alfredo Avallone

Il fascino di essere fratelli «

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erché ti fai frate?». «Perché sono stato attratto dal modo di vivere insieme dei frati!». Non di rado i giovani trovano nel particolare stile di vita fraterna voluta da san Francesco e testimoniata oggi dai frati una delle motivazioni principali per la loro scelta vocazionale. Un simile riscontro lo abbiamo anche dalle persone, giovani, adulti o anziani che siano, di qualsiasi provenienza sociale, culturale, nazionale o religiosa… che si trovano, per motivi diversi, a frequentare qualche momento della vita comunitaria francescana. È un dato di fatto: lo stile di vita fraterna francescana ha riscosso e ancora riscuote successo a motivo di un carisma, di un particolare dono di grazia concesso da Dio non solo a san Francesco, ma anche alla sua istituzione, all’Ordine dei Frati Minori. E’ possibile dire qualcosa in più? Cosa rende questo carisma così attraente oggi? A quale domande di fondo del cuore di un giovane risponde la “fraternitas” francescana? Partiamo da san Francesco e da quanto egli stessi ci ha lasciato scritto della sua personale esperienza con i primi compagni. Diciamo subito che emerge la chiara consapevolezza, certo acquisita nel tempo, che quelle persone, desiderose di condividere la sua stessa esperienza di sequela di Gesù Cristo povero e crocifisso, sono state “mandate da Dio”, sono dunque un “dono ricevuto dalle mani di Dio”

di cui, sempre nell’ottica della sequela di Gesù Cristo, è chiamato ad esserne “responsabile”. Nella lettera scritta da san Francesco a tutto l’Ordine (FF 216-217) leggiamo: «Ascoltate, figli e fratelli signori miei, e prestate orecchio alle mie parole». Già questo particolar modo di presentarsi di san Francesco lascia intuire quel particolare rapporto che Francesco aveva con ogni persona del suo Ordine: questi erano sentiti come «figli», realtà che esprimerà nell’immagine della cura premurosa della madre (cf. Rnb 9.10-11; Erem 1-6), come «fratelli», termine che diventerà centrale per indicare il carisma francescano e che rimanda essenzialmente allo stile del servizio vicendevole (cf. Rnb 5,9-12; 6,4; 9,10; 10,1; Rb 5,14; 6,8), e come «signori miei», fino al “bacio dei piedi” con «tutta la carità di cui sono capace». Quest’ultimo termine è veramente singolare: utilizzato generalmente accanto o al posto di Dio, Gesù e la Sua presenza nell’Eucaristia, in questo e pochi altri casi viene ad indicare i confratelli (cf. Test 27.33; LOrd 38.40). È chiaro lo sguardo di fede con cui si accosta ai suoi confratelli, venerati e serviti come mediazione di Dio, proprio come dono proveniente dalle mani di Dio, dunque da rispettare e custodire devotamente, da servire ed onorare fedelmente. L’espressione letta con quanto segue richiama chiaramente l’episodio di Gesù che lava i piedi ai discepoli nell’ultima cena secondo la narrazione dell’evangelista

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Giovanni, dove la relazione di servizio è proprio quella del servo nei riguardi del suo signore, del suo padrone. Nella Lettera a tutto l’Ordine, il nostro santo così prosegue: «Inclinate l’orecchio del vostro cuore e obbedite alla voce del Figlio di Dio. Custodite nella totalità del vostro cuore i suoi comandamenti e adempite perfettamente i suoi consigli. Confidate in lui poiché è buono ed esaltatelo nelle opere vostre, poiché per questo vi mandò per l’universo mondo, affinché con la parola e con l’opera rendiate testimonianza alla voce di lui e facciate sapere a tutti che non c'è nessun onnipotente eccetto lui. Perseverate nella disciplina e nella santa obbedienza, e adempite con proposito buono e fermo le cose che gli avete promesso». Inclinate, custodite, confidate, perseverate, adempite… Stupenda questa successioni di esortazioni che dicono tutto dell’attenzione materna, dell’aiuto fraterno e della fedeltà del servo al dono ricevuto dal Signore! È evidente che questi atteggiamenti di servizio, di venerazione (bacio dei piedi), di fiducia, di pazienza, trovano forza in una consapevolezza di base: i confratelli sono doni che Francesco riceve dalle mani di Dio nelle proprie mani, un gesto di grande fiducia del Padre celeste che è anche missione, quella di esserne responsabile davanti a Dio! Francesco spende così tutto il suo tempo e soprattutto consegna il suo “cuore pensante” affinché l’atteggiamento dei fratelli sia lo stesso di Giovanni, il discepolo che Gesù amava: cur-

vato sul petto di Gesù ad “ascoltare e mettere in pratica i comandamenti di Gesù”, impegnato a “rendere testimonianza alla voce di Gesù e alla sua onnipotenza”. Responsabilità: è una gran bella parola! È in questa parola che si gioca tutta l’opera di Dio e la nostra povera collaborazione; è in questa parola che si gioca l’esistenza di ognuno. Questa prima figlia della libertà, in quanto «capacità di scegliere di rispondere a», di rispondere alla predilezione che Dio ha per me affidandomi il preciso compito di vivere «secundum formam sancti evangelii», è la chiave delle mie consolazioni o desolazioni. Infatti, non siamo responsabili solo di noi stessi e della nostra relazione con Dio, ma anche del fratello e della nostra relazione con gli altri fratelli, riconosciuti e accolti nella loro singolarità e irripetibilità. Il fratello è l’unico vero e degno dono che può essere fatto all’uomo, esaltando la sua libertà con una chiamata a rispondere al desiderio di pienezza e di realizzazione di ogni uomo. Ed è proprio questa la novità che attrae i giovani di oggi soffocati nell’anima da logiche relativistiche e individualiste, anestetizzati dai piaceri a buon mercato nel desiderio di relazioni vere e profonde, liberanti e di ampio senso, capaci di rispondere alle domande del presente, ma anche a quelle della vita tutta intera, col gusto di essere guardati con fiducia ed accolti per quello che si è e non per quello che si ha, si fa o che appare! È il fascino di essere e vivere insieme da fratelli!

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TEATRO di Maria Teresa Esposito

Giuliana De Sio è tornata...

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n televisione è tornata alla grande, con il bellissimo ruolo della mafiosa Tripolina, nella terza stagione de L’onore e il rispetto al fianco di Gabriel Garko, il primo vero successo dell’inizio di stagione televisiva. Per Giuliana De Sio questo però non è un momento facile, come ha ammesso in una intervista rilasciata sul numero 38 del magazine DiPiù. Giuliana ha dichiarato: «In questi mesi sto combattendo una dura battaglia contro una forma seria di depressione, come mi ha detto il mio psicanalista. Grazie al cielo ne sto uscendo anche per la vicinanza del mio pubblico e degli amici veri. Ultimamente, poi, mi sto aiutando con forti antidepressivi ma so che per guarire ci vuole anche molta volontà. E io ce la sto mettendo tutta per venirne fuori». Tra gli amici veri, Giuliana parla soprattutto del collega Giulio Forges Davanzati, suo figlio ne L’onore e il rispetto. «Ma al di là del grande legame professionale, Giulio anche umanamente si è dimostrato di grande spessore. E mi è stato vicino, anche adesso, in uno dei periodi più brutti della mia vita. In cui tante volte ho pensato di non farcela...». Quello della depressione è un problema che

l’attrice campana si porta appresso da circa due anni, dopo aver superato un grave problema di salute (embolia polmonare). «L’idea di essere scampata alla morte mi aveva profondamente scioccata e non ero in grado di riappropriarmi della mia vita di sempre con serenità» ha rivelato l’attrice. «Insomma, ho subito avuto paura che potesse riaccadermi qualcosa di brutto. Dunque sono piombata in una specie di angoscia perenne. Piangevo dodici ore al giorno. Vagavo per casa come un fantasma. Non mangiavo, non mi curavo, insomma mi trascinavo». Poi è arrivato L’onore e il rispetto e l’inizio di una nuova stagione teatrale: «Quando mi hanno proposto questo personaggio, così lontano da me e dalla mia mentalità, ho immediatamente rifiutato. Va bene tutto, pensavo, ma invecchiarmi e parlare in dialetto sicialiano stretto come la bassa manovalanza mafiosa mi sembrava davvero troppo. Pensavo anche di non essere credibile [...]. Alla fine ho accettato la sfida ed eccomi qui a recitare Concetta De Nicola, soprannominata Tripolina, un ruolo molto controverso, che mi rivede al fianco di Gabriel». 40


IN BOOK La Redazione N. DE LUCA, Gesù il Risorto. San Tommaso d’Aquino. Teologo della risurrezione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2012, pp. 120, euro 13.

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esù, il Crocifisso, è risorto. Si tratta del primo annuncio della fede. Questo mistero è indagato da san Tommaso d’Aquino nella Summa teologica che qui l’autore considera. Il testo è un valido aiuto per conoscere, dal punto di vista sistematico, il corpo del Cristo risorto. L’autore è parroco in Oriolo e Alessandria del Carretto a Cosenza, nonché assistente del Movimento apostolico della Diocesi di Cassano all’Jonio in Cosenza. La lettura di quest’opera aiuta a scoprire come ogni uomo può lasciarsi penetrare e trasformare dalla luce del Signore risorto. S. TAMARO, Ogni angelo è tremendo, Bompiani, Milano 2013, pp. 268, euro 16,50.

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uesto romanzo è la storia di una bambina che diventa adulta. Che nasce di notte, a Trieste, mentre soffia una bora nera che spazza via ogni cosa e rende ogni equilibrio impossibile. Di una bambina che cresce con il padre e una madre imprendibili, in una famiglia in cui sembra che soffi quello stesso vento impetuoso dell’est. Di una bambina che non dorme mai, e fa (e si fa) molte domande, a cui nessuno sembra voler o poter dare risposte. Ma ogni angelo è tremendo è anche la storia della scoperta della terribile bellezza del mondo; è la storia di una bambina che si fa ragazza, e poi donna, e si apre ai sussulti dei poeti e degli scrittori, ai primi palpiti di amore e di amicizia. Quella bambina, quella ragazza, quella donna, è Susanna Tamaro, che consegna il suo libro più intimo e coraggioso, più appassionante e misurato, più forsennato e vitale. C. YANNARAS, Contro la religione, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2012, pp. 284, euro 25.

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l cristianesimo non è una religione, ma è un nuovo modo di esistenza nella comunione; l’istinto religioso ha sempre cercato, però, di impadronirsene e di farne un’istituzione religiosa. I sintomi di questa istituzionalizzazione sono evidenti: la fede come ideologia, l’esperienza della salvezza come fatto psicologico, la salvezza come merito individuale, l’eucaristia come rito sacro, l’arte asservita alle impressioni, le eclisse della parrocchia, l’idolatria della tradizione, la demonizzazione della sessualità. L’autore, allora, prospetta una riforma della Chiesa, sempre bisognosa di conversione affinché ridiventi attualizzazione della novità cristiana, manifestazione nella storia del modo di essere di Dio, infinita esperienza di libertà in un inesauribile comunione di amore. M.R. FAZIO - F. GALEONE, L’A.B.C. del dialogo ebraico-cristiano per passare dalla “conoscenza” alla “ri-conoscenza”, Edizioni Spring, Caserta 2013, pp. 160, euro 20. li autori sono da sempre appassionati dello studio della lingua ebraica: Maria Rosaria Fazio è, in particolare, studiosa di mistica e di spiritualità ebraica; don Franco Galeone, salesiano, è docente di lingua ebraica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Capua. Il libro, come ben spiegato nell’introduzione (cf. p. 9), nasce come riparazione teologica per Auschwitz: “Come spiegare i tanti silenzi della ragione e della religione?”. Auschwitz svolge una funzione ermeneutica, segna un punto diacritico…

S. NOCETI - M. RONCONI (curr.), Un popolo chiamato Chiesa. Introduzione a Lumen gentium, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009, pp. 204, euro 4,90. uesto testo è una breve presentazione sulla Lumen gentium a carattere storico, teologico e religioso. Le riflessioni qui proposte ci fanno capire quali erano le intenzioni dei padri conciliari. La Chiesa è popolo di Dio e sacramento di comunione. Troviamo spunti interessanti, riflessioni preziose per comprendere l’identità e la missione della Chiesa oggi.

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EVENTI La redazione

Benevento, 6 marzo 2013, ritiro dei frati e momento di festa

francescani, 1 marzo 2013 Loreto, incontro dei giovani

, gennaio 2013 Maddaloni, 23 di preghiera Primo incontro i gruppo Araldin

Maddaloni, incontro sulla famiglia con P. Gianfranco Grieco

Assisi, i frati della Custodia hanno celebrato il Capitolo, 25 febbraio - 1 marzo 2013

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Celebrazione del Capitolo generale, Assisi, 17 gennaio - 17 febbraio 2013

Fra Marco Tasc generale, beneda, confermato Ministro ice i frati con la Cartula

Foto dei frati capitolari, Assisi 14 febbraio 2013

Udienza generale del mercoledĂŹ a Roma

Fra Marco Tasca presiede l’Eucaristia ad Assisi 43


di Pietro Manna

Il re è tornato: Maradona incontra a Napoli i suoi tifosi

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e il lungomare di Napoli – il 26 febbraio scorso – si è trasformato in una curva dello stadio S. Paolo è per merito suo, di “quello che è meglio e Pelè”, come cantano in coro bambini e signore, anziani e giovanissimi tifosi. È tornato, finalmente, e a Napoli si scatena la festa. Diego Armando Maradona rimette piede nella “sua” città. Appena arriva davanti all’albergo dove alloggia in una suite ecco che si scatena il “Chi non salta è juventino”, riportando alla mente memorabili sfide e il nemico di sempre. L’ultimo tratto del suo viaggio, in auto da Roma a Napoli, è stato quasi una sorta di processione; da Caianello parte un vero e proprio corteo spontaneo che, in città, si infoltisce con decine e decine di ragazzi in motorino. “Come mi mancavano i napoletani”, confida a chi è con lui mentre si prepara a una conferenza stampa in programma domani. Maradona torna in Italia nonostante la sua battaglia eterna con il fisco. Questa volta, però, lo spettro non si materializza. Nessuno gli presenta il conto, non scatta, almeno per il momento, nessun pignoramento. Anzi, a Fiumicino, i finanzieri lo scortano addirittura mentre fende la folla che lo riconosce in aeroporto e lo saluta. Diego vorrebbe fare un giro a Scampia, nel cuore sanguigno di un quartiere difficile, ma c’é troppa folla e la prima tappa salta. Passa in auto

davanti al San Paolo, il suo stadio. Sul lungomare i tifosi che lo aspettano si scaldano intonando tra le tante canzoni “Oj vita oj vita mia” e la storica canzone dedicata a Maradona, “O mamma mamma mamma…”. L’ex campione del Napoli, il calciatore che ha regalato lo scudetto, passa però in pochi attimi dall’emozione alla paura. Quando entra nell’albergo è letteralmente circondato da una selva di giornalisti e operatori televisivi. Si ferma, viene sballottato, rischia di cadere. Ci vuole l’impegno della polizia e della sua sicurezza per consentirgli di percorrere i pochi passi fino alla scala che porta alla sua suite. Ma sono momenti di tensione, si scatena la ressa e nel parapiglia non mancano spintoni e gomitate. È una parentesi ma che, secondo chi è vicino a Maradona, lo condizionerà per il resto della giornata. Dovrebbe scendere per un saluto ai giornalisti ma i suoi legali, Angelo Pisani e Angelo Scala, spiegano che l’ex pibe de oro è impaurito, scosso e c’é addirittura chi dice che ha subito una sorta di aggressione. Passa una mezz’ora ma poi Diego si affaccia dal balcone dell’ultimo piano dell’albergo. Saluta la folla, “il re è tornato”, gridano i tifosi. Poi incontra alcuni amici di sempre, come Peppe Bruscolotti, storico capitano del Napoli scudettato e Gianni Aiello, il vecchio autista che lo portava in città. 44


di Giuseppina Costantino

Viva la libertrà

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iva la libertà è un film drammatico realizzato dal regista Roberto Andò e che ha nel cast Toni Servillo, Valerio Mastrandera, Valeria Bruni Tedeschi. Finzione, mistificazione, illusione e ricostruzione di una realtà possibile. Questi sono gli elementi che in modo del tutto imprevedibile uniscono il cinema alla politica, due arti per cui la creazione di una visione e la genialità di farla diventare un’immagine da condividere con la comunità, sia questa formata da spettatori o cittadini, è essenziale. Quindi, se anche per l’astuto Niccolò Machiavelli governare consisteva soprattutto nel far credere, ecco che non è poi così improbabile considerare i migliori politici come degli attori, dei guitti dalle qualità interpretative e persuasive capaci di mettere in scena delle vicende tragicomiche. Per questo motivo non stupisce certo la scelta del regista Roberto Andò di rappresentare il nostro particolare momento storico attraverso una visione sognante, quasi teatrale, a metà strada tra la commedia degli inganni di Shakespeare e il relativismo pirandelliano, rendendola più fruibile e perfino poetica attraverso il linguaggio del cinema. A determinare immediatamente l’atmosfera del film Viva la libertà è l’immagine severa e sfinita di Enrico Oliveri che, segretario di un partito di opposizione, sembra aver completamente perso la fiducia del suo gruppo e quella credibilità capace di farlo riconoscere come unica speranza possibile per la sinistra italiana. Un sentimento di scoramento e incredulità che cresce e si moltiplica con l’avvicinarsi delle nuove elezioni e la consapevolezza di una sconfitta annunciata. Ma è proprio in quel momento di disperazione, quando il proprio ruolo sociale sembra aver perso ogni significato soprattutto per se stesso, che Oliveri decide di scomparire per tornare ad essere semplicemente Enrico. In questo modo, un film di attualità sociale si trasforma improvvisamente in un’esperienza del tutto nuova in grado di utilizzare le sfumature dell’ironia e della malinconia in ugual modo, mettendo in scena l’inganno delle somiglianze. Perché a cambiare completamente l’andamento di questo racconto è l’inserimento

del gemello Giovanni, portatore di una lucida follia attraverso la quale la realtà assume una concretezza inaspettata pur continuando a proporre domande senza risposta. Chi tra i due è il leader migliore? È possibile affidare le speranze di un paese a un pazzo capace di giocare alle sparizioni nella sala dei mappamondi con il Presidente delle Repubblica, di ballare il tango con la Cancelliera tedesca e di infiammare le masse con un comizio poetico preso direttamente in prestito dalle parole di Bertol Brecht? E, soprattutto, chi ci assicura che, in realtà, non si tratti sempre dello stesso uomo deciso a spogliarsi dell’imperturbabile maschera del politico per scoprirsi nuovamente uomo? Pur non offrendo alcuna soluzione alle molte domande proposte, Andò dirige perfettamente questi due universi paralleli, li struttura con attenzione, facendoli vivere entrambi di vita propria attraverso il ritrovamento dell’entusiasmo e di un candore intellettuale finalmente possibile anche in politica. Perché quello che il regista ha deciso di raccontare, prendendola direttamente dalle pagine del suo romanzo Il trono vuoto e portandola sul grande schermo, è la grande illusione di un desiderio, di un’aspettativa che, probabilmente, mai si realizzerà se non nell’universo cinematografico. Ossia la possibilità e il privilegio di avere una classe dirigente con la mente lucida e la passione nel cuore. Un sogno ad occhi aperti, però, che non ha la pesantezza delle aspettative deluse ma tutta la briosa leggerezza di un gioco di specchi messo in scena da Toni Servillo, corpo, voce e ed espressione di due personalità diverse e complementari. L’attore napoletano, certo non nuovo alla rappresentazione del potere, questa volta lascia che la sua anima da teatrante lo guidi verso la rappresentazione del doppio, cercando e riuscendo a trascinare in questa avventura intima e inusuale lo spettatore. Senza mai eccedere nella severità come nella leggerezza dei toni, Servillo gioca con i mutamenti impercettibili degli sguardi, la gestualità accennata e le tonalità della voce per raccontare non le somiglianze, ma le differenze tra i due gemelli fino a colmare l’abisso che separa l’uomo di stato dall’essere umano, il folle dal sano e il successo dal fallimento. Perché la realtà cambia e assume prospettive diverse a seconda dell’angolazione da cui la si osserva. Almeno è così, se vi pare.

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CUCINA di nonna Giovannina

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a pastiera, antichissimo dolce pasquale partenopeo, è una torta di pasta frolla ripiena di un impasto formato da ricotta, grano bollito, uova, spezie e canditi. La frolla della pastiera è croccante, mentre il suo ripieno è morbido di un colore giallo oro molto intenso mentre il suo sapore e il profumo varia a seconda degli aromi utilizzati. La versione classica della pastiera prevede che gli aromi utilizzati siano la cannella e l’acqua di fiori d’arancio, mentre nelle versioni moderne si spingono ad accostamenti di gusti e sapori a volte azzardati. L’origine della Pastiera è molto antica e la si può far risalire ai culti pagani quando la si preparava per celebrare l’arrivo della primavera; nel tempo è diventata usanza di prepararla per la festività della Pasqua; il nome Pastiera sembrerebbe derivare dall’abitudine, consolidata per un certo periodo di tempo, che vedeva utilizzare al posto del grano cotto la pasta cotta; tutt’oggi ci sono ancora massaie che preparano la pastiera utilizzando paste del tipo spaghetti o capellini. Ingredienti per il ripieno: 250 gr. di grano cotto, ricotta mista di pecora e mucca 350 gr., zucchero 350 gr., 4 uova intere e 3 tuorli, 2 bustine di vanillina, 50 gr. di canditi, 200 dl di latte, scorza di arancia grattugiata, 2 fiale di millefiori, 2 fiale di fiori d’arancio, 30 gr. di burro. Ingredienti per la pasta frolla: 500 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 200 gr. di burro, 2 uova intere, 2 tuorli, scorza di arancia grattugiata, un pizzico di sale. Una volta pronta la pasta frolla mettete la pasta frolla a rassodare in frigorifero per circa 40 minuti, avvolta nella pellicola. Nel frattempo preparate la crema di

grano. Versate in una pentola il grano precotto, il latte, il burro e la buccia grattugiata di arancia. Fate bollire il tutto a fuoco dolce, mescolando fino a che non avrete ottenuto una crema densa. Versate il composto in una ciotola capiente e lasciate intiepidire. Intanto, in un mixer, frullate le uova insieme allo zucchero, alla ricotta e agli aromi. Dovrete ottenere una crema piuttosto fluida e senza grumi. Stendete quindi la pasta frolla, avendo l’accortezza di tenerne una piccola quantità da parte per preparare le strisce che serviranno per la decorazione. Foderate con il disco di pasta frolla una teglia tonda di 28 cm di diametro, precedentemete imburrata. Una volta che la crema di grano si sarà intiepidita unite la crema di ricotta e amalgamate per bene; aggiungete poi il cedro e l’arancia candita e ancora una volta mescolate bene. Versate il ripieno nella teglia e pareggiate bene i bordi della pasta frolla (nel caso questi siano più alti del livello raggiunto dalla crema. Con la pasta tenuta da parte, ricavate una sfoglia non troppo sottile, con la quale formerete delle strisce di frolla della larghezza di 1,5-2 cm, che otterrete utilizzando una rotella tagliapasta con lama dentellata. Le strisce vi serviranno per decorare la superficie della pastiera disponendole a griglia; intersecandole, dovrete ottenere dei rombi. Spennellate delicatamente le striscioline con un uovo sbattuto e infornate la pastiera a 200°; dopo un’ora circa, quando la superficie si sarà dorata, estraetela e lasciatela raffreddare nella tortiera stessa. Una volta fredda, sformate delicatamente la pastiera, mettetela su di un piatto da portata e spolverizzatela con dello zucchero a velo prima di servirla. 46


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