Luce Serafica 03 2012

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Numero 3/2012 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica

«Vi do la mia pace» Vivere insieme alla presenza di Dio

‫ﺳﻼﻣﻲ أُﻋﻄﻴﻜﻢ‬ َ

‫دﻟﻴﻞ اﻟﺰﻳﺎرة‬

Perché un anno Inno al beato La missione Gli immigrati Rapporto Benedetto sulla scuola della fede? Bonaventura XVI in Libano della Chiesa in Italia


“Frammento” di Paolo D’Alessandro, olio su tela cm 40 x 50

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Editoriale

Sommario 3/2012 3 4 5 6 8 9 10 12 14 20 22 23 24 26 28 29 30 32 33 35 36 37 38 40 41 42 44 45

Editoriale di Edoardo Scognamiglio Finestra sul mondo di Giuseppina Costantino Il Punto di Filippo Suppa Politica-Economia di Vienna Iezzi Psicologia di Caterina Crispo Costume-Società di Carmine Vitale Dialogo di Edoardo Scognamiglio Voci di Chiesa di Boutros Naaman Anno della fede La Redazione Liturgia di Cosma Capomaccio Orizzonte Giovani di Luca Baselice Missione di Lidia Tetta Cassano Omelia di Giuseppe Falanga Canto e musica sacra La Redazione Credere Oggi di Pietro De Lucia Spiritualità di Clara Fusciello Mistica di Raffaele Di Muro Poesie di Silvano Forte Asterischi francescani di Orlando Todisco Pastorale di Antonio Vetrano Serafico Sentiero di Renato Sapere Notizie dal Seraphicum di Simone Schiavone Approfondimenti di Vincenzo Picazio Arte di Paolo D’Alessandro In book La Redazione Eventi La Redazione Sport La Redazione Cinema di Giuseppina Costantino

Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana. Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006. Anno VII – n. 3/2012 Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro – e-mail: pdart@libero.it

Abbonamento annuale 20 euro CCP: 11298809, intestato a E. Scognamiglio, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli Clausola: abbonamento Luce Serafica 3

Salàmi ō-tīkum Vi do la mia pace

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engo in Libano come pellegrino di pace, come amico di Dio, e come amico degli uomini». Benedetto XVI, nel suo primo discorso dopo il suo arrivo nella Terra dei Cedri, testimonia da subito il motivo della sua presenza in Medio Oriente: la testimonianza della pace. Ripete due volte il saluto di Cristo, Salàmi ō-tīkum (Vi do la mia pace), un volta riferito al Libano; una volta per tutto il Medio Oriente. Il papa non accenna a nessun aspetto politico, ma si mostra attento al dramma umano della popolazione della regione. Il papa aggiunge un altro motivo per la sua venuta: «la firma e la consegna dell’esortazione apostolica post-sinodale dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, Ecclesia in Medio Oriente». La felice convivenza tutta libanese, deve dimostrare a tutto il Medio Oriente e al resto del mondo che all’interno di una nazione possono esistere la collaborazione tra le varie Chiese, tutte parti dell’unica Chiesa cattolica, in uno spirito di comunione fraterna con gli altri cristiani, e, al tempo stesso, la convivenza e il dialogo rispettoso tra i cristiani e i loro fratelli di altre religioni. Questo equilibrio, che viene presentato ovunque come un esempio, è estremamente delicato. Esso rischia a volte di rompersi allorquando è teso come un arco, o sottoposto a pressioni che sono troppo spesso di parte, interessate, contrarie ed estranee all’armonia e alla dolcezza libanesi. Per il papa, il fondamento di una convivenza armonica si fonda sulla dimensione religiosa della vita, a livello personale e sociale, senza le storture di un laicismo esagerato che si vive in Occidente. «Vengo anche per dire quanto sia importante la presenza di Dio nella vita di ognuno e come il modo di vivere insieme, questa convivenza di cui il vostro Paese vuole dare testimonianza, sarà profonda solo se si basa su uno sguardo accogliente e un atteggiamento di benevolenza verso l’altro, se è radicata in Dio che vuole che tutti gli uomini siano fratelli. Il famoso equilibrio libanese che vuole continuare ad essere una realtà, può prolungarsi grazie alla buona volontà e all’impegno di tutti i libanesi. Solo allora sarà un modello per gli abitanti di tutta la regione, e per il mondo intero. Non si tratta di un’opera solamente umana, ma di un dono di Dio che occorre domandare con insistenza, preservare a tutti i costi e consolidare con determinazione». P. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.


FINESTRA SUL MONDO di Giuseppina Costantino

Venerdì di rabbia per l’islam La violenza non porta nulla di buono

È

stato un venerdì di rabbia quello vissuto lo scorso 14 settembre 2012 in diversi Paesi musulmani dove non si placano le proteste contro il film anti-Islam prodotto negli Usa, che ha scatenato, nella ricorrenza dell’11 settembre, l’assalto al consolato Usa a Bengasi, in Libia, in cui hanno perso la vita l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre funzionari americani. Violente proteste si sono verificate in Giordania, Yemen, Siria, Gaza e Gerusalemme, fino al sud-est asiatico. Alta la tensione anche in Egitto e Tunisia, con le sedi diplomatiche americane di nuovo nel mirino, mentre nella capitale sudanese Khartoum sono state attaccate anche le ambasciate di Germania e Gran Bretagna. Pesante il bilancio delle vittime: due morti a Tunisi, almeno due a Khartoum (ma alcune fonti parlano di tre o quattro), uno al Cairo e uno a Tripoli in Libano, proprio mentre il Papa giungeva nel Paese dei cedri per una visita di tre giorni e lanciava un nuovo appello per la pace. Decine di persone sono rimaste ferite. Dopo quest’ultima ondata di violenze, gli Stati Uniti hanno inviato una squadra speciale di marines per presidiare la sede diplomatica a Sanaa, in Yemen. Sedi diplomatiche sotto attacco. Nei giorni successivi, i manifestanti hanno nuovamente preso di mira le rappresentanze americane protestando davanti agli edifici e dando vita a scontri con la polizia nei pressi dell’ambasciata Usa a Khartoum, in Sudan, dove un gruppo di dimostranti è riuscito a fare breccia nel muro di cinta. Dall’interno dell’edificio si sono

uditi spari. Il bilancio delle vittime è ancora incerto. Almeno tre persone hanno perso la vita. Manifestanti hanno fatto irruzione anche nel complesso delle ambasciate di Germania e Gran Bretagna: la folla è riuscita a sfondare il cordone di polizia attorno alle due rappresentanze. La bandiera tedesca è stata ammainata e al suo posto è stato issato un vessillo islamico. Illeso lo staff tedesco, ha reso noto il ministro degli Esteri Guido Westerwelle. A Tunisi la folla ha sfondato lo sbarramento davanti alla sede diplomatica Usa, mentre la polizia ha lanciato gas lacrimogeni e sparato ad altezza uomo. Una decina di manifestanti si è arrampicata sui muri dell’ambasciata sventolando i drappi neri del movimento salafita. Il personale americano è stato evacuato. La polizia ha reso noto che due dimostranti sono stati uccisi e 28 sono rimasti feriti. La mappa delle proteste. Le manifestazioni contro il film ritenuto blasfemo hanno interessato moltissimi Paesi, dal Medio Oriente all’Asia. Al Cairo dimostranti hanno lanciato pietre contro i poliziotti che sbarravano la strada verso l’ambasciata Usa. Un’auto è stata ribaltata e data alle fiamme lungo la via che da piazza Tahrir conduce alla rappresentanza diplomatica americana, dove erano stati collocati grandi blocchi di cemento. La piazza, simbolo della primavera araba, è tornata a infiammarsi e le proteste si sono allargate fino a interessare la zona della “corniche”, bloccata dalle forze di polizia. Una persona è morta. Nel Sinai, in Egitto, islamisti hanno attaccato una base della forza multinazionale.

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IL PUNTO di Filippo Suppa

Scuola italiana: il rapporto Ocse 2012

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stato reso noto a metà settembre il rapporto dell’Ocse relativo all’anno 2012 per la scuola e l’educazione. Il documento prende in esame le principali caratteristiche della scuola italiana e riesce a tratteggiare una “fotografia” di questa istituzione che si rivela poco confortante: sono molti, infatti, gli aspetti che fanno dell’Italia un Paese poco lodevole nel settore dei servizi all’istruzione. Gli aspetti che sono stati maggiormente criticati riguardano l’età media degli insegnanti, troppo alta rispetto alla media europea, così come l’ammontare del loro stipendio, troppo basso se confrontato con quello dei colleghi degli altri stati dell’Unione. A ciò si aggiungono degli investimenti insufficienti nel settore della scuola e delle tasse troppo alte, soprattutto in campo universitario. Se si vanno ad analizzare in modo più approfondito le cifre del rapporto Ocse, si scopre che in 19 dei 32 Paesi membri il 60% dei docenti di scuola secondaria ha almeno 40 anni. In Italia, invece, insieme a Austria, Repubblica Ceca, Estonia e Germania, sono oltre il 70%. Gli insegnanti under 30 nel nostro paese sono meno dello 0,5% in tutti i gradi di scuola, contro una media Ocse che arriva al 14% nella scuola primaria (nel Regno Unito sono addirittura il 31,7%). In Italia, la parte più consistente di insegnanti si colloca nella fascia 50-59 anni: i professori con questa età sono il 39,3% alla primaria, il 50% alle medie, e altrettanti alle superiori. Nella scuola secondaria la quota di over 60 sfiora il 10%. E anche gli under 40 scarseggiano. Sono il 16,6% alla primaria, l’11,6% alle medie, il 7,9% alle superiori. L’Italia investe il 4,7% del proprio Pil in istruzione contro una media Ocse del 5,8%. Nel corso degli anni la quota di Pil investita in questo settore è solo leggermente aumentata nel nostro Paese, mentre è in calo, fra il 2000 e il 2010, la percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione: passa dal 9,8% al 9%. Questo dato ci colloca al secondo posto fra i paesi con la spesa pubblica più bassa per l’istruzione dopo il Giappone.

In Italia cresce anche il rapporto studenti/docenti per effetto dei tagli e delle riforme del governo Berlusconi. Si hanno 11,8 studenti in media per docente alla materna, 11,3 alla primaria, 12 considerando insieme le medie e le superiori. Gli stipendi dei docenti restano fra i più bassi d’Europa, con il massimo dello stipendio che arriva dopo 35 anni di lavoro. E anche raggiunto l’obiettivo si resta sotto la media degli altri stipendi: 39.762 dollari in Italia, oltre 45.000 mediamente negli altri Paesi. L’Italia, poi, si colloca ai primi posti fra i Paesi non anglosassoni per livello delle tasse universitarie. Il sostegno dello Stato a chi vuole studiare scarseggia: l’82% degli studenti non gode di nessun beneficio. Forse, però, il dato più allarmante e inedito è quello relativo all’ereditarietà del titolo di studio. Soprattutto i dati relativi alle tasse universitarie permettono di comprendere come sia sempre più a rischio nel nostro paese, l’effettivo rispetto dell’articolo 34 della Costituzione. Sempre meno in Italia lo Stato si fa garante degli “ultimi” e non riesce, di fatto, a livellare le differenze economiche e sociali, garantendo ai più meritevoli di accedere ai gradi più alti dell’istruzione. A conferma di ciò è possibile prendere in esame l’iter formativo di chi nasce in famiglie con redditi poco elevati e con genitori che possiedono bassi titoli di studio. Queste persone hanno di fatto scarse possibilità di avere un lungo percorso scolastico: il 44% di giovani 25-34enni i cui genitori non hanno completato l’istruzione secondaria superiore, ad esempio, fa la stessa fine, si ferma alle medie. I dati contenuti nel rapporto dell’Ocse evidenziano la necessità che si attuino interventi che migliorino realmente la situazione della scuola italiana. L’attenzione dovrebbe essere maggiormente rivolta, non solo sugli elementi messi in luce dall’Ocse, ma anche sullo studio di cambiamenti di carattere strutturale nel mondo della scuola: il sistema formativo dovrebbe essere sempre meno soggetto a soddisfare esigenze legate alla crescita economica, per concentrarsi invece sulle reali esigenze degli studenti.

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POLITICA-ECONOMIA di Vienna Iezzi

Uno sguardo all’Italia e ai suoi cittadini

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l 1° gennaio 2012, in base ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, erano regolarmente presenti in Italia 3.637.724 cittadini non comunitari. Tra il 2011 e il 2012 il numero di cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti è aumentato di circa 102 mila unità. I paesi di cittadinanza più rappresentati sono Marocco (506.369), Albania (491.495), Cina (277.570), Ucraina (223.782) e infine le Filippine (152.382). I minori non comunitari presenti in Italia rappresentano il 23,9% degli stranieri non comunitari regolarmente soggiornanti, mentre nel 2011 essi costituivano il 21,5%. I minori di 18 anni nati nel nostro Paese sono ormai più di 500 mila, poco meno del 60% del totale. Continua a crescere la quota di soggiornanti di lungo periodo. Nel 2011 erano 1.638.734; nel 2012 sono 1.896.223 e costituiscono la maggior parte dei regolarmente presenti (52,1%). La quota di soggiornanti di lungo periodo sul totale è particolarmente elevata nelle regioni del Centro-Nord.

Netta è stata la diminuzione di nuovi ingressi di cittadini stranieri non comunitari: durante il 2011 sono stati rilasciati 361.690 nuovi permessi, quasi il 40% in meno rispetto all’anno precedente. La diminuzione dei nuovi arrivi ha interessato le donne (-45,7%) più degli uomini (-33,6%). Si riducono notevolmente i nuovi permessi rilasciati per lavoro (oltre il 65% in meno); si contraggono, anche se in misura minore (21,2%), le nuove concessioni per famiglia. Aumentano notevolmente i permessi rilasciati per asilo e motivi umanitari che passano da 10.336 nel 2010 a 42.672 nel 2011. Nel 2011 hanno rappresentato l’11,8% dei nuovi flussi, mentre l’anno precedente erano solo l’1,7% del totale. Tre sole cittadinanze coprono oltre il 50% del totale di questa tipologia di ingresso: Tunisia (27,5%), Nigeria (16,3%) e Ghana (7,4%). La riduzione dei nuovi permessi concessi interessa, in particolare, il Nord-est: nella ripartizione erano stati rilasciati circa 170 mila nuovi permessi nel 2010, mentre nel 2011 i nuovi ingressi sono stati poco 6

più di 83 mila. Il 67% dei cittadini non comunitari entrati in Italia durante il 2007 sono ancora regolarmente presenti a gennaio del 2012. In quasi il 20% dei casi coloro che sono restati hanno però rinnovato il permesso in una provincia diversa da quella di ingresso. Le province che hanno messo in luce una maggiore capacità di trattenimento sui migranti entrati nel 2007 sono Bolzano (trattiene nella provincia il 94,6% dei cittadini non comunitari che avevano ottenuto un permesso nella provincia nel 2007), Genova (90,3%), Aosta (90,1%), Imperia (89,9%) e Trento (89,4%); tra le prime dieci ci sono anche Milano (88,5%) e Roma (87,5%). Tra le province di passaggio, quelle cioè che esercitano la minore capacità di trattenimento, Crotone trattiene solo il 31,8% di coloro che hanno ottenuto un permesso di soggiorno nella provincia nel 2007, Caltanissetta il 46,5%, Foggia il 50,0%, Potenza il 53,4% e Trapani il 55,7%. Come gli italiani vedono i migranti? Il 59,5% dei cittadini afferma che nel


nostro Paese gli immigrati sono discriminati, cioè sono trattati meno bene degli italiani. In particolare, la maggior parte degli intervistati ritiene difficile per un immigrato l’inserimento nella nostra società (80,8%): addirittura il 2,4% lo ritiene impossibile. Generalizzata appare la condanna di comportamenti discriminatori: la maggioranza degli intervistati ritiene che non sia giustificabile prendere in giro uno studente (89,6%) o trattare meno bene un lavoratore (88,7%) “perché immigrato”. Ciononostante, il 55,3% ritiene che nell’attribuzione degli alloggi popolari, a parità di requisiti, gli immigrati dovrebbero essere inseriti nella graduatoria dopo gli italiani; mentre il 48,7% condivide l’affermazione secondo la quale in condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani rispetto agli immigrati. Il 60% dei rispondenti ritiene che la presenza degli immigrati è positiva perché permette il confronto con altre culture. Altrettanti (63%) sono d’accordo con l’affermazione che gli immigrati sono necessari per fare il lavoro che gli italiani non vogliono fare. È del 35% la quota di quanti ritengono che gli immigrati tolgono lavoro agli italiani. Per il 65,2% degli intervistati gli immigrati sono troppi. L’aumento di matrimoni e unioni

miste è considerato positivamente dal 30,4% dei rispondenti, a fronte di un quinto circa (20,4%) che considera negativamente questo fenomeno. Se però è la propria figlia a sposare un immigrato la situazione cambia. Per esempio, il 59,2% degli intervistati avrebbe molti problemi e il 25,4% qualche problema se il futuro coniuge fosse un Rom/Sinti. Per la maggioranza non è un problema avere uno straniero come vicino. Tuttavia, il 68,4% non vorrebbe avere come vicino un Rom/Sinti: al secondo e al terzo posto tra i vicini meno graditi si collocano i romeni (indicati dal 25,6%) e gli albanesi (24,8%). Sulla convivenza religiosa, la maggioranza (59,3%) esprime una posizione di tolleranza, anche se il 26,9% è contrario all’apertura di altri luoghi di culto nei pressi della propria abitazione e il 41,1% all’apertura di una moschea. Il 72,1% è favorevole al riconoscimento alla nascita della cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese. Il 91,4% ritiene giusto che gli immigrati, che ne facciano richiesta, ottengano la cittadinanza italiana dopo un certo numero di anni di residenza regolare nel nostro Paese. Quanti sono gli italiani residenti all’estero? La prima ondata migratoria che ha in-

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teressato il Paese dopo l’unificazione riguarda il periodo storico che va dal XIX secolo fino al secondo dopoguerra e si compone prevalentemente di spostamenti oltreoceano, caratterizzati da alta intensità: le cifre oscillano tra i 135 mila espatri del 1869 e gli oltre sei milioni negli anni tra il 1871 e il 1915. La seconda ondata migratoria si realizza a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso ed è connotata da spostamenti di intensità relativamente minore, che hanno come destinazione prevalente il continente europeo (Francia, Germania, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, solo per citare i Paesi maggiori). Solo agli inizi degli anni Settanta la tendenza del fenomeno si inverte: per la prima volta nel 1973 si registra un saldo migratorio con l’estero negativo. Successivamente, e fino ai giorni nostri, i trasferimenti di residenza di italiani in paesi esteri sono rimasti ben al di sotto delle 100 mila unità annue, facendo registrare dei cambiamenti anche riguardo al profilo del migrante, che si caratterizza, nel corso del tempo, per un livello di istruzione e di professionalità sempre più elevati: dal 2001 al 2010 i cittadini emigrati italiani senza alcun titolo di studio o con la sola licenza media sono scesi da 29.343 a 24.734 unità, quelli diplomati da 13.679 a 8.535 unità, mentre quelli laureati sono cresciuti da 3.879 a 6.276 unità.


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Parlare non è cosa facile Una breve considerazione sulla balbuzie dei piccoli

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a balbuzie è un disordine del ritmo della parola, la persona sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa d’involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono. Consiste in contrazioni spastiche, a carico delle funzioni, della regolarità e del ritmo della muscolatura fonorespiratoria. È un disturbo del linguaggio, ed è un disturbo multifattoriale; dipende dalla personalità legato a fattori psicologici e ambientali, caratterizzato da un’alterazione del ritmo verbale e da un vissuto emotivo condizionato dall’espressione verbale. La balbuzie è sempre e dovunque un disturbo della “relazione verbale” in situazioni di comunicazione perché un bambino non balbetta giocando e parlando da solo. Non esiste la balbuzie, esistono invece i balbuzienti. Il balbuziente, infatti, non balbetta mai da solo, ma solo in presenza di altre persone: la balbuzie è pertanto un disturbo di relazione con l’altro e, quindi, il balbuziente non balbetta perché ansioso, piuttosto è ansioso perché balbetta. È necessario distinguere tra i vari tipi di balbuzie: balbuzie apparente e balbuzie effettiva.La balbuzie apparente coincide con un momento di preparazione alla parola e, generalmente, si risolve spontaneamente, senza lasciar traccia. Questo disordine interessa la quasi generalità dei bambini (dai 2 ai 4 anni) ma, più che un vero e proprio disturbo del linguaggio, è manifestazione d’immaturità espressiva, di carenza di vocabolario, d’incompleta formazione di tutto l’apparato fonatorio e d’incoordinazione coi centri verbo-motori. È un fenomeno temporaneo, che il bambino vive senza problemi e di cui quasi mai si rende conto, mentre il genitore può vivere questo periodo erroneamente con

ansia. La balbuzie effettiva (o secondaria) è una realtà che si delinea dai 5-6 anni in poi e ha un’origine ben diversa. Il soggetto inizia a prenderne coscienza e a preoccuparsi, creandosi una serie di complessi specifici e generici, espressivi e comportamentali. Il disturbo può fissarsi e radicarsi nella personalità del soggetto sempre più, perdurando anche in età adulta, rendendo sempre più difficoltosi i tentativi terapeutici mano a mano che si avanza con l’età. A questo punto si accompagna a un disturbo della personalità che, alterando l’equilibrio emotivo del soggetto, concorre all’automantenimento del problema. Tipologia Una sintetica classificazione delle varie forme di balbuzie in età infantile non è così facile, anche perché non esistono al mondo due bambini che balbettano allo stesso modo. Gli studiosi hanno comunque classificato tre differenti tipi di balbuzie, facendo riferimento alla particolare configurazione del blocco e ai suoni caratteristici che il blocco verbale manifesta nello sforzo articolatorio. Forma Clonica: Il fenomeno è classificato clonico se comporta la ripetizione di una o più parti iniziali, interne o finali di una parola. È solitamente la forma più frequente con cui la balbuzie si manifesta nell’età infantile; Forma Tonica: Il fenomeno è classificato tonico se si manifesta all’inizio della parola con difficoltà di pronuncia e, nei casi più severi, comporta un vero e pro8

prio blocco nella fluenza verbale del bambino; Forma Palilalica o Mista: un mix delle due forme precedenti caratterizzata dalla presenza di prolungamenti, tonicità e ripetizioni cloniche. Origini La balbuzie non è un fenomeno unico, bensì determinato a diversi livelli da fattori sia fisiologici che psicologici, sia genetici che derivanti da variabili ambientali. Tutti queste variabili possono giocare un ruolo importante nell’insorgere della balbuzie e può risultare estremamente difficile determinare a priori quale di queste concause sia quella prevalente. Solo un approccio terapeutico di tipo multi-disciplinare permette di valutare e comprendere le variabili che possono entrare in gioco in presenza di fenomeni di balbuzie nell’età infantile.Come disturbo della relazione e della comunicazione di origine psicologica, la balbuzie si manifesta talvolta improvvisamente in età infantile nutrendosi di situazioni traumatiche o avvertite come tali (nascita di un fratellino, situazioni di anaffettivà, perdita di sicurezza, traumi, precari inserimenti), insieme a relazioni difficili e per lui causa di ansia, avvertite dalla sensibilità del bambino nei primi anni di vita. Altre volte s’inserisce nel linguaggio gradualmente insieme ai tentativi del bambino di pronunciare vocaboli e termini foneticamente complessi (queste esitazioni prendono il nome di disfluenze specifiche).


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TUME OCIETÀ

di Carmine Vitale

Arriva l’autunno: come prepararsi?

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aso chiuso, mal di gola, per poi arrivare alle epidemie influenzali che verso la fine dell’anno si fanno sentire, eccome. Ma come possiamo limitare i danni? Con il 21 settembre abbiamo ufficialmente salutato l’estate e ci prepariamo alla fredda stagione invernale. L’alimentazione che abbiamo seguito durante il periodo estivo sicuramente cambierà con l’autunno e ancora di più con l’arrivo dell’inverno. Questo non significa necessariamente prendere peso, perché anche per l’autunno ci sono degli accorgimenti per affrontare la nuova stagione nel migliore dei modi. Il colore degli alimenti è una delle soluzioni per mantenere il nostro fisico in forma e con il giusto sprint. Basti pensare al viola dell’uva e dei mirtilli, al colore arancio della zucca e dei cachi, ai caldi marroni di castagne, noci, funghi, al rosso vivo dei melograni e al verde di pere e mele. Fate scorta di arance e mandarini per il fabbisogno di vitamina C, antiossidante fondamentale per il sistema immunitario e, dunque, per prevenire eventuali malanni stagionali. Nel caso delle arance, non spremerle ma mangiarle a spicchi, perché le sostanze nutritive contenute nell’involucro non vadano perse. I vegetali per molte persone sono fondamentali nella dieta quotidiana. In particolare, in autunno, c’è un’esplosione di verdure a foglia verde: broccoli, cavoli, spinaci, verza, che contengono luteina una sostanza ad azione protettiva per gli occhi. È sempre bene, però, dare un’occhiata a come viene prodotta e conservata la verdura che compriamo: a volte nei vari trattamenti di produzione e conservazione che i vegetali subiscono, si perdono delle importanti sostanze nutritive. Per questo potete essere sicuri di assimilare tutti gli antiossidanti di cui il nostro organismo ha bisogno integrandoli con degli integratori. L’autunno è anche la stagione dei funghi. Sono perfetti per la nostra dieta dal momento che contengono pochissime calorie ma sono anche ricchi di fibre alimentari in grado di dare quell’importante senso di sazietà. Un sostituto proteico a carne e pesce? Lenticchie, fagioli, ceci, soia, fave, piselli sono noti per loro proprietà energe-

tiche, per i carboidrati complessi di cui sono composti ma soprattutto per le fibre e i pochi grassi che contengono. Come tutte le diete, anche la dieta d’autunno è composta da 3 pasti principali e due spuntini. Se sei di fretta e non puoi fermarti a pranzo e mangiare con calma per avere un’ottima digestione, perché non preferire al solito panino solo pieno di grassi zuccheri e sale un pasto veloce e pronto ricco di vitamine e minerali?

Consigli per il giardino

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a fine dell’estate è già venuta: fiori e piante del giardino verde iniziano a perdere petali e foglie ed è quindi giunto il momento di prepararsi adeguatamente in vista della stagione in arrivo. In queste settimane, infatti, le ore di luce iniziano lentamente a ridursi e questo comporta la ripresa dell’attività vegetativa. Le operazioni di manutenzione del verde in questo periodo sono, dunque, indispensabili per un corretto sviluppo e mantenimento delle parti vegetali, manto erboso incluso. Tra le principali cure colturali da effettuare all’interno dello spazio verde dovranno essere ricordate in primis quelle dedicate alla potatura di fiori e piante: andranno tagliati leggermente i rami verdi più lunghi a livello delle estremità della pianta con delle cesoie da giardino precedentemente disinfettate; andranno potati anche i rami e i peduncoli dei fiori, rimuovendo nello stesso frangente anche i fiori da giardino che si presentano secchi o appassiti. Si dovrà avere anche un occhio di riguardo per quanto riguarda i polloni, ovvero i rami che si sviluppano a partire direttamente dal tronco delle piante da esterno: essi andranno potati accuratamente per evitare che sottraggano le sostanze nutritive necessarie alle piante per crescere rigogliose. Infine, per un corretto sviluppo di fiori e piante, si consiglia di procedere alla manutenzione del terreno in cui crescono concimando in modo accurato: saranno da preferire tipi di concimi chimici a base terrosa, magari contenenti le principali sostanze nutritive come fosforo, potassio e azoto.

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DIALOGO di Edoardo Scognamiglio

Alla ricerca della felicità e del senso della vita Il “cortile dei gentili” fu per Francesco la strada

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o credo che Francesco d’Assisi abbia molto da dire all’uomo d’oggi, specialmente a chi è alla ricerca del senso della vita e del significato della propria storia. Forse, non è sbagliato pensare che il fil rouge che attraversa l’intera esistenza del Poverello sia stato quello della ricerca di senso, della gioia di vivere, che è ben resa con l’immagine del pellegrino o del viandante. Irrimediabilmente malato di nostalgia per l’Amore crocifisso, il figlio di Pietro di Bernardone si lasciò sedurre da quella stessa sete di verità che lo rese inquieto in ogni cosa, fino a mettere in discussione le sue certezze, ogni convinzione che non gli appariva più chiara. Per cercare il senso della vita e abbandonare ogni falsa sicurezza è necessario spogliarsi, liberarsi cioè dall’illusione di aver trovato già delle risposte al proprio dolore come altresì ai sentimenti di letizia e di pace che a volte noi stessi pensiamo di provare. Trovarsi davanti all’Altro, significa consegnarsi alla Parola rivelativa e liberatrice di un Dio che guida la nostra storia, anche se ci appare incomprensibile. Il “cortile dei gentili” fu per san Francesco la strada, metafora di un amore perduto e ancora da cercare che lo condusse sicuramente “fuori di sé”, per parlare con gli uomini e le donne del suo tempo e per interrogarsi sul significato di quello che “si fa” e su quello che “si è” realmente. San Francesco condivise sogni, desideri e aspirazioni dei giovani del suo tempo e provò sulla sua pelle com’è difficile arrendersi a una verità più grande – Cristo – che dal di dentro, per sempre, ci

chiama e ci spinge fuori, fino a metterci in cammino. Il “cortile dei gentili” fu anche il suo cuore appassionato per il bello, per l’arte, per le forme armoniose, per il canto, per quello splendore della Verità che tutto illumina e purifica. Il “cortile dei gentili” fu, per Francesco, pure la capacità di dialogare con ogni anima in pena mercé delle proprie illusioni e incertezze. Il Poverello ci insegna che la vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra quelli che cercano e ancora s’interrogano sul senso della vita e quanti hanno smesso di cercare da lungo tempo. I primi sono veramente uomini di fede, i secondi, invece, rappresentano le persone che semplicemente hanno rinunciato di guardare verso la meta che è davanti a noi ma che verso la quale, tuttavia, possiamo ancora provare nostalgia e riprendere il lungo viaggio per raggiungerla. Se oggi gli uomini di Chiesa e della cultura atea si mettono assieme e parlano del significato della vita, del valore della gioia, del bene comune, di che cosa è la verità, è perché sentono la stessa inquietudine di Francesco: “Chi sono io, Signore, e chi sei tu?”. Pellegrino dell’Assoluto, alla ricerca di quella patria che è eternamente avanti a noi – la Trinità –, san Francesco dice a noi tutti, credenti e non, che è possibile essere felici e che la vera gioia è nel dono di sé per gli altri, nell’amore che vince la morte perché l’accoglie come sorella, nel dialogo tra fratelli che interrompe i silenzi delle nostre ipocrisie e delle recondite nostalgie e degli inutili rimpianti che non ci permettono di vedere al di là del nostro 10

naso. Il “cortile dei gentili” resta, per noi oggi, sull’esempio di Francesco, quello spazio autentico e sincero – perché illuminato dalla Verità che è Cristo – dove è possibile incontrare l’uomo dai suoi mille volti e nelle sue infinite potenzialità e culture, per intessere un dialogo sereno su come abitare il tempo, come vivere nelle nostre città, come creare armonia nelle nostre piazze e sentirci veramente tutti fratelli, figli di un solo Padre che è nei cieli. È in questa prospettiva che Benedetto XVI ha voluto creare uno spazio di dialogo con gli uomini di cultura e della politica impegnati nel bene e per la giustizia, pur senza avere fede. È in questa prospettiva che dobbiamo leggere anche gli incontri che il cardinale Ravasi, prefetto del Pontificio Consiglio per la Cultura intende animare in tutto il mondo e specialmente ad Assisi, nella terra del Poverello, ove il senso di fraternità universale è impregnato finanche nelle mura del Sacro Convento e nelle pietre che migliaia e migliaia di pellegrini calpestano per arrivare alla tomba di san Francesco. Lì dove l’uomo si pone sulla strada del dialogo e del confronto sereno con le attese e i desideri dell’altro, lì avviene sicuramente il miracolo della comunicazione e spesso anche della comunione. È in questa prospettiva che mi piace leggere anche la visita di Benedetto XVI in Libano lo scorso 14/16 settembre 2012. Il papa non ha solo messo in evidenza il carattere ospitale del popolo libanese; ha toccato questioni importanti: il tema della giustizia, della pace, della libertà religiosa. Ha gridato ad alta voce di frenare la


corsa agli armamenti per permettere al popolo siriano di vivere il cambiamento – la primavera araba – in modo pacifico e democratico. Se penso anche alla vita del cardinale Maria Martini posso affermare tranquillamente che è stato un uomo del dialogo avvinto dalla Parola divina e desideroso di comunicarla nelle parole umane a quanti erano distanti da una concezione cristiana del mondo e della storia. Abbiamo bisogno di metterci sulla strada, come Francesco, per incontrare la gente e raccontare la nostra esperienza di Cristo ma, prima ancora, di saper ascoltare i loro sogni e bisogni. Mi ha molto colpito il Messaggio (1-9-2011) che Benedetto XVI inviò, più di un anno fa, al cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga, Reinhard Marx, in occasione dell’incontro internazionale di preghiera per la pace Bound to live together: religioni e culture in dialogo, organizzato dalla Comunità di S. Egidio a Monaco di Baviera dall’11 al 13 settembre 2011. Il titolo dell’incontro per la pace «Bound to live together» / «Convivere – il nostro destino» ci ricorda che noi esseri umani siamo legati gli uni agli altri. Questo vivere insieme è, in fondo, una semplice predisposizione

che deriva direttamente dalla nostra condizione umana. È, dunque, nostro compito darle un contenuto positivo. Afferma Benedetto XVI: «Il vivere insieme può trasformarsi in un vivere gli uni contro gli altri, può diventare un inferno, se non impariamo ad accoglierci gli uni gli altri, se ognuno non vuole essere altro che se stesso. Ma aprirsi agli altri, offrirsi agli altri può essere anche un dono. Così tutto dipende dall’intendere la predisposizione a vivere insieme come impegno e come dono, dal trovare la vera via del convivere. Tale vivere insieme, che un tempo poteva rimanere confinato a una regione, oggi non può che essere vissuto a livello universale. Il soggetto del convivere è oggi l’umanità tutta intera». Abbiamo bisogno di impiegare tutte le nostre risorse affinché lo “spirito di Assisi” divenga sempre di più, e per tutti i popoli, la grande profezia della pace e della realizzazione di una fraternità universale che accoglie veramente tutti. Dal primo incontro di Assisi, 25 anni fa, si sono svolte e si svolgono molte iniziative per la riconciliazione e per la pace, che riempiono di speranza. Purtroppo, però, ci sono state anche molte occasioni perdute,

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molti passi indietro. Terribili atti di violenza e di terrorismo hanno ripetutamente soffocato la speranza della convivenza pacifica della famiglia umana agli albori del terzo millennio, vecchi conflitti covano sotto la cenere o scoppiano nuovamente e ad essi si aggiungono nuovi scontri e nuovi problemi. Se è vero che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità» e che «essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra (cf. At 17,26)» e, ancora, che «essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti (Nostra aetate 1)», noi non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle. Convivere, allora, non sarà semplicemente il nostro destino, bensì il progetto di vita – una vera e propria vocazione – e il grande sogno di Dio che è Padre di tutti, affinché si costituisca, a tutti i livelli, una fraternità universale. D’altronde, questo è stato il sogno di Francesco, il Poverello d’Assisi, tale è la forza – l’utopia e il carisma – dell’umanesimo francescano!


VOCI DI CHIESA di Boutros Naaman

Con te l’Oriente prega... Intervista a Benedetto XVI per il suo viaggio in Libano

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iportiamo ben volentieri l’intervista rilasciata da Benedetto XVI in occasione del suo viaggio apostolico in Libano (1416 settembre 2012), crocevia di popoli e religioni, ove purtroppo non mancano esperienze forti di povertà, di lotte religiose, di azioni terroristiche e dove soprattutto i cristiani soffrono da lungo tempo e sono costretti a scappare in altre parti del mondo. P. Lombardi: Santità, benvenuto e grazie per essere qui con noi. I giornalisti al seguito sono poco più di 50, di diverse lingue e nazionalità. Naturalmente ce ne sono molte centinaia, forse migliaia, che ci aspettano invece in Libano e tutti sono molto attenti a questo viaggio sapendone l’impegno e l’importanza. Le siamo grati per essere con noi per rispondere a delle domande impegnative che i giornalisti stessi hanno formulato nei giorni precedenti. Le prime due domande le formulo in francese. Santo Padre: Cari amici, sono molto lieto e riconoscente per questa possibilità di parlare con voi. Posso dire che nessuno mi ha mai consigliato di rinunciare a questo viaggio e, da parte mia, non ho mai contemplato questa ipotesi, perché so che se la situazione si fa più complicata, è più necessario offrire questo segno di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà. E’ il significato del mio viaggio: invitare al dialogo, invitare alla pace contro la violenza, procedere insieme per trovare la soluzione dei problemi. Dunque, i miei sentimenti in questo viaggio sono soprattutto sentimenti di riconoscenza per la possibilità di andare in questo momento in questo grande Paese, questo Paese che –

come ha detto Papa Giovanni Paolo II – è un messaggio molteplice, in questa Regione, dell’incontro e dell’origine delle tre religioni abramitiche. Sono riconoscente soprattutto al Signore che me ne ha dato la possibilità; sono riconoscente a tutte le Istituzioni e alle persone che hanno collaborato e collaborano ancora per questa possibilità. E sono riconoscente alle tante persone che mi accompagnano con la preghiera. In questa protezione della preghiera e della collaborazione, sono felice e sono certo che possiamo fare un servizio reale per il bene dell’uomo e per la pace. P. Lombardi: Grazie Santo Padre. Molti cattolici manifestano la loro inquietudine dinanzi alla crescita dei fondamentalismi in diverse regioni del mondo e alle aggressioni di cui sono vittime numerosi cristiani. In questo contesto difficile e sovente sanguinoso, la Chiesa come può rispondere all’imperativo del dialogo con l’islam, su cui Lei ha più volte insistito? Santo Padre: Il fondamentalismo è sempre una falsificazione della religione. Va contro l’essenza della religione, che vuole riconciliare e creare la pace di Dio nel mondo. Dunque, il compito della Chiesa e delle religioni è quello di purificarsi; un’alta purificazione della religione da queste tentazioni è sempre necessaria. È nostro compito illuminare e purificare le coscienze e rendere chiaro che ogni uomo è un’immagine di Dio; e noi dobbiamo rispettare nell’altro non soltanto la sua alterità, ma, nell’alterità la reale essenza comune di essere immagine di Dio, e trattare l’altro come un’immagine di Dio. Quindi, il mes12

saggio fondamentale della religione dev’essere contro la violenza, che ne è una falsificazione, come il fondamentalismo, e dev’essere l’educazione e l’illuminazione e la purificazione delle coscienze, per renderle capaci di dialogo, di riconciliazione e di pace. Padre Lombardi: Nel contesto dell’onda di desiderio di democrazia che si è messa in moto in tanti Paesi del Medio Oriente con la cosiddetta “primavera araba”, data la realtà sociale nella maggioranza di questi Paesi, in cui i cristiani sono minoranza, non c’è il rischio di una tensione inevitabile fra il dominio della maggioranza e la sopravvivenza del cristianesimo? Santo Padre: Direi che, di per sé, la primavera araba è una cosa positiva: è un desiderio di maggiore democrazia, maggiore libertà, di maggiore cooperazione, di una rinnovata identità araba. E questo grido della libertà, che viene da una gioventù più formata culturalmente e professionalmente, che desidera maggiore partecipazione nella vita politica, nella vita sociale, è un progresso, una cosa molto positiva e salutata proprio anche da noi cristiani. Naturalmente, dalla storia delle rivoluzioni, sappiamo che il grido della libertà, così importante e positivo, è sempre in pericolo di dimenticare un aspetto, una dimensione fondamentale della libertà, cioè la tolleranza dell’altro; il fatto che la libertà umana è sempre una libertà condivisa, che solo nella condivisione, nella solidarietà, nel vivere insieme, con determinate regole, può crescere. Questo è sempre il pericolo, così è anche il pericolo in questo caso. Dobbiamo fare tutti il possibile perché il concetto di libertà,


Oggi questa è una popolazione sofferente. Oltre alla preghiera e ai sentimenti di solidarietà, Lei vede passi concreti che le Chiese e i cattolici dell’Occidente, soprattutto in Europa e America, possono fare per sostenere i fratelli del Medio Oriente?

il desiderio di libertà vada nella giusta direzione, non dimentichi la tolleranza, l’insieme, la riconciliazione, come parte fondamentale della libertà. Così anche la rinnovata identità araba implica – penso – pure il rinnovamento dell’insieme secolare e millenario di cristiani e arabi, che proprio insieme, nella tolleranza di maggioranza e minoranza, hanno costruito queste terre e non possono non vivere insieme. Perciò penso sia importante vedere l’elemento positivo in questi movimenti e fare la nostra parte perché la libertà sia concepita in modo giusto e risponda a maggior dialogo e non al dominio di uno contro gli altri. Domanda: Santo Padre, in Siria, come tempo fa in Iraq, molti cristiani si sentono costretti a lasciare a malincuore il loro Paese. Che cosa intende fare o dire la Chiesa cattolica per aiutare in questa situazione, per arginare la scomparsa dei cristiani in Siria e in altri Paesi mediorientali? Santo Padre: Devo dire innanzi tutto che non solo cristiani fuggono, ma anche musulmani. Naturalmente il pericolo che i cristiani si allontanino e perdano la loro presenza in queste terre è grande e noi dobbiamo fare il possibile per aiutarli a rimanere. L’aiuto essenziale sarebbe la cessazione della guerra, della violenza: questa crea la fuga. Quindi, il primo atto è fare tutto il possibile perché finisca la violenza e sia realmente

creata una possibilità di rimanere insieme anche in futuro. Che cosa possiamo fare contro la guerra? Diciamo, naturalmente, sempre diffondere il messaggio della pace, chiarire che la violenza non risolve mai un problema e rafforzare le forze della pace. Importante qui è il lavoro dei giornalisti, che possono aiutare molto per mostrare come la violenza distrugge, non costruisce, non è utile per nessuno. Poi direi forse gesti della cristianità, giornate di preghiera per il Medio Oriente, per i cristiani e i musulmani, mostrare possibilità di dialogo e di soluzioni. Direi anche che deve finalmente cessare l’importazione di armi: perché senza l’importazione di armi la guerra non potrebbe continuare. Invece di importare le armi, che è un peccato grave, dovremmo importare idee di pace, creatività, trovare soluzioni per accettare ognuno nella sua alterità; dobbiamo quindi rendere visibile nel mondo il rispetto delle religioni, le une delle altre, il rispetto dell’uomo come creatura di Dio, l’amore del prossimo come fondamentale per tutte le religioni. In questo senso, con tutti i gesti possibili, con aiuti anche materiali, aiutare perché cessi la guerra, la violenza, e tutti possano ricostruire il Paese. P. Lombardi: Santo Padre, Lei porta un’Esortazione apostolica indirizzata a tutti i cristiani del Medio Oriente.

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Santo Padre: Direi che dobbiamo influire sull’opinione politica e sui politici per impegnarsi realmente, con tutte le forze, con tutte le possibilità, con vera creatività, per la pace, contro la violenza. Nessuno dovrebbe sperare vantaggi dalla violenza, tutti devono contribuire. In questo senso, un lavoro di ammonizione, di educazione, di purificazione è molto necessario da parte nostra. Inoltre, le nostre organizzazioni caritative dovrebbero anche aiutare in modo materiale e fare di tutto. Abbiamo organizzazioni come i Cavalieri del Santo Sepolcro, di per sé solo per la Terra Santa, ma simili organizzazioni potrebbero aiutare materialmente, politicamente, umanamente anche in questi Paesi. Direi, ancora una volta, gesti visibili di solidarietà, giornate di preghiera pubblica, simili cose possono richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, essere fattori reali. Siamo convinti che la preghiera ha un effetto; se fatta con tanta fiducia e fede, avrà il suo effetto.


Fede Speciale anno della Fede Sp Perché un anno della fede? Rileggiamo la Porta fidei

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apita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» (BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Porta fidei [11-10-2011], n. 2). L’immediato contesto storico a cui fa riferimento Benedetto XVI nella lettera apostolica Porta fidei, voluta di sua propria iniziativa, e pubblicata in forma di motu proprio, è la crisi di fede vissuta nelle comunità cristiane. La riflessione del papa è una sorta di “confessione pubblica” – un pensare ad alta voce –, quasi una presa di coscienza assieme personale e comunitaria, del grande pericolo che noi credenti stiamo vivendo: dare per scontata la nostra fede e metterne in evidenza solamente quegli aspetti pratici che ci gratificano. Il rischio è grande: «Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cf. Mt 5,13-16)» (Porta fidei, n. 3). Il papa è altresì consapevole dei cambiamenti culturali oramai in atto che certamente non favoriscono l’annuncio del Vangelo e l’affermazione, in ambito so-

prattutto sociale, ma anche politico ed economico, dei valori del cristianesimo. Il tessuto sociale, infatti, a livello mondiale, è sempre più frantumato e pluralista, e lascia poco spazio alla pretesa cristiana. La crisi di fede è legata anche a una certa situazione di marginalità nella quale i credenti in Cristo si trovano a vivere nel mondo e in una società sempre più liquida e priva di una verità assoluta. Diviene difficile anche la ricerca del senso della vita da parte di coloro che si professano atei o agnostici. Il tono accorato di certe espressioni di Ratzinger in questa lettera, rende il testo godibile dal punto di vista letterario e lascia intravedere una certa nostalgia e preoccupazione del presule tedesco sempre attento, da lunghissimo tempo, ai temi della verità, del relativismo e della testimonianza cristiana nel tempo della post-modernità. Tuttavia, questa volta, la riflessione di Benedetto XVI è strettamente ad intra: è in atto un dialogo nella Chiesa cattolica, tra le sue parti, affinché maturi in noi il fatto che «credere in Gesù Cristo [… ] è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza» (Porta fidei, n. 3). Dunque, alla domanda: “Perché un anno della fede?”; dobbiamo rispondere, sinceramente, con la presa di coscienza di un dato di fatto: “C’è una crisi di fede che colpisce le comunità cristiane a tutti i livelli”. «Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede […]. La fede […] cresce quando è vissuta come esperienza di 14

un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare» (Porta fidei, n. 7). 1. La “crisi nella fede” Conviene, all’inizio della nostra riflessione, chiarire anche il concetto di “crisi” che, soprattutto ai nostri giorni, suona con timbri di angoscia e di trepidazione perché evoca una contingenza sfavorevole e pericolosa (soprattutto in ambito economico-finanziario e socio-politico), chiama a interventi risanatori tutte le disponibilità possibili nel settore colpito.


peciale anno della Fede Speciale an scientifica e illuminante, non risolve la situazione di crisi. Infatti, la crisi è una situazione, un modo di collocarsi in rapporto a una realtà. Crisi è una situazione della persona: non la realtà esteriore, ma la persona si situa o si ritrova situata in rapporto di crisi con essa. La crisi è una condizione umana. Come situazione della persona, la crisi è possibile e reale anche a livello dello spirito». Alla luce di queste indicazioni, è giusto affermare che si tratta, nel nostro caso, di una crisi della persona nella sua esperienza di fede. Con rigore non solo verbale, ma anche concettuale e contenutistico, è preferibile parlare di “crisi nella fede” e non della “crisi di fede”, come anche di “crisi nella chiesa” e non “della chiesa”. Si tratta di rileggere, nel bene e nel male, come risorsa-opportunità e rischio, la “crisi nella fede” quale realtà che tocca la persona nel suo essere, nella sua identità di credente, nella sua esperienza concreta di Dio e nella sua missione. L’aspetto positivo è questo: la crisi è sempre recuperabile insieme alla persona dal di dentro. È in quest’ottica che Benedetto XVI parla di «crisi di fede che ha toccato molte persone» (Porta fidei, n. 2). In tal senso, l’anno della fede serve a riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede (cf. Porta fidei, n. 9). Già, non dobbiamo dimenticarlo: la riflessione sulla “crisi nella fede” serve per dare forza e nuovo entusiasmo all’annuncio del Vangelo, alla buona novella della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Per tale scopo, Benedetto XVI ha voluto celebrare l’anno della fede alla luce di due anniversari e un evento molto importante per la missione e l’identità della Chiesa cattolica: il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II (che coincide con l’inizio dell’anno della fede l’11 ottobre 2012); i venti anni della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica (che per papa Benedetto costituisce un vero strumento a sostegno della fede e utile per illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede); la celebrazione dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, nel mese di ottobre 2012, sul tema de La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. La sfida della fede contiene anche quella dell’annuncio e della testimonianza di vita cristiana. È chiaro, allora, che occorre trasformare o rileggere la “crisi nella fede” come evento-luogo d’incontro con Dio e come stimolo per una nuova evangelizzazione. Benedetto XVI tiene a cuore la possibilità di orientare i cristiani nel tempo della crisi e, leggendo, il motu proprio, sembra possibile ricavarne una sorta di decalogo per superare il tempo della crisi. Si fa leva sull’aspetto decisionale della fede: attraversare la porta della fede, che è sempre aperta, è possibile se noi lo vogliamo. È «possibile oltrepassare quella soglia

Krisis, in greco, ha una varietà di significati: è forza distintiva, querela, separazione, scelta-taglio, elezione; indica il giudizio, la contestazione, la contesa, la sentenza, la condanna; è esito, soluzione, riuscita, spiegazione, interpretazione. Il sostantivo deriva dal verbo krino che è altrettanto ricco di significazioni: distinguo, scelgo o preferisco, decido o giudico, interpreto o spiego, stabilisco o risolvo, faccio entrare in fase decisiva, stimo o ipotizzo, valuto. In latino, invece, crisis è circoscritto al concetto di “decisione”. Tuttavia, nella lingua italiana, ci sono delle eccezioni, per cui “crisi” indica anche un cambiamento repentino che è in atto, in meglio o in peggio. “Crisi” è anche sinonimo di turbamento, il momento più acuto di una situazione. La crisi, secondo queste registrazioni, è il punto decisivo, la soglia determinante, la linea di cambiamento d’una situazione. L’etimologia e l’applicazione scientifica dei concetti riscattano la parola “crisi” dall’impiego tenebroso dal quale è consumata. Ma l’esegesi, anche la più

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quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita» (Porta fidei, n. 1). La profonda crisi di cui parla Benedetto XVI è il contesto in cui sarà celebrato l’anno della fede; lo scopo della celebrazione, invece, è quello di «illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede» (Porta fidei, n. 4). Ciò significa che è possibile uscire dalla crisi come pure «riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede» (Porta fidei, n. 7). 2. Come superare la crisi? Come gestire, quindi, la nostra “crisi nella fede”? Innanzitutto, è necessario partire da un sano realismo e situare, quindi, la crisi nella sua dimensione verace. Errori di valutazione circa le cause, il contenuto, l’evolversi e gli ausili della crisi sono fuorvianti. Occorre conoscere se stesso e la qualità della crisi e poi accettare entrambe le realtà, non con paura, né con ipocrisia, né con sorpresa o indifferenza, ma con pace e attiva vigilanza (cf. Sir 3,24). Poi, bisogna percepire come immancabile l’esito positivo della crisi (quindi pensare con ottimismo). Perché lo sbocco di una crisi autentica è il trapasso, spesso faticoso e disagevole, in una situazione differente da quella di partenza, che non sarà peggiore ma tendenzialmente migliore: Dio è fedele e non permette che siamo tentati al di sopra delle nostre forze (cf. 1Cor 10,13). In seguito, occorre valutare la crisi nella sua globalità o situazione esistenziale complessiva per avere una visione di rilievo della crisi stessa. Ancora, è bene conoscere il meccanismo della crisi e gli strumenti ausiliari. La crisi, in tal senso, ha anche una dimensione culturale da non sottovalutare, cioè una formazione e una struttura di mentalità.

La fede, infatti, scriva papa Benedetto, «si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e teconologiche» (Porta fidei, n. 12). È importante, poi, l’esemplarità, osservare cioè l’esperienza della crisi altrui. E qui il papa fa riferimento alla testimonianza dei santi e dei martiri, degli apostoli e della Vergine Maria. Inoltre, è fondamentale condividere la propria esperienza di crisi con gli altri: l’isolamento non giova a nulla, anzi, impoverisce. È bene, poi, sentire la crisi come un momento di purificazione e di crescita interiore, cioè di cammino verso la santità (cf. 1Pt 1,15). Gioca un ruolo decisivo la possibilità di trasformare la crisi in luogo di incontro con Dio, quasi come un’esperienza mistica o d’interiorità (cf. Mt 6,6). Non deve, inoltre, mancare la preghiera come dialogo d’amore e di estrema fiducia con Dio. Nel tempo di crisi giova intensificare la preghiera d’intercessione, anche se deve prevalere lo spirito di preghiera (cf. Ef 5,19). In ultimo, ma non meno importante, è la dimensione dell’attesa: si tratta di guardare con speranza ogni attimo della crisi. La speranza purifica l’attesa da infiltrazioni d’impazienza e d’inerzia. Attesa vuol dire accettazione fiduciosa del domani (cf. Gd 21). Attesa vuol dire anche che in Cristo, morto e risorto, «tutto trova compimento» (Porta fidei, n. 13). 3. Due aspetti della crisi In cosa consiste la “crisi nella fede?”. Ci permettiamo di segnalare, alla luce della lettera apostolica Porta fidei, almeno due aspetti o dimensioni di tale crisi. Il primo aspetto o dimensione riguarda la perdita della prospettiva escatologica della nostra identità di

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battezzati e, quindi, dell’essere chiesa: l’annuncio della passione, morte, risurrezione e manifestazione gloriosa del Signore si è affievolito. È venuta meno la consapevolezza della radicale novità della risurrezione e della vita nello Spirito. Viviamo sempre più in una chiesa che si è addormentata (sleeping Church), assestata nel tempo e che ha messo le sue radici nella storia, nell’oggi. Viviamo la missione come se fosse già compiuta: è venuta meno quella tensione escatologica delle origini che permise ai primi apostoli di portare il Vangelo fuori dalla città di Gerusalemme. La forza dell’annuncio è soprattutto nella tensione escatologica, in quella consapevolezza delle origini cristiane che portava a proclamare, ad alta voce, e con fiducia, Maranathà! Vieni, Signore Gesù! Il processo di secolarizzazione e il disincanto del mondo hanno reso innocuo la forza del kerygma che, nel suo stesso significato primitivo, sta a indicare una reazione, una forte provocazione, che crea delle attese, delle decisioni, delle prese di posizioni, davanti all’annuncio del Vangelo. In tal senso, uscire dalla crisi significa coniugare assieme conversione personale del battezzato come uscita dal peccato e processo di liberazione dalla colpa, e riforma della Chiesa cattolica in tutte le sue istituzioni. Il cristiano che annuncia il Vangelo non è mai da solo, non lo fa come libero battitore. Egli annuncia perché ha alle spalle la Chiesa cattolica intera. Occorre curare il volto della Chiesa cattolica in tutte le sue parti e nel suo insieme come volto-corpo di Cristo. Il secondo aspetto o dimensione riguarda un certo intimismo che ha preso sempre più piede nelle nostre comunità: la fede è diventata un fatto privato, individuale, personalistico, emotivo, soggettivo, e si limita a un “sentire” più che a un “ascoltare con fiducia”. A tal proposito, Benedetto XVI afferma chiaramente che «il cri-


stiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato […]. La chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede a ogni persona […]. La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. È la chiesa, infatti, il primo soggetto della fede […]. “Io credo” è la fede della chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto nel momento del battesimo. “Noi crediamo” è la fede della chiesa confessata dai vescovi riuniti in concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli» (Porta fidei, n. 10). Gestire la crisi nella fede vuol dire riscoprire il senso ecclesiale della fede, il sentirsi parte di un corpo più grande e solidale e responsabili gli

uni verso gli altri. D’altronde, chi non conosce Gesù Cristo s’incontra sempre con il volto pluriforme della Chiesa cattolica: quello delle persone concrete impegnate nell’annuncio del Vangelo e quello delle istituzioni che appare sempre estraneo e lontano dalla logica del Vangelo, nonché più artificioso e complesso, per niente semplice e, quindi, poco credibile. Le istituzioni della Chiesa cattolica portano il marchio di una storia che, in molti aspetti, non le ha contrassegnate per una sincera ricerca della forma viva del Vangelo e, di conseguenza, hanno bisogno di essere continuamente ripensate affinché la fede sia vissuta in modo più ecclesiale. Lo scollamento tra istituzioni e fede vissuta dai singoli cristiani non favorisce certamente l’annuncio del Vangelo in un mondo che è già cambiato. Da qui anche il

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bisogno di riscoprire il ruolo dei laici quali veri protagonisti nella missione della Chiesa cattolica. 4. Immagini e simboli della fede La prima immagine della fede che ritroviamo nell’incipit del motu proprio Porta fidei è quella della porta. Benedetto XVI afferma che «la porta della fede, che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta. È possibile attraversare quella soglia quando la parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma» (Porta fidei, n. 1). Il simbolo della porta è liberamente ispirato ad At 14,27. Questo testo ci riporta alla fine del primo viaggio missionario di Paolo e considera il ritorno di Paolo ad Antiochia di Siria (cf. At 14,21-28). L’immagine della


porta è qui usata dall’agiografo per raccontare ciò che Dio aveva operato con Paolo e Barnaba e che egli aveva aperto ai pagani la porta per venire alla fede. Il v. 27 è il rendiconto fatto dagli apostoli nell’assemblea comunitaria di Antiochia. Dopo l’attraversamento della Pisidia, regione montuosa a nord-ovest della catena del Tauro, nella cui parte settentrionale si trova Antiochia, Paolo e Barnaba ritornano in Panfilia, nel territorio a sud dei monti del Tauro verso il mare, regione nella quale si trova Perge, dove adesso predicano, e quindi ad Attalia, il porto dove a suo tempo erano approdati e dove s’imbarcarono sulla nave che li portò a Seleucia, porto di Antiochia di Siria. Di lì essi furono presi e consegnati per l’opera della grazia di Dio, quella grazia che nei missionari

aveva prodotto il compimento di quest’opera (cf. 1Cor 15,10), aveva condotto cioè alla svolta verso i pagani, all’apertura della porta della fede per loro. Luca fa comprendere che nel loro viaggio missionario il vero agente era stato Dio. La relazione degli apostoli, il loro racconto, è al tempo stesso un’interpretazione teologica degli avvenimenti: essi raccontano ciò che Dio aveva operato con loro. Dunque, la porta della fede si riferisce all’ingresso dei pagani nella comunità cristiana delle origini. Il successo missionario tra i pagani aveva dimostrato che Dio stesso aveva aperto ai pagani l’ingresso nel popolo escatologico di Dio. L’immagine della porta aperta da Dio s’incontra anche nella terminologia missionaria paolina (cf. 1Cor 16,9; 2Cor 2,12; Col 4,3), però quale im18

magine che descrive l’occasione favorevole che si presenta al missionario. Invece, nel v. 27 si è pensato all’accesso al tempio escatologico del popolo di Dio (cf. 1Cor 3,10s.; Ef 2,20s.), alla fede vista come l’essere cristiani (cf. v. 22b) nell’appartenenza a questo popolo. Se lo stesso Dio ha dischiuso questo accesso (cf. 10,45-47), egli vuole scegliere tra i pagani un popolo per il suo nome (cf. At 15,14). Di conseguenza, non si possono creare difficoltà ai pagani che sorgeranno tra poco ad Antiochia (cf. At 15,19). Il passaggio di questa soglia mette in evidenza anzitutto l’iniziativa gratuita di Dio – perché la fede è dono della grazia del Signore –, poi l’impegno missionario degli apostoli e ancora la libera decisione di chi riceve l’annuncio insieme alla molte tribolazioni che


Paolo e Barnaba dovettero subire. Per Luca è un fatto quasi necessario che l’ingresso nel regno di Dio passi per molte tribolazioni (cf. At 14,22): rientra nel progetto del Signore. L’immagine della porta della fede, sempre aperta, si collega a un altro tema molto importante negli Atti degli apostoli: l’attività di Dio, iniziata nel Primo Testamento e manifestatasi in pienezza nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, continua ora nelle comunità cristiane nate dalla fede nel Risorto. L’ingresso nella chiesa segna, per il battezzato, l’inizio della vita nuova. Da qui l’importanza, per noi, durante l’anno della fede, di approfondire il significato del sacramento del battesimo come partecipazione alla pasqua di Gesù Cristo e inserimento nella vita trinitaria. La seconda immagine che papa Benedetto XVI ci consegna della fede è quella del cammino (Porta fidei, n. 2). La fede è un mettersi in cammino, un vero e proprio pellegrinaggio, sull’esempio di Abramo, di Mosè, dei profeti… In tal senso, la fede è veramente un esodo senza ritorno perché esige un completo uscire da sé per andare verso l’Altro, Dio. Si tratta di un esodo senza pentimento e senza ritorno verso quel Dio ancora straniero che invita, e insieme a un’accettazione di ciò che egli propone, un assenso alle parole della sua verità. Credere non è allora anzitutto accettare qualcosa, bensì accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare noi stessi in un geloso possesso, perché Dio ci abiti, consegnando a lui totalmente la nostra esistenza. È questa l’esperienza di Abramo, nostro padre nella fede; è stata questa l’esperienza di Maria, la Madre del Signore, dei tanti martiri e testimoni della fede del nostro tempo. L’immagine della fede come cammino ci permette di comprendere anche che la fede nasce dall’ascolto della Parola (cf. Rm 10,17) e, quindi, da un profondo dia-

logo con il Signore. Abramo, padre di tutti i credenti, partì senza sapere dove andava e soggiornò nella terra promessa come in un regione straniera (cf. Eb 11,8s.). In tal senso, la fede è anche un rischio: perché si tratta di dare il cuore e non semplicemente di aderire a delle verità rivelate o a un dottrina. Credere è veramente “cor-dare” secondo una felice traduzione medievale. È credere all’impossibile possibilità di Dio. La fede diviene, in questa prospettiva, incontro con una persona viva e dialogo con Dio (Porta fidei, n. 11). La fede è l’apertura del grande e intenso dialogo storico tra Dio e l’uomo, la parola rivolta da Dio all’uomo, che lo costituisce come persona capace di rispondere e che attende da lui una risposta. L’immagine della porta fidei ci fa comprendere che il dialogo tra l’uomo e Dio non può avvenire se non attraverso la sequela e, d’altra parte, la sequela ha il suo fondamento nel dialogo. Tale situazione, del resto, ha già la sua origine nell’atto creativo con cui Dio forma l’uomo. Spesso, l’uomo di fede è capace di compiere scelte e azioni che hanno un valore etico e redentivo o che, comunque, il significato assoluto e autentico di tali azioni può emergere solo dalla coscienza del loro fondamento nel dialogo con Dio. È nella relazione personale con l’Assoluto che possiamo imparare ad agire in modo pienamente responsabile verso gli altri. L’esperienza delle fede, dunque, rivela all’uomo la possibilità della sequela e del dialogo. Al Dio veniente nella storia, alla sua Parola fatta carne, che risuona attraverso gli eventi e le parole intimamente connessi della rivelazione, l’uomo si apre nell’obbedienza della fede con la quale egli si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui

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(cf. DV 5). L’“amen” della fede coinvolge l’uomo nella pienezza della sua libertà e insieme con l’intensità con cui il naufrago si aggrappa allo scoglio nel mare in tempesta. Proprio perché la fede non è qualcosa di astratto, bensì un’esperienza concreta di Cristo, in porta fidei papa Benedetto pone in rilievo il vissuto di fede di alcuni credenti. Interessante il personaggio di Lidia, forse in assoluto la prima cristiana europea (cf. At 16,14). È una commerciante di porpora, il cui nome indica anche la provenienza: è di Tiatira (cf. Ap 1,11; 2,18.24) in Lidia, una città nota per l’industria della porpora. Apparteneva ai timorati di Dio di Filippi. A questa ascoltatrice di Paolo, il quale conduce la conversazione, Dio aprì il cuore: ella aderì alle parole di Paolo, al suo invito alla conversione a cui fece seguito il battesimo che fu amministrato anche ai membri della casa di Lidia (cf. At 16,33; 18,8; 1Cor 1,16). Quella casa divenne il nucleo della nuova comunità. L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente. Paolo si trovava a Filippi e andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne: solamente un cuore aperto alla grazia può essere toccato dal Signore. L’esempio di Lidia ci fa comprendere che la fede è «decidere di stare con il Signore per vivere con lui» (Porta fidei, n. 10). Benedetto XVI presenta anche la fede di Maria come sequela, nonché l’esperienza credente degli apostoli, dei primi discepoli e martiri che donarono la loro vita per testimoniare la verità del Vangelo. Ultimo, ma non meno importante, è il riferimento al giovane Timoteo, discepolo di Paolo, al quale l’apostolo delle genti chiede di cercare la fede (cf. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cf. 2Tm 3,15). In tal senso, questo invito è per tutti noi e ci fa comprendere che la fede è veramente la nostra compagna di vita (cf. Porta fidei, n. 15).


LITURGIA di Cosma Capomaccio

La Vita si rende visibile nella Liturgia

I

l Signore Gesù chiese agli apostoli di manifestare il loro pensiero su di lui e chiese loro: «Voi chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”» (Mt 16, 15-16), e tale espressione di fede Giovanni la ribadisce con decisione: «Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,17-18). Dal momento che il Vivente possiede la vita in proprio: «Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso» (Gv 5,26), ogni celebrazione liturgica è un inno alla Vita,

cioè alla vita secondo lo Spirito, la vita in Cristo risorto visto che lui ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26). Tale affermazione comporta una gioiosa apertura del cristiano alla sorgente della sua vita spirituale, vita che nasce, cresce, si alimenta e matura nella celebrazione liturgica, nella quale il Signore risorto è presente per il fatto che ha dichiarato: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Nel giorno del nostro battesimo, il celebrante ha così pregato: «Fratelli carissimi, per mezzo del battesimo siamo divenuti partecipi del mistero pasquale del Cristo, siamo

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stati sepolti insieme con lui nella morte, per risorgere con lui a vita nuova». Quando nella celebrazione del lucernario nella notte di Pasqua, che Agostino chiama la madre di tutte le veglie, si offre e si consacra a Cristo, splendore del Padre e luce indefettibile, il cero pasquale, che rappresenta Cristo, la luce che spunta dalle tenebre, la luce che rischiara le tenebre, la luce che fuga le tenebre, e lo si accende e il diacono lo introduce nella chiesa e alla sua luce non solo si accendono tutti i lumi dell’aula dell’edificio di culto, ma tutta la celebrazione si svolge nello splendore della sua luce, come mirabilmente canta il preconio pasquale l’Exultet, è il segno evidente della risurrezione di Cristo,


dal momento che lui ha annunciato: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12) La Veglia pasquale, pertanto, è un sublime inno alla Vita che si manifesta attraverso il canto splendido e gioioso del preconio pasquale: «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa…». Rivivendo la Pasqua del Signore nell’ascolto della Parola e nella partecipazione ai sacramenti, Cristo risorto conferma in noi la speranza di partecipare alla sua vittoria sulla morte e di vivere in lui con Dio Padre. Nel prologo, in cui anticipa e pone in evidenza tutti i motivi tematici dell’opera, Giovanni definisce con estrema chiarezza la sua conoscenza e, quindi, la sua coerente fede nel Cristo luce (cf. Gv 1,1-4). A tale affermazione fanno eco le parole di Gesù: «Io

sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14.6). Di quale vita, se non di quella di cui è stato detto: «È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce?» (Sal 36,10). Tutto l’anno liturgico e ciascuna delle feste che lo compongono è riproposizione e contemplazione dell’abbagliante, risplendente e sfolgorante “esplosione di luce del Cristo risorto” che cammina per noi, con noi e in noi nella nostra storia e in quella dell’umanità intera. È proprio la sua luce, lo splendore del Cristo luce del mondo, che, fugando le tenebre dell’ignoranza, della malvagità e dell’errore, vivifica con la sua divina presenza i nostri giorni e la nostra vita e ci dona la possibilità di essere figli del Padre, di crescere in età e grazia e di essere continuamente santificati dallo Spirito. La Chiesa, ekklesia, l’assemblea convocata dallo Spirito per celebrare il mistero di Cristo (cf. At 7,38), che non è un’assemblea formatasi spontaneamente, ma convocata da Dio, e cioè il popolo di Dio organicamente strutturato, cui presiede il sacerdote nella persona di Cristo corpo

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, si riunisce nell’edificio di culto per celebrare, ossia: fa memoria degli eventi di salvezza, li rende e li proclama presenti, comunicandoli ai partecipanti, in tensione verso il definitivo compimento nel secondo avvento del Signore, o parusia. Il giorno del Signore, dunque, il dies dominicus, la Pasqua settimanale, scandisce nel tempo la costante presenza di Cristo che ha detto: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) e diventa nello scorrere dell’anno liturgico il filo conduttore della fede nel cammino del popolo di Dio verso il Regno. Nella celebrazione della Cena del Signore, il giovedì santo, l’orazione colletta, infatti, non solo ci immette immediatamente nell’atmosfera gioiosa della Cena, ma ci propone le valide motivazioni per celebrarla: «O Dio, che ci hai riuniti per celebrare la santa Cena nella quale il tuo unico Figlio, prima di consegnarsi alla morte, affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio, convito nuziale del suo amore, fa che dalla partecipazione a così grande mistero attingiamo pienezza di carità e di vita».


ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

“Pieni di entusiasmo e più ricchi di Te, facciamo tesoro della Tua Parola”

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’estate trascorsa ha portato nell’aria tanta gioia e ’e tanta voglia di vivere. Infatti, ci siamo ritrovati a Cantalice nella Valle Reatina, dal 25 al 29 Luglio, a condividere quest’esperienza meravigliosa con cinquecento adolescenti di tutta Italia, accompagnati dai loro animatori e assistiti dalla nostra presenza di frati francescani che ogni giorno impariamo a condividerne le ansie e le aspettative di bene. Questi ragazzi, che desiderano crescere, cercano unicamente la testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo e la propongono a tanti ragazzi come loro che vivono, per situazioni varie, lontani da Dio. Arrivati a Cantalice, siamo stati accolti dalla gente del posto e dal parroco, con grande gioia ed entusiasmo. I ragazzi hanno contraccambiato l’accoglienza con altrettanta gioia che ha acceso i cuori di quella gente. Basta ricordare la fiaccolata e l’adorazione eucaristica notturna. Tantissima la commozione e la tenerezza per un Dio che viene accolto, adorato e ringraziato nel sacramento dell’Eucaristia non solo da questo mare di ragazzi che sembravano un fuoco acceso, ma dalla gente del paese che ha visto quanto Dio è

grande e che si è stupita di fronte a questo miracolo d’Amore. I ragazzi, durante quei giorni, hanno fatto esperienza della Parola di Dio condivisa e vissuta. Hanno alloggiato nella scuola media del paese, sullo stile della GMG, e hanno dato prova, che ciò che conta è cercare Gesù e il suo Regno. Sempre in quei giorni, non solo i giovani hanno scoperto i luoghi preziosi della testimonianza del Poverello di Assisi, come Fonte Colombo, Poggio Bustone e la Foresta Nera, ma hanno fatto esperienza soprattutto della grandezza di Dio attraverso il sacramento della Riconciliazione, dove s’impara la misericordia e il perdono. L’ultimo giorno, i ragazzi insieme agli animatori hanno preparato nella Piazza di Cantalice una grande festa, dove l’autore e il protagonista è stato Gesù e dove l’elemento principale che ha dato voce a Gesù è stato l’entusiasmo, accompagnato dalla gioia di sentirci e di chiamarci “figli di Dio”. Ancora una volta, questi ragazzi, ci hanno dato una meravigliosa testimonianza di semplicità e di umiltà alla scuola del Poverello d’Assisi. Dio li benedica e li faccia crescere nel suo Amore!

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MISSIONE di Lidia Tetta Cassano

Un’ambulanza per l’India

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razie alla fondazione “Insieme per...”, a padre Angelo Palumbo, assistente spirituale, e a tutti gli associati di Materdomini, luogo santo, dove riposano le spoglie di san Gerardo Maiella. La fondazione, con tanti sacrifici, da sette anni, nel mese di agosto, presenta un grande spettacolo sull’acqua che racconta tutta la vita di san Gerardo con spettacolari effetti di luce e acqua. L’intero incasso va in beneficenza non solo in Italia ma anche all’estero e, quest’anno, è stata donata ai frati conventuali del Kerela un’ambulanza che porta i medicinali nei diversi villaggi curando i malati di Aids e i lebbrosi. Anch’io quando sono andata in India assieme a mia sorella Antonietta e mio nipote don Sandro ho potuto prestare il mio aiuto attraverso questa ambulanza, dando conforto a tante persone ammalate, grazie anche all’aiuto di padre Alphons novello sacerdote francescano conventuale. Report: il 55% della popolazione indiana è povera New Delhi: abissale record negativo dell’India nell’assicurare livelli di nutrizione di base ai poveri, misurato dal nuovo indice internazionale sulla povertà Multidimensional Poverty Index (MPI). Circa 645 milioni di persone, il 55% della popolazione indiana, è povera. Il MPI tenta di andare oltre la povertà del reddito a livello familiare. Esso è composto da dieci indicatori:

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anni di scolarizzazione e figlio registrazione (istruzione); la mortalità infantile e nutrizione (salute); elettricità, pavimenti, acqua potabile, servizi igienici, modalità di cottura e beni (standard di vita). Ogni indicatore di istruzione e salute ha un peso di 1/6, ogni indicatore di tenore di vita un peso di 1/18 sul totale dell’indice. I nuovi dati mostrano che anche negli Stati generalmente percepiti come prosperosi, quali Haryana, Gujarat e Karnataka, oltre il 40% della popolazione è povera. Il Kerala è l’unico stato in cui i poveri costituiscono meno del 20%. Il MPI misura sia l’incidenza della povertà che l’intensità. Una persona è definita se è privata di almeno 3 dei 10 indicatori. Da questa definizione, il 55% della popolazione indiana risulta povera, vicino al valore doppio della tanto vituperata quota ufficiale della povertà quantificata nel 29%. Quasi il 20% degli indiani sono privati di 6 su 10 indicatori. La privazione nutrizionale è a schiacciante maggioranza il fattore più grande della povertà globale. La metà di tutti i bambini in India è sottonutrita secondo il National Family Health Survey III (2005-06). Vicino al 40% sono coloro che vengono definiti poveri anche sotto il profilo nutrizionale. Infatti, il contributo dell’indicatore dell’alimentazione per l’indice MPI complessivo è maggiore a livello urbano che nell’India rurale.


OMELIA di Giuseppe Falanga

Vivere nella vicinanza con Dio Celebriamo la solennità di Tutti i Santi

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ella solennità di Tutti i Santi noi contempliamo il mistero della comunione dei testimoni di Cristo del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Dobbiamo disporci a celebrare il grande mistero della fede e dell’amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio. “Rallegriamoci tutti nel Signore” La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne

la gioia. I santi non sono un’esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio. La Chiesa festeggia la sua dignità di “madre dei santi, immagine della città superna” (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda.

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“Una moltitudine immensa” Nella prima lettura, l’autore del libro dell’Apocalisse li descrive come «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9). Questo popolo comprende i santi dell’Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell’inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l’impulso dell’eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo. Ma «a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?». Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno


di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. Attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: «I nostri santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri» (Discorso 2: Opera Omnia Cistercense 5,364ss). Ecco, dunque, il significato dell’odierna solennità. Guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi, felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere santo significa vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione. Come possiamo divenire santi, amici di Dio? All’interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà. «Se uno mi vuol servire», afferma Gesù, «mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). Chi si fida di lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Cristo, infatti, sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (cf. Gv 12,24-25). L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cf. Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L’esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l’unica vera causa di tristezza e di infelicità per l’uomo è vivere lontano da lui.

scenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il “perdere se stessi”, e proprio così ci rende felici. Le Beatitudini del Regno Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all’annuncio delle Beatitudini. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cf. Mt 5,310). In verità, il Beato per eccellenza è solo lui, Gesù. È lui, infatti, il vero povero in spirito, l’afflitto, il mite, l’affamato e l’assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l’operatore di pace; è lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di morte e risurrezione, di passione e di gioia della risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela – ognuno nelle sue circostanze – anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con lui l’impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell’ago (cf. Mc 10,25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cf. Mt 5,48). Nel Prefazio proclamiamo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino a imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen. Alleluia.

Amare vuol dire “perdere se stessi” La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell’uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cf. Is 6, 3). Nella seconda lettura, l’apostolo Giovanni osserva: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all’amore del Padre celeste con una vita da figli ricono-

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CANTO E MUSICA SACRA La redazione

Il canto che sorpassa la parola... Un nuovo inno popolare dedicato al beato Bonventura da Potenza

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condo la verità del Vangelo e a cercare, come il Poverello d’Assisi, Dio negli ultimi e negli ammalati. Tu, instancabile messaggero di pace e di gioia, sacerdote innamorato del Crocifisso e dell’Eucaristia, fa’ che le nostre famiglie e le comunità religiose riscoprano la fede, la via della sapienza e della perfezione evangelica. Chiedi al Signore, per noi, il dono della guarigione e della conversione: perché gli infermi ritrovino la salute e i peccatori sperimentino la gioia del perdono. Per Cristo nostro Signore. Amen. Nell’inno dedicato al beato Bonaventura è esplicitamente cantato che il fraticello della Costiera è discepolo fedele e modello di santità per noi. Per sua intercessione si chiede al Signore che noi riscopriamo il dono della fede e ci convertiamo. È quanto siamo chiamati a vivere sempre, soprattutto nell’anno dedicato alla fede!

e è vero che il canto sorpassa la parola, perché evoca e celebra il Mistero indicibile che impone il silenzio a colui che si trova innanzi alla forza e alla santità di Dio, non potevamo concludere il giubileo del beato Bonaventura da Potenza in modo migliore. Nato da un momento creativo, il presente inno al Beato è una composizione semplice e orecchiabile di p. Paolo D’Alessandro. Si tratta di una melodia ispirata alla preghiera ufficiale che il Ministro Provinciale di Napoli e Basilicata, p. Edoardo Scognamiglio, preparò per il giubileo bonaventuriano. L’orazione recita così: O beato Bonaventura da Potenza, discepolo fedele del Signore nostro Gesù Cristo, sei per noi e per tutta la Chiesa un modello umile e semplice di obbedienza al Padre e di amore verso i fratelli e il prossimo: aiutaci a camminare se-

Icona del Beato Bonaventura da Potenza (2011) realizzata da Luciana Siotto

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CREDERE OGGI di Pietro De Lucia

Abramo “nostro padre nella fede”

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n esempio concreto della fede ci viene offerto dalla figura di Abramo. Egli, come afferma san Paolo, «ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18). La vita di Abramo si svolge tutta sotto il segno della libera iniziativa di Dio. Dio interviene per primo: sceglie Abramo in una famiglia che «serviva altri dei» (Gs 24,2), lo «fa uscire» da Ur (cf. Gen 11,31) e lo conduce per le sue vie in un paese sconosciuto (cf. Eb 11,8). Questa iniziativa è iniziativa di amore: fin dall’inizio Dio manifesta verso Abramo una generosità senza limiti. Le sue promesse delineano un futuro meraviglioso. L’espressione che ritorna continuamente è: «io darò»; Dio darà ad Abramo una terra (cf. Gen 12,7; 13,15ss; 15,18; 17,8); lo favorirà, lo renderà estremamente fecondo (cf. Gen 12,2; 16,10; 22,17). A dire il vero, le circostanze sembrano contrarie a queste prospettive. Abramo è un nomade, Sara non è più in età di avere figli. Ciò fa tanto più risaltare la gratuità delle promesse divine. Ma il compimento della promessa divina di diventare un popolo grande e importante si fa aspettare molto. Visto che Abramo non riesce ad avere un figlio, nasce la domanda se la parola di Dio sia valida e affidabile o se invece le promesse di Dio non siano che prodotti dei desideri e delle speranze umane. Senza alcuna pietà, Abramo è trascinato in questa crisi, sintetizzata nella domanda se il futuro prospettato da Dio esista davvero (cf. Gen 15,1-5). L’avvenire di Abramo dipende completamente dalla potenza e dalla bontà di Dio, eletto senza alcun merito antecedente. Tutto ciò che gli si chiede è

una fede attenta e intrepida, un’accettazione senza reticenze del disegno di Dio. Questa fede dev’essere purificata e fortificata mediante la prova. Dio tenta Abramo domandandogli il sacrificio di Isacco, sul quale precisamente riposa la promessa (cf. Gen 22,1s). Abramo «non rifiuta il suo figlio, il suo unico» (Gen 22,12.16) – si sa che i sacrifici di bambini erano praticati nei culti cananei –; ma è Dio che preserva Isacco, prendendosi egli stesso la cura di «provvedere l’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8.13s). Così fu resa manifesta la profondità del «timore di Dio» in Abramo (Gen 22,12). D’altra parte, Dio rivelava nella stessa occasione che il suo disegno non è ordinato alla morte, ma alla vita. «Egli non si rallegra della perdita dei viventi» (Sap 1,13; cf. Dt 12,31; Ger 7,31). Un giorno la morte sarà vinta; il «sacrificio di Isacco» apparirà allora come una scena profetica (Eb 11,19; 2,14-17; cf. Rom 8,32). L’obbedienza di Abramo portò alla conferma della promessa (Gen 22,16ss), di cui egli vede abbozzarsi la realizzazione: «Jahve benedì Abramo in tutto» (Gen 24,1). «Nessuno gli fu uguale in gloria» (Eccli 44,19). Non si tratta di una fortuna individuale: la vocazione di Abramo è di essere padre. La sua gloria è nella sua discendenza. Secondo la tradizione sacerdotale, il cambiamento di nome (‘Abram che diventa ‘Abraham) attesta questo orientamento, perché il nuovo nome è interpretato «padre di moltitudini» (Gen 17,5). Il destino di Abramo deve avere ripercussioni vastissime. Poiché Dio non gli nascondeva quel che intendeva fare, il patriarca si è già assunto il compito di intercedere per le città condannate (cf. Gen 18,16-33); la sua paternità estenderà ancora la sua influenza; la sua ir28

radiazione sarà universale: «Nella tua posterità si diranno benedette tutte le nazioni» (Gen 22,18). Meditando su questo oracolo, la tradizione ebraica gli riconoscerà un senso profondo: «Dio gli promise con giuramento di benedire tutte le nazioni nella sua discendenza» (Eccli 44,21; cf. Gen 22,18 LXX). Come quindi i destini dell’umanità peccatrice furono abbozzati in Adamo, così quelli dell’umanità salvata lo sono in Abramo il credente. Nel Nuovo Testamento, Paolo rilegge la figura di Abramo e in particolar modo nella Lettera ai Galati. L’Apostolo interpreta la storia di Abramo alla luce di Cristo e al servizio della sua profonda teologia della storia della salvezza. Abramo non ha di che vantarsi di fronte a Dio, perché è diventato giusto per fede e per pura grazia. Infatti, fu giustificato prima di essere circonciso, perciò il suo rapporto con Dio non dipende dalle opere. Quale beneficiario della promessa divina fondata sulla fede, Abramo ha come suoi eredi i credenti. La fede di Abramo, professata in una situazione disperata, è una prefigurazione della fede dei credenti in Cristo risorto dai morti. Nella figura articolata di Abramo, l’apostolo Paolo trova i motivi fondamentali della sua teologia della giustificazione, che si realizza indipendentemente dalle opere della legge e dalla circoncisione, mediante la sola fede, in modo gratuito, escludente ogni discriminazione tra giudei e pagani.


SPIRITUALITÀ di Clara Fusciello

Io sono in mezzo a loro «

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adonna Chiara molto se dilettava de udire la parola de Dio. E, benché essa non avesse studiato in lettere, nondimeno voluntieri udiva le prediche letterate. E predicando uno dì frate Filippo de Atri, de l’Ordine de li frati minori, essa testimonia vide appresso a santa Chiara uno mammolo bellissimo, e parevale de età quasi de tre anni. Et orando essa testimonia nel suo core che Dio non permettesse che essa fusse ingannata, le fu risposto nel suo core in queste parole: “Io so’ in mezzo de loro”, significando per queste parole come el mammolo era Iesu Cristo, lo quale sta in mezzo de li predicatori e de li auditori, quando stanno et odono come debbono […]. Adomandata per quanto spazio stette lì quello mammolo, respose: per grande parte de la predica. E disse che allora pareva che uno grande splendore fusse intorno alla preditta madre santa Chiara, non quasi de cosa materiale ma quasi splendore de stelle. E disse che essa testimonia per la apparizione preditta sentiva una soavità inesplicabile. E dopo questo, vide un altro splendore, non quasi de quello colore che era el primo, ma tutto rosso, in modo che pareva gittasse fora certe scintille de foco; e circundò tutta la preditta santa, e coperse tutto el capo suo. E dubitando essa testimonia che cosa fusse questa, le fu risposto, non con la voce, ma le fu detto nella mente sua: Spiritus sanctus superveniet in te» (FF 3075-3076). Questa bella testimonianza su Chiara è una spigolatura nelle fonti che raccogliamo dalle parole di suor Agnese di messer Oportulo d’Assisi al processo di canonizzazione. Circa tre mesi dopo la morte di Chiara, infatti, fu istituito il processo per accertare le sue virtù e furono interrogate sia le sorelle che al-

cuni laici di Assisi. Se la testimone riporta l’episodio è certamente perché ritiene che manifesti in qualche modo la santità di Chiara, una santità radicata nel Vangelo e in un clima che riguarda l’intera comunità di San Damiano. La fraternità, infatti, nella sua completezza di sorelle e frati minori, “predicatori e uditori”, è vista, alla luce di Mt 18,20, come il luogo della presenza del Signore, perché “stanno et odono come debbono”. Viene qui spontaneo pensare all’Ammonizione VII, dove Francesco esorta i predicatori a guardarsi dalla ricerca di gratificazioni immediate nell’annuncio della Parola. Ogni scienza, anche quella riguardante la Scrittura, deve essere restituita con la parola e con l’esempio «all’altissimo Signore, al quale appartiene ogni bene» (FF 156). Sì, a S. Damiano conoscevano molto bene gli insegnamenti di Francesco, il suo modo di leggere la Scrittura e la vita, e in questa testimonianza di suor Agnese sembrano riecheggiare i desideri del Santo disseminatati nei suoi scritti. Pensiamo al capitolo 22 della Regola non bollata che ha per tema principale l’accoglienza della Parola di Dio dove Francesco cita espressamente anche Mt 18,20 (FF 61). E soprattutto la Lettera a tutti i Fedeli: «E tutti quelli e quelle finché faranno tali cose [cioè coloro che accolgono le “parole fragranti” del Signore] e persevereranno in esse sino alla fine, riposerà su di essi lo Spirito del Signore, ed egli ne farà sua abitazione e dimora. E saranno figli del Padre celeste, di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando l’anima fedele si congiunge a Gesù Cristo per l'azione dello Spirito Santo. E siamo fratelli, quando facciamo la volontà del Padre suo, che è in cielo. Siamo madri,

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quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo attraverso l’amore e la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio per gli altri» (10,48-52; FF 200). L’ultima parte della testimonianza di suor Agnese mette in evidenza proprio il compimento di queste parole: Chiara è come un’altra Maria, contemplata nell’icona dell’annunciazione; su di lei lo Spirito riposa, perché dimora in lei la Parola, una Parola vissuta. È anche un compimento della piccola forma di vita data da Francesco alle sorelle e da Chiara incastonata nel cap VI della sua Regola: «Vi siete fatte figlie e ancelle dell’altissimo sommo re e vi siete sposate allo Spirito Santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione del santo Vangelo» (FF 2788). Far parte della famiglia di Gesù è una realtà che ci riguarda tutti e non solo i santi. Essi sono per noi come finestre sul cielo, a farci contemplare squarci di bellezza perché innamorandoci anche noi del Sommo Bene, possiamo gustare la «segreta dolcezza riservata agli amici di Dio» (3LAg; FF 2889): la gioia di appartenere al Signore, una presenza viva che ci sostiene in ogni stagione della vita e ci spinge a essere anche noi per chi ci sta accanto quotidiano segno di speranza. Ascoltare e fare la Parola ci rende consanguinei di Gesù!


MISTICA di Raffaele Di Muro

Chiara, pianticella e sostegno di Francesco

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l rapporto tra Chiara e Francesco è perfettamente armonico in uno scambio di amore vero che conduce alla perfezione evangelica. Essi si sostengono reciprocamente nel cammino di unione con Dio e nel compiere la sua volontà. Il servo del Signore aiuta la sua pianticella con i suoi consigli e la sua testimonianza perche ella abbracci lo stile della povertà e della verginità, che favoriscono la comunione totalizzante con il Signore. La strada dell’espropriazione è la dimensione penitenziale che Francesco le indica per rendere possibile una donazione autentica a Dio che necessita il maggior spazio possibile nel suo cuore e nella sua vita. Entrambi hanno due assoluti punti di riferimento in tema di povertà e di espropriazione: il Signore Gesù Cristo e Maria, sua Madre. Essi costituiscono i modelli cui rifarsi per incarnare uno stile di vita povero, secondo il loro meraviglioso esempio. L’immagine di Gesù e Maria poveri sono nel cuore di Chiara e Francesco e della loro amicizia. A sua volta, Chiara prega per la vocazione e la missione di Francesco aiutandolo nei momenti di prova, di dubbio, di croce e di dolore, rivelandosi prezioso sostegno per il cammino di santità del Poverello. Questi è il profeta, il predicatore e il mediatore della divina volontà sulla vita della penitente d’Assisi, la quale, è, a sua volta, attraverso la sua preghiera, “veicolo” perché il santo possa comprendere in che modo seguire il Signore. Emerge, a partire dal Testamento e dalla Regola di Chiara, il ruolo fondamentale e profetico del santo che, con la forza delle sue ammonizioni e del suo vissuto spirituale, indica alla vergine di Assisi la strada della sequela, della virtù, della vita evangelica e della

comunione con Cristo-sposo. In sostanza, il Poverello con le parole, con gli scritti e soprattutto con il suo esempio insiste nel guidare la vergine di Assisi e le sue sorelle secondo un programma di vita, basato sulla ricerca del continuo miglioramento spirituale, attraverso le pratica delle virtù e della preghiera, donando al mondo esterno un’attenzione relativa e alimentare il loro desiderio di vita eterna. Il cammino dei due santi è volto a dare il maggior spazio possibile alla preghiera: si tratta di un vero e proprio itinerario contemplativo che li conduce a scoprire la presenza di Dio in ogni evento della loro esistenza fino a giungere all’unione mistica con il Signore, vertice del loro perso spirituale. La penitenza assume, dunque, una dimensione mistica perché sgombra il cuore da ogni umano e terreno affanno, rendendolo ricettivo al massimo alla benefica azione della grazia che promana dall’amore misericordioso di Dio. Secondo l’insegnamento di Chiara e Francesco, la povertà ha in sé un aspetto sponsale perché consente al fedele di perseguire una comunione con Cristo che diventa il centro e l’assoluto della sua esistenza che riceve la gioia dell’esperienza mistica, come conseguenza di un percorso di ascesi e di spoliazione che lo conducono inesorabilmente all’unione trasformante e indissolubile con l’Altissimo. È questa virtù a consentire ai due santi tre dimensioni fondamentali per la vita spirituale: la comunione d’amore, la sequela e la conformazione rispetto a Cristo. I due santi sono a conoscenza della reciproca fama di santità e si incontrano per camminare insieme nell’amore e nel servizio di Cristo. Chiara si reca da Francesco per attingere alla sua illumi30


nata parola e al suo eloquente esempio. Francesco, invece, nutre il forte desiderio di confermare e rafforzare la sua concittadina del suo percorso di santificazione. Chiara attinge alla sapienza spirituale del santo che è, a sua volta, ispirata alla kenosi di Cristo e, come in uno specchio che riflette l’immagine, ella si sente chiamata a custodire e a trasmette la preziosità degli insegnamenti di colui del quale si definisce pianticella. In sostanza, si specchia nell’immagine di Francesco, che è poi quella del Signore povero e crocifisso, e questa dona al mondo con la sua testimonianza. In definitiva, possiamo affermare che l’amicizia della santa è autentico sostegno per il Poverello. Infatti, la sua accoglienza, il suo ascolto e la sua preghiera sono motivo di forza per il cammino di lui. Chiara, poi, accoglie il santo in tutta la sua persona e ne ascolta docile gli insegnamenti. La preghiera dona forza al cammino dell’uomo di Dio che scopre nella sua pianticella un fondamentale sostegno per la sua missione. Accoglienza, ascolto e preghiera sono le perle preziose che brillano nell’essere autenticamente amica di Chiara. La serva di Dio è per Francesco un “angelo” che lo segue, mediante l’orazione, in ogni sua attività. È il suo ruolo prezioso nel comune cammino di santificazione dei due santi: la consacrata vive in S. Damiano la dimensione della preghiera continua a sostegno di tutta la Chiesa, il Poverello è impegnato per il mondo nell’evangelizzazione attraverso l’annuncio e la testimonianza. Chiara e Francesco “dicono” con forza anche agli uomini e alle donne di oggi che la vera amicizia è caratterizzata dal comune cammino verso la santificazione, alla ricerca della volontà di Dio e all’insegna della massima sincerità e onestà: il loro insegnamento è davvero molto attuale anche ai nostri giorni. Essi condividono in pieno l’essere cercatori dell’amore e della volontà di Dio e, l’uno per l’altra, fungono da mediatori della sua volontà e della sua dilezione.

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POESIE di Silvano Forte

Pensando a Dio Pensando a Dio, odono le mie orecchie cose che non avevano mai udito; vedono i miei occhi cose che non avevano mai visto. E il mio cuore spera. Pensando a Dio, il mai ed il sempre diventano un tutt’uno. L’infinito e l’eterno. Pensando a Dio, guardo una stella: lei non sa che esiste. Io la guardo e mi emoziono. Solo nella mente dell’uomo l’universo acquista un senso. Pensando a Dio, mi vedo incollato su una sfera, guardo il silenzio e mi scopro di-verso in-verso. Pensando a Dio il corpo e l’anima Si sfiorano. Pensando a Dio... SHALOM

Nel marasma Nel marasma, perdo il senso. Non tutto cominciò con la nascita. Ma davvero ci conoscevi da prima? Pensando a Te, squarci d’anima vado cercando. E dimmi, sono unico nei miliardi di anime di oggi o dai secoli e per i secoli? Che ineffabile disegno! Capisco i granellini di sabbia, ma di stelle, ne hai fatte tante? Sarà così, lo hai promesso ad Abramo.

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ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Il carattere francescano delle verità

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ual è l’anima francescana della verità, sia filosofica che teologica? Ha forse una forza vincolante e dominatoria, al punto che colui che enuncia una verità pare che amministri un potere, e colui che la condivide perciò stesso rientra entro la logica di sudditanza? Quando verità e potere fanno tutt’uno? Quando si tratta di verità sostantivata, nel senso che la sostanza di ciò che riteniamo vero ha una struttura e un fondo razionali che ci si limita a esplorare e a proporre, restandone fuori o estranei. È la forza stregante della “verità oggettiva”. È questa, forse, la ragione dell’atteggiamento critico da parte della Chiesa nei riguardi della modernità, o della modernità nei riguardi della Chiesa, sostenute entrambe dalla stessa concezione della verità, e cioè la verità come potere. Verità contrapposte, espressione di due poteri, ugualmente

dominatori e concupiscenziali, alla ricerca entrambi della dilatazione del campo d’influenza. Il problema non è di accoglimento o di rifiuto di certe verità. Il problema riguarda lo stile e questo, a sua volta, l’interpretazione della verità. Occorre metter mano a una diversa concezione della verità, e cioè la verità come forma dell’amore creativo, in ogni campo e a ogni livello. Il che pare costituisca l’anima nascosta, il merito principale e più rilevante del Concilio Vaticano II, non dottrinale ma pastorale. Ora, si sa che “pastorale” viene da pastore e pastore viene da “pastus” o nutrimento, con l’immediata conclusione che con tale Concilio si è inteso mettere a disposizione dell’umanità, come cibo, l’esperienza bimillenaria della chiesa e l’immenso tesoro dottrinale. Tutta la vicenda cristiana è di segno oblativo, nel senso che mira a dare e ad alimentare. Il Verbo incarnato è, infatti, “pa-

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stus et pastor”, cibo e guida. San Bonavenrura scrive: «anche se l’amore divino è lodato e consigliato dalle parole di molti, come pure dagli scritti dei due testamenti, tuttavia viene ispirato dal solo unico Verbo, che è insieme cibo e pastore di tutti [quod quidem est pastus et pastor omnium”», sicché da lui derivano tutte quelle parole e a lui tendono [et omnia illa verba ab eodem sunt et in idem tendunt]» (Unus est Magister vester, n. 26). Due i passaggi rivelatori del cambio di registro interpretativo da parte del Concilio Vaticano II della parola di Dio lungo i tornanti della concretezza esistenziale, nel contesto della distinzione tra forma espressiva e contenuto reale della verità, l’una sempre inadeguata a rendere la ricchezza dell’altro – come si fa a vedere il fondo dell’amore? È luminosa l’affermazione della libertà, come modo d’essere e di


pensare: «Questo concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa» (Dignitatis humanae 2). L’affermazione, però, più comprensiva, ricca di implicazioni, che segneranno in profondità questa nostra epoca della globalizzazione, è quella secondo cui la Chiesa cattolica «nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Lumen Gentium 8). Il passaggio da una concezione esclusivista – nulla salus extra ecclesiam – a una concezione inclusivista della salvezza implica l’implicita ammissione dei percorsi misteriosi attraverso cui lo Spirito si rivela e illumina le strade

degli uomini. È forse questa l’ammissione più esplicita dell’asimmetria tra la verità come forma espressiva – inadeguata e storica – e l’onda salvifica che scorre lungo gli argini storici e definiti di tutti gli uomini. Il tempo è di Dio e lo spazio la sua tenda. Che agisca nella storia è quanto le molte storie della Bibbia dicono in modo inquivocabile. Il mutamento di registro, dunque, non può aver luogo se non si agisce sulla concezione della verità, non più trionfo della logica sul Logos, o del concetto sul dato esperienziale, non, certo, perdendo il ruolo guida della verità, non però a discapito dello slancio esistenziale, senza del quale l’uomo si trova prigioniero della sua fede e vittima della sua ragione. A tale scopo non bisogna pretendere di sapere, ma sapere di non sapere fino in fondo, qualunque sia l’argomento; non disporre di un principio ordinatore che sistematizzi tutto, recintando il territorio. Ciò che è essenziale è il sentir dentro il pungolo di quell’amore redentivo, di cui ogni verità deve essere forma espressiva. È questa la verità francescana. La verità che illumina e riscalda, che lascia tracce da decifrare, senza mai risolversi in sicurezze da amministrare.

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“Quid est veritas?”

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uid est veritas?», ossia “Che cos’è la verità?”. È una celebre domanda di Ponzio Pilato, il quale, però, da quel che ci è dato sapere, non aveva molta fiducia nella verità… Pilato è citato da tutti e quattro i Vangeli canonici, oltre che in testi extrabiblici; ma il passo che più riguarda il nostro argomento si trova nel Vangelo secondo Giovanni (18, 28-38): Gesù, ormai al termine del suo periodo di predicazione, è stato arrestato dalle guardie dei capi dei sacerdoti, portato a casa del sommo sacerdote e sommariamente processato. La conclusione è che Gesù debba morire; ma la pena di morte può essere comminata solo dall’autorità romana… Allora, condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato accetta di mettere a morte Gesù, in nome della politica, per evitare una sollevazione di piazza. Del resto, chi è Pilato? È un funzionario di carriera, interessato al potere, descritto dalle fonti (ad esempio da una lettera dell’ultimo re di Giudea, Erode Agrippa I) come un uomo duro, poco rispettoso della cultura e della religione ebraica, capace di spietate repressioni. Nel passo che abbiamo citato, lo vediamo come uno che domanda “Che cos’è la verità?” e non aspetta la risposta, ma interrompe il dialogo, perché crede che neanche esista una risposta: è uno scettico, insomma. Del resto, a uno come Pilato lo scetticismo si addice: se la verità non c’è, allora non c’è un criterio per giudicare le scelte di chi è al potere; solo il potere giustifica se stesso, solo il potere decide che cosa si debba o non si debba credere. Lo scetticismo è la base ideale per l’assolutismo! “Dalla verità nasce la speranza” diceva il poeta Norwid nella Polonia del XIX secolo, dominata dall’Impero Russo; i regimi totalitari, invece, per togliere ogni speranza di cambiamento, si fondano sulla negazione della verità. Infatti, “L’interesse per la verità è parte costitutiva della democrazia liberale” (Lynch, il cui testo, significativamente, si chiude con la parola “speranza”). Pilato è la testimonianza che senza la verità, o almeno senza la ricerca della verità, senza la fiducia nella verità, non si può vivere.


PASTORALE di Antonio Vetrano

Lasciamo a Dio parlare di Dio

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ncontrarvi, anche se virtualmente, mi spalanca il cuore. Sperimento la beatitudine dell’essere Chiesa (con la “C” maiuscola, l’Ecclesìa, la comunità dei chiamati, il luogo della presenza di Dio, il corpo mistico di Cristo), incontrando i cercatori di Dio, gli appassionati di Cristo. Persone diverse unite dallo stesso sogno: il lieto annuncio, il vangelo, che cambia la vita. Il sogno di Dio. Comunione… E, unendoci nella ricerca, realizziamo la nostra più profonda vocazione: quella di essere creati a immagine e somiglianza della “comunione di Dio”, la Trinità. E ci vuole lo Spirito per capire la Trinità. Ovvio. Ricordo la tenerissima e giovane suora catechista che tentava di spiegare la Trinità, a noi ragazzini di seconda e terza elementare, disegnando un triangolo equilatero e usando l’improbabile addizione: 1+1+1=1. Creando un insanabile conflitto tra scienza e fede! Eppure la fede si basa sulla scienza, non è in conflitto con essa. Poi, con la connaturale simpatia dei bambini nei confronti della matematica, immaginate voi il risultato! Per affrontare il mistero della Trinità ci aiuta più l’emozione che la matematica. Un tuffo in un mare profondo e calmo, o immergersi nel panorama della cima di un’alta montagna in un giorno sereno e limpido… Pericoloso, lo Spirito. Rischia di far diventare intrepidi dei fifoni come i discepoli. E dei litigiosi come i discepoli, una comunione. Così ci tuffiamo nel mistero di Dio. Ora, e solo ora, con la consapevolezza di aver ricevuto lo Spirito, possiamo parlare di Dio. Attenti: non il Dio che c’è da anni nella nostra testa, il Dio in cui credo di credere. Non la mia idea di Dio (mischiando cose sentite, convinzioni personali spessissimo non verificate; esperienze più o meno positive; istinto, cultura; l’ultimo articolo scandalistico sul Vaticano; la trasmissione – orribile! – su presunti miracoli e, verità delle verità, discovery channel; – mamma mia! Dio è proprio un tipaccio. Da rispettare ma da evitare! –), ma il Dio che ci è venuto a raccontare Gesù. Nemmeno il Dio ragionevole e innocuo delle nostre riflessioni moderne (o delle dilaganti mode sincretiste), ma il Dio scandaloso e inimmaginabile di Gesù. Non il Dio rassicurante e conservatore di chi riduce la fede a cultura, ma il Dio sorprendente, che la Chiesa ha accolto e annuncia. Non chi mi riempie la pancia, ma chi mi chiede di mettermi in gioco. Ci siamo fidati di

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Gesù; lo abbiamo seguito; ne abbiamo ascoltato il messaggio affascinante e nuovo; abbiamo – con stupore – visto i gesti prodigiosi della presenza di Dio; abbiamo celebrato la sua passione e morte tragica; abbiamo accolto l’annuncio della sua risurrezione e della sua presenza; infine, abbiamo ricordato la forza dello Spirito che ci permette di scoprire che Gesù è vivo in mezzo a noi… La distanza storica ci aiuta nel comprendere le sue parole. Ci fidiamo veramente di Gesù? Possiamo veramente dargli retta? Crediamo veramente che la sua vicinanza al Padre sia qualcosa di misterioso e radicale (perché, come spesso ci ha ricordato, lui e il Padre sono una cosa sola)? Se sì, amici, ascoltiamo allora la sua esperienza di Dio, lui che professiamo “Signore”! Cioè: Dio può parlarci di Dio. Dio può parlarci di Dio in maniera definitiva. Dio ci rivela nel profondo chi è Dio. E la sorpresa è incredibile: Gesù ci svela che Dio è Trinità. Ci dice che noi vediamo “da fuori” che Dio è unico: in realtà, questa unità è frutto della comunione del Padre con il Figlio nello Spirito Santo. Talmente uniti da essere uno, talmente orientati l’uno verso l’altro, da essere totalmente uniti. Un’armonia. Dio non è solitudine, perfezione immutabile e asettica; non è il sommo egoista bastante a se stesso, ma è comunione, festa, famiglia, danza, compassione, dono, amore, tensione dell’uno verso l’altro. Capite? E solo Gesù poteva farci accedere alla stanza interiore di Dio, solo Gesù poteva svelarci l’intima gioia, ma anche l’intimo tormento di Dio: la comunione. E la Scrittura ci ricorda come, a partire da Israele, questa amicizia tra l’uomo e Dio sia cresciuta fino al dono dello Spirito stesso di Dio in noi. Che cosa significa questa scoperta? Che cosa cambia nella nostra quotidianità? Che ho la ricetta della vita serena! Se Dio è comunione, in lui siamo battezzati e a sua immagine siamo stati creati; questa comunione ci abita e a immagine di questa immagine siamo stati creati. Che grande notizia! Ne comprendete la portata? La Genesi ci ricorda di come Dio si sia guardato allo specchio, sorridendo, per progettare l’uomo. Ma se questo è vero, le conseguenze sono enormi. La solitudine è insopportabile, perché inconcepibile in una logica di comunione. Ed è nostro compito realizzare la comunione di noi stessi, corpo, mente, cuore e anima.


SERAFICO SENTIERO di Renato Sapere

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Illuminato e augustin son quici Che fur dei primi scalzi poverelli Che nel capestro a Dio si fero amici. Morì a Napoli nel convento di S. Orso il 3 ottobre 1226 nello stesso momento in cui ad Assisi moriva san Francesco come egli disse a coloro che lo assistevano. Alcuni anni dopo la morte apparve assieme al Serafico Padre, S. Antonio e ad altri Santi a un frate gravemente ammalato nello stesso convento di S. Orso. Le reliquie furono trasferite poi nelle chiese francescane di Napoli S. Maria la Nova e S. Lorenzo Maggiore. Vir Sanctus et Justus lo definì san Bonaventura.

nizia una nuova rubrica che ci aiuterà a conoscere alcune figure di rilievo della spiritualità francescana.

P. SALVATORE JOVINO (1817-1909 ) O.F.M. Conv. Nato a Nola il 30 ottobre da Stefano e da Illuminata Cefarelli, fu battezzato con i nomi di Santo e Salvatore: a 19 anni entrò nella famiglia francescana conventuale a S. Lorenzo Maggiore in Napoli dove professò il 16-1-1839 e il 12 luglio 1840 fu ordinato sacerdote da mons. Di Pietro, nunzio apostolico presso il re di Napoli Ferdinando II; svolse il suo apostolato a Portici dove rifulse per la povertà, purezza di mente e di cuore e sostava per molte ore in preghiera e in estasi. Abbellì e arricchì la chiesa di S. Antonio in Portici, dove accolse il papa Pio IX esule il 4 ottobre 1849; ebbe molto a soffrire per le incomprensioni dei confratelli e per malattie dolorose come l’artrite, interventi chirurgici e cecità. Fu chiamato padre dei poverelli e morì a 92 anni il 1 ottobre 1909. La sua cella fu trasformata in un primo momento in cappella e, nel 1955, dopo la ricognizione canonica, la sua salma fu trasferita dal cimitero comunale nella chiesa di S. Antonio alla presenza del cardinale Mimmi arcivescovo di Napoli, del capitolo provinciale dei frati e delle autorità cittadine. Nel 2009, padre Oreste Casaburo ha pubblicato una vita documentata del confratello.

S. MARIA FRANCESCA delle CINQUE PIAGHE (17151791) III° Ord. Da Francesco Gallo e Barbara Basini, commercianti, nasce a Napoli il 25 marzo e ne previdero la santità san Francesco de’ Geronimo e S. Giovanni Giuseppe della Croce; ricevette la prima Eucaristia a sette anni e per la sua pietà e pratica delle virtù fu chiamata “santarellina”; e, volendosi consacrare a Dio, divenne terziaria francescana sotto la regola e la direzione dei frati minori che avevano in S. Giovanni della Croce un esempio e un padre. L’8 settembre 1731 cambiò il suo nome di battesimo con quello di Maria Francesca delle Cinque Piaghe per ricordare le sofferenze del figlio di Dio fatto uomo e assimilandosi a lui con digiuni, veglie, penitenze e lavoro continuo. Il cardinale Spinelli la mise alla prova affidandola per sette anni alla direzione spirituale di un sacerdote parroco di tendenze gianseniste; fu devotissima della passione di Gesù e della beata Vergine con il titolo di “Divina Pastora” di cui diffuse la conoscenza e il culto. Morì il sei ottobre a 76 anni e il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Luca a Monte accanto a quello di S. Giovanni della Croce. Pio IX la canonizzò nel 1867.

B. AGOSTINO di ASSISI (+ 1226 ) O. Min. La migliore lode di questo primo discepolo di san Francesco, accolto nell’ordine il 1210 e inviato nel 1216 in Campania come ministro di Terra di Lavoro, che comprendeva a quei tempi anche l’ Abruzzo, lo descrisse Dante nella Divina Commedia al canto XII del Paradiso dove ai versi 130-2 leggiamo:

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NOTIZIE DAL SERAPHICUM di Simone Schiavone

Il seme che muore porta sempre qualche frutto L’esperienza dei professi semplici in Belgio

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conclusione dell’anno scolastico...una stagione di lavoro. Una vecchia ricetta “da genitore” che ha interessato molte generazioni, anche la nostra, ai tempi del liceo come dell’università e che si ripresenta anche nel percorso religioso corrente degli studi filosofici e teologici. Una settimana appena di vacanza, il tempo di lasciare Roma e tornare a casa per salutare parenti e amici, per concedersi qualche giornata di relax, e via con i preparativi per le Fiandre. Ad aspettarci padre Dominique Mathieu, ex custode e responsabile della soppressa delegazione generalizia del Belgio, anagraficamente il più giovane dei 5 superstiti frati della Provincia Belga, nata nel 1558 da un concordato tra le Province di Parigi e di Colonia. La meta del nostro viaggio è Halle, una cittadina a vocazione commerciale alle porte di Bruxelles, ben più nota ai pellegrini che si recano in visita alla Madonna nera con Bambino (1257), tra i primi simulacri della Vergine in Belgio. Nel 1842, i frati minori conventuali sfruttarono la posizione favorevole del luogo per erigervi un convento a pochi metri dalla basilica di Notre Dame, riconosciuto santuario mariano nazionale. A oggi, il Minderbroeders Konventuelenin Halle, intitolato all’Addolorata, è l’ultimo possedimento della soppressa delegazione, mentre quello di S. Antonio in Bruxelles è passato sotto la giurisdizione della Custodia provinciale di

Francia. Quale il destino di questo ultimo convento religioso nella regione delle Fiandre? Quali le scelte da adottare? A noi professi semplici, pianticelle del serafico padre Francesco, l’umile compito di sgombrare del superfluo, raccogliere, documentare e destinare a sorte migliore quanto di libri e documenti d’archivio, arredi e abbigliamenti liturgici, suppellettili varie e opere d’arte ha fatto e ci parla ancoradella storia del convento e della Provincia belga tutta. Lavoro al mattino e al pomeriggio, ma anche altro: comunione di preghiera e fraternità. Giornate uniformate con ritmi regolari: il lavoro era premesso dall’ufficio delle Lodi eterminava con la messa comunitaria e il Vespro; a turno, poi, ci dedicavamo alla preparazione dei pasti, più del dovuto, occasione di confronto e di condivisione delle esperienze, di conoscenza della realtà civile e religiosa belga, di scambio e di apprendimento delle tradizioni dei paesi di provenienza (Belgio, Croazia, Italia). La permanenza presso il convento dell’Immacolata di Halle ci ha permesso di incontrare e di conoscere molte persone, fedeli ma anche parenti e amici di padre Dominique, rappresentando questa un’opportu-

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nità per cimentarsi con la lingua francese, cosa che si sarebbe rivelata più semplice se al lavoro si fosse affiancato un corso di apprendimento della lingua straniera. Non sono mancate uscite turistiche: da Bruges a Gent, dalla vicina Bruxelles con la visita alla sede del Parlamento europeo, da Turnai a Liegi passando per Dinantlungo, il fiume Muse che attraversa la Vallonìa, zona francofona per eccellenza, il tutto accompagnato dall’immancabile approccio con la pittura dei primitivi fiamminghi che in ogni luogo fa da padrona, con l’architettura neogotica e con l’esempio più nobile di scultura italiana in Belgio, rappresentato dalla Madonna con Bambino di Michelangelo Buonarroti.


APPROFONDIMENTI di Vincenzo Picazio

Il coraggio di osare sentieri nuovi La missione della Chiesa oggi

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ttobre è il mese dedicato principalmente alla missione e, per quest’anno, un tempo speciale perché si celebra la XII Assemblea generale ordinaria dei vescovi dedicata alla Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (7/28 ottobre 2012). Il termine “nuova evangelizzazione” fu introdotto da Giovanni Paolo II nel suo viaggio apostolico in Polonia (2/10-6-1979) e poi approfondito nel suo magistero rivolto soprattutto alle Chiese dell’America Latina. Nuova evangelizzazione è intesa non come nuova missione, bensì nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni. La nuova evangelizzazione non è una reduplicazione della prima, non è una semplice ripetizione, ma è il coraggio di osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del

Vangelo. Il continente latino-americano si trovava chiamato in quel periodo a misurarsi con nuove sfide (il diffondersi dell’ideologia comunista, l’apparizione delle sette); la nuova evangelizzazione è l’azione che segue al processo di discernimento con cui la Chiesa in America Latina è chiamata a leggere e valutare la situazione in cui si trova. In questa accezione il termine fu ripreso e rilanciato nel magistero di Giovanni Paolo II rivolto alla chiesa universale. Oggi la chiesa deve affrontare altre sfide, proiettandosi verso nuove frontiere sia nella prima missione ad gentes sia nella nuova evangelizzazione di popoli che hanno già ricevuto l’annuncio di Cristo. 1. Un’azione anzitutto spirituale La nuova evangelizzazione è un’azione anzitutto spirituale: è la capacità di fare nostri nel presente il 38

coraggio e la forza dei primi cristiani, dei primi missionari. È, quindi, un’azione che chiede anzitutto un processo di discernimento circa lo stato di salute del cristianesimo, la rilevazione dei passi compiuti e delle difficoltà incontrate. In un mondo che con il crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi tra loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell’unica e comune missione di annunciare e di vivere il Vangelo. Nuova evangelizzazione è sinonimo di rilancio spirituale della vita di fede delle Chiese locali, avvio di percorsi di discernimento dei mutamenti che stanno interessando la vita cristiana nei vari contesti culturali e sociali, rilettura della memoria di fede, assunzione di nuove responsabilità e di nuove energie in vista di una proclamazione gioiosa e contagiosa del Vangelo di Gesù Cristo.


Nonostante questa diffusione e notorietà, il termine non riesce comunque a farsi accogliere in modo pieno e totale nel dibattito, sia dentro la Chiesa cattolica che dentro la cultura. Nei suoi confronti rimangono alcune riserve come se con questo termine si voglia elaborare un giudizio di sconfessione e una rimozione di alcune pagine del passato recente della vita delle Chiese locali. C’è chi dubita che la “nuova evangelizzazione” copra o nasconda l’intenzione di nuove azioni di proselitismo da parte della Chiesa cattolica, soprattutto nei confronti delle altre confessioni cristiane. Si tende a pensare che con questa definizione si operi un mutamento nell’atteggiamento della chiesa verso chi non crede. La nuova evangelizzazione è, dunque, un’attitudine, uno stile audace. È la capacità, da parte del cristianesimo, di saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni si sono creati dentro la storia degli uomini, per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo. Questi scenari sono stati individuati analiticamente e descritti più volte; si tratta di scenari sociali, culturali, economici, politici, religiosi. 2. Il bisogno di conversione Scrive Benedetto XVI nel motu proprio Porta fidei al n. 6: «L’anno della fede, in questa prospettiva, è un invito a un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cf. At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo a una vita nuova: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi

possiamo camminare in una nuova vita” (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione». La crisi nella fede tocca il cuore della vita cristiana: l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù Cristo e, di conseguenza, la partecipazione alla vita nuova che è iniziata in noi mediante il battesimo. È in pericolo l’identità del cristiano e il contenuto della sua missione: la pasqua di Gesù Cristo, il kerygma delle origini. Dunque, potremmo rispondere alla domanda precedente affermando, come seconda motivazione, che c’è il bisogno di un’autentica e rinnovata conversione al Signore. D’altronde, in questa lettera, il papa intende la fede come «un mettersi in cammino» (cioè un esodo senza ritorno), una sorta di «pellegrinaggio spirituale, interiore», ma anche e soprattutto come «incontro con una Persona che vive nella chiesa» (cioè un avvento senza rimpianto), nonché quale compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. La fede, dunque, nella percezione di Benedetto XVI, è il fondamento – e non un semplice presupposto – del vivere comune ed è «decidere di stare con il Signore per vivere con lui. E questo “stare con lui” introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede» (Porta fidei, n. 10). Dimenticare questo principio di verità ha delle conseguenze terribili per il credente perché può condurre alla perdita della fede e al suo impoverimento. La vita di comunione con il Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo produce una visione completamente nuova della persona e del suo modo di relazionarsi agli altri e di stare nel mondo. È necessario convertirsi a questo nuovo stile di vita,

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che è l’ethos pasquale, come risposta all’ethos trinitario. La conversione non è un’uscita da sé, bensì l’inveramento del proprio essere “in e con gli altri” alla presenza del Signore morto e risorto, rientrando completamente dentro di sé. La conversione consiste nel lasciarsi guardare negli occhi dalla Verità che illumina e rivela il senso della nostra vita e lo innalza verso quell’orizzonte ultimo – DioTrinità – il cui splendore si rivela nella Bellezza. 3. Gesù Cristo, l’evangelizzatore Gesù medesimo, Vangelo di Dio, è stato assolutamente il primo e il più grande evangelizzatore». Egli si è presentato come inviato a proclamare il compimento del Vangelo di Dio, preannunciato nella storia d’Israele, soprattutto dai profeti, e nelle Sacre Scritture. L’evangelista Marco comincia la narrazione connettendo l’«inizio del Vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1,1) con la corrispondenza alle Sacre Scritture: «Come sta scritto nel profeta Isaia» (Mc 1,2). Nel Vangelo di Luca Gesù stesso si presenta mostrandosi, nella sinagoga di Nazaret, come il lettore delle Scritture, capace di compierle in forza della sua stessa presenza: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Il Vangelo secondo Matteo ha costruito un vero e proprio sistema di citazioni di compimento, destinato a far riflettere sulla realtà più profonda di Gesù, a partire da quanto era stato detto per mezzo dei profeti (cf. Mt 1,22; 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4). Al momento dell’arresto, Gesù in persona ricapitola: «Tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nel Vangelo secondo Giovanni i discepoli stessi attestano questa corrispondenza; dopo il primo incontro, Filippo afferma: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti» (Gv 1,45).


ARTE di Paolo D’Alessandro

“Le stelle di Dio”

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’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, avrà inizio l’anno della fede, indetto da Benedetto XVI per riflettere sulla nostra fede e per ritrovare in Dio il centro della nostra esistenza. Pensando a questa proposta del Santo Padre, a me è sorta dentro un’altra domanda: se per l’uomo il centro è Dio, chi è l’uomo per Dio? A questo interrogativo vorrei rispondere condividendo con voi un mio dipinto, frutto di una lunga e meditata riflessione. È una tavola (cm 70x100) a tecnica mista, acrilico e foglia d’oro, dal titolo: “Le stelle di Dio”. L’idea iniziale era nata dal desiderio di trovare un modo per rappresentare la Santissima Trinità oggi. A destra del dipinto vediamo Gesù, il Verbo fatto carne (cf. Gv 1,14), il Dio-umanato (la sua divinità è indicata dall’aureola d’oro). Ha i segni della passione e della morte (le cinque stigmate), ma è risorto e asceso al cielo, e ora si trova di fronte al Padre. Gesù, nel vangelo di Giovanni afferma: «Il Padre nessuno lo ha mai visto […]. Chi ha visto me ha visto il Padre (Gv 1,18; 14,9), per questo ho pensato a una raffigurazione di Dio Padre con le fattezze umane del Figlio, ricoperta però tutta d’oro. L’oro, infatti, indica il cielo, la luce della trascendenza, la divinità assoluta di Dio. Padre e Figlio sono nella comunione delle differenze, perciò non si toccano, ma è lo Spirito Santo, lo Spirito d’Amore, come una colomba (cf. Mt 3,16), che con delicatezza li avvolge e li unisce con le sue ali. Lo Spirito è il soffio (in ebraico ruah), la fluttuante corrente d’Amore che unisce il Padre e il Figlio che insieme sono l’unico Dio. I Tre sono raffigurati dentro una mandorla che,

nell’iconografia cristiana, racchiude la dimensione divina. Questa dimensione divina, però, non è chiusa in se stessa ma attraverso lo Spirito Santo che ci guarda, e che emana i suoi raggi d’Amore in basso, raggiunge tutti gli uomini. E questo Amore se accolto e testimoniato con le opere ai fratelli permette all’uomo di entrare nella comunione della Santissima Trinità. Il centro della mandorla è anche il centro della tavola: “le stelle di Dio”, cioè l’intera creazione redenta, è il culmine di questa creazione che per la Sacra Scrittura è l’uomo. Noi per Dio siamo davvero il centro! 40

L’uomo per Dio è tutto, perché egli tutto si dona a noi. Dio è Amore e per sua natura non può non donarsi e il suo dono è la nostra vita. L’uomo, invece, impara a poco a poco l’arte dell’amore… Una vita basta? La fede ci ammette in questa infinita e divina comunione d’Amore. Il Padre e il Figlio non si guardano perché il loro sguardo è rivolto alle loro “stelle”. Come scriveva sant’Agostino: Noi guardiamo le cose perché esistono, Tu guardandole le fai esistere! E Dio esulta nel donare se stesso, nella danza gioiosa con le “sue stelle”, finalmente redente.


IN BOOK La Redazione

M. BONANATE, Io sono qui. Il mistero di una vita sospesa, Mondadori, Milano 2012, pp. 116, euro 17,50. È un romanzo che si legge tutto d’un fiato e ti cambia la vita. È una storia romantica e drammatica di due coniugi, di cui uno è ridotto da lunga malattia in coma. Attorno al suo letto si crea una vera e propria famiglia. Inizia una nuova riflessione sul significato della vita, sul dono dell’esistenza, sul dolore infinito che ci portiamo dentro quando s’interrompe la comunicazione verbale con le persone che amiamo. Il conforto per la malattia sopraggiunge anzitutto dagli amici ma poi si scoprirà anche da Dio e da coloro che hanno provato atroci sofferenze. Può accadere veramente che il silenzio parli più di tante parole e che il vuoto diventi pienezza e la notte sia chiara come il giorno.

E. FORTUNATO, «Siate amabili». Riflessioni e meditazioni per la vita quotidiana, Messaggero, Padova 2012, pp. 143, euro 11. Il testo raccoglie gli editoriali che il direttore della rivista San Francesco patrono d’Italia ci ha proposto durante gli anni passati. Sono delle belle e semplici meditazioni che toccano i temi più svariati: l’amore, l’amicizia, la vita, la guerra, la giustizia, la pace, la felicità. Il testo s’impreziosisce con la prefazione del cardinale Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. Essere amabili significa riscoprire quella tenerezza che interessò tutta l’esistenza di san Francesco a partire dal suo incontro con il lebbroso e poi con i fratelli che il Signore gli donò.

G. GRIECO, Sopra il cielo di Ravello. 60 anni con il beato Bonaventura da Potenza (1651-1711), presentazione del cardinale J.S. Martins, saggio di J.M. Sallmann, LEV, Città del Vaticano 2012, pp. 238, euro 22. Esce fresco di stampa per i tipi della Libreria Editrice Vaticana l’ultima fatica editoriale di padre Gianfranco Grieco, scrittore, giornalista, capo-ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, religioso dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali e, soprattutto, innamorato del beato Bonaventura da Potenza. Il saggio vede la luce a conclusione del giubileo che la Provincia religiosa di Napoli sta celebrando proprio nella memoria del Santo e Pellegrino della Costiera. Chi legge questo libro compie un lungo e affascinante viaggio insieme al Beato, percorrendo e rivisitando i suoi 60 anni di vita. S’intrecciano, così, storia, cultura, arte, fede, poesia, letteratura, spiritualità, missione, e s’incontrano tanti personaggi della Napoli del Seicento e del Settecento. Ci si scontra anche con il pensiero politico e culturale dell’Europa moderna e si ripercorre pure il cammino itinerante nella Provincia Terrae Laboris istituita dallo stesso san Francesco nel lontano 1217. La ricerca di padre Gianfranco, attenta e profonda, offre dati nuovi sulla vita e la storia del Beato… I dati storici e religiosi sono qui presentati con un linguaggio scorrevole, semplice, immediato, permettendone la lettura a un ampio pubblico: esperti di storia francescana, devoti del Beato, storici locali, appassionati di spiritualità, religiosi attenti al carisma francescano… A. PIPERNO, Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi, Mondadori, Milano 2012, pp. 351, euro 20. Questo romanzo racconta la storia dei fratelli Pontecorvo, Filippo e Samuel: inseparabili come i pappagallini che non sanno vivere se non insieme. A nulla valgono le differenze: Filippo, refrattario a qualsiasi attività non riguardi donne, cibo e fumetti; Samuel, determinato e brillante negli studi ma impacciato con le donne. I loro destini sembrano invertirsi e qualcosa per la prima volta s’incrina. Inseparabili è la storia di una famiglia che deve lottare con l’amore e il rancore, il lutto e la solitudine, fino alla resa dei conti. È un romanzo sorprendente, ironico, emozionante, percorso da una grande felicità narrativa. Continua a pagina 46

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EVENTI

Assisi, professione

dei novizi, 8 sette

mbre 2012

Fossanova, ritiro dei frati di Salerno

Sorrento, festa regionale

Gifra

Assisi, momento di ricreazione, 13 settembre 2012 Assisi, giornate di fraternitĂ , 11-14 settembre 2012

Assisi, celebrazione con le clarisse

Assisi,


Assisi, convegno regionale Araldini, luglio 2012

Sopra: conclusione dell’anno di postulato a Benevento Sotto: visita dei frati a Bruxelles

Montebello, corso di formazione per i giovani professi solenni, settembre 2012

Monteverde, spettacolo

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dell’acqua - agosto 20

Inviate alla nostra redazione via e-mail foto e notizie e saranno pubblicate celebrazione sulla tomba di san Francesco, 14 settembre 2012

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Intervista a Wlater Mazzari: non solo Napoli

ma è un ragazzo che mi sembra già maturo per reggere certe pressioni. È vero che sta accelerando i tempi in modo clamoroso. Non dimentichiamo che passare dalla Serie B alla Serie A, che in questo caso rappresenta anche la sua città, pur avendo fatto una grande annata, è un passo enorme. Quindi va aiutato affinché questo passo lo assorba nel migliore dei modi per poi poter crescere e fare una carriera ancora più luminosa. Che cosa ti impressiona tecnicamente di più di Insigne? Insigne è un giocatore che è adatto a questa era del calcio, è una ragazzo che pensa prima alla squadra che a sé stesso, è un generoso, è uno che corre tanto, è una punta in movimento e che aiuta tanto i compagni. Poi ha una tecnica sopraffina. Ti ha sorpreso il ritorno di Zeman in Serie A? No, non mi ha sorpreso, in questo calcio sono i presidenti che fanno le scelte. Non lo conosco direttamente, ma ne ho sentito parlare tanto. Ho studiato all’inizio il suo calcio. A me piacciono gli allenatori che danno un’impronta alla loro squadra e lui è uno di questi. È normale che possa allenare in Serie A. Il rapporto tra te e Mourinho è migliorato, vi siete anche fatti i complimenti… Ho sempre parlato benissimo di Mourinho. Quando è arrivato all’Inter ho detto che meritava di allenare una piazza così importante perché il suo passato aveva fatto sì che potesse ambire e meritare certe squadre. Quindi avevo parlato bene, poi c’è stato solo un episodio in cui io avevo visto la partita in modo diverso rispetto a come l’aveva vista lui e ci fu questo battibecco che si è chiuso nel migliore dei modi quando lui stesso ha riconosciuto che il Napoli in Champions aveva giocato molto bene. E con Allegri? Credo che a volte il confronto sia bello. Quando un allenatore fa gli interessi della propria squadra e l’altro allena la sua non si può sempre essere d’accordo. Poi io con Allegri ho un rapporto normalissimo, una volta chiarite le cose finisce tutto lì. Il ruolo di allenatore manager alla Ferguson e alla Wenger ti intriga? Sì, già tendo a fare l’allenatore a 360°, a curare tutto, quindi secondo me se viene data la possibilità a un allenatore che ha certi concetti radicati dentro di sé di esprimere, come fanno in Inghilterra, tutte le proprie conoscenze, potrei avere almeno il carattere e la preparazione giusti per poterlo fare abbastanza tranquillamente in questo momento della mia vita.

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l rapporto con De Laurentiis, i progressi di Insigne, il suo modo di giocare sempre più imitato. Walter Mazzarri parla di questo e non solo ai microfoni di Sky Sport. Ecco un estratto dell’intervista. Cosa si prova a non essere mai stato esonerato? È un record, è come aver vinto qualcosa d’importante perché l’allenatore è sempre il primo a pagare. Se tu non hai mai avuto un esonero vuol dire che hai fatto contenti tutti, i tifosi, il presidente. È chiaro che tutto viene fatto bene se i giocatori ti seguono. Questo è il segreto a cui secondo me deve pensare un allenatore: allenare bene i propri giocatori, poi tutto il resto viene di conseguenza. A chi ti senti di dire grazie? Io devo ringraziare Ulivieri, che mi ha dato la possibilità di formare quelle che sono le capacità più evidenti di fare dapprima l’osservatore, poi l’allenatore in seconda. Credo che tutti questi ruoli mi abbiano aiutato, formato e abbiano fatto sì che fosse evidente che sono adatto a fare questo mestiere. La bicicletta me l’ha data Ulivieri. Credo di aver ripagato la possibilità che mi ha dato perché poi alla fine sono andato con le mie gambe. Sei orgoglioso del fatto che molte squadre abbiano adottato il tuo stesso sistema di gioco? Io non posso nascondere di essere orgoglioso perché ho puntato a fare l’allenatore in un certo modo, ho sempre creduto in quello che ho fatto e sono dodici anni che porto avanti questo sistema di gioco, questo atteggiamento tattico e nel tempo qualcuno addirittura mi ha detto che poteva essere un limite perché il calcio andava in un’altra direzione. Io, rimanendo fermo sui miei pensieri, ho visto che dopo tanti anni il calcio si sta convertendo. Questo per me è motivo di grande soddisfazione. C’è un rimpianto legato alle tue 300 panchine da allenatore? Mi è dispiaciuto non essere tornato in Champions per pochissimo l’anno scorso, soprattutto con la partita di Bologna, ma anche per qualche punto precedentemente buttato al vento un po’ per leggerezza. Il tuo rapporto con De Laurentiis. Credo che il mio rapporto con De Laurentiis possa essere definito come due treni che vanno paralleli ma non si incrociano mai. Quindi, un confronto bello, forte, ma che nelle cose importanti converge nella stessa direzione. Insigne, che tu hai fatto esordire in Serie A, può raccogliere l’eredità di Lavezzi? Non so se Insigne diventerà forte come Lavezzi o se avrà il tempo e il successo che Lavezzi ha avuto qui a Napoli, 44


di Giuseppina Costantino

Io e te Intervista a Bernardo Bertolucci

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itorno all’azione per il maestro Bernardo Bertolucci che, dopo essere transitato da Cannes nove volte, l’ultima per ritirare un premio alla carriera, stavolta approda alla Croisette per presentare il suo ultimo film, evento speciale fuori concorso della manifestazione. La genesi di Io e te è piuttosto particolare. Il film, adattamento letterario del romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti, è stato inizialmente pensato per essere girato in 3D. Bertolucci, da anni inattivo a causa della malattia che lo ha colpito, ha deciso di tornare a fare cinema dopo essersi innamorato del romanzo dell’autore di Io non ho paura e ha ipotizzato la possibilità del 3D per accentuare il senso di intimità tra i due giovani interpreti, entrambe scoperte del regista, la bionda Tea Falco e il giovane Jacopo Olmo Antinori. I due attori in erba sono presenti a Cannes insieme a Bertolucci, entusiasta all’idea di parlare della sua opera, accolta con entusiasmo dalla critica. Bernardo, è bello vederla tornare a fare film dopo la malattia che l’ha colpito. Bernardo Bertolucci: All’inizio, sapere di essere costretto su una sedia a rotelle è stato difficile, ho vissuto per anni come in uno stato di torpore, ma una volta che l’ho accettato sono tornato a vivere e mi sono detto: “Ok, ora si va a avanti. Facciamo un film!”. La sedia elettrica a rotelle mi permette di muovermi, di girarmi e di dirigere. Aveva annunciato che avresti girato Io e te in 3D per renderlo più intimo. Si, all’inizio ci ho pensato, ma poi mi sono reso conto che cambiare

ogni volta lente e obiettivo mi avrebbe portato via troppo tempo e io volevo girare in fretta. Alla fine credo che il film, pur non essendo in 3D, sia ugualmente venuto in 3D. Dopo The Dreamers - I sognatori torna a realizzare un film sulla giovinezza. Cosa le attrae di questo momento della vita? Mi interessa concentrarmi su qualcosa che cambia. Jacopo è cresciuto di fronte alla macchina da presa e veder qualcuno crescere davanti alla macchina da presa è qualcosa di estremamente commovente. Voi siete d’accordo col vostro regista? Jacopo Olmo Antinori: Sicuramente. Dall’inizio delle riprese alla fine c’è stato un cambiamento, spero in positivo. È qualcosa che ti cambia. Magari riguardandomi tra cinque anni potrò capire meglio cosa mi è successo sul set. Tea Falco: Il mio personaggio è una fotografa come me, come mia madre e anche come Bernardo Bertolucci che mi ha preso dalla mia vita. Lui mi ha detto che gli piacevo perché dentro di me c’era Olivia. Per me lavorare con Bernardo è stata un’esperienza incredibile, lui mi ha formato l’animo. Mi ha modellato rendendomi quella che sono adesso. Bertolucci è un bambino con gli occhi da poeta. Bernardo, lei è un vero poeta. Bernardo Bertolucci: A ventuno anni ho pubblicato un libro di poesie, ma poi ho deciso di non seguire la strada di mio padre perché ho capito che potevo fare poesia con la macchina da presa. Devo ringra-

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ziare i miei attori perché devo molto a loro. Con i loro volti e i loro sguardi sono riusciti a donare molto di più ai loro personaggi rispetto alla pagina scritta. Quando gira è già tutto nella sua mente o lascia spazio all’improvvisazione? La sera prima delle riprese parlo con mia moglie per focalizzare ogni aspetto, per pormi il problema del realismo dei dialoghi e accade qualcosa di straordinario. I personaggi acquistano vita, guadagnano movimento e consistenza. Io non sono illustratore, ma devo trovare il mio spazio nel mondo che narro. Come è stato per voi attori misurarvi con questo tipo di personaggi? Tea Falco: È difficile descrivere le emozioni provate sul set. Bernardo è la persona più bella che abbia mai incontrato sia per la sua umanità che per il suo talento. Abbiamo vissuto un momento di malinconia grandioso. È come se Bernardo avesse tirato fuori dei frammenti che erano già dentro di noi e li avesse ricuciti in modo perfetto. Jacopo Olmo Antinori: Per me era la prima esperienza, ma sul set di Bernardo si sente un’energia stranissima, un’armonia, è qualcosa che succede una volta sola nella vita. Io e te parla anche di solitudine e di emarginazione. Come è stato entrare nella mente di un ragazzo di quattordici anni? Bernardo Bertolucci: Io penso di essere un caso di sviluppo arrestato, non sono mai cresciuto, perciò non mi è così difficile. In più, il libro di Niccolò Ammaniti è scritto in prima persona, noi siamo sempre nella mente di Lorenzo. A un certo punto, però, ho scelto di allontanarmi dal libro, soprattutto nella fine di Olivia. Io ho capito che non andava bene farla morire nel film e ho deciso di prendere una strada diversa.


IN BOOK La Redazione E. SCOGNAMIGLIO, Tutto ciò che si manifesta è luce. Meditazioni biblico-teologiche sul Vangelo di Giovanni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2012, pp. 144, euro 12. A partire dal simbolismo della luce che attraversa come un fil rouge le Sacre Scritture, l’autore di questo bel testo di meditazione rilegge alcune pagine del Quarto Vangelo. Si tratta di incontri con il Cristo che suscitano la fede e fanno pensare: la Samaritana al pozzo, il Cieco nato, Lazzaro, il discorso sul pane della vita, l’adultera… L’idea di fondo è questa: la luce indica il donarsi di Dio all’uomo che crea comunione; le tenebre, invece, stanno a significare ciò che è effimero ed è inconsistente. Accogliere con fede la Parola di Cristo significa lasciarsi illuminare dalla sua luce. Il testo è scritto con linguaggio semplice ed è accessibile a tutti. È consigliato soprattutto a coloro che fanno già esperienza della lectio divina o che vogliono approfondire alcune tematiche tipiche del Vangelo di Giovanni. Il riferimento ai Padri della Chiesa, ad autori cristiani antichi e moderni, come pure a letterati e poeti, rende il saggio prezioso e godibile. U. SARTORIO, Scenari della fede. Credere in tempo di crisi, Edizioni Messaggero, Padova 2012, pp. 131, euro 10. Il volumetto è un prezioso contributo per rileggere veramente la nostra esperienza di Cristo in un tempo difficile ove crisi di senso e crisi economica s’incontrano in un unico e profondo abbraccio. La pesante crisi finanziaria acuisce il deficit di speranza e rende ambiguo, se non inospitale, il terreno sul quale può innestarsi la fede. Ogni crisi, però, riconduce all’essenziale. Lo scopo di questo libro è proprio questo: il nostro tempo è buono per ritornare alle cose che contano. Il tempo, in tal senso, è sempre un evento da considerare come kairos, tempo opportuno per incontrare Cristo, autore e perfezionatore della nostra fede. D. RAI, Goccia a goccia nasce il fiume, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2012, pp. 502, euro18,50. L’autrice di questo appassionato e struggente romanzo ambientato in India, è un’apprezzata giornalista nata e cresciuta a Nuova Delhi. Ora vive tra l’India e Bali insieme al marito e ai due figli. Con questo romanzo, Dipika Rai si è affermata come una grande scrittrice a livello internazionale. Il personaggio chiave di questo romanzo è la ventenne Mamta. È già vecchia dentro, rassegnata al suo destino. Vecchia per sposarsi e per sognare: colpa di sua madre che le ha riempito la testa di canzoni e racconti. Mamta vive nella parte rurale dell’India ed è promessa sposa a un uomo duro e violento. La rassegnazione al male prende il sopravvento in un primo momento. Tuttavia, qualcosa di nuovo sorge all’orizzonte e Mamta prenderà coraggio per scappare di casa e per trovare la vera felicità. Sfidando la morale religiosa tradizionale indiana, Mamta imparerà ad affrontare la vita e a difendersi, diventando protagonista della sua stessa storia. Ella comprende che, diversamente da come dicono gli uomini religiosi, niente è immutabile: con ostinazione, goccia dopo goccia, la corrente si gonfia e travolge ciò che vuole arginare la sua libertà… ANSÂRI DI HERAT, Le cento pianure dello Spirito, (Collana Hiwâr-Dialogo 9), a cura di Carlo Saccone, Messaggero, Padova 2012, pp. 271, euro 20. La prestigiosa e fortunata Collana Hiwâr-Dialogo ha investito molto affinché a un vasto pubblico fossero presentati autori di un certo rilievo spirituale all’interno della tradizione islamica. È il caso di Hansâri di Herat, grande santo e mistico persiano vissuto nel secolo Undicesimo, che rappresenta una guida straordinariamente ricca per introdursi nella mistica islamica. Il professore Carlo Saccone, docente di Lingua e Letteratura persiana all’Università di Bologna e di Storia dei paesi islamici presso l’Università di Padova, ha qui tradotto e curato il trattato Sad Meydân (Le cento pianure dello Spirito) di Hansâri. Attraverso la guida di un esperto shaykh (“direttore spirituale”), il discepolo è condotto pian piano alla scoperta delle cento stazioni della via mistica, dettagliatamente descritte e spiegate nel presente volume che doveva fungere da promemoria per gli allievi e come sintesi degli argomenti per il maestro. In ciascuna pianura, l’autore parte dalla citazione di un passo del Corano che commenta e traduce in pratiche raccomandazioni con lo scopo di aiutare il discepolo a procedere sulla via dell’autoperfezionamento. In tale prospettiva, l’opera di Hansâri è come un vasto commento spirituale al Corano e ci mostra come il testo rivelato a Maometto abbia potuto tanto profondamente ispirare il sufismo fin dai primi secoli. 46


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