Luce Serafica

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Numero 4/2010 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica

La crisi politica e il bene comune

Giovani e libertĂ

Comunione, pastorale e missione

La pietĂ popolare via al dialogo

La famiglia e la spesa pubblica


Beato Bonaventura da Potenza Celebrazione del terzo centenario (1711 - 2011) www.fratiminoriconventualinapoli.it - www.ravellofrancescana.it


Editoriale

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Numero 4/2010 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Sommario 4/2010 Editoriale Luce Serafica di Paolo D’Alessandro Finestra sul mondo di Felice Autieri Voci di Chiesa La redazione Famiglia oggi di Gianfranco Grieco La crisi politica e il bene comune Psicologia di Caterina Crispo Orizzonte giovani di Florinda Cioffi Dialogo di Edoardo Scognamiglio Missioni di Giambattista Buonamano Liturgia di Giuseppe Falanga Dabar di Carmine Vitale Pastorale di Tommaso Barrasso Vocazione di Alfredo Avallone Spiritualità di Raffaele di Muro Asterischi francescani di Orlando Todisco Arte di Paolo D’Alessandro Cinema di Giuseppina Costantino Sport La redazione Eventi La redazione In book La redazione Fumetti La redazione Giovani e libertà

Comunione, pastorale e missione

La pietà popolare via al dialogo

La famiglia e la spesa pubblica

Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006 Anno VI – n. 4/2010 Abbonamento annuale 20 euro. CCP: 15576804, intestato a Luce Serafica, Periodico francescano, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli Direttore Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro E-mail: pdart@libero.it 3

L’arte del ben governare In più occasioni, Benedetto XVI ha affermato che la crisi politica ed economica dell’Occidente dipende da una crisi più profonda che tocca le corde spirituali della persona umana e del suo ethos. Si tratta della crisi della verità, di Dio stesso. Quanto più la cultura laicista tende ad escludere l’orizzonte divino dal proprio approccio alla storia, ai fatti della vita, tanto più l’uomo è minacciato dalla morte e dalla violenza. In questo numero di Luce serafica non potevamo chiudere gli occhi innanzi alla crisi politica che attraversa l’Italia in ogni sua porzione di territorio. È una crisi di valori e non semplicemente una strategia dell’opposizione. Manca una vera progettazione e un’intesa politica adeguata per risolvere i problemi più urgenti della Nazione: la disoccupazione, la sanità, l’impoverimento delle famiglie, l’assistenza sociale… Nella tradizione antica biblica e non, l’arte del ben governare o del saper vivere era espressione di saggezza e di solidità. La sapienza consisteva nella capacità di governare e di amministrare i beni della comunità con giustizia e alla luce dei precetti di Dio, avendo rispetto per i poveri, gli orfani, gli oppressi, gli ultimi, i forestieri. Carità, giustizia e verità costituivano un trinomio inscindibile nel vissuto dei reggitori dei popoli e dei governanti degli stati. Questo stile sapienziale oggi viene a mancare anche nelle forme più avanzate di democrazia e di laicità. Da qui la profonda crisi culturale, morale e spirituale dell’Italia, dell’Europa, dell’Occidente. Abbiamo bisogno di riscoprire l’arte del buon governo, del saper riuscire nella vita: è quanto ci chiedono le famiglie, i giovani, i missionari impegnati nelle zone più povere della terra, i disoccupati, i senza tetto, i migranti, gli anziani abbandonati, gli emarginati… FRA EDOARDO SCOGNAMIGLIO


FINESTRA SUL MONDO di Felice Autieri

I Cristiani e la politica Le ultime diatribe politiche italiane, ovvero i rapporti “problematici” tra Berlusconi e Fini, tale da mettere in crisi l’attuale maggioranza che governa il nostro paese, dovrebbero indurci, oltre a lamentarci dello scarso spessore dei nostri politici, a riconoscere l’assenza di reali contenuti dell’attuale sistema politico italiano, destra e sinistra compresa. Più che ricercare colpevoli o additare ad una generica incapacità di governare o essere in opposizione, ritengo che dovremmo ritornare all’etimologia del sostantivo “politica”, perché penso che abbiamo perso il senso reale di questo termine. Infatti, esso significa nel suo insieme “arte

stato, una regione, una provincia o una città dovrebbe tener conto degli interessi della comunità la cui maggioranza lo ha votato affinché svolga questo servizio. Dinanzi ad un certo “discutibile”

di governare gli stati”, o anche “amministrazione della cosa pubblica” per il bene di una comunità. Quindi, politica significa impegno di chi è chiamato a governare per il bene della comunità, pertanto, partendo da questo punto, chi si candiderebbe a governare uno

costume politico, ritengo che oggi, come cittadini e cristiani, siamo chiamati a recuperare il valore di una politica che è appunto arte del governare a servizio del bene comune. Qualora si partisse da questo punto imprescindibile, ci renderemmo conto quanto sia im4

portante, per un cattolico, il ritorno a un impegno politico che ci renda presenti in una dinamica nuova, ovvero capaci di essere propositivi all’interno di un generale appiattimento della scena politica italiana bisognosa di crescere e maturare le sfide della società contemporanea. Qualora, come credenti, si dovesse scegliere il “basso profilo”, rischieremmo di tenere nel recinto del nostro piccolo “orticello” la ricchezza di un’esperienza di fede e di chiesa che tanto ha dato alla politica italiana di questi ultimi sessanta anni. Oggi è importante formare non soltanto laici impegnati e forgiati da un reale percorso di fede, ma è altresì importante che gli stessi cattolici siano educati ad una formazione politica che non abbia alcun significato di militanza fine a se stessa, ma che ci renda realmente capaci dinanzi alla realtà di oggi, di saper rispondere alle sfide e alle provocazioni del mondo contemporaneo, non in una sterile difesa bensì, in modo attivo, di saper testimoniare i propri valori e il proprio essere cristiani.


VOCI DI CHIESA La redazione

La costruzione della comunione ecclesiale è la chiave della missione Riportiamo, qui di seguito, una parte del messaggio di Benedetto XVI in occasione della giornata missionaria mondiale. Cari fratelli e sorelle, il mese di ottobre, con la celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale, offre alle Comunità diocesane e parrocchiali, agli Istituti di Vita Consacrata, ai Movimenti Ecclesiali, all’intero Popolo di Dio, l’occasione per rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo e dare alle attività pastorali un più ampio respiro missionario. Tale annuale appuntamento ci invita a vivere intensamente i percorsi liturgici e catechetici, caritativi e culturali, mediante i quali Gesù Cristo ci convoca alla mensa della sua Parola e dell’Eucaristia, per gustare il dono della sua Presenza, formarci alla sua scuola e vivere sempre più consapevolmente uniti a Lui, Maestro e Signore. Egli stesso ci dice: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21). Solo a partire da questo incontro con l’Amore di Dio, che cambia l’esistenza, possiamo vivere in comunione con Lui e tra noi, e offrire ai fratelli una testimonianza credibile, rendendo ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15). Una fede adulta, capace di affidarsi totalmente a Dio con atteggiamento filiale, nutrita dalla preghiera, dalla meditazione della Parola di Dio e dallo studio delle verità della fede, è condizione per poter promuovere un umanesimo nuovo, fondato sul Vangelo di Gesù. “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21), è la richiesta che, nel Vangelo di Giovanni, alcuni Greci, giunti a Gerusa-

lemme per il pellegrinaggio pasquale, presentano all’apostolo Filippo. Essa risuona anche nel nostro cuore in questo mese di ottobre, che ci ricorda come l’impegno e il compito dell’annuncio evangelico spetti all’intera Chiesa, “missionaria per sua natura” (Ad gentes, 2), e ci invita a farci promotori della novità di vita, fatta di relazioni autentiche, in comunità fondate sul Vangelo. In una società

multietnica che sempre più sperimenta forme di solitudine e di indifferenza preoccupanti, i cristiani devono imparare ad offrire segni di speranza e a divenire fratelli universali, coltivando i grandi ideali che trasformano la storia e, senza false illusioni o inutili paure, impegnarsi a rendere il pianeta la casa di tutti i popoli. Come i pellegrini greci di duemila anni fa, anche gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti non solo di “parlare” di Gesù, ma di “far vedere” Gesù, far risplendere il Volto del Redentore in ogni angolo della terra davanti alle generazioni del nuovo millennio e specialmente da-

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vanti ai giovani di ogni continente, destinatari privilegiati e soggetti dell’annuncio evangelico. Essi devono percepire che i cristiani portano la parola di Cristo perché Lui è la Verità, perché hanno trovato in Lui il senso, la verità per la loro vita. Queste considerazioni rimandano al mandato missionario che hanno ricevuto tutti i battezzati e l’intera Chiesa, ma che non può realizzarsi in maniera credibile senza una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale. Infatti, la consapevolezza della chiamata ad annunciare il Vangelo stimola non solo ogni singolo fedele, ma tutte le Comunità diocesane e parrocchiali ad un rinnovamento integrale e ad aprirsi sempre più alla cooperazione missionaria tra le Chiese, per promuovere l’annuncio del Vangelo nel cuore di ogni persona, di ogni popolo, cultura, razza, nazionalità, ad ogni latitudine. La comunione ecclesiale nasce dall’incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che, nell’annuncio della Chiesa, raggiunge gli uomini e crea comunione con Lui stesso e quindi con il Padre e lo Spirito Santo (cf. 1Gv 1,3). Il Cristo stabilisce la nuova relazione tra l’uomo e Dio. “Egli ci rivela «che Dio è carità» (1Gv 4,8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento dell’amore. La Chiesa diventa “comunione” a partire dall’Eucaristia.


FAMIGLIA OGGI di Gianfranco Grieco

Spese per la famiglia: Italia fanalino di coda «Spese per la famiglia, Italia ultima in Europa». I titoli a tutta pagina dei giornali del dopo Ferragosto non hanno in verità scosso gli animi più di tanto. Certe notizie vengono rese note soprattutto quando la gente non vuole pensare a nulla e non vuole essere disturbata mentre sta in spiaggia a prendere il sole. Invece, questa notizia, deve scuotere i politici allo sbaraglio che producono un fiume di chiacchiere e non fanno mai i fatti. Rimandano tutto e sempre al domani. Ecco il resto della notizia-lampo. «In Italia, nel 2009, destinato solo l’1, 4% del Pil». L’Italia è il fanalino di coda dell’Unione europea, insieme a Spagna e Portogallo. Nel 2009 ha destinato solo 22- 23 miliardi di euro del prodotto interno lordo per la famiglia e per la maternità. Questa indicazione ufficiale arriva proprio dal ministero dell’economia. Siamo scesi a uno dei livelli più bassi d’Europa anche se rispetto al 2007, quando era dell’1, 2%, la tendenza è in leggera ascesa. Questi dati ufficiali- sostengono coloro che hanno a cuore la famiglia e la vita - certificano il grave disinteresse del governo verso le famiglie. Il dato più aggiornato comparato fra i vari Stati europei è quello del 2007, anche se poi la relazione del ministero italiano dell’economia offre un aggiornamento al 2009 per la sola Italia. Ma, resta evidente, che anche l’1, 4% italiano del 2009 è comunque poca cosa contro il 2,1 % di media nella Unione europea a 15 e il 2 % della comprensiva Unione a 27. Ed è lontano un abisso, dai valori massimi del 3,7 % del Pil speso in Danimarca e del 3 % della Svezia. Ma, la distanza non è solo rispetto ai Paesi scandinavi

che hanno una tradizione di Welfare forte. L’Italia spende la metà della Repubblica Federale di Germania e dell’Austria (2,8%) e della Francia: 2,5%. Solo Regno Unito e Grecia, con l’1, 5% impiegato veleggiano non troppo distanzi dalla spesa italiana. «Convertire per il sociale le spese in armamenti- oltre 40 miliardi -». E ancora: «Con un caccia si possono costruire 64 asili nido» - sostengono giustamente coloro che hanno a cuore il presente e il futuro della famiglia e della vita. Sempre legato alla famiglia e alla vita si registra un altro record italiano in Europa: «boom cesarei, al sud ogni due nascite». L’allarme è grave: «Troppi ricorsi al bisturi». I medici invece dicono: «Si rischia di meno». L’Oms (Organizzazione mondiale della sanità con sede a Ginevra) chiede che gli interventi non superino la soglia del 15%. In Italia invece sfiorano il 38%. Solo un terzo delle operazioni è dovuto a cause cliniche; le altre dettate dal timore di sbagliare. Denuncia, strutture, formazione: questi i tre ambiti che angustiano la «gioia» della maternità e della natività. Denunce: secondo un sondaggio, il primo motivo per cui si fa il cesareo è evitare problemi legali. Strutture: il secondo motivo sono le carenze organizzative delle strutture ospedaliere. Formazione: per il parto naturale i medici denunciano anche una carenza di formazione. Fino a quando bisogna attendere affinché la famiglia e la vita siano al centro delle politiche sociali di un Paese civile che ama e promuove valori «non negoziabili»?

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PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Ansia e disturbi ansiosi... L’ansia può essere definita come un’emozione spiacevole caratterizzata da una sensazione generica di pericolo, ossia il timore che “qualcosa” di brutto stia per accadere, e da sintomi psico-fisici legati a un’attivazione fisiologica. Tra questi ultimi si annoverano la tensione muscolare, la secchezza della bocca, la tachicardia, il respiro affannoso, la sudorazione eccessiva, la sensazione di essere come “congelati” e incapaci di agire in modo veloce e appropriato. 1. I sintomi L’ansia e la paura sono, tuttavia, risposte fisiologiche a situazioni di pericolo, antichissime e fondamentali da un punto di vista evoluzionistico. Alla luce di questa considerazione, l’ansia costituisce un disturbo, ossia una condizione patologica degna di attenzione clinica se (a) il contesto in cui si manifesta è inadeguato e (b) se la sua intensità è tale da interferire con la vita della persona affetta. Le persone con disturbi d’ansia, infatti, provano ansia e paura in contesti che non giustificano tali atteggiamenti: possono essere terrorizzate anche in presenza di minacce lievi o addirittura in assenza di pericolo. Ad esempio, una persona con la fobia dei rettili, proverà terrore anche di fronte a una lucertola o un serpente non pericoloso; un soggetto che ha subito una rapina rivive tutta l’angoscia provata anche trovandosi in un luogo sicuro. Esiste, infine, un continuum tra ansia moderata e ansia estrema, se lungo questo continuum l’ansia raggiunge livelli estremi, impedendo alla persona anche attività della vita quotidiana, si configurano forme patologiche.

2. Le classificazioni I disturbi ansiosi attualmente riconosciuti dagli studiosi ed elencati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR) sono: 1) il Disturbo d’Ansia Generalizzato, caratterizzato da nervosismo cronico e pervasivo; 2) il Disturbo OssessivoCompulsivo, caratterizzato da pensieri o impulsi (le ossessioni) ansiogeni e non voluti e/o da rituali incontrollabili volti a stemperare l’ansia (le compulsioni); 3) il Disturbo da Attacchi di Panico, caratterizzato da episodi multipli di ansia e terrore acuti, riconosciuti clinicamente come attacchi di panico; 4) le Fobie, paure persistenti e irragionevoli per peculiari oggetti o situazioni; 5) il Disturbo Post Traumatico da Stress Acuto e Cronico, che comprendono una varietà di sintomi ansiosi che insorgono al ricordo di esperienze molto traumatiche. 3. Le cause Le cause dei disturbi d’ansia non sono state univocamente identificate, per tale ragione si parla spesso di causalità multiple e si ricorre a cornici teoriche diverse, tutte accomunate dall’enfasi posta sulle complesse connessioni tra mente e corpo. La prospettiva biologica (a) sottolinea il ruolo di fattori genetici, di alcune aree del sistema nervoso centrale, del sistema nervoso autonomo, di neurotrasmettitori (tra cui serotonina e adrenalina). La prospettiva psicodinamica (b) include diversi modelli teorici, tra cui ricordiamo quello freudiano, per cui l’ansia sarebbe una reazione dell’Io alla percezione di pericoli esterni o interni alla vita psichica del soggetto. Le spiegazioni (c) cognitive e (d) com-

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portamentali dei disturbi d’ansia sono più articolate. La prima riposa sui principi del condizionamento classico, condizionamento operante e del modellamento. La trattazione di queste forme di apprendimento esula dalle nostre finalità, ci limitiamo a ricordare che il condizionamento classico presuppone che l’apprendimento avvenga per associazioni mentali automatiche (associazione tra stimolo neutro e stimolo incondizionato), il condizionamento operante è una forma di apprendimento in cui i comportamenti si modellano attraverso ricompense e punizioni; il modellamento è una forma di apprendimento basata sull’osservazione e imitazione dei comportamenti altrui. Secondo la prospettiva comportamentale, dunque, le reazioni ansiose sarebbero dei comportamenti reattivi appresi in seguito all’esposizione a stimoli peculiari e in condizioni specifiche. Le teorie cognitiviste, invece, presuppongono che i comportamenti ansiosi risultino da pensieri distorti e negativi; gli ansiosi avrebbero schemi cognitivi, ossia modelli di ragionamento usati per incamerare le informazioni, rigidi e negativi che li condurrebbe a fissare la propria attenzione sul pericolo e sulle minacce, a sovrastimarne la gravità e sottostimare drasticamente la propria abilità a gestirli. È, infine, opportuno ricordare che i vari approcci teorici all’ansia spesso si sovrappongono e si completano vicendevolmente.


ORIZZONTE GIOVANI di Florinda Cioffi

I giovani e la libertà... Alla scoperta di un progetto di vita Il mondo degli adulti, di quelli che contano, in politica, nelle imprese, nei media, nella cultura, ma anche di quelli che non contano, non si interessa sul serio dei giovani. Invece di aiutarti a diventare un cittadino libero e maturo, invece di offrirti opportunità di studio e di lavoro, lo Stato ti offre modelli non autentici di libertà. I modelli dominanti si riferiscono a concetti di libertà e diritti spinti all’estremo e distorti. Si confonde la libertà con il libertinaggio: fare tutto quello che si vuole, che si prova, che sentiamo a livello emozionale. Diventa difficile capire cosa succede, dove stiamo andando. La società degli adulti sta facendo di tutto per non farci ragionare. La saggezza mi suggerisce che per andare avanti bisogna tornare indietro. Tornare indietro dall’indifferenza, dall’edonismo, dal disprezzo e dal rifiuto delle diversità, dalla cultura del mostrare i muscoli in tutti i campi, dal calpestare gli altri per imporre le proprie convinzioni politiche e religiose, dall’odio e dalla violenza. Andare avanti sulla strada della pace, della giustizia, del dialogo, della condivisione, della passione per la verità, della bontà disarmante, della commozione, per dare una risposta forte e non emotiva alle situazioni che ci interpellano. E sono tanti i ragazzi e le ragazze che “vanno avanti”, che vivono la propria vita come dono da non sciupare, anzi da valorizzare e da restituire. Nel Vangelo di Marco si narra dell’incontro di Gesù con un giovane. Questi pose a Gesù la domanda fondamentale: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (cf. Mc 10,20). Si tratta di una domanda giusta che aiuta a capire che cosa è la libertà: agire secondo il proprio bene. Nel giovane del Vangelo, possiamo scorgere una condizione molto simile a quella di ciascuno di noi. Anche noi siamo ricchi di qualità, di energie, di sogni,

di speranze: risorse che possediamo in abbondanza! La stessa nostra età costituisce una grande ricchezza non soltanto per noi, ma anche per gli altri, per la Chiesa e per il mondo. Il giovane ricco chiede a Gesù: “Che cosa devo fare?”. La stagione della vita in cui siamo immersi è tempo di scoperta: dei doni che Dio ci ha elargito e delle nostre responsabilità. È, altresì, tempo di scelte fondamentali per costruire il nostro progetto di vita. È il momento, quindi, di interrogarvi sul senso autentico dell’esistenza e di domandarci: “Sono soddisfatto della mia vita? C’è qualcosa che manca?”. Come il giovane del Vangelo, forse anche noi viviamo situazioni di instabilità, di turbamento o di sofferenza, che ci portano ad aspirare a una vita non mediocre e a chiederci: in che consiste una vita riuscita? Che cosa devo fare? Quale potrebbe essere il mio progetto di vita? “Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno senso?”. Non dobbiamo avere paura nell’affrontare queste domande! Lontano dal sopraffarci, esse esprimono le grandi aspirazioni, che sono presenti nel nostro cuore. Pertanto, vanno ascoltate. Esse attendono risposte non superficiali, ma capaci di soddisfare le nostre autentiche attese di vita e di felicità. Per scoprire il progetto di vita che può renderci pienamente felici, mettiamoci in ascolto di Dio, che ha un suo disegno di amore su ciascuno di noi. Con fiducia, chiediamogli: “Signore, qual è il tuo disegno di Creatore e Padre sulla mia vita? Qual è la tua volontà? Io desidero compierla”. Siamo certi che ci risponderà. Non abbiamo paura della sua risposta! “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,20)!

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DIALOGO di Edoardo Scognamiglio

La pietà popolare, una via al dialogo interreligioso Durante il mio recente viaggio in Medio Oriente ho avuto modo di ripensare nuovamente al contributo che la pietà popolare può dare con efficacia al dialogo tra persone che vivono fedi differenti. Mi trovavo in Libano per raggiungere il santuario di san Charbel ad Annaya (sopra Biblos), sacerdote maronita: famosissimo tra gli abitanti del Libano. C’è sempre un fiume di pellegrini che, dalla Siria e dalla Giordania, dall’Iran e dall’Iraq, attraversando non pochi pericoli e disagi – non ultimo il deserto e possibili attentati di guerriglie lungo le frontiere –, giunge in preghiera alla tomba di san Charbel. Anch’io ero lì per pregare. Ciò che mi ha colpito è stato il fiotto di gente che accorreva devotamente nel santuario di san Charbel. Ho ammirato i tanti giovani e le molte coppie – sposi novelli – che in silenzio e forte raccoglimento hanno pregato sulla tomba di san Charbel. 1. I santi, segni dell’amore di Dio Il centro dei maroniti è diventato, ad Annaya, un vero e proprio eremitaggio per quanti desiderano trascorre un po’ del loro tempo in raccoglimento e preghiera. Ho notato subito, dall’abbigliamento, la presenza – tra i fedeli – di donne musulmane accompagnate dai rispettivi mariti, nonché di drusi, di sufi. Anche la presenza cristiana è stata notevole: i giovani libanesi frequentano con una certa assiduità il santuario di san Charbel. Sono riuscito a fare qualche domanda nel mio “francese stentato” a una giovane musulmana: “Perché sei qui?”. Rima, è questo il nome della donna, mia ha risposto con molta

semplicità: “Per chiedere a san Charbel la grazia di un figlio”. Yusuf, suo marito, le stringeva forte la mano e assieme hanno recitato una preghiera il cui contenuto non sono riuscito a capire. In fin dei conti, ognuno di noi è alla ricerca della verità, ma prima ancora dell’amore, cioè di qualcuno o di qualcosa che ci liberi dalle nostre sofferenze e ci faccia stare bene o ci renda felici. Di queste e tante altre esperienze se ne possono raccontare a migliaia. Al santuario di Nostra Signora del Libano, ad Harissa, centinaia e centinaia di sposi musulmani salgono fin sopra il monumento per affidarsi alla protezione della madre di Gesù, Myriam. L’8 di settembre è festa grande per il Libano: cristiani e musulmani si rivolgono a Maria per scongiurare ogni forma di guerra e per chiedere la pace nelle famiglie e per tutta la nazione. Mi viene alla mente una giovane donna musulmana che due anni fa, era nel mese di agosto, accompagnò in chiesa, innanzi alla statua della Vergine Maria, la sua bimba – Rulla – che era claudicante dalla nascita. I giornali di Beirut e Biblos ancora ne parlano: la bimba, di circa sette anni, affermò di aver visto la Vergine Maria benedirla e avanzare verso di lei. Di fatti, Rulla oggi cammina: i medici che l’anno visitata non hanno difficoltà a riconoscere tale guarigione come un evento non naturale. Teologicamente, si potrebbe

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tranquillamente parlare di un miracolo. Il dottor Michel Naaman aveva tolto ogni speranza ai suoi genitori. Continuando ancora a scavare nella memoria, ripenso a un gruppo di giovani studenti musulmani che ho incontrato nel mese di giugno a Nazaret: erano ragazzi e ragazze in visita alla cappella dell’annunciazione. Così, delle ragazze ebree si sono ritrovate pure loro a pregare la Vergine nel luogo della dormitio, sempre vicino a Gerusalemme. Ancora, simpatica è la processione di musulmani che a Istanbul raggiunge il santuario di S. Antonio da Padova per invocare il santo francescano, famoso per la sua azione taumaturgica e provvidente. Ho sorriso, al Santo

Sepolcro, quando ho visto una coppia anziana di buddisti pregare sul luogo dove Gesù è morto. Hanno provato a lasciare di nascosto, tra la roccia, una foto del loro nipote ammalato di sclerosi multipla. Che tenerezza! 2. Insieme per pregare Dall’alto delle nostre cattedre ci interroghiamo sulla validità di queste preghiere e ci poniamo interrogativi d’ordine dogmatico. In maniera semplice, la pietà popolare sembra dirci che Dio è Padre di tutti.


MISSIONI di Gianbattista Buonamano

La testimonianza della vita fraterna, prima forma di evangelizzazione Fin dalle sue origini, la spiritualità francescana ha dato un particolare valore alla missionarietà. La missione, per Francesco, è uno “stile di vita” più che un discorso, un andare che esige audacia e fiducia insieme, un uscire da se stessi per affidarsi totalmente al Signore con una speciale attenzione all’evangelizzazione e attenzione agli ultimi. Essere un autentico francescanomissionario non si esaurisce, però, con lo stare in mezzo alla gente dal mattino alla sera; non basta essere “nel mondo”; occorre, invece, esserci “senza essere del mondo”, annunciando i valori evangelici. Una condizione indispensabile per avvicinare il Vangelo agli uomini del nostro tempo è vivere la missione con lo stile della fraternità. Il nostro mondo ha bisogno di segni e di testimonianza forti, e per noi fran-

mento essenziale e costituzionale della nostra vocazione e missione. Da ciò scaturisce che la prima missione, la prima forma di evangelizzazione per ogni francescano, non sono le tante attività e opere, ma la

cescani la fraternità costituisce la prima espressione profetica della missione. Esprimendo la nostra missione attraverso la fraternità, qualifichiamo il nostro carisma, viviamo un ele-

testimonianza di una vita fraterna serena e rispettosa. “Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tutte le creature di Dio. Ecco un tratto caratteristico della spiritualità di Francesco: il 10

senso della fraternità universale e l’amore per il creato” (Benedetto XVI). Stimolati, alimentati, verificati dalla fraternità concreta, in cui celebrare insieme la Parola di Dio, aiutarsi a vicenda a recuperare continuamente l’orizzonte della penitenza evangelica, attraverso il continuo conforto e l’esortazione a perseverare nella via della conversione e a fare le opere di misericordia, nonchè a deciderne i modi insieme, mettendo in gioco tutte le potenzialità personali e di vita fraterna, aiuta a porre al centro della propria attenzione quotidiana i poveri e gli ultimi considerandoli come “fratelli” e riservando loro sollecitudine, amore e la creatività che lo Spirito sa donare. La fraternità, che è un particolare modo di seguire il Vangelo sulle orme di Francesco, ha così una profonda incidenza nella vita missionaria e nella trasformazione della società.


LITURGIA di Giuseppe Falanga

Amici di Dio e una sola grande famiglia... Il primo e il due di novembre sono giorni che parlano del mistero della Chiesa che trascende il tempo. La solennità di Tutti i Santi ci fa pregustare la definitiva comunione che costituisce l’eredità dei salvati nel regno del Padre. La memoria dei defunti ci fa guardare verso quanti ancora si stanno purificando, per essere degni di vedere Dio faccia a faccia. Così, dunque, la solennità di Tutti i Santi e il ricordo dei fedeli defunti formano come un solo richiamo alla preghiera. 1. Il bisogno di purificazione e l’esempio dei santi “Ricordati, o Signore, di liberare la tua Chiesa da ogni male e di renderla perfetta nel tuo amore. Raccogli dai quattro venti la Chiesa che tu hai santificato, nel regno che le hai preparato” (Didachè). La Chiesa pellegrina nel tempo, mentre attende il Signore che viene, impetra la sua benedizione e invoca la misericordia di Dio per i suoi figli, chiedendo l’aiuto dei santi. “A che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?”. Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: “I nostri santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri”. Guardando al luminoso esempio dei santi, si risveglia in noi il grande desiderio di essere come loro: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella

grande famiglia degli amici di Dio. Essere santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II. 2. Come diventare amici di Dio? Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All’interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d’animo di fronte alle difficoltà (cf. Gv 12,26). Chi si fida di lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli, infatti, sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (cf. Gv 12,24-25). L’esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso.

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Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, “sono passati attraverso la grande tribolazione” e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello”. I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cf. Ap 20,12); loro eterna dimora è il Paradiso. L’esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio. 3. Le luci della memoria Ciascuno di noi sa quanto deve ai genitori, agli educatori, agli artefici della cultura, e perciò i luoghi dove riposano le spoglie di queste persone ci sono particolarmente cari. Li visitiamo con il pensiero e con il cuore come fedeli di Cristo che credono nella sua risurrezione. Così, mentre andiamo ricordando, ci tornano alla mente, con molta nostalgia, i canti del “giorno dei morti”, affiorano alle labbra oggi e domani e per tutto il mese di novembre: “Gesù agonizzante nel Getsemani, che versi sudore di sangue, le anime nel purgatorio languiscono, il tuo refrigerio anelano, o Gesù!”. Ed anche: “Salve, Regina del cielo, Madre di misericordia. Salve, nostra speranza nello sconforto e nel dolore [...]. O Gesù, fa’ che ti vediamo dopo la morte. O Maria, ottienici quanto desideriamo”. Nei giorni di novembre, in tutti i cimiteri del mondo, si avvertirà un bagliore particolare. I lumi accesi sulle tombe dei defunti rischiarano la notte: offrono un segno del Cristo luce della vita.


DABAR di Carmine Vitale

«Vegliate e tenetevi pronti» (M

Il tempo di avvento: attesa, veglia, gio Un antico e famoso adagio recita più o meno così: «Bisogna vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo». Non è l’invito a cogliere l’attimo (carpe diem) perché la vita è fugace e il tempo breve. A volte lo è o potrebbe esserlo: perché il tempo passa velocemente, in modo fluido e incerto (panta rei, “tutto scorre”). Né si tratta di condividere la visione pessimistica di quanti non credono ad alcun futuro e sono sconcertati su cosa programmare e come affrontare il tempo che si consuma. L’avvento di Dio che noi celebriamo nel tempo forte è qualcosa di più. È la visione (preparazione) del kairòs, del tempo favorevole, disponibile, adatto, opportuno, per incontrare il Signore che viene. Kairòs indica un tempo – di grazia, perché gratuito, liberamente donato da Dio – che si qualifica diversamente da chronos (la durata di un fenomeno o, per intenderci, il tempo misurato, come quello del calendario che scorre via inesorabilmente e cade nel vuoto o nel baratro del nulla). Dio avviene nella nostra storia come “impossibile possibilità”. Il Signore viene a visitarci oltre le nostre attese e al di là di qualsiasi aspettativa meramente umana, sorprendendoci nella condizione storica ed esistenziale che concretamente viviamo. 1. Un “Dio altro” Se è vero che non possiamo aggiungere più giorni alla nostra vita – perché tutto è nelle mani di Dio, ed è lui il Signore del tempo e della storia, nonché dell’esistenza –, possiamo aggiungere più vita ai nostri giorni. Si tratta di riempire di significato, di va-

lore, il nostro presente e leggere la storia – non solo quella personale, ma altresì e soprattutto quella mondiale – carica di speranza, ritornando a riflettere sul significato autenticamente cristiano del tempo e del progresso. Nella liturgia d’Avvento – attraverso la Parola proclamata – appare come un ritornello l’invito alla veglia e alla preghiera. Il discepolo, avvolto dal mistero di Dio che avviene, è chiamato a tenersi pronto: perché Dio avviene; la preghiera è l’atteggiamento essenziale da assumere, il cor-dare (dare il cuore) che caratterizza il come attendere la venuta del Signore. Al senso dell’attesa vigilante è accompagnato sempre l’invito alla gioia. Così, l’Avvento si caratterizza come un tempo di attesa gioiosa perché ciò che si spera, certamente avverrà. Dio è fedele. Nell’Avvento, tutta la Chiesa vive la sua grande speranza. Ci troviamo a celebrare il tempo liturgico della grande educazione alla speranza. Che cosa significa, concretamente? Innanzitutto, dobbiamo stabilire la differenza tra futurum e adventus. Il futurum indica ciò che noi possiamo programmare e preparare, veicolando l’esito delle nostre aspettative, e determinandone con la volontà l’orientamento e, quindi, il successo. Dio è oltre i nostri programmi: non è il Deus ex machina che viene a confermare o a realizzare quello che ci aspettiamo dal profondo del cuore. Un Dio tappabuchi, che viene a risolvere i nostri problemi e a soddisfare le aspettative umane, semplicemente sarebbe un non-Dio, cioè un idolo che si risolve nelle faccende 12

del mondo, nel chiacchiericcio del cortile e dei mercati. Il Dio che avviene è ben altro! Non è il Dio ultimo, frutto del nostro progresso e delle scoperte della scienza o delle innovazioni della tecnica. È un “Dio altro”: l’Emmanuele (“Dio con noi”). L’Adventus è l’accadere di Dio, la novità del suo intervento nella storia: il credente può solo preparare, cioè accogliere questa venuta, attraverso la comprensione dei segni dei tempi. Adventus vuol dire che la storia è un luogo teologico, cioè lo spazio dove Dio ci parla e si rivela attraverso i fatti della vita umana, l’accadere stesso degli eventi. Mentre il futurum richiama l’anticipazione di quello che saremo attraverso le nostre sole forze e responsabilità, l’adventus rivela il primato dell’accadere o incedere di Dio rispetto al nostro progettare o fare. C’è un agire di Dio che ci precede e comprime la storia, accelerandone il ritmo e il compimento. È il potere del Cristo risorto, della sua signoria sugli uomini e sul mondo. Adventus significa riconoscere l’eccedenza del Mistero – del darsi divino – rispetto alle attese dell’uomo e del mondo. Adventus vuol dire accogliere un Dio-bambino, fragile, fatto uomo, incarnato, e capace di sconvolgere i nostri disegni e i piani degli uomini e delle donne del mondo. 2. Come un ladro di notte L’elemento sorpresa è un dato determinante del Vangelo proclamato nella prima domenica di Avvento. C’è, infatti, un richiamo ai giorni di Noè che precedettero il diluvio: nessuno si accorse del castigo immi-


Mt 24,42-43) oia e speranza nente, di conseguenza molti non si salvarono. Ciò è confermato anche dalla micro parabola del ladro che viene di notte. Da qui la necessità d’essere desti e pronti, vigilanti. Il paragone con il diluvio e i due uomini nel campo, e altresì delle due donne che macinano alla mola, lascia intendere che Gesù, il Figlio dell’uomo, verrà nel nostro tempo, nella condizione in cui ci troviamo. Dio ci sorprende nell’oggi della nostra storia, nella ferialità dell’esistenza, nel quotidiano. Certamente, attendere il Signore Gesù con gioia e speranza non significa provare paura o vivere con il timore di essere raggiunti all’improvviso e, soprattutto, senza possibilità di salvezza. Neanche, però, si può agire da sprovveduti innanzi alla venuta del Signore. I ritmi della nostra vita, sempre più frenetici e per questo alienanti, non favoriscono la nostra preparazione e acuiscono ancor di più il “fattore sorpresa”. Se Dio venendo “ci sorprende” vuol dire che dobbiamo comprendere in cosa consiste la sua venuta. Dobbiamo chiederci perché è così importante il Natale o anche l’avvento definitivo del Signore. In gioco c’è il senso della vita, la nostra felicità: possedere il regno dei cieli o anche contemplare Dio nella sua gloria. È per questo fine che vale la pena preparare la venuta del Signore attraverso una speranza che sia sempre più capace di contagiare il mondo e gli altri! L’invito alla preghiera e alla vigilanza è una costante della vita di Gesù e un richiamo rivolto continuamente ai suoi discepoli. Pur essendo pienamente inseriti nel mondo, non

dobbiamo sottovalutare la dimensione escatologica della vita cristiana: attendiamo cieli nuovi e riconosciamo che la nostra patria è lassù. Il cristiano non può vivere sopraffatto dal tempo e dal lavoro, o dal progresso. Il discepolo di Gesù, infatti, vive nel mondo ma sa di non essere del mondo. L’Avvento sarà un tempo in cui terremo lo sguardo puntato in alto, gridando: “Maranathà, vieni Signore Gesù”. Occorre recuperare una spiritualità del quotidiano, delle piccole cose, proprio perché Dio avviene ogni giorno, sempre! L’immagine negativa del ladro che viene alle ore più impensate presenta un risvolto positivo: possiamo in qualsiasi momento imbatterci nella presenza del Signore e nella sua potente azione di salvezza. “Preparare” la venuta dell’Emmanuele significa, dunque, collaborare con il Signore e non rassegnarsi al male nel mondo. La forza del ladro è proprio nell’oscurità e nella sorpresa: ogni ingresso personale di Dio nella storia è libero e misterioso, non calcolabile. Tutte e tre le letture di questa domenica fanno riferimento alla luce e al sorgere del giorno. Il tempo favorevole, opportuno, il kairòs, è iniziato con Cristo, con la

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sua incarnazione, passione, morte e risurrezione. Allora, oggi dobbiamo convertirci, cambiare vita, accogliere il Cristo presente nella sua Parola, nel Pane spezzato, nei poveri, negli ultimi. 3. Attualizzare la Parola In preparazione al Santo Natale, all’inizio di questo Avvento, è bene porsi alcune domande alle quali possiamo rispondere in modo personale e comunitario. a) Abbiamo fiducia nel Signore che viene a cambiare le sorti dell’umanità? b) Crediamo veramente nella giustizia di Dio? c) La nostra fede ci trasforma giorno per giorno? d) Per ricostruire una città, un’opera, occorre innanzitutto de-costruire, o detto più semplicemente, “smantellare”: che cosa dobbiamo abbattere dei nostri comportamenti? Forse la rassegnazione passiva innanzi al male? Forse, l’amor proprio, l’egoismo? Forse, l’indifferenza? e) Quali sono le opere della luce che personalmente possiamo già compiere? La solidarietà? Gesti di carità e di perdono? Il rinunciare alla violenza, alla vendetta?


PASTORALE di Tommaso Barrasso

«Sapere per dare sapore» I giovani e l’impegno pastorale Carissimi confratelli, innanzitutto un grazie di cuore per la vostra partecipazione al 37° convegno, per la fiducia accordataci nell’organizzarlo, e per la stima che infondete nel nostro animo . Con la vostra presenza ci fate toccare con mano l’entusiasmo per la formazione permanente ,tanto raccomandata dai nostri Superiori. “Sapere per dare sapore” sarà lo” slogan” che ci accompagnerà per tutto il quatriennio in cui cercheremo di servire tutti i parroci dell’area CIMP a gloria di Dio e per l’onore del nostro Ordine. Voglio rivolgere a voi una piccola serie di considerazioni estrapolate dalle “catechesi ai sacerdoti e operatori di pastorale giovanile” di don Tonino Bello, eccezionale e stupendo relatore sia in un nostro convegno che in uno degli incontri dei “giovani verso Assisi”. La pentecoste è una festa sconvolgente, perché provoca l’uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto. Il primo è il complesso dell’ostrica. Siamo troppo attaccati allo scoglio, alle nostre sicurezze, alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana, ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno. Di qui, la predilezione per la ripetitività, l’atrofia per l’avventura, il calo della fantasia. Lo Spirito Santo ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci.

Il secondo è il complesso dell’una tantum. È difficile rimanere sulla corda, sottoporci a conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre solo per un tratto di strada; appena trovata una piazzola di sosta libera ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri personali comodi. Diventiamo borghesi. Lo Spirito Santo , invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri par-

cheggi per metterci sulla strada, subendone i pericoli. Il terzo è il complesso della serialità. Benché si dica il contrario,in fondo, oggi amiamo le cose costruite in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l’esasperazione dello schema, l’asfissia dell’etichetta. C’è un livellamento che fa paura. L’originalità insospettisce. L’estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza con il si14

stema non merita credibilità. Di qui, la crisi della protesta nei giovani e l’estinguersi della ribellione. Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all’accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che Cristo unifica e compone le ricchezze della diversità. Solo chi vive la pentecoste è ricreativo ovunque si trova. Negli anni Settanta del secolo scorso, fu coniato lo slogan: “Parlare di più con i giovani e meno sui giovani”. Chissà se questo appunto è ancora valido! Giovanni Paolo II, grande trascinatore dei giovani. svolgeva la vera pastorale che non è una prerogativa individuale o frutto delle esperienze o congetture personali, ma frutto di comunione. La pastorale o è unitaria o non è pastorale. I giovani sono sensibili a questo linguaggio del papa che afferma tranquillamente l’amore di Dio, malgrado le critiche e i sarcasmi. Parla loro di vita laddove gli altri parlano di morte, di fallimenti, di progettazioni giovanili devianti . La società è infantile con i giovani perché li usa come modelli mentre avrebbero bisogno di punti di riferimento. La società li lusinga ma non li ama a giudicare almeno in base a tutte le abdicazioni di responsabilità educative di cui essi sono vittime Giovanni Paolo II aveva fiducia nei giovani che non chiedono chiacchiere ma condivisioni di contenuti e di esperienze.


VOCAZIONE di Alfredo Avallone

La vocazione sacerdotale e la responsabilità dell’altro

L’anno sacerdotale, ormai concluso, con i suoi “momenti di alta spiritualità sacerdotale” e con altri momenti di “vero scandalo e profonda vergogna”, ha suscitato curiosità e riflessioni tese ad approfondire la natura della vocazione sacerdotale: essa appare un dono di rara bellezza ma anche particolarmente fragile! Abbiamo considerato la prima grande sfida di questa vocazione nel contesto odierno: vivere il tempo sempre orientato alle occasioni di Dio e non alle opportunità personalmente vantaggiose. È da tempo che si parla della solitudine del sacerdote, molto poco si parla, invece, del contesto relazionale in cui il sacerdote opera, posto in una società che su questo versante manifesta forti patologie. Non siamo, forse, tutti figli di una cultura che ha messo radici nell’espressione tanto amata da Jean-Paul Sartre: “gli altri sono l’inferno”? Forse non è proprio così pervasiva questa visione, ma cosa dire di un certo modo di parlare della classe dirigente, della ricerca di delegittimare l’altro solo perché del parere diverso più che di approfondire la verità e di perseguire il bene comune? Come mai tra la gente cresce la sfiducia, la paura dell’altro, cresce l’invidia, la gelosia, la presunzione, cresce la ribellione ed il giustizialismo? In questo contesto sociale e culturale il sacerdote si trova, da una parte, impegnato a portare la libertà di Cristo, dall’altra, a cercare una libertà dagli altri! La tensione è forte ed evidente tanto che termini come individualismo, autosufficienza, autoreferenzia-

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lità, entrano sempre più nel magistero ecclesiale, così come sempre più si punta sulla necessità di un contesto sano e maturo di relazioni umane per la “salute del sacerdote”, come quello della comunità presbiterale, e questo fin dalla formazione nel seminario! Eccoci di fronte a una seconda fondamentale consapevolezza: è necessario riscoprire la responsabilità degli altri e la corresponsabilità sacerdotale, cioè riconquistare la capacità di scegliere di rispondere alla predilezione che Dio ha per me sacerdote affidandomi il ministero del presbiterato, affidandomi i suoi figli, il presbiterio, il vescovo, chiave delle mie consolazioni o desolazioni. L’altro non è “l’inferno da cui difendermi o da combattere” come in una crociata del XXI secolo, ma una benedizione, un dono prezioso concessomi per vivere in pienezza al quale fare spazio, portando i pesi, condividendo pensieri e desideri, ascoltandolo in vista di un discernimento ecclesiale comune, a maggior ragione se questi fratelli costituiscono la comunità presbiterale. L’evangelista Giovanni, facendoci entrare nel mistero trinitario di amore, chiarisce particolarmente questo aspetto più volte trattato nel vangelo: per Gesù, tra i doni ricevuti dal Padre, uno è particolare, quello dei discepoli “Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3). Gesù manifesta la consapevolezza della presenza dei discepoli come dono del Padre affidati alla sua responsabilità, anche di Giuda! E poiché sono del Padre, Gesù li restituisce al Padre dopo averli custoditi e ammaestrati perché siano nel mondo testimoni dell’amore trinitario. Accanto a questa visione di Gesù, l’evangelista fa emergere un’altra visione, quella del mondo: i discepoli sono uomini condannati in relazioni egoistiche e distruttive, dunque ostili (cf. Gv 17,1-26). Ecco la seconda grande sfida per la vocazione sacerdotale, ma anche per ogni altra vocazione cristiana: vivere la relazione sempre orientato al dono di Dio di cui sono responsabile e non alla difesa di sé. Ogni vocazione è, infatti, dentro questa libertà responsabile di Gesù; è frutto di chi ha assolto con responsabilità il proprio ministero nella Chiesa, motivo di profonda gratitudine per quanti ci hanno fatto crescere in santità e grazia proprio quando eravamo nei peccati!


SPIRITUALITÀ di Raffaele di Muro

Chiara d’Assisi povera come Cristo Chiara ama la povertà poiché Cristo l’ha amata: la mistica di Chiara è basata sull’amore verso Cristo povero. La rinuncia, secondo Chiara, ha valore nella prospettiva delle nozze con Cristo. L’occhio dell’amante scopre la

è “povertà”. Ella la fonda sull’esperienza di Cristo: in questa povertà l’uomo trova la sua ricchezza. Povera è la condizione umana nella quale Cristo s’incarna, pur non avendo peccato personale. Inoltre, Cristo si fa povero nel momento della sua passione e della sua morte, momenti illuminati, tuttavia, dalla sua risurrezione. Questa è la povertà che Chiara ammira. Per lei la povertà è la condizione indispensabile per seguire le orme di Cristo ed il suo atteggiamento. In definitiva, secondo Chiara, la povertà consiste nel prolungamento dell’abbassamento di Cristo. Essa è, però, condizione per realizzare l’unione con Dio, strumento per superare ogni desiderio di potere. Nello specchio della croce Dio sceglie le cose più deteriori dell’umanità: il peccato e le sue conseguenze. Egli si svuota, si fa debole, vulnerabile, quasi dimenticando d’essere onnipotente. Chiara, come dietro a questa pazzia, non vuole appropriarsi di niente. Essere poveri come il Crocifisso, essere privi di tutto vuol dire essere solidali con il dolore del mondo. Essere contemplativi vuol dire accogliere la compenetrazione del dolore con l’amore, nella consapevolezza del valore positivo che ha l’essere inchiodati alla croce ed il saper resistere alle tentazioni. Essere poveri, in sostanza, vuol dire imitare Maria ai piedi della croce.

povertà di Gesù e se ne impossessa. La Santa d’Assisi propone uno scambio, in sostanza: la rinuncia ai beni temporali per correre in pienezza e libertà verso l’incontro con l’Amato, verso l’unione profonda con Lui, verso la vita eterna. Chiara sa bene che all’origine della vita religiosa c’è la chiamata di Dio. Il chiamato deve intendere, di conseguenza, l’esistenza in modo nuovo. Egli vive nel mondo, tuttavia è straniero sulla terra. Chi si consacra a Dio, in altri termini, non deve permettere che vi siano ostacoli nel cammino che porta alla beatitudine. Secondo Chiara, infatti, quando si cercano le cose temporali si perde il frutto della carità (Fonti Francescane 2867). La parola che caratterizza il pensiero teologico di Chiara 16


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Francesco e la lezione del dono... 1. Il sogno di Francesco Francesco non intese frenare la corsa, ma renderla meno affannosa, non eliminare la competizione ma evitare che degenerasse in conflitto. Egli sognò un’umanità dinamica e fraterna. L’atteggiamento pessimista è immotivato. Come sostenerlo, sapendo che il

mondo è la tenda di Dio? ‘Uscendo dal mondo’, Francesco insegna a coltivare la logica effusiva, non potestativa, e cioè la forza che spinge a dare, non a prendere o a imporre, con l’occhio al bene comune. I contrasti tra ragione e fede, tra religione e politica sono di indole potestativa, dal momento che riguardano la difesa del proprio fazzoletto di terra, o meglio lo scettro del comando, se spetti all’una o all’altra, animati dallo stesso spirito prevaricatore. Francesco ‘esce dal mondo’, cioè stigmatizza il possesso, deleterio sotto un profilo sociale, perché impedisce l’espansione; deviante sotto un profilo individuale, perché ali-

menta l’illusione dell’autosufficienza; opaco sotto il profilo ontologico, perché impedisce di vedere ciò che si è e si ha e di riflettere sul nulla da cui proveniamo. Fermo all’io, che le scienze destrutturano e il nostro orgoglio ricostituisce, quale ultimo rifugio nel mare in tempesta, l’uomo non s’avvede di costruirsi una prigione che scambia per reggia. Il cerchio si chiude, anche se lo spazio interno si dilata. 2. L’alimento del sogno di Francesco La sorgente, che ha alimentato il sogno di Francesco, è la certezza che tutto ciò che è poteva non essere – il mondo, noi, qualunque creatura – sicché, se le cose sono è perché qualcuno le ha volute – qui conta meno il modo e più il fatto. Perché io e non un altro, qui e non altrove, così e non altrimenti? È l’interrogativo che suscita l’amore, mai trasparente, perché porta lontano. Colui che ama, attraverso la cosa che ama, intravede e ama ciò che trascende la cosa e insieme l’ha resa possibile. È la sorgente della “memoria morale dell’umanità”, nel senso che la consapevolezza di essere al mondo senza alcun merito, più che una controprestazione o un obbligo, genera un ethos o un modo di pensare e di operare. È la lezione luminosa dell’essere come dono, che apprende colui che sa che il donatore si nasconde dentro o dietro il dono. 3. Con Francesco oltre il panteismo e l’ateismo Il fenomeno dell’ateismo è significativo della ‘discrezione’ del donatore, in ombra, nascosto nel cuore

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della cosa donata. Il che conferma che il dono è solo dono e dunque è vero dono. In questo senso pare eloquente anche il panteismo, in quanto conferma che il dono è autenticamente dono se ingloba il donatore, al punto da eclissarne la presenza. Il che, però, se esalta il donatore, denuncia la penuria spirituale del panteista e dell’ateo, incapaci di impedire che il dono perda lo statuto di dono, diventando merce tra merci. La lezione di Francesco è esemplare. Egli è consapevole che l’esser dono non è una qualità della cosa donata, ma la sua anima o il suo respiro. Come allora amare il dono più del donatore? Da qui il Cantico delle creature, da declamare nell’’aperto’, non da sudditi, ma da protagonisti, in libertà.


ARTE di Paolo D’Alessandro

La Pietà di san Francesco secondo Caravaggio Da ottobre 2010 fino a marzo 2011 a Rimini, nel Castel Sismondo, sarà possibile ammirare per la prima volta in Europa l’opera L’estasi di san Francesco del Caravaggio (1595), conservata a Hartford, Connecticut, presso il Wadsworth Atheneum. Si tratta della prima composizione di Caravaggio impostata su più figure; è il suo primo dipinto di carattere religioso, il suo primo esperimento di ambientazione paesaggistica e uno dei primi esempi in cui l’artista utilizza la luce sia in senso letterale, per illuminare la scena, sia in senso figurativo, come metafora della presenza divina. Ogni aspetto di quest’opera è eccezionale e innovativo. Il dipinto raffigura l’episodio della vita di san Francesco, due anni prima della sua morte, avvenuto sul monte della Verna, così come lo racconta san Bonaventura nella Legenda Major. Caravaggio sceglie di raffigurare l’attimo in cui le stigmate cominciano ad apparire (si nota, infatti, solo quella del costato), non appena è scomparsa la visione del radioso Serafino con sei ali che racchiudevano la figura di Cristo sulla croce. Il Santo, in primo piano, non è in ginocchio nell’atteggiamento della preghiera, come nella tradizionale iconografia, ma è disteso sopra un dettagliato e variegato prato nell’abbandono di un’estasi vicina alla morte, affettuosamente sorretto da un giovane e grazioso angelo, quasi come in una Pietà. Nella Pietà è Gesù morto che è sorretto da sua madre Maria, qui è Francesco, che per la sua morte metaforica è in estasi ed è sorretto da un angelo. Francesco ardente di desiderio di conformarsi al

volere di Dio, dopo avere con ardore pregato e meditato sulla passione del Signore, Dio gli fece comprendere che doveva essere conforme a Cristo non solo nelle azioni della sua vita, ma anche nelle sofferenze e nei dolori della Passione. L’atmosfera in cui la scena si svolge, è notturna. Il santo e l’angelo sono rischiarati in primo piano da una luce morbida che accarezza i toni terrosi dei colori e rende ancora più brillanti le velature bianche di cui è vestito l’angelo. Il gesto dell’angelo, con l’indice e il pollice agganciati intorno al cordone del santo, in modo da volgerlo verso l’osservatore per rendere visibile la ferita del costato, rileva, insieme all’estatico mancamento della morte e della rinascita spirituale di Francesco, il ruolo di Francesco conforme a Cristo. Appena visibile nella penombra seduto sotto un albero, s’intravede, a sinistra del dipinto, un suo compagno in preghiera, mentre più in basso, tre

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pastori vicino a un fuoco osservano sorpresi i bagliori del miracolo che ancora si stagliano nel cielo. Il forte uso del chiaro scuro genera effetti teatrali di particolare intensità, esaltando la drammaticità della scena e i dettagli dei corpi. In questo dipinto notturno, tuttavia, non si comprende dapprima, da quale sorgente possa giungere la luce che illumina l'angelo che sorregge Francesco. Certo non si tratta qui di una luce fisica bensì spirituale, astrale la cui sorgente misteriosa non è esterna ma da ricercare nell’esperienza mistica, interiore del santo. Ed è proprio questa esperienza mistica di san Francesco, espressa in modo magistrale in questo dipinto del Caravaggio, che ci fa sentire anche a noi rapiti dallo Spirito nel desiderare ardentemente il volere di Dio, che è quello in fondo di morire all’uomo vecchio per poter rinascere in Cristo risorto, immagine splendente del Padre misericordioso.


CINEMA di Giuseppina Costantino

USCITA CINEMA: 10/09/2010 REGIA: Saverio Costanzo SCENEGGIATURA: Saverio Costanzo, Paolo Giordano (II) ATTORI: Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Martina Albano, Arianna Nastro, Tommaso Neri, Vittorio Lomartire, Aurora Ruffino, Isabella Rossellini, Maurizio Donadoni, Roberto Sbaratto, Giorgia Senesi, Filippo Timi FOTOGRAFIA: Fabio Cianchetti MONTAGGIO: Francesca Calvelli MUSICHE: Mike Patton PRODUZIONE: Les Films des Tournelles, Offside, con la collaborazione di Medusa Film e il sostegno della Film Commission Torino-Piemonte DISTRIBUZIONE: Medusa PAESE: Francia, Italia 2010 GENERE: Drammatico DURATA: 118 Min Trama del film 1984, 1991, 1998, 2007. Lungo questi anni le vite di Mattia e Alice scorrono parallele senza mai riuscire a congiungersi. Due infanzie difficili, compromesse da un avvenimento terribile che segnerĂ le fragili esistenze dei protagonisti fino alla maturitĂ . Tra gli amici, in famiglia, sul lavoro, Mattia e Alice, portano dentro e fuori di loro i segni del passato. La consapevolezza di essere diversi dagli altri non fa che

accrescere le barriere che li separano dal mondo fino a portarli ad un isolamento inevitabile ma consapevole.

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L'idea del film nasce dal libro La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, vincitore del premio Strega 2008.


SPORT La redazione

Etica e valori nello sport

Ogni pratica sportiva, ad ogni livello, prevede e necessita il rispetto di alcune “regole” che si rifanno all’etica sportiva o, come viene comunemente chiamato, al fair play. Il concetto di fair play è piuttosto ampio e comprende tutta una serie di valori che lo sportivo, sia che pratichi attività sportiva sia che segua l’evento sportivo in qualità di tifoso, deve rispettare. Si tratta dunque di una serie di principi, di linee guida, più che di vere e proprie norme. Punto fondamentale, il concetto di lealtà nella pratica sportiva . Questo significa rispetto delle regole del gioco, rispetto dell’avversario, dell’arbitro e del pubblico, capacità di accettare la sconfitta e di onorare l’avversario in caso di vittoria. Significa anche rifiutare la corruzione, il doping, il razzismo e ogni forma di violenza, rifiutare insomma ogni elemento che possa screditare e danneggiare lo sport stesso. Giornata della Cultura Sportiva e Concorso SegnalEtica VISION Il Movimento per l’Etica e la Cultura nello Sport, MECS, nel suo percorso all’interno del mondo sportivo segue i principi per la diffusione dei sani valori ispirandosi al Codice di Etica Sportiva Europea. Il Movimento, con l’istituzione della “Giornata dell’Etica Sportiva”, intende sostenere l’opera della Scuola, valorizzando i contenuti educativi e formativi delle attività motorie e sportive scolastiche e promuovendo uno specifico progetto “Etico Sportivo”, inizialmente riguardante quattro Regioni del territorio Nazionale, Abruzzo, Campania,

Lazio e Marche, rivolto agli alunni delle Scuole di istruzione secondaria di 1° grado. MISSION La finalità è quella di diffondere e radicare nelle coscienze dei giovani alunni il messaggio “Etico Sportivo”, coinvolgendo gli stessi su un programma, articolato in una serie di azioni, capace di favorire la realizzazione di un network tra il mondo della scuola e il mondo sportivo. A tale scopo verranno organizzati incontri - seminari con i Campioni dello Sport e esponenti e dirigenti del mondo sportivo. Successivamente verrà indetto il concorso “SegnalEtica” che culminerà in una giornata conclusiva presso l’impianto dell’Acqua Acetosa della Scuola dello Sport del Coni di Roma. L’adesione all’iniziativa da parte delle Scuole, degli alunni e dei rispettivi docenti di Educazione Fisica, dovrà avvenire attraverso le Direzioni Scolastiche Regionali di competenza territoriale. I docenti di Educazione Fisica aderenti al concorso saranno nominati Cavalieri dell’Etica nello Sport ed avranno il compito di trasmettere ai propri alunni una sana idea dello Sport e i valori di correttezza, fair-play e rispetto delle regole, si cui fonda la costruzione di una vera cultura sportiva e dell’equilibrato sviluppo socio-relazionale dei più giovani. Il progetto, ispirato all’irrinunciabile principio del “ Giocare Bene “, verrà svolto grazie alla collaborazione della sezione “Chiesa e Sport” del Pontificium Consilium Pro Laicis, delle Fiamme Gialle, dei Carabinieri e dell’Esercito e delle istituzioni sportive e locali. 20


EVENTI La redazione Visita ai giovani della parrocchia di Sant’Agostino

Baia Domizia

Filippine, 20-28 settembre 2010

Visita ai chierici di Manila

2 agosto 2010: pellegrinaggio della Madonna di Fatima

Napoli, Convento dell’Immacolata: danza artistica nella nuova sala teatrale

Assisi, 4 settembre 2010 professione semplice di fra Paolo Carola Salerno, 7 agosto 2010: festa di san Gaetano

Nola, 30 settembre 2010: ordinazione diaconale di fra Raffaele Papa

Assisi 15 settembre 2010: ritiro spirituale

Assisi 17 settembre 2010: vestizione dei novizi

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Montecalvo Irpino: incontro regionale Gi.fra


IN BOOK La redazione Nothomb Amélie, Viaggio d’inverno (Il), Editore Voland (collana Amazzoni), Anno 2010, pp. 112, € 12,00 traduzione di Monica Capuan. Contenuto «Scrivere mobilita un importante segmento del corpo: è un’applicazione fisica del pensiero. Da qualche settimana so che provocherò un disastro aereo, e lo organizzo. La novità è che adesso lo scrivo. Ebbene, scriverlo è molto più forte che il solo concepirlo nella propria testa». Un romanzo in cui tutto è improbabile, a cominciare dai nomi dei protagonisti: Zoïle, impiegato di una società elettrica con la passione per l’Odissea, Astrolabe, splendida ragazza che si prende cura di Aliénor, scrittrice di successo che soffre di una curiosa forma di autismo. Affascinato da Astrolabe e infastidito da Aliénor, Zoïle inizia a frequentare le due donne cercando di insinuarsi in questa strana coppia. Un viaggio psichedelico è la bizzarra tecnica di seduzione messa in atto dal giovane per conquistare la bella ma l’esito sarà disastroso, in tutti i sensi…

Nothomb Amélie, Diario di Rondine, Editore Voland (collana Amazzoni), Anno 2006, pp. 112, € 12,50 traduzione di Monica Capuan. Contenuto Dopo una delusione d’amore il giovane protagonista, per evitare di soffrire ancora, decide di annientare la propria sensibilità e diventa un sicario. Freddo e spietato, solo il sangue delle sue vittime sembra procurargli piacere, fino al giorno in cui gli viene ordinato di uccidere un ministro con tutta la sua famiglia. Il diario segreto della figlia adolescente del ministro risveglia in lui una morbosa curiosità, che si trasforma ben presto in ossessione sconvolgendo in modo imprevedibile il suo destino. Un'insolita storia d'amore in puro stile Nothomb: personaggi che agiscono al di là del bene e del male per un romanzo eccentrico e dalle sfumature dark.

Nerea Riesco, La ragazza e l’inquisitore, Garzanti Anno 2009, pp. 452. € 9,90. Contenuto La ragazza e l’inquisitore è uno dei libri più famosi della scrittrice e giornalista spagnola Nerea Riesco, esperta conoscitrice della cattolicissima Spagna dell’Età moderna. Ed è proprio nel ’600, durante il regno di Filippo III, che si svolge la vicenda della giovane Mayo, una ragazza orfana che viaggia assieme a una bellissima guaritrice Ederra, e a un asino dalle origini molto particolari. Il loro cammino s’intreccia con quello di Salazar, un frate inquisitore chiamato nel villaggio di Logroño per fare chiarezza su un omicidio di cui sono incolpati streghe e servitori di Satana. Qaundo Ederra scompare dopo essere stata arrestata dalla Santa Inquisizione, Mayo decide di seguire i passi del frate, che si rivelerà un valido alleato (e non un nemico). E così, tra intrighi di palazzo, morti sospette e stregonerie, in questo romanzo storico i misteri si faranno sempre più fitti e Mayo dovrà affrontare anche un (piccolo) imprevisto: innamorarsi. Di chi? Leggere il libro per scoprirlo! 22


FUMETTI La redazione

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