Luce Serafica 04 2012

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Numero 4/2012 - Trimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/CBPA/sud/BENEVENTO/109/2007

Luce Serafica

La nostra speranza è Gesù Cristo, il Dio-carne

Emergenza umanitaria in Siria

I dati della crisi economica in Italia

Cittadinanza per i minori stranieri

Bibbia e Corano a confronto

I luoghi della Parola

Il mondo, l’uomo e la fede


Rinnova il tuo abbonamento 2013


Editoriale

Sommario 4/2012 3 4 5 6 8 9 10 12 14 20 21 22 23 24 28 30 32 33 34 35 36 37 39 40 41 42 44 45 46

Editoriale di Edoardo Scognamiglio Finestra sul mondo di Giuseppina Costantino Il Punto di Filippo Suppa Politica-Economia di Vienna Iezzi Psicologia di Caterina Crispo Costume-Società di Carmine Vitale Dialogo di Edoardo Scognamiglio Voci di Chiesa di Boutros Naaman Speciale Avvento-Natale di Giuseppe Falanga Spiritualità di Raffaele Di Muro Asterischi francescani di Orlando Todisco Orizzonte Giovani di Luca Baselice Missione di Giambattista Buonamano Credere Oggi di Edoardo Scognamiglio MI-News di Silvia Compassi Spirito di Assisi di Pietro De Lucia Poesie di Rita Margiasso Testimoni di Giacomo Verrengia Pastorale di Vincenzo Picazio Arte di Paolo D’Alessandro L’intervista di Francesco Celestino Musica di Monica Cioffi Postulato-News di Antonino Carillo Teatro di Maria Teresa Esposito In book La Redazione Eventi La Redazione Sport di Pietro Manna Cinema di Giuseppina Costantino Cucina di Nonna Giovannina

Luce Serafica Periodico francescano del Mezzogiorno d’Italia dei Frati Minori Conventuali della Provincia Napoletana. Autorizzazione del Tribunale di Benevento n. 3 del 24/04/2006. Anno VII – n. 4/2012 Responsabile Raffaele Di Muro Direttore Paolo D’Alessandro – e-mail: pdart@libero.it

La nostra speranza è Gesù Cristo, il Dio-carne

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ella Parola, l’Eterno si è fatto così vicino a noi fino a indossare l’insicurezza della carne» (EFREM IL SIRO, Inni sulla natività 11,8). Il cristianesimo è la persona viva di Gesù Cristo, il Figlio di Dio venuto in mezzo a noi per rivelarci il volto bello del Padre e renderci partecipi della sua natura divina (cf. Gv 14,9s). “Umano, troppo umano, il Dio cristiano” sembra ancora oggi gridare F. Nietzsche, forse inconsciamente scandalizzato, come d’altronde lo siamo noi, dalla proposta “quasi scellerata” di un Dio che muore sulla croce. Carissimi amici, riappropriamoci del senso autentico del Natale: la nostra speranza è Gesù Cristo, il Dio-carne, che ci accoglie pienamente nelle nostre fragilità, donando nuova luce al senso dell’esistenza, ai rapporti fraterni, al lavoro quotidiano, a quello che umanamente e socialmente riusciamo a realizzare e ad esprimere. Cristo è per sempre il Dio-con-noi, cioè dalla nostra parte, l’Emmanuele che resta fedele al Patto. L’incarnazione rivela che all’origine del mondo e della vita c’è il Dono. È quanto Francesco d’Assisi ha contemplato nel presepe a Greccio: Dio è dalla nostra parte, sempre e pienamente. Essere alter Christus significa seguire fino in fondo il movimento dell’incarnazione, così come l’ha vissuto il Verbo della vita. La fede, allora, non deve spiritualizzarci – questa è una tentazione antica quanto il cristianesimo (è la gnosi, riduzione della salvezza a pura conoscenza spirituale) – bensì incarnarci, cioè favorire in noi quei sentimenti di compassione e di dono gratuito di sé che furono veramente di Cristo Gesù (cf. Fil 2,6-11). Allora è proprio vero, come ci ricordano alcuni autori cristiani antichi, che la grotta di Betlemme è anticipo-segno del santo sepolcro e che, come dice Simon Weil, non c’è Natale senza croce, senza il Venerdì santo! Chi ama si dona e chi si dona compatisce, fino a provare sulla propria pelle e nel cuore, senza alcuna riserva, le miserie dell’altro. Buon Natale!

Abbonamento annuale 20 euro CCP: 11298809, intestato a E. Scognamiglio, Convento S. Lorenzo Maggiore – Via Tribunali, 316 – 80138 Napoli

P. Edoardo Scognamiglio, Ofm Conv.


FINESTRA SUL MONDO di Giuseppina Costantino

Emergenza umanitaria in Siria Un vero collasso per il Medio Oriente

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n Siria, oltre trentamila persone hanno perso la vita e due milioni sono state costrette ad abbandonare le proprie case da quando, nel marzo 2011, sono iniziati gli scontri tra i gruppi armati di opposizione e le forze governative. Nel mese di luglio l’escalation di violenza ha spinto la comunità internazionale a definire ufficialmente il conflitto siriano come guerra civile. Si stima che oggi più di due milioni e mezzo di siriani subiscano in prima persona le conseguenza della crisi. Da aprile ad agosto, il numero complessivo di rifugiati nei paesi confinanti è quadruplicato: quelli registrati in Libano, Giordania, Iraq e Turchia hanno superato i cinquecentomila, ma le persone che hanno cercato protezione fuori dalla Siria sono con ogni probabilità molte di più e la precarietà delle loro condizioni umanitarie trasforma ormai questa guerra in una crisi regionale. Tra le conseguenze del conflitto, anche una grave crisi alimentare, dovuta all’abbandono dei terreni ormai insicuri e al protrarsi della siccità. Secondo un rapporto realizzato da Fao, Wfp e Ministero dell’Agricoltura siriano, almeno tre milioni di persone sono a rischio d’insicurezza alimentare. La metà circa necessita di aiuto urgente per i prossimi otto mesi.

Giordania e Libano sono al collasso. La crisi siriana s’intensifica, e i due Paesi affrontano l’emergenza del crescente aumento del numero di rifugiati che attraversano i loro confini per cercare aiuto. Pur non avendo sottoscritto la Convenzione sui Rifugiati del 1951 e il Protocollo sui Rifugiati del 1967, infatti, Libano e Siria hanno comunque accolto i rifugiati siriani fornendo accoglienza, assistenza e servizi, nonostante le loro scarse e precarie risorse economiche. Una situazione che, dalla primavera del 2011, è arrivata adesso “al punto di rottura”, tanto da necessitare un decisivo sostegno, tanto per le comunità ospitanti che per la popolazione rifugiata, in modo da poter mantenere i livelli di sicurezza e benessere attualmente garantiti. È quanto si legge in un dettagliato rapporto stilato dall’organizzazione indipendente “Refugees International”. La comunità deve agire per dare una risposta efficace al problema dei rifugiati, aiutando chi ne ha bisogno e preservando la stabilità regionale. Come ricorda il documento, all’inizio della primavera 2011, le sollevazioni popolari e la conseguente repressione governativa in Siria hanno costretto un gran numero di persone ad abbandonare le proprie case e, in molti casi,

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il paese. Sono duecentomila i rifugiati attualmente registrati nei paesi circostanti, e fra questi più di sessantamila si trovano in Giordania e Libano. Una situazione complessa, e apparentemente destinata a peggiorare, se è vero che migliaia di persone aspettano ancora di essere registrate e sono state identificate come bisognose di assistenza, e ci sono centinaia di nuovi arrivi ogni settimana. Destinazioni, il Libano e la Giordania, che sono privilegiate perché storicamente le persone e i gruppi che risiedono intorno ai confini libano-siriano-giordani hanno legami culturali, familiari e commerciali. Molti siriani che lasciano il paese vengono accolti da membri delle loro famiglie, amici, conoscenti o comunità dove possono inserirsi e trovare risorse per vivere. Ma, di contro, ci sono moltissimi siriani che non hanno connessioni di questo tipo e, fuggendo dalle violenze, si trovano in un paese straniero in condizioni simili a quelle tradizionalmente vissute dalle popolazioni rifugiate. Inoltre, come sottolinea il rapporto, non bisogna dimenticare che Libano e Giordania sono tra i principali paesi ospitanti di rifugiati iracheni e palestinesi. Il rischio emergenza è sempre più forte in queste ultime settimane.


IL PUNTO di Filippo Suppa

Io come Tu cittadinanza onoraria ai minori stranieri?

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uasi un milione di minorenni di origine straniera vive in Italia, e più di 500mila sono nati nel nostro paese e qui vivono. Ma non possono diventare italiani prima del compimento dei 18 anni, e anche allora questo diritto gli viene riconosciuto, per le lungaggini burocratiche, non prima di 5-7 anni dopo la richiesta. Per questo, l’Unicef ha lanciato a novembre la campagna Io come Tu - Tutti uguali davanti alla vita, tutti uguali di fronte alle leggi, proponendo ai comuni di compiere un gesto simbolico, concedere la cittadinanza onoraria ai figli di genitori stranieri. L’adesione che abbiamo avuto, ha detto il presidente di Unicef Italia Giacomo Guerrera, è stata straordinaria: a oggi, sono 61 i comuni che, grazie all’invito rivolto dai Comitati locali dell’Unicef, hanno già conferito in questi giorni, o lo faranno prossimamente, la cittadinanza onoraria ai minorenni di origine straniera che vivono nei loro territori. Altri 106 comuni hanno assicurato che lo faranno nelle prossime settimane. Un segnale forte che il nostro presidente della Repubblica Napolitano apprezzerà e che speriamo sia da stimolo perché si arrivi finalmente a una revisione dell’attuale legge sulla cittadinanza con un testo unificato e bipartisan, rispondente agli

standard condivisi a livello internazionale in materia di diritti umani fondamentali. Il presidente di Unicef Italia, presentando la campagna alla presenza del ministro per la Cooperazione e l’Integrazione Andrea Riccardi, ha spiegato che la presenza di minori nati in Italia da genitori stranieri è cresciuta di circa il 250% da dieci anni a questa parte, ed è destinata ad aumentare ulteriormente. Per questi bambini e adolescenti c’è il rischio concreto del mancato godimento di tutti i loro diritti, ha aggiunto Guerrera, che ha parlato di “nodo” della legge sulla cittadinanza. È assurdo negare un diritto di questo tipo ai bambini nati in Italia da genitori stranieri – ha detto – è necessario rivedere la legge. Auspichiamo che l’iter di riforma sia ripreso il più presto possibile. Il presidente dell’Unicef Italia ha reso noto di aver incontrato molti parlamentari per discutere di una revisione della normativa con l’obiettivo di arrivare a un testo bipartisan, e che in tanti si erano dichiarati disponibili. “Peccato però” – ha aggiunto – “che alcuni di loro, poche ore dopo, mi hanno inviato mail in cui tornavano sui loro passi”. Dunque, “ormai abbiamo poche speranze che in questa legislatura ce la si faccia, ma noi restiamo agguerriti e su questo tema non

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molliamo”. Sempre restando nell’ambito dell’immigrazione, è necessario sapere che a Roma, è partita il 19 novembre scorso la sperimentazione di Linea amica immigrazione e Prefettura di Roma - Sportello unico immigrazione, nuovo servizio a supporto dello Sportello informazioni della Prefettura. Gli operatori di Linea Amica – il contact center multicanale del ministero della Pubblica amministrazione e Semplificazione – forniscono agli utenti informazioni in tempo reale sullo stato della loro pratica aperta presso lo Sportello unico immigrazione della Prefettura. Il servizio è rivolto agli utenti che hanno presentato istanze relative al rilascio dei nulla osta per: ricongiungimento familiare; lavoro subordinato, o domestico, o stagionale; conversione del permesso di soggiorno. Risponde dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 13 al numero verde di Linea Amica 803.001 (06828.881 per chi chiama da telefono mobile). La sperimentazione durerà fino al 31 dicembre 2012 e rientra nella convenzione tra Prefettura di Roma e Formez Pa per la realizzazione del progetto Piano di supporto allo Sportello Unico per l’Immigrazione, che ha l’obiettivo di migliorare il rapporto con il pubblico e l’attività amministrativa dello Sportello.


POLITICA-ECONOMIA di Vienna Iezzi

Italia: la crisi economica accresce le disuguaglianze sociali

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’Italia è sempre più vecchia e povera. È un Paese in cui le disuguaglianze sociali ed economiche crescono e giovani e donne sono molto penalizzati. Questo, in sintesi, ci dice il Rapporto annuale dell’Istat 2012 (relativo al 2011).

sopravvivenza e la bassa fecondità rendono l’Italia uno dei Paesi più vecchi, con 144 persone di 65 anni e oltre ogni 100 con meno di 15, proporzione che era di 97 a 100 nel 1992. In Europa solo la Germania registra un valore più alto.

DEMOGRAFIA Sono 59 milioni 464mila i residenti in Italia al 9 ottobre 2011, 2 milioni 687mila in più rispetto al censimento del 1991. Numeri che valgono il quarto posto nell’Unione europea per dimensione demografica dopo Germania (quasi 82 milioni), Francia (65 milioni) e Regno Unito (più di 62 milioni). L’aumento demografico è dovuto quasi interamente agli stranieri residenti, che oggi sono 3 milioni 770mila. Il dato non positivo, però, è che considerando il tasso di crescita naturale, l’Italia mostra una situazione simile a quella della Germania, con un saldo negativo tra decessi e nascite, in particolare al Nord e al Centro. Solo al Sud e nelle Isole il saldo è ancora positivo, ma è comunque in forte contrazione. Certamente, l’aumento della

GLI STRANIERI Gli stranieri sono 3 milioni 770mila, pari al 6,3% dei residenti, percentuale non molto distante da quella di alcuni grandi Paesi di più consolidata tradizione immigratoria. Il 50% degli stranieri proviene da cinque paesi: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Aumenta l’integrazione: quasi la metà dei cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti ha un permesso a tempo indeterminato. I matrimoni con almeno uno sposo non italiano sono più di 25mila nel 2010 (l’11,5% di tutte le celebrazioni), più che raddoppiati dal 1992. Parallelamente le acquisizioni di cittadinanza per naturalizzazione e matrimonio (circa 40mila nel 2010) sono decuplicate rispetto al 1992. I nati in Italia da almeno un genitore straniero sfiorano 6

i 105mila nel 2010, quasi un quinto del totale delle nascite, dieci volte di più rispetto al 1992. I GIOVANI Poco incoraggiante la situazione dei giovani, senza lavoro e costretti a rimanere in famiglia anche fino a 34 anni, perché economicamente non indipendenti. Il 2011 é stato anche l’anno nero della disoccupazione giovanile, che ha raggiunto il 20,2%, ma con fortissime differenze tra Nord, Centro e Sud. Sempre nel 2011, i 1529enni che non studiano e non lavorano sono 2,1 milioni, e il 31,9% di questi vive nelle Regioni meridionali (un valore quasi doppio di quello delle Regioni del Centro-Nord), con punte massime in Sicilia (35,7%) e in Campania (35,2%). LE DONNE Le donne sono ancora svantaggiate in tutto rispetto agli uomini, nel lavoro e in famiglia. Il rapporto Istat dice che solo in una coppia su venti il lavoro familiare e il contributo ai redditi sono equamente distribuiti. In una coppia


su tre la donna non lavora e si occupa da sola della famiglia, spesso senza avere accesso al conto corrente e senza pesare nelle decisioni importanti. In una coppia su quattro, inoltre, la donna guadagna meno del partner, ma lavora molto di più per la famiglia.Sconfortante il confronto con i Paesi del Nord Europa. NUOVE FAMIGLIE I matrimoni sono in continua diminuzione: poco più di 217mila nel 2010, mentre nel 1992 erano 100mila in più. Il rito civile è scelto ormai da quasi il 50% delle coppie che decidono di sposarsi. In compenso aumentano le nuove forme familiari: single non vedovi, monogenitori non vedovi, libere unioni e famiglie ricostituite coniugate. Sono oltre sette milioni di famiglie (il 20% del 2010-2011), circa il doppio rispetto al 1993-1994, per un totale di 11 milioni e 807mila individui. Le libere unioni sono quadruplicate in meno di vent’anni, nel 2010-2011 sono 972mila. Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili, in tutto 578mila, hanno fatto registrare gli incrementi più sostenuti: 8,6 volte in più di quelle del 1993-94. POVERTÀ E DISUGUAGLIANZE Il Sud del Paese è ancora molto più povero del Nord. Nel Mezzogiorno le famiglie indigenti sono 23 su 100, mentre nel Nord sono solo 4,9 (dati 2010). Ciò significa che il 67% delle famiglie e il 68,2% delle persone povere risiedono nelle Regioni meridionali. Nel 2011, inoltre, la propensione

al risparmio delle famiglie italiane è diminuita dello 0,9%, portandosi all’8,8%, il valore più basso dal 1990. Questo perché negli ultimi due decenni la spesa per i consumi è cresciuta molto più del reddito disponibile. Solo dal 2008 questo è aumentato del 2,1% in valori correnti, contro un potere d’acquisto diminuito di circa il 5 per cento. ECONOMIA Il rapporto Istat dice che l’economia italiana è in brusca frenata. Il Belpaese è in recessione e ormai il fanalino di coda in Europa, con una crescita del Pil 2011 di solo lo 0,4% (-1,5% quest’anno), che non ci consente di recuperare il livello precedente alla crisi del 2008-2009. Il peso dell’economia sommersa sul Pil, sebbene sia in calo grazie alla normativa sul lavoro e alla regolarizzazione degli stranieri, resta comunque sopra i 250 miliardi di euro. LAVORO Il tasso di disoccupazione raggiungerà il 9,5% nel 2012 e il 9,6% nel 2013. Il peso degli occupati atipici (dipendenti a tempo determinato, collaboratori o prestatori d’opera occasionale) sul totale degli occupati è in progressivo aumento e soprattutto tra i giovani: ha iniziato con un lavoro atipico, infatti, il 44,6% dei nati dagli anni ‘80 in poi. A dieci anni dal primo lavoro atipico, inoltre, quasi un terzo degli occupati è ancora precario e uno su dieci è senza lavoro. Il passaggio a lavori standard è più facile per gli appartenenti alla classe sociale più alta, mentre chi ha iniziato come operaio in un lavoro

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atipico, dopo dieci anni nel 29,7% dei casi è ancora precario e nell’11,6% ha perso il lavoro. CRIMINALITÀ La lotta alla criminalità sembra essere l’unico ambito in cui la situazione del Paese è migliorata rispetto al passato. Negli ultimi venti anni, infatti, sono diminuiti omicidi (dal 2,6 allo 0,9 per 100mila abitanti), scippi (dal 100,2 per 100mila abitanti a 23,5) e furti in abitazione (da 341,2 a 279,7), mentre le truffe sono più che raddoppiate, passando da 62 reati per 100mila abitanti del 1992 a 159 del 2010. Fra le nuove forme di truffa spiccano la clonazione di carte di credito e bancomat, le truffe telefoniche e il phishing. RIFIUTI In Italia si producono 533 kg di rifiuti urbani pro capite all’anno, 23 in più rispetto alla media Ue. Valori superiori alla media nazionale si registrano nelle regioni del Centro (circa 600 kg pro capite), mentre nel Mezzogiorno la quantità è più contenuta (485 kg pro capite). La raccolta differenziata copre in media circa un terzo dei rifiuti urbani. Nel 2010 il servizio è presente in tutti i Capoluoghi, con percentuali di raccolta superiori al 40% al Nord, del 28% al Centro, del 21,3 al Sud e del 15% nelle Isole. Tuttavia, i Comuni che hanno ottenuto miglioramenti più consistenti sono quasi tutti nel Mezzogiorno. Lazio e Campania, comunque, sono le Regioni in cui vivono più cittadini che lamentano il problema della sporcizia nelle strade.


PSICOLOGIA di Caterina Crispo

Come gestire i conflitti? Né vinti né vincitori...

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l conflitto all’interno di un gruppo di lavoro si manifesta quando persone, che per la natura del loro lavoro dipendono l’uno dall’altro, hanno punti di vista diversi, interessi o obiettivi diversi o addirittura contrastanti. Un buon leader è consapevole del fatto che il conflitto è una componente naturale e potenzialmente produttiva nell’ambito delle relazioni di gruppo e delle relazioni interpersonali. Infatti, il conflitto stimola il pensiero, fa si che varie prospettive riguardo ad una situazione siano considerate e stimola i componenti del gruppo a comprendere meglio i fattori chiave in merito alla decisione da prendere. Tutto questo quando il conflitto è gestito bene in modo consapevole e costruttivo. L’aspetto centrale non è quello di decidere se stimolare o evitare il conflitto, bensì come gestirlo al fine di renderlo efficacemente produttivo per il lavoro di gruppo. A seconda di come è gestito il conflitto all’interno del gruppo può divenire costruttivo o distruttivo. Una leadership efficace facilita dinamiche di comunicazione che stimolano costruttività. Approfondiamo queste due facce del conflitto all’interno di gruppi di lavoro. Il conflitto distruttivo è presente quando interferisce con l’efficacia del lavoro svolto e con un clima di lavoro salutare. Tipicamente, questo tipo di conflitto si contraddistingue da un modo di comunicare competitivo in cui ciascun membro del gruppo cerca di influenzare gli altri semplicemente allo scopo di avere ragione riguardo alle proprie idee, le proprie soluzioni e punti di vista. Si crea dunque un tipo di rapporto win-lose in cui c’è chi

perde e c’è chi vince. I singoli membri del gruppo ritengono che soltanto uno di loro (o una parte di loro) possono “vincere” e affermarsi sugli altri portandoli ad accettare i loro punti di vista. Un risultato evidente di queste dinamiche è il rapido deteriorarsi del clima aziendale e delle relazioni interpersonali. Si viene a creare un contesto in cui la maggior parte dei membri del gruppo sta sulla difensiva limitando l’espressione delle sue idee per non rischiare che siano valutate aggressivamente (o giudicate con sarcasmo) dagli altri. All’interno di queste situazioni sono frequenti gli attacchi personali che vanno ben oltre il contenuto del tema in causa. Questo contesto emerge da un tipo di comunicazione che mette le persone sulla difensiva e le distrae dagli obiettivi comuni. È una comunicazione caratterizzata da: il valutare; il giudicare; la superiorità dell’uno nei confronti dell’altro; un modo di pensare e di vedere le cose solo da una prospettiva con un atteggiamento di certezza e rigidità. Così, come questo modo di comunicare mina alla base le relazioni intepersonali, inteferisce anche nella produttività, nell’efficacia e nell’efficienza del lavoro di gruppo. Il conflitto costruttivo è presente quando i membri di un gruppo di lavoro sono consapevoli del fatto che il disaccordo è un aspetto naturale all’interno delle dinamiche di gruppo, anzi può essere un fattore chiave al raggiungimento dei loro obiettivi comuni. Questo tipo di atteggiamento si riflette in un modo di comunicare caratterizzato dalla cooperazione: si 8

ascoltano le idee e le opinioni degli altri con attenzione, interesse e positività. La comunicazione è utilizzata per mettere in evidenza gli obiettivi comuni ai membri del gruppo e i fattori che li accomunano. È un tipo di comunicazione che incoraggia un orientamento win-win in cui tutti possono affermare di essere vincitori e questo porta le persone ad esprimere e motivare liberamente i propri punti di vista concentrandosi sul contenuto dei temi piuttosto che su aspetti caratteriali o personali. Allo scopo di incoraggiare il conflitto costruttivo, la comunicazione dovrebbe chiaramente mettere in evidenza l’interesse dei membri del gruppo nell’ascoltare le reciproche idee e punti di vista, la disponibilità a cambiare la propria prospettiva su un tema, e il rispetto per l’integrità degli altri membri del gruppo e le opinioni che rappresentano. È in questo contesto che le persone si sentono a loro agio nell’esprimere il proprio pensiero e partecipano attivamente e costruttivamente alle attività di gruppo. Per questi motivi, il conflitto costruttivo è un fattore importante all’efficacia del lavoro di gruppo. Infatti, consente ai membri del gruppo di ampliare la loro comprensione dei temi in causa, mettendo il gruppo in condizione di sviluppare una gamma più ampia di idee e soluzioni. Raggiungere questo tipo di contesto non è sempre semplice perché è innanzitutto necessario vincere fonti di orgoglio ed egocentrismo individuale e cercare in modo attivo di riconoscere l’importanza del contributo di ogni singola persona stimolandone l’attiva partecipazione.


CS O

TUME OCIETÀ

di Carmine Vitale

Come affrontare l’inverno

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hi ha sfruttato l’estate o l’autunno per rimettersi in forma deve ora impegnarsi per mantenere ciò che ha acquisito; chi invece durante la pausa vacanziera si è lasciato andare a qualche stravizietto con qualche peccato di gola di troppo, che ha appesantito il nostro corpo, tornando a casa deve smaltire quel chilo in più seguendo alcune semplici regole comportamentali. È necessario quindi adottare da subito uno stile di vita sano cercando di equilibrare i ritmi frenetici quotidiani imponendici delle regole come mangiare a orario e dormire possibilmente sempre alla stessa ora. Se non ci riusciamo subito cerchiamo di farlo un po’ alla volta ma importante è cominciare. Se siamo riusciti durante l’estate a limitare il consumo di sigarette o siamo riusciti addirittura a eliminarle non lasciamoci travolgere nuovamente dal fumo, se ci siamo abituati a consumare i nostri pasti con calma non ricominciamo a mangiare di fretta e senza neanche sedersi a tavola, non ricominciamo con panini e cornetti al bar che sostituiscono, invece, un buon pranzo a casa. Se abbiamo fatto delle attività fisiche durante le nostre vacanze al mare o in montagna o comunque all’aria aperta continuiamo a muoverci magari anche con delle semplici passeggiate o anche salendo e scendendo le scale a piedi abbandonando l’ascensore. Sembra banale ma questo semplice e naturale esercizio fisico aiuterà i nostri muscoli delle gambe a tenersi in forma e ne beneficerà anche il sistema cardio-respiratorio. Sempre chiaramente salendo e scendendo a un ritmo regolare e non di corsa. Se

ci si può iscrivere a una palestra o in piscina tanto meglio: aiuterà a tenere il nostro corpo tonico e in forma. Della pausa estiva e delle promesse salutiste avviate nel primo autunno hanno beneficiato sia il nostro fisico sia la nostra mente. Non più stressati dai gravosi impegni quotidiani ci siamo dedicati ad attività rilassanti e gratificanti, abbiamo potuto dedicarci ai nostri hobby preferiti. Perché allora non cerchiamo di ritagliarci anche durante l’inverno questi spazi per continuare a fare ciò che ci piace? Cerchiamo di non fare disperdere i benefici che abbiamo accumulato durante la pausa estiva e continuiamo a coccolarci ancora dedicandoci allle nostre letture preferite o a qualche attività manuale che ci piaceva tanto. Questi momenti di relax regalati a se stessi ci aiuteranno a mantenere il buon umore e l’equilibrio per affrontare i nostri a volta noiosi ritmi lavorativi senza stressarci. E non dimentichiamo mai i momenti belli, che abbiamo vissuto durante l’estate, i ricordi piacevoli ci aiuteranno così a conservare il buon umore e a preparaci mentalmente a ripeterli anche durante l’inverno. Potrà essere una sensazione, un’emozione provata a guardare un paesaggio una qualunque cosa che ci ha trasmesso felicità dobbiamo quindi conservare la voglia di ritrovare questo senso di benessere anche durante l’inverno. Basta solo un pizzico di volontà e ottimismo. Queste due parole dovranno essere la chiave che ci aiuterà ad affrontare con serenità e gioia la stagione invernale che potrebbe apparirici pesante e noiosa.

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DIALOGO di Edoardo Scognamiglio

Bibbia e Corano a confronto

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he cosa hanno in comune la Bibbia e il Corano? Sono due libri ritenuti sacri dai credenti delle religioni abramitiche e, rispettivamente, da ebrei (per il Primo o l’Antico Testamento), dai cristiani (per i due Testamenti) e dai musulmani (Primo e Secondo Testamento insieme al Corano). In realtà, la nostra risposta è alquanto superficiale perché si limita a una constatazione di fatto che proviene dall’ambito cultuale e religioso. Se proviamo a creare dei paralleli tra i contenuti di queste Sacre Scritture ci accorgiamo subito delle notevoli divergenze dottrinali ma anche stilistiche e letterarie. Ciò che lega questi testi, dal punto di vista interculturale, è forse la loro origine: si costituiscono, infatti, a partire da una tradizione orale che ha un valore normativo e fondativo per i popoli del Medio Oriente. Certamente, vi è un abisso tra il modo d’intendere il carattere sacro dei testi da parte degli ebrei e dei cristiani rispetto alla concezione che i musulmani ortodossi hanno della composizione del Corano. Proveremo, in questo nostro intervento, a marcare la concezione propria della sacralità del testo dal punto di vista islamico, come pure a richiamare eventuali paralleli con la Bibbia lì dove è possibile. Tuttavia, mentre gli esegeti riconoscono il genio poetico e letterario dell’autore biblico, che quindi non è un semplice strumento nelle mani di Dio – di fatti, è superata la teoria dell’ispirazione verbale o del dettato – bensì un vero e proprio autore, gli interpreti della dottrina coranica non si avvalgono del nostro concetto d’ispirazione e fanno della composizione del Corano una lettura più mitica. Dal punto di vista interculturale, ciò che tiene assieme – almeno inizialmente – Bibbia e Corano è l’oralità dei testi che è confluita in tradizioni ben specifiche da cui sono poi state stese le sacre pagine. “Oralità” significa pure “memoria” che, in Occidente, nelle nostre pratiche formative, è sempre più svilita e poco esercitata rispetto ai processi cognitivi (stimolati dall’uso dei mass-media soprattutto con immagini) e ai nuovi metodi d’apprendimento di cui ci si avvale in ambito pedagogico e catechetico-pastorale. Certamente, ci sono delle differenze sostanziali tra la Bibbia e il Corano: mentre nell’islâm l’ispirazione è paragonabile a un dettato verbale da parte di un angelo che ha trasmesso al profeta il contenuto integrale di un libro preesistente, nel giudaismo e nel cristianesimo, invece, l’attività personale e umana del profeta e degli altri autori sacri non è annientata e, anzi, partecipa del processo d’ispirazione divina. La partecipazione dell’agiografo ha un significato

più forte, un peso di un certo rilievo. Il messaggio biblico dei profeti s’inserisce in una tradizione vivente che si rinnova e si rapporta alla storia di Dio. Il messaggio “ispirato” del resto della letteratura religiosa non ammette grossi cambiamenti e agganci con la storia. Per questo, soprattutto l’islâm è definibile come religione del libro, e non tanto il cristianesimo o il giudaismo! La raccolta dei libri santi ha una funzione normativa nella loro tradizione, che continua dopo la chiusura del loro canone; ma a sua volta, questa ha una funzione interpretativa per enunciare correttamente il messaggio che i libri contengono. Il Corano non è solo il testo sacro dei musulmani che racchiude la rivelazione di Dio affidata a Maometto, tramite l’arcangelo Gabriele, e comunicata in parte alla Mecca e in parte a Medina. È “il libro” (al-kitâb ÜÉàμpdnGC ) della rivelazione – la matrice cosmica, celeste, di qualsiasi altro libro o testo sacro – nonché lo strumento della comunicazione e della lingua d’ogni musulmano. È chiaro, dunque, che – per un fedele musulmano – Maometto non è l’autore del Corano! Tutto ciò che è contenuto nel testo sacro è discorso di Dio registrato in un archetipo celeste (umm alkitâb ÜÉàμpdG ΩqoGC : “la madre della scrittura”), iscritto nella “tavola custodita” e comunicato a frammenti a Maometto per ordine di Dio dallo “Spirito della santità” o “Spirito fedele”, cioè dall’angelo Gabriele. Questo libro sacro, però, riflette anche la vita storica e le imprese profetiche di Maometto. Comunque, è qualcosa di più d’un testo storico: è la Parola di Dio rivelata, come per noi cristiani Cristo è il Verbo incarnato. Dovremmo educarci allo stile recitativo del Corano. Il suo linguaggio, infatti, è recitativo, profondamente orale, ritmato e incalzante. Perché il Corano è la “lingua di Dio” (kalâm ΩÓcn ). Il Corano costituisce un valore normativo sia come testo scritto che in quanto tradizione orale raccolta in un corpus vivendi. Anche se oggi troviamo le più svariate e originali traduzioni del testo co10


ranico in tantissime lingue – non solo occidentali –, la sua stesura è avvenuta nella lingua araba, con accento meccano, e la recitazione non potrebbe, durante una celebrazione in moschea, non avvenire in tale lingua. Perché il prestigio di questo libro consiste nell’essere, innanzitutto, la lingua delle tribù arabe che oramai avevano acquisito una propria identità culturale, religiosa, socio-politica, e anche un ascendente economico e un potere militare. L’autorità del Corano riguarda il suo carattere sacro come anche gli elementi giuridico-istituzionali in esso contenuti. Il linguaggio coinvolge il testo sia per la comunicazione con Dio sia per il dialogo tra gli uomini. Non dobbiamo poi dimenticare che ancora oggi, nella famiglia musulmana tradizionale, il Corano è il testo utilizzato per la formazione religiosa, culturale e pedagogica dei bambini. Quasi sempre, un fanciullo apprende l’arabo solamente dallo studio e attraverso la lettura del Corano: la sua famiglia si esprime, spesso, nel dialetto locale! I particolarismi regionali ed etnici sono superati e integrati mediante la sacra lingua del Corano. Dal punto di vista formale, il Corano è composto di 114 sure o capitoli (sûra IQnƒ°oS ). Questi, poi, sono suddivisi in versetti (âyât ájnGB ) abbastanza variabili; è possibile rintracciare una qualche unità tematica nelle sure più brevi – quelle più antiche – mentre risulta molto complesso ogni tentativo d’ordinare i messaggi delle sure più lunghe. Aprendo il testo sacro, ci s’accorge subito che le sure sono sparse in ordine decrescente: dalle più lunghe a quelle più brevi, ad eccezione della prima che è l’aprente. Forse, questo sistema di catalogazione è stato favorito dal fatto che le sure lunghe sono le più difficili da ricordare a memoria e, quindi, occorreva trascriverle all’inizio. Gli studiosi hanno trovato utile la suddivisione cronologica, distinguendo tra sure meccane e sure del periodo medinese (anche se non tutti i versetti d’una sura sono dello stesso periodo). Oggi, la critica occidentale riprende le più

diverse teorie per il raggruppamento delle sure. Le 114 sure comprendono ben 6219 versetti: il Corano, nella sua forma attuale, è lungo circa quattro quinti del Nuovo Testamento. Comunque, il testo coranico non obbedisce a una cronologia lineare del racconto fra la prima sura e l’ultima. Le diverse sure, infatti, sono tra loro autonome, e ciascuna corrisponde a un momento della rivelazione, e rappresenta un universo a sé. Non si può affermare che le sure raccolte da Maometto siano assolutamente autentiche a quelle che ritroviamo ora nel Corano. La configurazione delle sure è legata alla concezione che il Corano ha della scrittura. Inoltre, quasi certamente, i raccoglitori delle sure hanno cercato di sistemare il materiale lì dove ci poteva essere una continuità di fondo. Tuttavia, non è stato sempre così. Infatti, nell’aggiungere le sure a pezzi precedenti, o nell’integrare materiali in sure già ordinate, non appare un ordine logico. Resta difficile pronunciarsi sull’ampiezza delle sure e sulle relative aggiunte. Per gli studiosi musulmani, poi, ogni sura fu lasciata attraverso i secoli nel posto in cui la prima composizione l’aveva collocata. Le sure più brevi potrebbero anche costituire dei frammenti di brani più lunghi andati persi e poi collocati a margine, come appendice. Il sistema coranico, inoltre, obbedisce alla logica della narrazione mitica, fondata sull’idea dell’eterno ritorno che ne rappresenta un paradigma essenziale. Nella rivelazione, infatti, Dio ricorda spesso agli uomini che tutti un giorno ritorneranno a lui. In tal senso, il racconto mitico non è alternativo alla storia, ma ne rappresenta un suo prolungamento. Per quanti considerano il Corano una dettatura soprannaturale da parte di Dio a Maometto, non è ammissibile la traduzione di sura con capitolo, perché sura significa “disposizione armoniosa di pietre”. Il Corano non è neanche un codice di leggi perché le disposizioni di carattere legislativo non superano i 228 versetti. È, il testo sacro, un crescendo che porta verso Dio.

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VOCI DI CHIESA di Boutros Naaman

Il mondo, l’uomo e la fede Tre vie che portano alla conoscenza di Dio

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ell’udienza generale del 14 novembre 2012, Benedetto XVI ha offerto una profonda riflessione riguardante l’anno della fede, presentando il mondo, l’uomo e la fede come le vie che portano alla conoscenza di Dio. Il papa ha affermato che ci sono delle vie che possono aprire il cuore dell’uomo alla conoscenza di Dio, ci sono dei segni che conducono verso Dio. Certo, spesso rischiamo di essere abbagliati dai luccichii della mondanità, che ci rendono meno capaci di percorrere tali vie o di leggere tali segni. Dio, però, non si stanca di cercarci, è fedele all’uomo che ha creato e redento, rimane vicino alla nostra vita, perché ci ama. È questa una certezza che ci deve accompagnare ogni giorno, anche se certe mentalità diffuse rendono più difficile alla Chiesa e al cristiano comunicare la gioia del Vangelo a ogni creatura e condurre tutti all’incontro con Gesù, unico Salvatore del mondo. Questa, però, è la nostra missione, è la missione della Chiesa e ogni credente deve viverla gioiosamente, sentendola come propria, attraverso un’esistenza animata

veramente dalla fede, segnata dalla carità, dal servizio a Dio e agli altri, e capace di irradiare speranza. Questa missione splende soprattutto nella santità a cui tutti siamo chiamati. Nei nostri tempi, ha detto il Santo Padre, si è verificato un fenomeno particolarmente pericoloso per la fede: c’è infatti una forma di ateismo che definiamo, appunto, «pratico», nel quale non si negano le verità della fede o i riti religiosi, ma semplicemente si ritengono irrilevanti per l’esistenza quotidiana, staccati dalla vita, inutili. Spesso, allora, si crede in Dio in modo superficiale, e si vive «come se Dio non esistesse» (etsi Deus non daretur). Alla fine, però, questo modo di vivere risulta ancora più distruttivo, perché porta all’indifferenza verso la fede e verso la questione di Dio. In realtà, l’uomo, separato da Dio, è ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale. Oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato 12

anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli. Le tentazioni che Gesù ha affrontato nel deserto prima della sua missione pubblica, rappresentano bene quegli «idoli» che affascinano l’uomo, quando non va oltre se stesso. Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri. Non è tramontato ciò che la saggezza antica evoca con il mito di Prometeo: l’uomo pensa di poter diventare egli stesso «dio», padrone della vita e della morte. Benedetto XVI accenna ad alcune vie, che derivano sia dalla riflessione naturale, sia dalla stessa forza della fede: il mondo, l’uomo, la fede. La prima: il mondo. Sant’Agostino, che nella sua vita ha cercato lungamente la Verità ed è stato afferrato dalla Verità, ha una bellissima e celebre pagina, in cui afferma così: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo…, in-


terroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora queste creature così belle, ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è la bellezza in modo immutabile?» (Sermo 241, 2: PL 38, 1134). Dobbiamo recuperare e far recuperare all’uomo d’oggi la capacità di contemplare la creazione, la sua bellezza, la sua struttura. Il mondo non è un magma informe, ma più lo conosciamo e più ne scopriamo i meravigliosi meccanismi, più vediamo un disegno, vediamo che c’è un’intelligenza creatrice. Albert Einstein disse che nelle leggi della natura «si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (Il Mondo come lo vedo io, Roma 2005). Una prima via, quindi, che conduce alla scoperta di Dio è il contemplare con occhi attenti la creazione. La seconda parola: l’uomo. Sempre sant’Agostino, poi, ha una celebre frase in cui dice che Dio è più intimo a me di quanto lo sia io a me stesso (cf. Confessioni III, 6, 11). Da qui egli formula l’invito: «Non andare fuori di te, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera reli-

gione, 39, 72). Questo è un altro aspetto che noi rischiamo di smarrire nel mondo rumoroso e dispersivo in cui viviamo: la capacità di fermarci e di guardare in profondità in noi stessi e leggere quella sete di infinito che portiamo dentro, che ci spinge ad andare oltre e rinvia a Qualcuno che la possa colmare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma così: «Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio» (n. 33). La terza parola: la fede. Soprattutto nella realtà del nostro tempo, non dobbiamo dimenticare che una via che conduce alla conoscenza e all’incontro con Dio è la vita della fede. Chi crede è unito a Dio, è aperto alla sua grazia, alla forza della carità. Così la sua esistenza diventa testimonianza non di se stesso, ma del Risorto, e la sua fede non ha timore di mostrarsi nella vita quotidiana, è aperta al dialogo che esprime profonda amicizia per il cammino di ogni uomo, e sa aprire luci di speranza al bisogno di riscatto, di felicità, di futuro. La fede, infatti, è incontro con Dio che parla e opera nella storia e che converte la nostra vita quotidiana, trasformando

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in noi mentalità, giudizi di valore, scelte e azioni concrete. Non è illusione, fuga dalla realtà, comodo rifugio oppure sentimentalismo, ma è coinvolgimento di tutta la vita ed è annuncio del Vangelo, Buona Notizia capace di liberare tutto l’uomo. Un cristiano, una comunità che siano operosi e fedeli al progetto di Dio che ci ha amati per primo, costituiscono una via privilegiata per quanti sono nell’indifferenza o nel dubbio circa la sua esistenza e la sua azione. Questo, però, chiede a ciascuno di rendere sempre più trasparente la propria testimonianza di fede, purificando la propria vita perché sia conforme a Cristo. Oggi molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu, in un rapporto d’amore con lui. In realtà, a fondamento di ogni dottrina o valore c’è l’evento dell’incontro tra l’uomo e Dio in Cristo Gesù. Il Cristianesimo, prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù. Per questo, il cristiano e le comunità cristiane devono anzitutto guardare e far guardare a Cristo, vera Via che conduce a Dio.


Speciale Avvento-Natale In attesa del Signore che viene

Il Natale è la festa della vita, dell’incarnazione di Dio a nascita di Gesù ha veramente realizzato le promesse messianiche? Possiamo dire che con la venuta del Figlio di Dio a Betlemme il mondo è cambiato e che gli uomini hanno trovato pace? È sufficiente guardarsi attorno e considerare le tante guerre che avvengono tra popoli e nazioni per rispondere negativamente. Noi possiamo riconoscere in Gesù quell’uomo giusto, quel re capace di governare il suo popolo, ma non dire che la giustizia si è affermata per sempre sulla terra. Cristo è, in tal senso, il germoglio o anche il principio della giustizia. È come un seme che deve crescere e diventare un grande albero… In tal senso, il germoglio è immagine di ciò che deve crescere e maturare, indice di una realtà che è in divenire e che fa sorgere in noi una grande fiducia o speranza.

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Il desiderio della giustizia Nel rapporto tra Dio e l’uomo, i grandi profeti d’Israele hanno sempre richiamato il tema della giustizia e della verità. Essi sono convinti, come Geremia, che la giustizia divina vuole prolungarsi in una giustizia umana e che il destino dell’uomo dipenda dal suo rendersi disponibile o negarsi a questa volontà. D’altronde, Jhwh è colui che ama la giustizia e opera giustizia e veracità in Giacobbe (cf. Sal 99,4), egli è il Dio che fidanza a sé Israele in veracità e giustizia (cf. Os 2,21), perché queste cose egli desidera (cf. Ger 9,23). Jhwh insedia il re come suo luogotenente, perché eserciti al suo posto la giustizia e la veracità (cf. 1Re 10,9; Is 9,6). La profezia del germoglio giusto della casa di Davide è, per il profeta Geremia, una sorta di

denuncia nei confronti di chi detiene il potere tra la sua gente. Come un autentico profeta, una sorta di ago magnetico oscillante che indica la direzione di Dio, Geremia si è legato alla situazione del momento e denuncia gli abusi e la corruzione di chi governa il popolo e dei falsi profeti. La profezia del germe di giustizia proclamata nella prima domenica d’Avvento riprende un testo che forse non è di prima mano, nel senso che appartiene più alla scuola di Geremia che al profeta stesso. Sono rinnovate le promesse della dinastia davidica. Il brano non è presente nel testo dei LXX e i vv. 14-15 ripetono quasi alla lettera Ger 23,5-6. Nel v. 15 si avverte una reminiscenza di Dt 33,28. Il brano è articolato in quattro momenti: i primi due (vv. 14-18) rinnovano le promesse del germe giusto e della perennità delle dinastie davidica e sacerdotale; gli altri due (vv. 20-26) garantiscono queste promesse appellandosi alla stabilità delle immutabili leggi naturali, nonostante lo stato precario attuale delle due famiglie annientate, cioè Giuda e Israele. Il nome “Germe giusto” o anche “Jhwh giustizia nostra” è applicato alla comunità. Il coraggio di comparire davanti al Figlio dell’uomo Il Vangelo di Luca afferma una grande verità: un giorno compariremo davanti a Cristo giudice. Per non essere sorpresi impreparati, Gesù stesso ci esorta a vegliare in ogni momento pregando. Si tratta di “stare bene attenti”, cioè di avere una vigilanza che diventa esame critico del tempo nel quale si vive, presenza critica nel tessuto sociale nel quale si 14

opera, discernimento critico delle proposte di salvezza che vengono da altre sponde. Vi è, però, anche un richiamo alla rinuncia: per prepararsi all’incontro con il Signore occorre tenersi in un atteggiamento di purezza interiore ed esteriore, senza indulgere alle seduzioni del Maligno e del mondo. Troviamo il binomio vegliate e pregate che sottende un duplice tema caro a Luca: la vigilanza permetterà di trovare il tempo per la preghiera, d’altro canto l’assiduità alla preghiera ci tiene sempre più vigili. Vi è, infine, l’accenno alla forza necessaria per sfuggire a tutto quello che sta per accadere. Dall’invito di Gesù alla preghiera e alla vigilanza nasce spontanea in noi


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una domanda: “Come utilizziamo il nostro tempo?”. Un antico adagio della pia tradizione spirituale cristiana afferma più o meno così: “Chi prega si salva”. È chiaro: la preghiera ci riconduce in noi stessi, favorisce il raccoglimento e l’unità delle nostre membra. Pregare significa ritirarsi e ritornare alle cose essenziali, a quelle invisibili e attivare la dimensione simbolica ed esistenziale del nostro essere persona. La preghiera ci libera dalle nostre dispersione, dall’attivismo, dal fare e ci riporta nel profondo di noi stessi, facendoci percepire alla presenza di Dio. Chi prega è consapevole di trovarsi in Dio, cioè di stare innanzi al suo volto. Tuttavia, la preghiera è una conseguenza del fatto che saremo

giudicati da Cristo. Luca ci presenta Gesù come il figlio dell’uomo, un titolo di natura apocalittica che troviamo nel libro del profeta Daniele e che richiama alla fine dei tempi. Pensare al Natale significa, dunque, per noi oggi, credere veramente che lo sguardo di Cristo è purificatore: i suoi occhi ci scrutano. Egli verrà come il Vivente che scruta i cuori degli uomini. Nel libro dell’Apocalisse, Cristo è presentato come colui che ha gli occhi fiammeggianti come il fuoco e scruta i cuori (cf. Ap 2,18; 19,12). Si tratta del Verbo della vita che verrà a giudicare il mondo. La salvezza è per tutti Il Vangelo della seconda domenica

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d’Avvento ci dice che in un momento ben preciso della storia e della vita politica e sociale del popolo d’Israele, Dio interviene per risollevare le sorti della sua gente mandando la sua Parola che scende su Giovanni, il Precursore. Il contesto in cui il Battista si trova ad annunciare un battesimo di conversione è quello della crisi politica d’Israele: si è sotto il dominio di Roma e nulla lascia intravedere un segno di speranza. L’attesa messianica è venuta meno. Come farà Dio a riscattare il suo popolo? La proposta del Battista è marginale, come secondaria fu la sua missione. Niente lascia sperare in un ribaltamento delle sorti. L’evangelista Luca ci fa comprendere che Dio opera proprio nel momento in cui ogni cosa sembra destinata a morire e impossibile sarebbe operare un cambiamento. La figura di Giovanni si riallaccia pienamente alla migliore tradizione profetica che suggeriva atteggiamenti di religiosità interiore, sempre preferibili ad atti esterni di culto (cf. Is 58,6-8). Il messaggio profetico, nel suo linguaggio metaforico che si ispira all’uso vigente presso gli antichi popoli orientali di spianare la via prima che passasse il re trionfatore, è di facile intelligenza. Si deve, però, notare la caratteristica di Luca. A differenza di Matteo e di Marco, la cui citazione è molto breve, egli la amplia tanto quanto è necessario per arrivare all’ultimo versetto, per dire che ogni uomo vedrà la salvezza di Dio. Per l’evangelista Luca, la storia della salvezza si inserisce in un dato momento della storia universale e così il disegno salvifico di Dio trova la sua realizzazione in seno alla storia dell’umanità. In questa prospettiva, dobbiamo celebrare il Santo Natale come festa dell’umanità, festa della redenzione di tutto il genere umano, festa che ci fa aprire le porte delle nostre case e delle Chiese a quanti hanno bisogno di


amore, di accoglienza, di cura, di sostegno, di affetto. Cristo è la nostra vera gioia L’attesa gioiosa del Signore che viene non ci esime dall’impegno per la giustizia e dal compiere il bene. È quanto emerge dal Vangelo di Luca nella terza domenica d’Avvento, ove ritorna il personaggio scomodo e caustico del profeta Giovanni. Questi dà delle norme ben precise per tutti, se vogliono convertirsi e prepararsi alla venuta del Messia. Così, bisogna dividere i nostri beni con i poveri; osservare la giustizia; non maltrattare. È urgente mettere in pratica questi avvertimenti: perché Gesù sta per arrivare come giudice della storia. Egli è portatore dello Spirito che purifica e brucia tutte le opere del male. In tale prospettiva, il Natale è insieme un avvenimento di misericordia, di grazia e di giudizio. Credo che in questa terza domenica d’Avvento, da tutti conosciuta come la domenica della gioia (Gaudete), dobbiamo riscoprire il Natale come festa della condivisione: dei beni, della fede, della carità, della speranza, delle attese, delle povertà, delle sofferenze. In tal senso, la gioia ci apparirà come qualcosa di molto concreto: si gioisce perché si condivide quello che si ha e soprattutto si partecipa alla stessa sorte. Dio viene a liberarci. La consapevolezza della vicinanza di Dio, che viene per “essere con noi” (Emmanuele), deve rispecchiarsi in tutta la nostra condotta. E di questo ci parla la liturgia odierna soprattutto per bocca di san Giovanni Battista, che predicava presso il Giordano. Diversi uomini vengono da lui per domandargli: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10). Le risposte sono varie. Una per i pubblicani, un’altra per i soldati: invita i primi all’onestà professionale; gli altri a rispettare il prossimo nei semplici problemi umani. E tutti invita allo stesso atteggiamento, al quale avevano invitato i profeti in tutta la

tradizione biblica: a condividere tutto con gli altri; a mettersi al loro servizio secondo la propria abbondanza; a compiere opere di benevolenza e di misericordia. Queste risposte di Giovanni presso il Giordano le potremmo allargare e moltiplicare, trasferendole anche ai nostri tempi, alle condizioni in cui vivono gli uomini d’oggi. La sensazione della vicinanza di Dio provoca sempre domande simili a quelle che sono state poste al Battista presso il Giordano: “Che cosa devo fare?”. “Che cosa dobbiamo fare?”. La Chiesa non smette di rispondere a queste domande. Basta leggere con attenzione i documenti del Concilio Vaticano II per constatare a quante domande dell’uomo contemporaneo il Concilio abbia dato le risposte adatte. Risposte indirizzate a tutti i cristiani e ai singoli gruppi, ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici, alle famiglie, alla gioventù, agli uomini della cultura e della scienza, agli uomini dell’economia e della politica, agli uomini del lavoro... Bisogna, tuttavia, che quella domanda: “Che cosa dobbiamo fare?” sia rivolta non solo da tutti ma anche da ciascuno. Non solo dai singoli gruppi e comunità in base alla loro responsabilità sociale, ma anche nel profondo della coscienza di ciascuno di noi. Cosa devo fare? Quali sono i miei concreti doveri? Come devo servire il vero bene ed evitare il male? Come devo realizzare i compiti della mia vita? L’Avvento conduce ciascuno di noi, per così dire, “nell’interna stanza del suo cuore” per vivere qui la vicinanza di Dio, rispondendo alla domanda, che questo cuore umano deve porsi nell’insieme della verità interiore. E quando, così sinceramente e onestamente, ci poniamo questa domanda, al cospetto di Dio, allora si compie sempre ciò di cui parla Giovanni presso il Giordano nella sua suggestiva metafora: ecco il ventilabro per ripulire l’aia. Esso permette all’agricoltore di raccogliere il frumento nel granaio,

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la pula da bruciare con il fuoco inestinguibile (cf. Lc 3,17). Proprio così bisogna fare più di una volta. Bisogna concentrarsi dentro di sé, con l’aiuto di questa luce, che lo Spirito Santo non ci risparmierà, delineare in sé e separare il bene e il male. Chiamare per nome l’uno e l’altro, non ingannare se stessi. Allora, questo sarà un vero “Battesimo”, che rinnoverà l’anima. Colui che “è vicino” (Fil 4,5) viene a battezzarci in Spirito Santo e fuoco (cf. Lc 3,18). In cosa consiste la gioia per un cristiano? Certamente, la gioia non è l’assenza del dolore, né si riduce al superamento dei propri conflitti o problemi. È la gioia del Signore risorto. È quella pienezza di senso della vita che nasce in noi dopo aver incontrato Gesù Cristo come il Vivente. È la gioia nella croce, cioè un sentimento di ammirazione profonda e di pace che ci permette di superare le avversità della vita e di “ri-significare” tutto il nostro vissuto alla presenza di Dio Padre e del suo Figlio Gesù Cristo. Questa gioia è frutto dello Spirito, dono del Signore crocifisso e risorto e deve essere condivisa con i fratelli, con il nostro prossimo, facendoci carico dei pesi gli uni degli altri. È la gioia del discepolo che, come Maria, come Giovanni e anche come i discepoli, ha riconosciuto in Gesù il Messia, il Figlio di Dio, quella speciale presenza del Regno dei cieli che si manifesterà alla fine dei tempi. È la gioia di chi vende tutto perché ha trovato un grande tesoro e vuole mostrarlo agli altri. L’Eucaristia che celebriamo nella Domenica Gaudete, terza di Avvento, ci introduce nella gioia del Natale, ossia nel grande mistero dell’Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio-per-noi; e mentre contempliamo la bellezza di un Dio che si fa carne, ci diamo da fare per aiutare le persone che sono in difficoltà, per ripristinare, almeno nel nostro piccolo, la giustizia e la pace, come veri strumenti di riconcilia-


zione nelle mani dell’Altissimo. Nella Colletta propria dell’anno C noi chiediamo a Dio, fonte della vita e della gioia, di rinnovarci con la potenza del suo Spirito. La gioia del Natale si traduce, allora, anche nella gioia di evangelizzare, cioè di portare Cristo in mezzo a noi, in ogni famiglia, in ogni città, nel mondo. Maria, modello della nostra fede Quasi alla vigilia del Santo Natale, la liturgia della Parola della quarta domenica d’Avvento ci presenta un testimone della fede molto importante: la Vergine Maria. Da sempre la tradizione cristiana le ha riconosciuto il merito di aver concepito Gesù anzitutto nella fede e poi nella carne. Lo stesso elogio che Elisabetta fa a Maria

è a motivo della sua fede. Tra tutte le donne, in maniera singolare, la fanciulla di Nazareth riceve la benedizione divina perché si è affidata totalmente al Signore. Ella, infatti, ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore ha detto. Maria porta Gesù e la sua vicinanza è già motivo di grazia: Giovanni sussulta di gioia nel grembo di Elisabetta, donna già provata dal dolore e dalla sofferenza a motivo della sua sterilità. Io credo che per questo Natale dobbiamo riscoprire anzitutto il dono della fede. Credo, anzi, che il Natale sia una “questione di fede”. Perché celebriamo il mistero della nascita di Dio nella carne umana. Perché riconosciamo l’Emmanuele come la forma definitiva di Dio nella storia.

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Perché viviamo una profonda crisi di fede, di senso di fiducia anche nei confronti del Padre. Stiamo celebrando, infatti, l’anno della fede e papa Benedetto, nel motu proprio Porta fidei (n. 2) ha affermato che la «crisi di fede che ha toccato molte persone». In tal senso, l’anno della fede serve a riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Già, non dobbiamo dimenticarlo: la riflessione sulla “crisi nella fede” serve per dare forza e nuovo entusiasmo all’annuncio del Vangelo, alla buona novella della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Anche la Vergine Maria ha vissuto un momento di profonda crisi innanzi alla proposta di Dio. Tuttavia, la grazia del Signore l’ha sostenuta nelle sue


scelte e incoraggiata a dire di “sì”, aprendola al mistero più grande dell’Amore divino. La crisi, dunque, mette alla prova la nostra libertà, il nostro assenso, ma anche tutto il nostro essere e il nostro modo di pensare e di agire. La luce splende nelle tenebre Il paradosso più grande della Rivelazione biblica è l’incarnazione del Verbo. La carne di Gesù è il corpo del Figlio, è il Dio-Figlio in mezzo a noi. Nella Parola divenuta carne troviamo il carattere scandaloso e assoluto del darsi di Dio nella storia. Perché avviene in modo pieno, in una misura eccessivamente estroversa eppur vera, reale, concreta, tangibile, personalissima. “Umano, troppo umano”, questo modo di fare e d’essere di Dio! Una tensione fortissima attraversa interamente il quarto Vangelo ed è ben resa dal movimento della luce, cioè dal dinamismo stesso della Rivelazione che spinge il credente a cercare il Mistero non in alto, nel cielo, bensì in basso, nelle radici più nascoste

dell’umanità di Gesù. Potremmo ripetere, senza sbagliare, con Simon Weil, che il Verbo luce del mondo viene “con ogni uomo”. Perché ogni respiro del Verbo fatto carne è eco di quella Parola eterna che da sempre abita presso il Padre. Qualsiasi lacrima versata da Gesù è una goccia di pianto divino. Il sangue sgorgato dal Messia sofferente è vigore dell’Onnipotente che bagna la terra e il mondo degli uomini affinché siano salvati. Così, il suo viso è il volto visibile, umano, storico, del Padre (cf. Gv 14,9-11), e la sua faccia è quella della gloria di Dio stesso (cf. 2Cor 4,6), lo splendore della sua gloria (cf. Eb 1,3). Attraverso il Cristo-Luce si rivela qualcosa dell’essenza divina, di quel Padre degli astri (cf. Gc 1,5) che nessuno ha mai visto. Lo scandalo della rivelazione cristiana è l’umanità del Verbo che, in qualche modo, copre e svela, nel medesimo tempo, la luce divina del Figlio. Nella logica del quarto Vangelo, ogni atto di Cristo non può non contenere un recondito significato, non può non 18

esprimere un particolare intervento di Dio nella storia degli uomini: tutto ciò che è la persona di Gesù Cristo è rivelazione del Padre e fonte di grazia, dono dello Spirito Santo. In tal senso, tutto ciò che si manifesta è luce. L’essenza di Dio consiste in questo: rivelarsi per creare relazione, comunione, per salvare. Diversamente, il male – ben raffigurato dalle tenebre o dalle ombre – indica ciò che passa, che non ha contenuto e che ha la sua forza nel velarsi, nel nascondersi. Da qui il carattere simbolico dell’esistenza di Gesù e dello stesso Vangelo di Giovanni. Cristo è il simbolo reale differenziato (personalissimo, unico, originale) del Padre: in lui s’incontrano concretamente e personalmente Dio e l’uomo: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Altrove commenta: «Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Cristo è Luce che illumina e acceca allo stesso tempo. L’incontro con lui è sempre carico di tensione e di dramma.


Parola, carne, luce, verità e grazia sono gli elementi che bene compongono ed esprimono il mistero della rivelazione del Figlio unigenito nel volto umano di Gesù. Il prologo di Giovanni è una meravigliosa sintesi della storia di Gesù attraverso uno sguardo retrospettivo. È lo sguardo di chi si pone dalla parte di Dio, di quell’amore eterno – movimento vitale – che genera ogni cosa in quanto grembo e fonte dell’essere. A partire, infatti, dall’originario e fontale Silenzio (il Padre), il Figlio è generato nell’Amore (lo Spirito Santo) e inviato nella storia per la salvezza del mondo. Questa Parola-carne è il volto storico del Dio nascosto, dell’Ineffabile mistero, dell’indicibile inizio dell’Eterno. Il figlio di Giuseppe e Maria, avvolto in fasce nella mangiatoia, nella sua estrema povertà, rivela il modo di darsi di Dio nel tempo. È qualcosa di sconvolgente e paradossale allo stesso tempo. Sconvolgente,

anzi direi drammatico, perché Dio si è esposto nel Verbo fatto carne in tutto e per tutto, divenendo debole e fragile. D’altronde, solo chi è l’Onnipotente può farsi debole. Paradossale perché la forma umile e povera che l’Emmanuele ha preso a Betlemme è in contrasto con quello che noi attendavamo. Di fatti, è forte in noi l’immagine di un Dio forte, Onnipotente, glorioso, capace di stupirci con prodigi e segni grandissimi. Il bambino Gesù è, forse, paradossalmente, l’antisegno, ciò che si pone agli antipodi del modo di essere e di agire di Dio. È scandalosamente umano l’Unigenito del Padre che oggi contempliamo tra le braccia di Maria. Questo modo di fare e di essere di Dio-Figlio mette in crisi il nostro modo di pensare e di agire: avremmo forse preferito effetti speciali, segni grandiosi, rivelazioni estreme; ma non è stato così. Dio, infatti, ha posto la sua tenda in mezzo a noi in modo

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umile, discreto, riservato. È questa la grandezza del Natale: il consegnarsi del Figlio al mondo e alla storia è e rimane silenzioso, umile, kenotico, sino alla fine del mondo, sino alla parusìa o manifestazione gloriosa del Figlio. L’autore del quarto Vangelo ci invita, proprio in occasione della solennità del Natale, a passare dal piano della superficie a quello della profondità: l’essere di Gesù è la sostanza del Figlio unigenito. La persona di Gesù Cristo è lo stesso Figlio di Dio nella storia. Innanzi allo scandalo dell’incarnazione, forma estrosa ed estroversa del comunicarsi della Trinità nella storia, noi possiamo solo fare silenzio e adorare il Mistero rivelato e nascosto. Lasciamoci avvolgere dalla Luce vera (il Verbo nella carne), e partecipiamo dello stesso stupore dei pastori e di quanti, senza indugio, si recarono alla grotta. Lasciamo che la Luce vera ci abbagli e ci seduca completamente… GIUSEPPE FALANGA


SPIRITUALITÀ di Raffaele Di Muro

La minorità francescana: come servi e sudditi La minorità francescana ha soprattutto una matrice evangelica. Infatti, dal Vangelo di Matteo leggiamo: «Se non convertirete e diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,34). Evangelicamente il piccolo è: colui che è simile al bambino che non possiede e non ha la possibilità di alcun controllo su cose o situazioni; colui che sa farsi piccolo come un bambino nell’umiltà, donando al Signore la propria vita, dedicandosi all’annuncio del Vangelo; colui che accoglie incondizionatamente la voce di Dio (come fa un bimbo con i genitori) e gli altri (in genere i bambini sono volentieri aperti al prossimo). Alla base dell’atteggiamento di “piccolezza”, vi è la disposizione umile del cuore che è fondamentale per un progetto di vita improntato alla minorità. Aiuta molto guardare l’esempio del Signore che si è fatto servo, che è passato tra gli uomini «come colui che serve» (Lc 22,27). Egli è l’espressione dell’amore di Dio che si china – povero e umile –

sull’umanità sofferente. Ecco un brano paolino che può davvero illuminare in tema di minorità tratte dalla Lettera ai Filippesi: «Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginoc-

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chio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (Fil 2,1-11). Umiltà, pazienza e apertura del cuore verso Dio e verso il prossimo sono i “segreti” di santità suggeriti da Francesco d’Assisi. Qui il Santo chiede un’umiltà e un’apertura a dir poco eroiche che necessitano senza dubbio dell’azione della grazia e del massimo impegno nel cammino di ascesi. La pazienza, inoltre, cioè l’accettare per amore di Dio anche le contrarietà più cocenti può essere un’arma importante per la nostra vita comunitaria. In sostanza, prendere il Vangelo sul serio ci aiuta a perfezionare il nostro vissuto comunitario. L’immagine di Cristo servo colpisce molto Francesco che, nei suoi scritti, fa continuo riferimento alla kenosi del Signore come paradigma anche per la sua vita spirituale. Francesco si definisce “Piccolo e servo” (Testamento, 49), “Uomo vile e caduco (Lettera al Capitolo generale, 4), “Piccolo e disprezzato (Lettera ai reggitori dei popoli, 1), “Servo e suddito” (Lettera ai fedeli seconda recensione, 1). Ed è proprio l’umiltà e la “piccolezza interiore” a formare anche la fraternità, perché tutti i fratelli si riconoscono piccoli davanti a Dio coinvolti nel medesimo progetto di vita interiore ed apostolica. Nella Regola non Bollata VI, 3, Francesco si esprime così: «tutti siano chiamati semplicemente frati minori e l’uno lavi i piedi all’altro». Il frate minore è, dunque, il servo di Dio che lava i piedi al fratello ed al prossimo in generale, il servo del Signore e dell’umanità. Si tratta di un morire a se stessi per giungere alla vera sapienza spirituale, di un consegnarsi totale e generoso a Dio.


ASTERISCHI FRANCESCANI di Orlando Todisco

Francesco nel Testamento «exivi de saeculo» - «uscii dal mondo»

In uno squarcio autobiografico, Francesco dice di sé che “exivi de saeculo”, e cioè uscìi dal modo di pensare, di progettare e di operare degli uomini, con l’intento di cogliere le radici della diffusa conflittualità. La conclusione, cui pervenne, e che, rientrando nel mondo, volle testimoniare, fu che la fonte è da riporre nel comune tentativo di impossessarsi dell’onda di vita, nelle sue molte forme, che, invece, andrebbe partecipata, ognuno a suo modo. Il che è possibile a condizione che si ponga mano a una nuova logica, non quella appropriativa, ma quella oblativa, non pigra ma creativa, propria di chi sente impellente il dovere di ringraziare per essere al mondo senza alcun merito. È la consapevolezza che l’essere è un dono da condividere il fondamento della spiritualità francescana. Cosa caratterizza il nostro tempo? “La concezione più profonda – scrive G. Simmel – è quella per cui esistono a priori soltanto diritti, per cui ogni individuo ha pretese – sia generalmente umane sia derivanti dalla sua situazione particolare – che soltanto come tali diventano doveri di altri soggetti”. Il dovere è il correlato del diritto, nel senso che quanto devo è ciò cui l’altro ha diritto. L’adempimento del proprio dovere è la soddisfazione del diritto altrui. La normativa sociale è funzionale all’assunto che dietro ogni dovere c’è un diritto o, anche, che nel diritto c’è il dovere, il cui adempimento è la soddisfazione di ciò che è contemplato nel diritto. Il che si risolve nella stessa ragione che, dando luce, afferma il diritto-a-essere di ciò che era in ombra. Oggi conosciamo la traduzione di tale diritto-a-essere nei diritti soggettivi, sociali, civili, individuali. Al centro è l’egoità imperativa, con la somma dei diritti, faticosamente conquistati. Ebbene, questa esplosione dell’individualismo contemporaneo – ecco l’interrogativo dirimente – non è forse caratterizzata dalla padronanza da parte dell’io del proprio territorio, pago di non violare il territorio dell’altro, con la conseguente clausura di sé in sé, in sostanziale estraneità rispetto all’altro? È l’assolutizzazione del diritto-a-essere del

proprio io, in una sorta di autoreferenzialità, che non può che esprimersi nella volontà di autoaffermazione. E allora, che ne è del diritto-a-essere dei molti che non hanno voce, perché non hanno un territorio? Per il francescano, al centro è da porre l’altro – colui dal quale abbiamo avuto in dono l’essere – l’altro che chiama gratuitamente all’essere – o coloro con i quali partecipiamo l’essere. Il punto di partenza non è il diritto-a-essere, ma il dono-di-essere, non l’io, ma l’altro, non però in quanto ingiunge o esige o impone qualcosa, ma in quanto partecipa gratuitamente l’essere. Queto il contributo francescano: dalla logica del diritto-a-essere alla logica del dono-di-essere. L’efficacia di questa proposta sta nel recuperare l’anima sotterranea di ciò che siamo, e cioè che ognuno è un dono, perché poteva non esser chiamato all’essere, e dunque nel risvegliare l’atteggiamento di gratitudine. Non essendo una proprietà tra tante, la qualità del dono tende a scomparire a favore della cosa come cosa. Il dono, infatti, non riguarda un aspetto del reale, ma lo qualifica nel suo insieme, dicendone il senso complessivo. Esso o è un apriori o è destinato a restare nell’ombra. L’ingratitudine non consiste in altro che nel vedere il fatto come fatto, la cosa come cosa, ignorandone l’origine e trascurandone il senso. L’ingrato è per lo più un superficiale. La conclusione è che se l’umanità è entrata in una nuova epoca – la globalizzazione – quando le religioni, i costumi, le lingue, i territori distinguono senza separare, a causa della maggiore prossimità degli uni agli altri, parrebbe opportuno procedere al cambio di registro interpretativo del reale, ponendo al centro l’altro, non però in quanto comanda o esige – dirittoa- essere da far valere – ma l’altro in quanto dona e donando suscita nell’altro la gioia di dare a sua volta. È il volto del francescano, cittadino della civitas Dei in rapporto dialettico con gli abitanti della civitas hominis. Le conseguenze sono molte e tutte rilevanti, perché s’impone un’altra valutazione dell’essere nel suo insieme, cominciando dalla verità.

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ORIZZONTE GIOVANI di Luca Baselice

La santità: una sfida per i giovani

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giorni di programmazione regionale Gifra sono stati accompagnati dalle riflessioni di sua eccellenza monsignor Lucio Lemmo, vescovo ausiliare di Napoli, sul significato profondo della fraternità. Fraternità, come sorgente di santità, dove amare il fratello che vediamo è segno di fede in Dio e di testimonianza credibile e gioiosa. Vivere la fraternità non è facile, ma non è impossibile. Per attualizzarla ai nostri giorni, c’è bisogno di generoso impegno e soprattutto di consapevolezza per accettare la sfida alla santità. È bello ricordare le parole di Benedetto XVI, quando dice: «Chiediamoci: ai nostri giorni la santità è ancora attuale? O non è piuttosto un tema poco attraente ed importante […]? C’è oggi bisogno di persone che siano “credenti” e “credibili”, pronte a diffondere in ogni ambito della società quei principi e ideali cristiani ai quali si ispira la loro azione. Questa è la santità, vocazione universale di tutti i battezzati, che spinge a compiere il proprio dovere con fedeltà e coraggio […], ricercando in ogni momento la volontà divina» (Omelia del 28-9-2009). Ci siamo detti che: “Progettazione” e “Formazione” sono i semi che possiamo piantare per cercare di tracciare percorsi di santità, così come ci dice papa Benedetto, e che, nella definizione di obiettivi e modalità

opportune, dobbiamo ricercare per le nostre realtà innanzitutto la conformazione al progetto di Dio. Con questo spirito si è svolto il Capitolo Fraterno Regionale di programmazione per tutti i presidenti, consiglieri, assistenti spirituali e delegati Ofs, nei giorni 13-14 ottobre 2012, presso il Convento SS. Trinità di Baronissi (Sa). Hanno partecipato anche tutti coloro che si occupano delle fraternità in formazione, per far crescere nell’amore di Dio, alla scuola di Francesco d’Assisi. E, nello stesso spirito, diversamente dai precedenti Capitoli Fraterni d’inizio anno, è stato aperto a tutti i giovani e giovani adulti, il momento di formazione del sabato pomeriggio, per iniziare all’insegna della crescita e del confronto un nuovo anno, ricco di appuntamenti di grazia. È stato bello condividere insieme questo momento di programmazione iniziale assaporando ogni istante di quest’incontro. Non è mancato lo spirito di vera e sana fraternità che, ancora una volta, ha fatto vibrare le corde del nostro cuore. La preghiera, il canto e l’ascoltarci in semplicità hanno acceso quel fuoco che immancabilmente ha scatenato la gioia, quella caratteristica, quella marcia in più, che dovrebbe essere di ogni francescano. Questi giovani ci insegnano che la vera gioia sta nell’entusiasmarsi anche nel desiderio di vedersi e di condividere per progettare un buono e sano avvenire. 22


MISSIONE di Giambattista Buonamano

Francescani per la nuova evangelizzazione

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i è svolto a Roma, presso il Seraphicum, il Convegno degli animatori missionari dell’area Cimp dal 5 al 7 novembre 2012. Nel saluto iniziale, p. Vittorio Trani, ministro provinciale di Roma, ci ha ricordato che i verbi che affiancano oggi il discorso della fede sono: annunciare (a chi è lontano), riscoprire (per chi si è allontanato), approfondire (da parte di chi crede ma che deve crescere nella fede). Ha poi aggiunto: «Vogliamo fare alcune riflessioni sul tema della nuova evangelizzazione, partendo da Francesco e facendoci guidare da lui. La linea di Francesco, in tutto, è come un’onda luminosa che fa cogliere modalità nuove in tutto, anche nel delicatissimo servizio all’annuncio del messaggio evangelico. Alla sua scuola, vogliamo cogliere alcune linee che caratterizzano lo stile francescano nell’impegno dell’evangelizzazione. La prima nota si porta dentro. Come Francesco, bisogna essere uomini di fede. In lui la fede era la forza prorompente che permeava tutto il suo essere, che abbracciava ogni espressione della sua esistenza. Francesco si sentiva dentro il mistero dell’amore del Padre, un amore infinito, totale nei suoi confronti. Un amore la cui misura era data dal mistero dell’incarnazione: Cristo, il Figlio prediletto, che si abbassa, prende la condizione umana, soffre la passione, dà la vita sulla croce. Francesco non si perde dietro formule e formulette teologiche, ma va diritto nel cuore del rapporto tra Dio, suo Padre, e lui Francesco che sente la gioia di es-

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sere destinatario dell’attenzione di Dio. “Annunciare” diviene semplicemente far sentire con la vita la vicinanza di Dio all’altro». Il p. Vittorio ha poi continuato così: «Chiesi qualche anno fa a un gruppo di ragazzi svedesi di ritorno da Assisi: “Cosa vi ha colpito di Francesco”? La risposta fu: “Sa foi” (la sua fede). Ancora adesso, ad Assisi, anche le pietre la fanno sentire. La seconda linea la prendiamo dalle parole di Francesco: “Il Signore mi diede”. La fede è un dono che viene dal Signore. Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi afferma che “neanche una virgola cambia nel cuore dell’uomo se non è lo spirito a farlo”… Ultima nota per un francescano impegnato nell’annuncio: mettere fantasia, tanta fantasia, come fece Francesco, nel trovare modalità giuste per proporre il Vangelo. Egli si fece giullare, si fece “fratello”».


CREDERE OGGI di Edoardo Scognamiglio

I luoghi della Parola...

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ella Parola, il Dio tre volte santo – da sempre il Nascosto, il più nascosto di tutti – è venuto finalmente allo scoperto e si è rivelato. Certamente, se Dio non avesse voluto rivelare se stesso a noi, non si troverebbe niente nella creazione capace di spiegare qualcosa di lui. Nella Parola, l’Eterno si è fatto così vicino a noi fino a indossare l’insicurezza della carne. Quando noi ci accostiamo ai luoghi della Parola, riscontriamo che Dio vive sempre una sua kenosis: perché le nostre deboli e mortali parole umane non possono contenere quella Parola che esce dal Silenzio e si fa carne per sempre. Quali sono i luoghi (o momenti) della Parola? Secondo la tradizione dei padri del deserto, sono tre: la sinassi eucaristica (del fine settimana) in cui si proclama la Parola; la cella dove si medita la Parola; la guida spirituale quale eco e riflesso della Parola. Tuttavia, prima di approfondire questi tre luoghi, ricordiamoci almeno quali sono le tre funzioni principali della Parola.

menti, impiegando di solito un verbo all’indicativo e alla terza persona. Delle tre funzioni, questa è la più oggettiva ed è propria della scienza, della didattica. La Bibbia, tuttavia, non si può ridurre a un puro fatto informativo anche se ci rivela il progetto di Dio. La rivelazione è sempre per la salvezza, per la comunione. La seconda, in rapporto a se stessi, è l’espressione. Ognuno di noi che parla si esprime e dice qualcosa di sé, sempre, anche quando non coniuga i verbi alla prima persona. La comunicazione può avvenire anche con i gesti e non solo con le parole. La terza, in rapporto agli altri, è l’appello. Innanzi alla Parola di Dio non si può restare neutrale: occorre decidersi. È, comunque, nel linguaggio dell’amicizia e dell’amore, che le tre funzioni della parola si coniugano perfettamente. Dio ha parlato all’uomo e ha assunto il linguaggio proprio dell’amicizia. Le Scritture ci testimoniano il carattere dialogico e amicale della Rivelazione.

Le tre funzioni della Parola di Dio La prima, in rapporto alla natura, al mondo e alla storia, è l’informazione. La Parola informa sui fatti, cose, avveni-

La sinassi eucaristica È la sinassi comunitaria il primo luogo dell’incontro con

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la Parola che viene proclamata per tutta la comunità. Alla sinassi comunitaria si raccomanda la partecipazione di tutti i monaci. È Cassiano a parlarne nei minimi particolari. C’era uno stretto rapporto tra agape ed Eucaristia. Secondo l’uso egiziano testimoniato da più fonti, l’agape sembra chiaramente precedere l’Eucaristia, in altri, invece, seguirla. La sinassi era convocata ogni sabato pomeriggio, in modo che i singoli monaci avessero il tempo di raggiungere a piedi la chiesa dalle loro celle, a volte molto distanti. Nel corso della sinassi si recitavano dodici salmi (intercalati da preghiere) e si proclamavano alcune letture bibliche dall’AT e dal NT. Spesso, la sinassi personale si ispirava a quella comunitaria. La dimensione comunitaria o ecclesiale della sinassi è sempre presente nella vita del monaco. Alla domenica mattina il monaco celebrava la sua personale sinassi che si ispirava a quella del sabato. La sinassi eucaristica ci ricorda il significato e il carattere proprio della koinonia che ci è consegnata dal Verbo stesso nel pane spezzato e nel sacrificio dell’altare. Nella visione di molti padri della Chiesa, l’Eucaristia è immagine dell’assemblea, della koinonia dei santi e icona del Regno di Dio. All’interno della sinassi eucaristica merita un’attenzione particolare l’annuncio del Vangelo che assume un significato escatologico e pasquale. Il Vangelo è memoria della parusìa di Cristo per la quale fu visto da noi non per enigmi, ma chiaramente. Il presbitero esce portando il Vangelo come Cristo la croce. Se invece lo porta il diacono, imita l’angariato Simone. Le sacre letture, in particolare la lettura del Vangelo, rappresentano il compimento di questo mondo dopo il quale il sommo sacerdote siede sul trono per il giudizio mentre escono i catecumeni e si chiudono le porte. L’assemblea eucaristica diviene icona delle realtà ultime e nuove e deve riguardare soltanto i battezzati: poiché da quel momento in poi tutto accade davanti al trono di Dio, nel suo Regno. La proclamazione del Vangelo indica, nell’ambito della divina liturgia, l’annuncio della buona novella in tutta la creazione mentre, dopo la lettura, seguirà la fine. La proclamazione del Vangelo è il principio della vera vita per i credenti. Lo scopo particolare della lettura è quello di presentare a chi è colmo di zelo le sofferenze da sopportare a motivo del Dio Verbo. La lettura spiega le sofferenze a causa del Vangelo a coloro che sono zelanti. La proclamazione del Vangelo affida all’uomo il ruolo di confessare la parola di Dio e di aprire la prospettiva della comunione con Cristo che è stato sacrificato. Il Vangelo e l’anafora eucaristica sono finalizzati alla santificazione del credente, affinché porti la sua croce come discepolo. Le letture santificano, secondo il mistagogo Nicola Cabasilas, doppiamente: perché danno giovamento all’animo triste in quanto annunciano la bontà e l’amore di Dio per l’uomo, nonché la giustizia e il giudizio, e ci infiammano d’amore per Dio (siamo aiutati, nell’ascolto o akoluthía, dalla po-

tenza stessa delle parole che sono proclamate e cantate); ci presentano l’economia salvifica di Cristo (passione, morte e risurrezione). Anche san Francesco segue la prospettiva liturgico-sacramentale quando si confronta con la Parola di Dio. La cella come luogo di meditazione della Parola Kellíon è, per il monaco, il luogo per eccellenza in cui si nutre la vita spirituale e si custodisce la Parola. La cella è come la culla e il grembo d’incubazione della Parola di Dio generato dallo Spirito nel cuore del monaco. Gli anziani vanno ripetendo: “Va’ nella tua cella, e la cella ti insegnerà ogni cosa”. La cella è la meditazione privilegiata della presenza dello Spirito Santo: è come la fornace di Babilonia dove i tre fanciulli hanno trovato il Figlio di Dio (cf. Dan 3,49) o la colonna di nube da cui Dio parlò a Mosè (cf. Es 33,9). Sono diversi i modi attraverso i quali il monaco assimila la Parola di Dio: la sinassi eucaristica personale, la lettura fatta direttamente di un libro (anágnosis), la ripetizione orale di alcuni versetti, la meditazione (meléte) dei salmi. La meditazione, in verità, più che essere un atto di pensiero, è un atto concreto, quasi fisico: è la ripetizione di un testo biblico imparato a memoria articolando le parole con le labbra a voce sommessa, in modo da gustarne il suono e quasi il sapore. Attraverso la meditazione si arriva alla contemplazione. Importante era la fase di memorizzazione che, evidentemente, precedeva la meditazione stessa. Durante la meditazione era essenziale la partecipazione attiva della mente. Infatti, un detto dei padri afferma: «Se la mente non salmeggia assieme al corpo la fatica è vana». Il monaco, poi, poteva immaginare, rappresentare, nella mente i personaggi e le scene della pagine bibliche che recita con la voce fino a immedesimarsi in esse. In cella ci si alterna, dunque, tra meditazione, salmodia e preghiera. È una prassi spirituale per allontanare i cattivi pensieri. È un modo molto pratico per assimilare le Sacre Scritture nella

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propria vita, usando la voce, le mani, la memoria, l’immaginazione, il corpo per la rappresentazione. Si tratta di dare corpo alla Parola. Le parole della Scrittura riprendono vita e forma. Poiché noi non siamo monaci, come possiamo meglio sfruttare il tempo personale di colloquio con Dio attraverso la sua Parola? Io credo che dobbiamo fare nostra un’immagine molto bella che i padri conciliari ci hanno lasciato nella costituzione Dei Verbum. Al n. 2 si dice che «piacque [placuit Deo in sua bonitate et sapientia seipsum revelare] a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9)» e che con questa Rivelazione «Dio invisibile (cf. Col 1,15; 1Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici [ex abundantia caritatis suae homines tamquam amicos alloquitur] (cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cf. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. La Parola proclamata crea amicizia, confidenza, intimità con Dio. D’altronde questa è stata

l’esperienza di Abramo, di Mosè, dei profeti, della stessa Vergine Maria. Abramo è, per antonomasia, l’amico di Dio (cf. Gen 18,17ss). Gesù stesso chiama i suoi discepoli amici (cf. Gv 15,15) e rivela loro i segreti del Regno. Nella fraternità, il modello e la sorgente della vera amicizia è l’amicizia che Dio stringe con l’uomo. Il Padre, inviando suo Figlio in mezzo a noi si è mostrato amico degli uomini (cf. Tt 3,4). Gesù lo ha descritto come colui che si lascia incomodare dall’amico importuno (cf. Lc 11,5-8). Gesù ha dato all’amicizia un volto di carne: ha amato il giovane ricco (cf. Mt 10,21), ha amato teneramente Lazzaro (cf. Gv 11,3.11.35). Il tipo dell’amico di Gesù è il discepolo che Gesù amava e che affida alla propria madre (cf. Gv 13,23; 21,7.20; 19,26). L’amicizia rimanda all’amore fraterno che regnava tra i primi discepoli e ha anche un significato escatologico: rinvia, infatti, all’essere amico dello sposo. È questo il ruolo che spetta a Giovanni Battista. Questa familiarità con Cristo, con la sua Parola, Francesco l’ha vis26


suta soprattutto attraverso il gesto bello e terribile dell’apertura del Vangelo ripetuta nel momento delle decisioni più importanti. Il Poverello si avvicina al libro dei Vangeli come al libro della vita, con la consapevolezza cioè che il Signore è presente vivo e vero e conosce la situazione personale e comunitaria di quanti con fiducia si avvicinano a lui per ricevere una parola di vita. Per Francesco, le parole di Cristo sono profumate perché la Parola implica anche la presenza della persona di Cristo.

d’insegnare al discepolo a riferirsi in tutto, come dice abbà Antonio, alla testimonianza delle sante Scritture. Anche nelle nostre fraternità possiamo avere persone mature che ci guidano nel discernimento quotidiano come nei momenti più importanti della nostra vita. Il Vangelo, esperienza autentica di libertà e di gioia, è la forma di vita che frate Francesco ha scelto per sé e i suoi frati. È un annuncio carico di speranza e di fiducia, “lieta novella” della morte e risurrezione di Gesù, il Cristo, Verbo di Dio umiliato e risuscitato. Il Vangelo è anche il vissuto di Francesco – della sua personale storia di conversione e d’incontro con il Signore – e delle fraternità a lui legate ancora oggi. La Regola non è semplicemente un progetto o una forma di vita pensata a tavolino, né un espediente del momento o una suggestione dettata dall’emotività di un incontro. È qualcosa di concreto e di permanente che si sviluppa nella vita di tutti i giorni, attraverso l’esperienza di Cristo con i suoi discepoli e il raffronto tra la storia personale di Francesco e lo stile di vita dei suoi compagni.

Il padre spirituale come eco e riflesso della Parola Credo sia molto importante, per le nostre fraternità, soffermarsi su questo terzo luogo della Parola. Il padre spirituale aiuta nell’assimilazione e nell’interpretazione delle Scritture. Il colloquio dei monaci con i loro abbà o anziani (ghérontes) è fondamentale. L’anziano è tale non per l’età biologica, bensì per la maturità spirituale. Alla domanda del giovane monaco: “Come posso salvarmi?”, l’anziano risponde: “Aggrappati alla Parola”. Il ruolo dell’anziano è

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MI - NEWS di Silvia Compassi

La fede di Maria

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omenica, 18 novembre 2012, presso il convento di S. Antonio in S. Anastasia (Na), si è tenuto il Convegno Regionale della Campania sul tema “La fede in Maria”, argomento in perfetta sintonia con il cammino della Chiesa cattolica. In obbedienza e gratitudine al Vicario di Cristo che ha indetto l’Anno della Fede, ogni milite deve sentirsi corresponsabile della missione di salvezza delle persone che Gesù ha affidato alla Chiesa. Il relatore che ha trattato il tema, padre Giacomo Verrengia, ha invitato i convenuti a rivolgersi con particolare devozione a Maria, figura della Chiesa, che «in sé compendia e irraggia le principali verità della fede». Padre Giacomo ha focalizzato la sua riflessione su quattro punti: Maria ci educa alla fede - Riflettiamo alla luce di Maria - Imitiamo Maria - Il nostro ideale. Maria ci educa alla fede Nel giorno della visitazione, santa Elisabetta, tra gli altri titoli con cui salutò Maria, ripiena di Spirito Santo proclamò: “Beata te che hai creduto alla parola del Signore”. La Vergine Maria, quindi, non è grande solo perché “piena di grazia” ma è altrettanto grande perché è “colei che ha creduto” e per noi cristiani Maria si pone alla nostra attenzione come modello della vera fede. Quando Gesù chiese ai suoi discepoli: “Chi dice la gente che io sia”, ricevette risposte importanti ma non esatte: “alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti”. Ciò ci fa comprendere che la gente aveva cominciato a stimare e a guardare con occhio diverso quel Gesù che camminava in mezzo a loro, ma erano ben distanti dalla verità; Pietro, illuminato dal Padre, confessa la sua identità: “Tu sei il Cristo di Dio”! Dopo la risurrezione e dopo che Tommaso chiese di vedere e di “toccare le sue piaghe per poter credere in lui”, Gesù proclamò l’ultima beatitudine del Vangelo: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. La prima testimone credibile, modello della fede, è Maria e proprio lei deve insegnarci a essere cristiani dalla fede viva e vera.

un figlio”, “Lo Spirito Santo scenderà su di te e ti coprirà con la sua ombra”,”Concepirai e darai alla luce un figlio che sarà il figlio dell’Altissimo”, non vengono date garanzie o certezze ma solo promesse e tale mistero può essere illuminato solo dalla luce della fede. Maria crede nell’annuncio dell’Angelo come Abramo credette alla promessa di poter essere padre di un figlio e di un popolo nuovo, anche se ormai giunto a tarda età, e ha creduto e sperato “contro ogni speranza”. La fede per Maria è stata un “percorso” di crescita continua. Giovanni Paolo II afferma: «Le parole di Elisabetta: “è beata colei che ha creduto”, non si applicano solo a quel particolare momento dell’Annunciazione. Certamente questo rappresenta il momento culminante della fede di Maria in attesa di Cristo, ma è anche il punto di partenza da cui inizia tutto il suo “itinerario verso Dio” cioè il suo cammino di fede. È su questa via, in modo eminente e davvero eroico, anzi con un sempre maggiore eroismo di fede, si attuerà l’obbedienza da lei proposta alla parola della divina rivelazione» (Redemptoris mater, n. 13).

Riflettiamo alla luce di Maria Anche Maria camminò nell’oscurità della fede: “Maria non fu uno strumento solo passivo nelle mani di Dio; cooperò alla salvezza dell’uomo con la libera fede e l’obbedienza” (Lumen gentium 58). La fede della Vergine Maria fu vera e autentica; ebbe fiducia totale in Dio e nella sua parola e si abbandonò al mistero di quelle parole. Nell’annuncio dell’Angelo Gabriele “Ecco tu concepirai e darai alla luce

Imitiamo Maria Anche noi mettendoci alla scuola di Maria per conoscere e imitare le caratteristiche della sua fede potremo essere uomini di fede autentica. La fede di Maria è stata un totale abbandono alla volontà di Dio, anche nel momento della 28


prova più dolorosa, cioè sotto la Croce, quando tutti vacillano, dubitano, fuggono; lei sta sotto la croce unita al dolore del Figlio. Anche per noi la fede deve essere abbandono in Dio, lasciarsi guidare da lui, è accogliere la sua Parola. La fede di Maria è una fede semplice e sincera, non fondata su richiesta di prove, ma fondata sulla luce dello Spirito Santo. Maria accanto a Gesù vive di fede; anche noi se abbiamo fede dobbiamo credere alla presenza di Dio nella nostra vita sia nei momenti lieti e sia nei momenti difficili e dolorosi. La fede di Maria è stata una fede gioiosa; gioia che appartiene a quelli che vivono alla presenza di Dio e non dubitano della sua assenza o inesistenza. Fede significa vedere Dio al di là di oscure tenebre spirituali, al di là delle tentazioni cui siamo sottoposti; significa sentire Dio accanto a noi anche se silenzioso. La fede di Maria è una fede eroica. Vide suo figlio nella stalla di Bethlemme e credette che Egli era il creatore del mondo. Lo vide povero e lo credette padrone dell’universo. Lo vide giacere sulla paglia e lo credette Onnipotente. Lo vide morire appeso a una croce e nonostante che la fede di tutti fosse scossa, Maria non vacillò nella propria certezza che Egli fosse Dio.

ideale e ancor più difficile è approfondirlo; o piuttosto lo possiamo approfondire sempre di più e conoscere in modo sempre più esplicito, ma non potremo mai esaurire la sublime profondità. E per quale motivo? Perché in questo caso si tratta della Madre di Dio. Noi conosciamo bene il significato del termine “madre”, ma la nozione di “Dio” contiene in se stessa l’infinito, mentre la nostra intelligenza è limitata e non sarà mai in grado, quindi, di comprendere appieno il concetto di “Madre di Dio”. Pertanto, chi non è capace di piegare le ginocchia e di implorare da lei, in un’umile preghiera, la grazia di conoscere chi ella sia realmente, non speri di apprendere qualcosa di più su di lei. Dalla divina maternità scaturiscono tutte le grazie concesse alla Santissima Vergine Maria, e la prima di tali grazie è l’Immacolata Concezione. L’Immacolata: ecco il nostro ideale. Avvicinarsi a lei, renderci simili a lei, permettere che ella prenda possesso del nostro cuore e di tutto il nostro essere, che ella viva e operi in noi e per mezzo nostro, che ella stessa ami Dio con il nostro cuore, che noi apparteniamo a lei senza alcuna restrizione: ecco il nostro ideale. Il nostro ideale: imitare Maria, santi e immacolati nell’amore, voler fare, fare, non stare fermi, perché la gioia che abbiamo dentro la vogliamo trasmettere agli altri».

Il nostro ideale Qual è il nostro ideale? È la domanda che si poneva san Massimiliano Kolbe: «Non è facile comprendere il nostro

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SPIRITO DI ASSISI di Pietro De Lucia

Fare del dialogo e dell’amicizia il nostro stile di vita

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stato questo il titolo della giornata regionale che si è svolta in Campania, domenica 21 ottobre 2012 (ore 9-13), per ricordare lo Spirito di Assisi. Sull’esempio di Francesco, il Poverello, uomo di pace e di dialogo, alcuni esponenti del mondo ebraico, cristiano (cattolici, ortodossi, evangelici), islamico e bahai, hanno riflettuto – insieme alla grande famiglia francescana (Primo Ordine e Terz’Ordine) –, presso il Centro Sportivo Caravita di Cercola (Na), sul contributo che i credenti possono effettivamente dare per una convivenza pacifica tra i popoli. Ha moderato l’incontro p. Edoardo Scognamiglio, Ministro Provinciale dei Frati Minori Conventuali di Napoli e Basilicata. Il vescovo di Avellino, mons. Francesco Marino, delegato Cec per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, ha portato il saluto di benvenuto. L’impegno per il dialogo e la pace deve essere una costante della nostra vita, uno stile che caratterizza l’intera esistenza dei credenti. «Se è vero che solo l’amore è credibile» – ha ricordato p. Edoardo Scognamiglio –, «allora ogni persona religiosa non può non accogliere i fratelli e le sorelle che vivono accanto a lui, anche se di culture e fedi differenti». In tale ottica, «ogni esperienza religiosa può divenire preziosa per il raggiungimento della giustizia e il ripristino della pace» lì dove ci sono conflitti e tensioni. È stato molto toccante l’intervento della dottoressa Norma Naim, della comunità ebraica di Napoli. Ha ricordato i fatti terribili e drammatici della Shoah e come la sua famiglia ha sopravvissuto durante il regime nazista. Il pastore Giuseppe Verrillo, della Chiesa apostolica italiana, ci ha ricordato che la conversione, attraverso la fede, è un atto della vita da compiere ogni giorno. La signora Elisabetta Kalampouka Fimiani, delegata da parte del patriarcato ortodosso di Costantinopoli, ha posto in evidenza la possibilità di un dialogo ecumenico e interreligioso che nel nostro Sud è possibile vivere con maggior serenità e tanto spirito fraterno. Domenico Iacomino, del Gruppo interconfessionale per le attività ecumeniche (Giaen) ha illustrato le diverse iniziative che di anno in anno si tengono in Campania e di come il dialogo ecumenico è sempre una strada percorribile lì dove l’uomo si apre all’ascolto della Parola e del fratello che ci sta accanto. Bella anche la testimonianza del ministro regionale dell’Ofs Campania, Michele Ortaglio. Ci ha ricordato che l’incontro con l’altro è nell’esperienza propria di san Francesco che andò verso il Sultano d’Egitto portando solo il Vangelo, cioè la sua esperienza di Gesù

Cristo, e un cuore aperto per creare dialogo e amicizia con tutti. Abbiamo bisogno di alimentare giorno per giorno lo “Spirito di Assisi” attraverso la preghiera, la disponibilità all’ascolto e il dialogo fraterno e sincero nelle nostre comunità e con chi vive accanto a noi, pur appartenendo a un’altra esperienza religiosa. Non possiamo venire meno in questo cammino: Fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita. Ci ha ricordato p. Edoardo Scognamiglio, anche come direttore del Centro Studi Francescani per il Dialogo interreligioso e le Culture di Maddaloni, che il cristiano che s’impegna nelle iniziative interreligiose avverte sempre più la necessità di comprendere le altre religioni proprio per conoscere meglio i loro seguaci. Si vedrà che vi sono molti punti di contatto: il credere in un unico Dio che è Creatore, l’aspirazione alla trascendenza, la pratica del digiuno e del ringraziamento, il ricorso alla preghiera e alla meditazione, l’importanza del pellegrinaggio. Le differenze, comunque, non devono essere sottovalutate. Una spiritualità cristiana del dialogo crescerà se si mantengono entrambe queste dimensioni. Pur apprezzando l’opera dello Spirito di Dio fra le persone di altre religioni, non soltanto nei cuori dei singoli ma anche in alcuni dei loro riti religiosi (cf. Redemptoris mis30


sio 55), dovrà essere rispettata l’unicità delle fede cristiana. La spiritualità che anima e sostiene il dialogo interreligioso è quella vissuta in fede, speranza e carità. Vi è la fede in Dio, che è Creatore e Padre dell’umanità intera, che abita in una luce inaccessibile e nel cui mistero la mente umana non è in grado di penetrare. La speranza caratterizza un dialogo che non pretende di vedere risultati immediati, ma si tiene saldo al credere che «il dialogo è un cammino verso il Regno e che certamente porterà frutti, anche se il tempo e le stagioni sono conosciute solo dal Padre (cf. At 1,7)» (Redemptoris missio 57). La carità che proviene da Dio, e che ci viene comunicata dallo Spirito Santo, spinge il cristiano a condividere l’amore di Dio con altri credenti in maniera gratuita. Il cristiano è quindi convinto che l’attività interreligiosa sgorga dal cuore della fede cristiana. San Francesco resta per noi un modello sempre attuale per il dialogo con Dio, i fratelli, l’altro e noi stessi. Dopo le diverse testimonianze interreligiose, si sono susseguiti un momento di canto e di danza ebraica. L’impegno comune per il dialogo e l’amicizia fraterna è stato così formulato: «Con l’aiuto di Dio, Creatore del cielo e della terra, e Padre buono e misericordioso di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, sull’esempio di san Francesco, ci impe-

gniamo a essere sempre di più, giorno per giorno, strumento di pace e di riconciliazione tra i popoli e le nazioni, e a favorire il dialogo e il rispetto dell’altro nelle famiglie e nelle comunità, come anche nelle nostre città. A partire dal bisogno di giustizia dei poveri, ci impegniamo a denunciare il male e la violenza in tutte le sue forme e a praticare il bene e la carità sul nostro territorio, lì dove Dio nostro Padre, ci ha posti. Facciamo nostro anche l’impegno di educare le nuove generazioni al rispetto dell’ambiente, alla salvaguardia del creato e alla tutela del territorio, affinché il senso civico e politico della vita comune raggiunga ogni persona di buona volontà. Ci impegniamo, inoltre, a costruire i laboratori della pace, affinché si comprenda che la diversità delle fedi e delle culture rappresenta una grande risorsa per le nostre città, per la nostra Regione Campania, e che siamo tutti fratelli, perché Dio è Padre di tutti. Ci impegniamo, ancora, ad avere rispetto e cura degli immigrati e degli stranieri e dei profughi che vivono sul nostro territorio, e a rispondere sempre con il bene al male, abbattendo pregiudizi e vincendo le discriminazioni. Ci impegniamo, così, a fare del dialogo e dell’amicizia fraterna il nostro stile di vita, il modo concreto per testimoniare la fede giorno per giorno».

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POESIE di Rita Margiasso

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iportiamo due poesie sul Natale scritte da due grandi personaggi della storia mondiale: Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta. Giovanni Paolo II è stato il primo papa non italiano dopo 455 anni. Il suo pontificato è uno dei più lunghi della storia ed è durato dal 1978 al 2005. È ricordato per il suo carisma e la vigorosa azione contro il comunismo e l’oppressione politica; anche per questo è considerato uno degli artefici del crollo dei sistemi del socialismo reale.

Madre Teresa di Calcutta è stata una religiosa albanese di fede cattolica, fondatrice delle Missionarie della Carità. Il suo lavoro tra i poveri di Calcutta l’ha resa una delle persone più famose al mondo. Nel 1979 ha vinto il Premio Nobel per la Pace e il 19 ottobre 2003 è stata proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.

Bambino Gesù, asciuga ogni lacrima - Giovanni Paolo II Asciuga, Bambino Gesù, le lacrime dei fanciulli! Accarezza il malato e l’anziano! Spingi gli uomini a deporre le armi e a stringersi in un universale abbraccio di pace! Invita i popoli, misericordioso Gesù, ad abbattere i muri creati dalla miseria e dalla disoccupazione, dall’ignoranza e dall’indifferenza, dalla discriminazione e dall’intolleranza. Sei tu, Divino Bambino di Betlemme, che ci salvi, liberandoci dal peccato. Sei tu il vero e unico Salvatore, che l’umanità spesso cerca a tentoni. Dio della pace, dono di pace per l’intera umanità, vieni a vivere nel cuore di ogni uomo e di ogni famiglia. Sii tu la nostra pace e la nostra gioia!

È Natale - Madre Teresa di Calcutta È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro. È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società. È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale. È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza. È Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.

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TESTIMONI di Giacomo Verrengia

Il servo di Dio Francesco Maione Uomo di fede semplice

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a fede è un dono che ci viene dato da Dio nel giorno del Battesimo; ma è come quel “piccolo seme di senape” che viene messo dentro di noi e che dobbiamo far sviluppare, ne vedremo così tutta la sua bellezza e tutta la sua potenza. Lo sviluppo della fede lo si può vedere attraverso le opere. Scriveva san Giacomo: la fede senza le opere è morta. Nella vita del servo di Dio Francesco Maione (Sant’Anastasia 2 ottobre 1840 – Napoli 21 novembre 1874) possiamo notare questa crescita graduale nella fede, fino a diventare una fede robusta, albero forte pronto a portare frutti di santità. Fin da fanciullo, a S. Anastasia, si distingueva dagli altri ragazzi per l’assiduità con cui partecipava alla Messa domenicale e alla catechesi parrocchiale, imparando a memoria dottrina e preghiere. Molti compagni del paese erano spronati proprio dall’esempio del piccolo Francesco a seguire meglio le lezioni di catechismo. La sua fede è cresciuta soprattutto negli ospedali di Napoli, Pellegrini e Incurabili, dove vi giunse all’età di 15 anni, dopo aver perso la mamma Teresa e dopo essersi fratturato il femore. I cappellani di questi ospedali hanno attestato che Francesco era non solo desideroso di apprendere cose nuove nella fede, ma anche impegnato a insegnare quello che lui sapeva ad altri ragazzi ammalati della sua età. Egli amava molto pregare perché poteva così volare in alto e vivere alla presenza di Dio. Un chierico, poi diventato sacerdote, era entrato in simpatia e confidenza con lui tanto da insegnargli a leggere e a scrivere, così egli poteva leggere e meditare le opere di S. Alfonso de’ Liguori e altri libretti devozionali. Le devozioni sono il modo concreto con cui un’anima si rivolge a Dio con tanta fiducia e Francesco ne aveva tante tra cui: a) la devozione per il Bambino Gesù e per il santo Natale. Nella sala dell’ospedale, infatti, introdusse la novena in preparazione al Natale e ogni giorno in onore di Gesù faceva recitare la “coronella a Gesù Bambino”; b) la devozione al Santo Nome di Gesù. Francesco invocava continuamente il Santissimo Nome di Gesù, e si addolorava quando lo sentiva bestemmiare; c) la devozione alla Passione di Gesù; d) la devozione alla Vergine Santissima che ebbe fin da fanciullo, quando recitava insieme ai genitori o alla

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nonna il santo rosario. Alcune feste mariane gli erano particolarmente care tra cui: la festa dell’Immacolata che amava al di sopra di tutte le feste. Egli, inoltre, aveva una grande devozione verso i santi, soprattutto Francesco d’Assisi, tanto che divenne terziario francescano e visse il carisma francescano con una vita povera e piena di sofferenze. L’esempio di san Francesco fu per lui un richiamo costante a unirsi all’amore di Cristo crocifisso. Il servo di Dio Francesco Maione aveva un’amore tenero e un rispetto grande verso tutti i sacerdoti. Come san Francesco d’Assisi poteva dire: “Il Signore mi diede tanta fede e tanto amore verso i sacerdoti”. Godeva nel vederseli vicino al letto e amava sentirli parlare e trattenersi con loro. Ogni volta che avvicinava un sacerdote gli baciava le mani pensando a quello che insegnava san Francesco ai suoi frati: “le mani dei sacerdoti sono mani consacrate che mi danno il Corpo di Gesù, mi possono dare il perdono di Gesù”. Ecco, cari fratelli, parlando della fede del servo di Dio Francesco Maione non abbiamo detto nulla di straordinario, ma certamente egli è santo perché ha fatto straordinariamente bene tutto quello che è ordinario.


PASTORALE di Vincenzo Picazio

I giovani e la fede

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e le nuove generazioni non hanno un futuro prossimo, come fanno a credere in un futuro escatologico? Non c’è bisogno, credo, delle recenti statistiche per accorgersi di come la fede cristiana sia considerata estranea dai giovani, tanto che si può parlare di prima generazione incredula, digiuna di qualsiasi esperienza di fede. Mi ha molto colpito questa distanza di anni luce tra quello che si cerca di trasmettere con il catechismo e la realtà completamente diversa vissuta dai ragazzi. Ed è oggi indispensabile, da parte di tutti gli operatori ed educatori, conoscere le realtà che circondano il mondo giovanile dagli strumenti moderni della comunicazione, Facebook, Twitter, sms, chat, YouTube e community. Per il resto nessuno sa nulla della loro vita reale, i docenti sono considerati dei falliti, i genitori dei matusa, i catechisti dei pedanti indottrinatori e i loro modelli, si sa, sono i personaggi dal Grande Fratello, di X Factor, di Amici della De Filippi, le veline, i calciatori miliardari, i bulli e i ragazzi dei filmati da brivido. Quindi le nuove generazioni non hanno radici, non hanno ideali, fondamenti etici, nemmeno cultura classica o politica per cui confrontarsi in un rapporto reale con la vita. La Chiesa si trova oggi davanti a una sfida formidabile e cioè come proporre un cristianesimo credibile, superando quel distacco e quella separazione tra vita e fede che caratterizza purtroppo la nostra epoca, in cui molte realtà sono superficiali e banali, dove non è più richiesto alcun sacrificio e alcuna rinuncia, dove tutto si ritiene dovuto e scontato e nessuno fa più proposte di ideali e mete da conseguire. Certo, dopo vent’anni di televisione commerciale inaugurata dal Presi-

dente del Consiglio e subito seguita dalla Rai, ci meravigliamo ancora della condizione giovanile che è come la descrivono i più grandi esperti mass-mediologi? E però non basta, perché quando una religione si afferma e dà un’impronta alla società in cui si propaga, vuol dire che ha catturato le metafore di base che, di epoca in epoca, reggono la convivenza umana. Quando invece una religione declina, vuol dire che quelle metafore non le intercetta più. E questo mi pare sia iniziato quando ci siamo concentrati quasi esclusivamente nella lotta contro il comunismo, mentre il pericolo maggiore veniva dalla corruzione dei costumi tipica delle società opulente. La società comunista, tutto sommato, a parte la corruzione, la mancanza di libertà e tutte quelle cose che sappiamo, era etica, per il semplice fatto che la gente viveva in condizioni di povertà. E dove c’è povertà c’è solidarietà, aiuto reciproco, di cui oggi non s’intravvede neppure la traccia. Aver individuato nel comunismo il male radicale è stato un abbaglio che non ci ha consentito di capire che il nemico vero era l’opulenza capitalistica che porta con sé il consumismo e la corruzione dei costumi, i quali, a lungo andare, disfano il tessuto sociale, l’attenzione al prossimo, spingendo fino al parossismo, individualismo ed egoismo. Alla chiesa mancano i giovani. Oggi, nascere e diventare cristiano sono due cose distinte. Non si diventa più cristiani mentre si vien allattati dalla mamma. Cosi scrive Armando Matteo in un breve saggio, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, pubblicato nel 2010 da Rubbettino editore

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ARTE di Paolo D’Alessandro

Premonizioni pasquali

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lcuni pastori intenti a vegliare il proprio gregge sono sorpresi dalle parole di un angelo che indica in un bambino appena nato a Betlemme il Salvatore. Partono senza indugio e, come annunciato, trovano Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù adagiato nella mangiatoia (cf. Lc 2,8-16). È il momento raffigurato nel dipinto di autore ignoto (olio su tela, XVIII sec.) collocato sopra l’altare laterale, terza cappella a sinistra, della chiesa di Sant’Antonio in Nocera Inferiore (Sa). Sacra Famiglia è il titolo attribuito a questo dipinto, ma la presenza dei pastori lascia intendere che questo è un’Adorazione dei pastori (così come ci è indicato nello studio di G. SALIERNO - V. PICCOLO, La pinacoteca e altre opere conservate nel convento di S. Antonio a Nocera Inferiore, Melfi 1997, 74). Luce e ombra sono gli elementi dominanti dell’opera. L’attenzione di chi guarda è subito catturata al centro del dipinto, dove splende il volto di Gesù Bambino il cui corpicino, nudo e luminoso, si distende in diaconale verso sinistra su un telo di lino bianco adagiato sulla paglia. Egli è in relazione con l’altro punto luminoso del quadro: la Vergine Maria. Lo sguardo sale a sinistra, in alto: da lì proviene la luce, uno squarcio divino circondato da testine d’angeli. Maria e il Bambino riflettono il cono di luce su tutti i personaggi e gli oggetti presenti. La giovane Maria ha la testa coperta da un velo color ocra, ed è vestita con il tradizionale abito rosa e il manto azzurro. Il braccio sinistro solleva la testa del figlio e la mano destra ne accarezza le braccia. Al suo fianco, l’anziano Giuseppe, un poco arretrato e «in ombra» rispetto alla scena principale per significare la sola funzione di custode della Vergine e del Bambino. Con la sinistra si appoggia al bastone mentre il palmo della mano destra indica il Bambino ai pastori. Più sotto, un giovane pastore si china in adorazione lasciando cadere il bastone e portando la mano destra sul cuore. Egli sorregge sul poderoso braccio sinistro un agnello legato alle zampe. Dietro di lui, in ombra, s’intravede una testa di pastore che guarda al cielo. Nell’angolo inferiore sinistro del dipinto, in primo piano, è raffigurato un uomo anziano con la barba e un grosso mantello rosso. Indica con la mano sinistra Gesù a un bambino (suo figlio?) che sostiene con il

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braccio destro. Questi, raffigurato di spalle, si è appena tolto il cappello in segno di rispetto, e ora lo tiene nella mano destra. Nel contemplare questo dipinto siamo immersi in un’atmosfera lieta e al tempo stesso carica di pensosa serietà e attraverso i vari piani prospettici siamo trasportati anche noi nell’adorazione del Bambino appena nato. Il primo piano, quello più vicino all’osservatore (l’anziano e il bambino con il cappello in mano), rappresenta il reale, separato dal secondo piano, luogo dell’avvenimento sacro da un muro di pietre. Su questo muro è appoggiato l’agnello, simbolo del futuro sacrificio di Gesù, in linea con le indicazioni della pittura della Controriforma. Il secondo piano è quello dell’evento: la nascita del divino Bambino adagiato in una mangiatoia ricolma di paglia, simbolo del cibo che Gesù diventerà per l’umanità. Il panno bianco, su cui il Bambino è disteso, è premonizione del sudario funebre in cui sarà avvolto. Il terzo piano, infine, è il cielo notturno, nel quale una tenue luce fa intravedere testine d’angeli e la patria celeste da cui è disceso il Figlio per condurci con sé al Padre. Il centro luminoso del quadro è costituito dal Bambino e dalla Madre. Il Bambino è la luce divina che illumina ogni uomo; Maria è nella luce in quanto ci dona il Figlio. In questo dipinto anche le mani parlano. Quelle del pastore anziano e di san Giuseppe indicano Gesù Bambino, mentre quelle del pastore giovane esprimono preghiera, raccoglimento e adorazione. Il bastone del pastore giovane è lasciato cadere perché ora non gli serve più: l’uomo si pone di fronte a Dio nella sua umanità, senza appoggi, nella verità. Anche gli sguardi sono rivolti verso Gesù Bambino, tranne quello di Maria, che guarda l’agnello con il volto malinconico e distante perché premonitore del sacrificio pasquale che suo Figlio è venuto a compiere in obbedienza al Padre. Nel meditare, allora, in profondità quest’Adorazione dei pastori, la nostra anima è pervasa, come quella di Maria, da un sentimento contrastante di gioia e inquietudine. La gioia e la tenerezza per un Dio Bambino che è venuto a portare la luce nella nostra vita e l’inquietudine per le sue sofferenze preannunciate sin dalla sua nascita, accettate per amore del Padre e nostro.


L’INTERVISTA di Francesco Celestino

Alla riscoperta dell’uomo religioso e simbolico Intervista al cardinale Julien Ries

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i traduciamo, direttamente dal francese, l’intervista rilasciata dal cardinale Julien Ries che, per più di cinquant’anni, ha studiato il mondo del sacro e i simboli religiosi e si è dedicato alla conoscenza dell’uomo arcaico.

Questa è un’ottima domanda. Sto per concludere un mio nuovo piccolo libro che invierò in questi giorni alla Jaca Book per la traduzione in italiano. Io mostro che l’umanizzazione è un processo di due milioni di anni: dall’homo abilis alle religioni della Mesopotamia (Sumeri, Accadici, Babilonesi ed Egiziani). L’ominizzazione termina verso il tremila prima dell’era cristiana. Il contributo definitivo dell’umanizzazione è il mistero dell’incarnazione che dona un uomo nuovo. È una questione teologica. C’è dunque umanizzazione e umanizzazione.

Quale è il fil rouge che attraversa tutte le Sue opere? Potrebbe indicare almeno cinque parole-chiave che ricapitolano la sua opera? Il filo rosso che attraversa la mia opera si può così sintetizzare: homo religiosus, homo symbolicus, la coscienza dell’esperienza del sacro, l’importanza del simbolo nella sua percezione di homo religiosus fin dalle origini dell’homo abilis che ha due milioni di anni. È questo il filo rosso dei miei studi per la nascita di una nuova antropologia religiosa.

È possibile, partendo dalla dimensione simbolica dell’uomo, intravedere uno spazio di dialogo in ogni esperienza religiosa? Si. È quanto cerco di dimostrare nel primo volume della mia opera omnia (I/2: Incontro e dialogo). Bisogna partire dall’homo religiosus et symbolicus. Tocco questa questione nel mio ultimo piccolo libro.

Come è nata in Lei la passione per l’antropologia del sacro e per l’homo religiosus? Attraverso il successo scientifico ed editoriale delle mie prime ricerche sull’antropologia religiosa dedicate proprio al sacro.

Ai fini della nuova evangelizzazione, la categoria del sacro potrebbe essere un aiuto – costituire una via – nella prassi pastorale per creare dei percorsi di fede e di annuncio? Si. Bisogna partire sempre dalla dimensione religiosa e simbolica dell’uomo, dal sacro e dal simbolo.

Quali sono stati i Suoi autori preferiti e i punti di riferimento nella sua ricerca? I miei autori preferiti sono stati: Georges Dumezil e Mircea Eliade.

Secondo Lei, il senso religioso nell’uomo post-moderno è cresciuto? No. La secolarizzazione è il grande ostacolo al senso religioso. Basta leggere il libro di monsignor Luigi Giussani che ci dice di ritornare al senso religioso.

Nel nostro tempo post-moderno, ove sembra non esistere più una verità assoluta, com’è possibile educare l’uomo affinché riscopra la sua dimensione simbolica, cioè il suo essere trascendente in quanto persona? Questa questione è un grande problema. Benedetto XVI mi ha creato cardinale perché io ero impegnato a rispondere a tale questione da più di quarant’anni attraverso le mie conferenze, l’insegnamento e le pubblicazioni. Qual è il contributo specifico del cristianesimo al processo di umanizzazione del mondo e per la riscoperta del simbolo? 36


MUSICA di Monica Cioffi

Raf e le ragioni del cuore Le ragioni del cuore è l’ultimo lavoro discografico del musicista Raf. Abbiamo chiesto all’affermato musicista pop di raccontarci il suo percorso. Raf: Credo che in quello che ho fatto io nel pop ci sia sempre una certa irrequietezza, una voglia di complicarsi un po’ la vita. Cosa intendi per irrequietezza? Raf: Intendo quei cambiamenti evolutivi, che ti spingono sempre a non ripeterti e a trovare strade nuove, sperimentando sempre su se stessi e sulla propria pelle. Prendersi dei rischi? Raf: Sì, è sempre rischioso e comunque è una cosa che io apprezzo. Al di là di tutto, anche dei risultati, perché chi lo fa dimostra di fare musica con estrema passione, mette al primo posto questo piuttosto che risultati che, a volte, possono essere di comodo. Partiamo dal principio. Sappiamo che il tuo esordio è stato nel rock, ma poi hai ottenuto il successo in chiave elettronica. Raf: Allora c’era il fascino della prima tecnologia elettronica che usciva, perché venivamo da anni di strumenti canonici nel rock. C’erano già stati i

primi sintetizzatori analogici - alcuni dei quali ancora possiedo, che sono degli strumenti splendidi, eccezionali. Però, in quegli anni era uscito il suono elettronico-digitale, che, per noi vecchietti di quella generazione, era un’innovazione notevole. Non possiamo non dire che Self Control è stato uno dei pezzi della nostra infanzia. Raf: Self control è un pezzo che avevo provato a realizzare già quando stavo a Firenze con Ghigo. Poi ho fatto un periodo a Londra in cui ho fatto diversi lavori e al ritorno avevo in mente di iniziare a lavorare come produttore musicale. In realtà poi ho conosciuto Giancarlo Bigazzi (autore e produttore fiorentino tra i più importanti nella musica pop italiana) e ho cominciato a fare delle cose con lui. Avevo questo brano, che poi è diventato un brano dance. Qual era la cosa che avevi più paura di perdere degli anni ’80 quando hai scritto Cosa resterà di questi anni ’80? Raf: In realtà non mi sono mai fermato a pensare a cose come questa e ancora oggi faccio così, perché mi aiuta a vivere in modo più sereno il presente. In quel decennio, fino ai primi del ’90 ho avuto una vita molto

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intensa, considerando poi che venivo da un piccolo paese della Puglia, molto provinciale e privo di qualsiasi contaminazione con tutto il mondo esterno. Vengo da questo mondo totalmente isolato e poi all’improvviso, lungo tutti gli anni ’80, ho affrontato un’attività molto intensa: a Firenze, Bologna, Londra e poi la svolta con Self Control che è diventata una hit mondiale, senza che nessuno se lo aspettasse. Quando stavi scrivendo Cosa resterà di questi anni ’80 eri conscio di stare facendo qualcosa che sarebbe diventato una sorta di manifesto? Raf: L’idea è nata semplicemente dal fatto che eravamo nel 1989, alla fine di un decennio. Pensavo sarebbe stato interessante scrivere qualcosa su un decennio in cui è cambiato tutto, è stato rivoluzionario. Quanto c’è di autobiografico nelle tue canzoni e se credi al potere curativo dello scrivere canzoni. Raf: Non c’è quasi mai niente di autobiografico, a parte forse le ultime canzoni, come Le ragioni del cuore, uno dei due inediti della nuova raccolta. Questa è un po’ un biglietto da visita, parlo di me e lo faccio come non avevo mai fatto prima.


POSTULATO NEWS di Antonino Carillo, Rettore

I nostri giovani si presentano

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cco, finalmente ci sono tutti. Il 28 settembre scorso è iniziato il nuovo anno formativo 2012/2013 nella casa di postulato “S. Massimiliano Kolbe” a Benevento. Sedici giovani provenienti dalla Campania, Puglia, Calabria e Sicilia hanno intrapreso questo cammino di discernimento sulle orme di san Francesco d’Assisi. Ve li presento uno ad uno affinché possiate sostenerli con la preghiera e possano vivere quest’anno centrando tutto sull’ascolto della Parola e sulla condivisione fraterna. Alla fine di questa presentazione desidero con voi ringraziare il Signore per il Diego Canino di Catanzaro, 37 anni. dono delle vocazioni. Sono sicuro che con la totale disponibilità di questi giovani, Primo anno di postulato. il Signore potrà realizzare, nella loro vita, il suo disegno d’amore e di salvezza.

Gianluca Catapano di Barletta (BT), Andrea D’Alessandro di Conversano 27 anni. Primo anno di postulato. (BA), 27 anni. Primo anno di postulato.

Domenico Di Nardo di Napoli, 39 anni. Secondo anno di postulato, in preparazione al Noviziato.

Davide Ferdico di Palermo, 30 anni. Bruno Giordano di Salerno, 25 anni. Terzo anno di postulato, in prepara- Secondo anno di postulato, in prepazione al Noviziato. razione al Noviziato.

Gaetano La Monica di Caltanisetta, 31 anni. Primo anno di postulato.

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Andrea Latelli di Lamezia Terme (CS), 35 anni. Primo anno di postulato.

Giacomo Mangano di Palermo, 26 Eugenio Merrino di Messina, 26 anni. anni. Secondo anno di postulato, in Secondo anno di postulato, in prepapreparazione al Noviziato. razione al Noviziato.

Enzo Paolicelli di Potenza, 30 anni. Gabriele Raho di Copertino (LE) 26 Mario Ravanni di Maddaloni, 22 Primo anno di postulato. anni. Primo anno di postulato. anni. Secondo anno di postulato, in preparazione al Noviziato.

Filippo Scarcella di Xitta (Trapani), Giuseppe Vantaggiato di Copertino Ciro Virga di Marineo (PA), 21 anni. 28 anni. Secondo anno di postulato, (LE), 39 anni. Primo anno di postu- Primo anno di postulato. in preparazione al Noviziato. lato.

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TEATRO di Maria Teresa Esposito

Come tu mi vuoi e altre storie... Teatro, musica e spettacolo per la stagione 2012-2013 a Telese Terme

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n sette spettacoli dal 6 novembre al 21 marzo. Sastri, Esposito, Rivieccio, D’Angelo, Izzo, Buccirosso e Lante della Rovere per la stagione teatrale 2012/2013. Teatro con un cartellone targato Napoli. Con ben sei spettacoli su sette con interpreti partenopei. È questa la proposta della stagione teatrale 2012/2013 del Modernissimo, rassegna promossa dal Comune di Telese Terme (Assessorato alla Cultura e allo Spettacolo), in collaborazione con il Teatro Pubblico Campano e la Regione Campania. Gli appuntamenti previsti sono andati in scena a partire dal 6 novembre 2012 e fino al 21 marzo 2013. La prima rappresentazione in programma è stata “Linapolinapolinapoli”, un concerto spettacolo interpretato, scritto e diretto da Lina Sastri. Per l’attrice-cantante si tratta di un gran ritorno dopo esibizioni molto apprezzate. Il 22 novembre, invece, è toccato a Giovanni Esposito, Francesco Procopio, Peppe Cantore e Andrea Di Maria che hanno rappresentato “E

fuori nevica”, commedia in due atti scritta e diretta da Vincenzo Salemme. Con una vicenda che narra di due fratelli “normali”, alle prese con un altro, autistico, la cui convivenza coatta rientra nelle clausole di un testamento materno. Va da sé che si ride. E tanto; ma non mancano momenti di amarezza, soprattutto per il finale che lascia attonito lo spettatore. Poi, è stata la volta, il 7 dicembre, di Gino Rivieccio, interprete di “Un Gino per il mondo”, scritto a quattro anni con Gustavo Verde e regia firmata da Giancarlo Drillo. Il 24 gennaio, inoltre, ancora un gradito ritorno. Ci sarà Nino D’Angelo in “C’era una volta… un jeans e una maglietta”, uno spettacolo da lui scritto e diretto. Biagio Izzo, invece, il 13 febbraio 2013, porterà in scena “Tutti con me”. La messinscena, che vedrà protagonisti anche I Virtuosi di San Martino, appartiene allo stesso Izzo e Bruno Tabacchini, per la regia Claudio Insegno; mentre, Carlo Buccirosso, il 21 febbraio, sarà interprete

della commedia “Finché morte non vi separi!”, di cui è autore e regista. A chiudere la stagione teatrale 2012/2013 sarà Lucrezia Lante Della Rovere con “Come tu mi vuoi” di Luigi Pirandello e regia di Francesco Zecca. Si tratta di una delle più riuscite opere dell’autore siciliano, scritta per la sua musa Marta Abba e ispirata ad un fatto di cronaca degli anni Venti. Al centro della vicenda, come in tutte quelle di Pirandello, c’è sempre la ricerca spasmodica dell’identità. Tema, d’altronde, molto legato a quel periodo storico, dove la ricerca non avviene dentro, ma fuori, nel riflesso degli occhi dell’altro. Pian piano, infatti, si diventa quel riflesso, che allontana sempre di più dal proprio sé e si diventa quello che gli altri hanno deciso: “Non ci sono prove contrarie che tengono, quando si vuol credere in quello che si vuol credere”. Parte così un gioco al massacro da parte della protagonista che è pronta ad essere “Come tu mi vuoi” ma con autenticità, con verità.


IN BOOK La Redazione E. SCOGNAMIGLIO, Cammineranno le genti alla tua luce. Lectio divina per le domeniche di Avvento, Natale, Epifania, Battesimo del Signore. Anno C, LDC, Leumann (Torino) 2012, pp. 172, Euro 13. La luce della fede, come altresì la luce della Parola che illumina, è il fil rouge che guida le riflessioni di Edoardo Scognamiglio, teologo e filosofo, in questo saggio, per il tempo liturgico di Avvento-Natale-Epiania-Battesimo del Signore. Secondo tale prospettiva, il cammino della fede non riguarda semplicemente coloro che ancora non hanno incontrato Cristo, bensì proprio noi battezzati che a volte continuiamo a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. L’autore di questo saggio pone in evidenza il carattere escatologico dell’Avvento: la speranza cristiana si apre al Signore che viene, colui che è il Kyrios. Così, il nostro agire cristiano nella storia riceve un nuovo vigore alla luce della risurrezione e della parusìa. Già, perché, come ricorda l’autore, non è possibile pensare e celebrare il Natale senza fare riferimento alla Pasqua, cuore della fede cristiana e dello stesso evento Gesù Cristo. Nelle sue profonde riflessioni, l’autore si pone criticamente innanzi al modo tradizionale d’intendere il Natale e il tempo di Avvento. E. THEOKRITOFF, Abitare la Terra. Una visione cristiana dell’ecologia, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2012, pp. 250, euro 24. L’autrice, teologa ortodossa, è da tempo impegnata nelle problematiche riguardanti la creazione. Ha insegnato all’Istituto ecumenico di Bossey in Svizzera nella scuola di specializzazione su Giustizia, pace e salvaguardia del creato. L’odierna crisi ambientale ha le sue radici spirituali nel modo in cui l’essere umano vede se stesso e la propria collocazione nella natura. Che ruolo gioca il mondo nel nostro rapporto con Dio? Ha un significato spirituale? Come le nostre azioni incidono sull’intera creazione? A partire dalla Bibbia e dai padri della chiesa, l’autrice risponde da cristiana ai quesiti urgenti che l’attuale situazione ecologica ci pone, offrendo spunti concreti per un’educazione alla responsabilità degli uomini verso la terra e degli uni verso gli altri. Nel nostro mondo globalizzato nessuna creatura può permettersi di dimenticare che è legata a tutte le altre. E. MORIN, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, pp. 297, euro 26. Il vascello spaziale Terra continua a tutta velocità la sua corsa in un processo a tre facce: mondializzazione, occidentalizzazione, sviluppo. Tutto è interdipendente, ma tutto è allo stesso tempo separato. L’unificazione tecno economica del globo si accompagna a conflitti etnici, religiosi, politici, a condivisioni economiche, alla degradazione della biosfera, alla crisi delle civiltà tradizionali ma anche alla crisi della modernità. Dove ci porta la via seguita? Verso un progresso ininterrotto? Non possiamo più crederlo. L’autore pone qui la sfida di una “via” di salvezza che potrebbe delinearsi dal congiungersi di una miriade di vie riformatrici: riforma del pensiero, dell’educazione, della famiglia, del lavoro, dell’alimentazione,del modo di consumare. Morin propone di sostituire alla via di sviluppo che produce sottosviluppo la via di una politica di civiltà, che abbia come missione quella di solidarizzare il pianeta, nella prospettiva di un nuovo umanesimo. N. AMMANITI, Il momento è delicato, Einaudi, Torino 2012, pp. 367, euro 17,50. Questo libro contiene i racconti scritti negli ultimi venti anni, in onore a un genere affascinante, che mira direttamente alla perfezione, eppure sempre meno quotato. Scrive l’autore: “Se dovessi fare un paragone azzardato, il romanzo è una storia d’amore, il racconto è la passione di una notte”. Cosa dobbiamo aspettarci da questi racconti, dunque? Varietà di temi e stili, la mescolanza di generi del miglior Ammaniti, che spazia con leggerezza dall’horror al pulp al grottesco alla farsa alla commedia all’italiana. Un vero scrigno di autentici gioielli, insomma, di racconti divertenti che non risparmiano una critica anche feroce alla società contemporanea. I protagonisti sono quasi sempre persone comuni, il vicino della porta accanto, lo studente squattrinato o il marito fedifrago. Storie di vita quotidiana, come la morte di una donna anziana o la separazione di una coppia, ma anche vicende grottesche e quanto mai assurde, come l’apparizione improvvisa di un mostro o l’incontro di un maniaco sessuale con una presunta Alba Parietti a Villa Borghese, o ancora la storia di uno studente che rischia di essere colto in flagrante nel mezzo di un incontro con la figlia della sua professoressa d’italiano. Dei sedici racconti che compongono il libro, due dei quali scritti a quattro mani con l’amico Antonio Manzini, alcuni sono già apparsi su rivista o su antologie varie, e coprono un arco temporale molto vasto, che va dal 1993 – quando Ammaniti, ancora studente all’Università, scrisse il suo primo racconto – al 2012. Anche questo va tenuto presente se consideriamo la diversità stilistica e di genere che caratterizza la raccolta.

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EVENTI

Atripalda, Campo

/11/2012

locale Araldini - 17

Nocera Inferiore, Visita alla comunitĂ parrocchiale - 27/11/2012

tro provinciale -

libro del minis Salerno, Presentazione 16/11/2012

Cercola, Celebrazione per lo Spirito di Assisi, 21/10/2012

Amantea, Ordinazione sacerdotale di fra Giuseppe, 25/11/2012

Portic

Benevento, pranzo preparato e offerto dai gifrini di Maddaloni - 17/11/2012

Salerno, Promessa Araldini, 25/11/ 2012

Nocera, Incontro MI - ottobre 2012

Ma pres 16/


i, Giubileo della Provincia - 29/11/2012

Montella, fiacc olata de - ottobre 2012 lla pace

Maddaloni, Cresima degli animatori araldini, 22/09/2012

Maddaloni, Processione patronale, 30 settembre 2012

Salerno, Ordinazione diaconale di fra Domenico Sportiello, 01/12/2012

ddaloni, Convitto G. Bru sentazione libro G. Griecno, o/11/2012

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Nocera Inferiore, inaugurazione porta Beato - 27/10/2012


di Pietro Manna

Hamsik e la voglia di vincere a Napoli

vivo in Italia da sette anni, ho imparato la lingua e mi sono ambientato bene”. Poi Hamsik fa un commento sul presidente Aurelio De Laurentis: “È un uomo divertente e generoso, che viene a trovarci negli spogliatoi ad ogni partita in casa”. E si sofferma anche sulla sua vita a Napoli e il suo rapporto con i tifosi: “Quest’anno abbiamo giocato bene e non abbiamo dato ai tifosi motivi per arrabbiarsi, ma la pressione è forte, anche se i tifosi del Napoli sono straordinari e riempiono tutte le domeniche lo stadio”. Durante un’intervista rilasciata a fine estate, Hamsik aveva affermato: «La vittoria in Coppa Italia ci ha reso ulteriormente consapevoli del nostro valore. Però, a inizio di stagione si azzera tutto e si ricomincia. Noi sappiamo ciò che valiamo e quel trionfo ha contribuito ad accrescere l’autostima. I risultati servono eccome e contribuiscono a livello psicologico alla crescita di una squadra… Ripartire mettendo in palio un trofeo è particolarissimo. È anche assai seducente. Una gran vetrina, con tanto richiamo: a quei tempi, una volta, si giocavano le amichevoli. Ora invece si va subito al dunque. E nessuno vorrà perdere… Il mio desiderio è vincere ancora, chiaramente. E ciò vuole dire inseguire un grande traguardo: la coppa Italia lo è stato».

N

essuna smentita. Anzi, una conferma. L’agente di Hamsik, Juray Venglos, in sostanza, ammette la veridicità dell’intervista di Marechiaro. “Non penso abbia detto nulla di sbagliato”, ha chiosato il procuratore, secondo quanto riferito da Sky Sport 24. Al giornale slovacco Pravda, il giocatore del Napoli aveva dichiarato che il Milan sarebbe la svolta della sua carriera. Marek Hamsik esce allo scoperto e fredda De Laurentis. In un’intervista al quotidiano slovacco Pravda ha divulgato il suo testamento sportivo: “Non è mai facile capire il momento giusto per cambiare squadra. A Napoli ho trascorso 4 anni bellissimi, in cui siamo cresciuti insieme e forse è arrivato il momento di andare via. Allegri ha detto che mi vorrebbe al Milan, anche a me piacerebbe indossare la maglia rossonera perché sarebbe una svolta per la mia carriera. Sono ancora giovane, ma finora non ho vinto nulla ed è ora di iniziare. Per ora il Napoli mi ha dichiarato incedibile, ma il mercato è lungo e non ci sono certezze. Penso proprio che il mio ciclo a Napoli sia finito. A metà luglio si saprà il mio futuro. Qualche squadra estera mi cerca? Voglio restare in Italia, ormai 44


di Giuseppina Costantino

Dimmi che destino avrò

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a giovedì 6 dicembre è nelle sale cinematografica Dimmi che destino avrò, un film drammatico che affronta, con un tocco di realismo magico, i temi spinosi e attuali della diversità culturale e delle difficoltà dell’integrazione. La regia è di Peter Marcias. Gli attori principali sono: Luli Bitri, Salvatore Cantalupo, Andrea Dianetti, Vesna Bajramovic, Fadil Sulejmanovic. Il genere è drammatico. Il film dura circa 80 minuti. Alina è una ragazza di origine rom, che da anni vive a Parigi per lavoro. Rientrata nel suo villaggio natio, nei pressi di Cagliari, in Sardegna, instaura un rapporto amichevole con Giampaolo Esposito, un cinquantenne commissario di polizia. In questa nuova dimensione, dovrà confrontarsi con se stessa e con le sue più intime emozioni, attraverso un viaggio interiore che la condurrà a rivedere la sua vita, le sue aspirazioni e soprattutto la sua vera identità. Questo passaggio segnerà la fine della giovinezza e l’inizio di una maturità che la renderà più consapevole delle sue debolezze. Il passato aprirà una breccia sul futuro di una giovane che sta per diventare donna. Il regista Peter Marcias ha scelto di affrontare il tema del rapporto tra le due culture, quella dei rom e quella dei “gagè” (i non rom), in forma diretta, priva di ogni velo o condizionamento. Gli episodi, non poco drammatici, di questa storia offrono l’occasione di soffermarsi sulla

problematica della convivenza tra differenti culture ed etnie. Il film parla soprattutto, ed essenzialmente, di amore. Della possibilità di ascoltarci senza tener conto di etnia, religione, colore della pelle e altro ancora. È una strada lunga, a volte difficile, ma è un viaggio necessario. Il regista ha iniziato da giovanissimo a girare dei cortometraggi in Sardegna e soprattutto a frequentare la Cineteca di Cagliari, poi ha studiato cinema a Roma, diplomandosi in regia alla Scuola di Cinematografia di Barbarano Romano (Viterbo). Ha comunque imparato tanto con il corso Fare Cinema del maestro Marco Bellocchio, a Piacenza. Nei suoi film non cerca di portare un messaggio principale, bensì di raccontare delle storie che piacciono, osservando la vita quotidiana.

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CUCINA di Nonna Giovannina

RICETTA DEGLI STRUFFOLI difficoltà: media Tempo di preparazione: 20 min. + tempo frittura porzione: per 10 persone ingredienti: - Farina 600 gr , - Uova 4 + 1 tuorlo, - zucchero 2 cucchiai , - burro 80 gr (una volta si usava lo strutto: 25 gr.) - 1 bicchierino di limoncello o rum, - Scorza di mezzo limone grattuggiata - Sale un pizzico - olio (o strutto) per friggere Per condire e decorare: -Miele 400 gr , -confettini colorati (a Napoli si chiamano "diavulilli") -confettini cannellini (confettini che all'interno contengono aromi alla cannella) -100 gr di arancia candita, 100 gr di cedro candito, 50 gr di zucca candita (si trova solo a Napoli: si chiama "cucuzzata") Questa è la ricetta tradizionale caratterizzata dall'assenza di lievito e struffoli particolarmente croccanti. Nel caso si preferiscono più gonfi, si può aggiungere all'impasto un pizzico di bicarbonato o di ammoniaca per dolci. In questo caso, la pasta deve riposare alcune ore. Procedimento: Disponete la farina a fontana sul piano di lavoro, impastatela con uova, burro, zucchero, la scorza grattugiata di mezzo limone,un bicchierino di rum e un pò di sale. Ottenuto un amalgama omogeneo e sostenuto, dategli la forma di una palla e fatelo riposare mezz'ora. Poi lavoratela ancora brevemente e dividetela in pallottole grandi come arance, da cui ricavare, rullandoli sul piano infarinato, tanti bastoncelli spessi un dito; tagliateli a tocchettini che disporrete senza sovrapporli su un telo infarinato. Al momento di friggerli, porli in un setaccio e scuoterli in modo da eliminare la farina in eccesso. Friggeteli pochi alla volta in abbondante olio bollente: prelevateli gonfi e dorati, non particolarmente coloriti. Sgocciolateli e depositateli ad asciugare su carta assorbente da cucina. Fate liquefare il miele a bagnomaria in una pentola abbastanza capiente, toglitela dal fuoco e unite gli struffoli fritti, rimescolando delicatamente fino a quando non si siano bene impregnati di miele. Versare quindi la metà circa dei confettini e della frutta candita tagliata a pezzettini e rimescolare di nuovo. Prendete quindi il piatto di portata, mettetevi al centro un barattolo di vetro vuoto (serve per facilitare la formazione del buco centrale) e disponete gli struffoli tutt'intorno a questo in modo da formare una ciambella. Poi, a miele ancora caldo, prendete i confettini e la frutta candita restanti e spargetela sugli struffoli in modo da cercare di ottenere un effetto esteticamente gradevole. Quando il miele si sarà solidificato, togliete delicatamente il barattolo dal centro del piatto e servite gli struffoli.

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