Capitolo 5
Verso una pedagogia del dialogo: religioni - culture - evangelizzazione di Edoardo Scognamiglio
Siamo quasi tutti convinti, ai nostri giorni, che anche le religioni possono contribuire molto per creare un clima di comunione fraterna tra le nazioni e i popoli. Ecco perché il dialogo interreligioso è una grande risorsa per la società del terzo millennio e per le stesse comunità cristiane. Dopo aver illustrato i contenuti e le caratteristiche della comunicazione, verbale e non, in questa nostra riflessione si prova a tracciare un vero e proprio vademecum quale frutto di una pedagogia del dialogo. In gioco c’è l’identità cristiana, ma pure il significato proprio di ogni differenza religiosa. Si parte dal presupposto che la fede è sempre indice di esclusività e di condivisione. Da qui il carattere paradossale del dialogo e della comunicazione. Formare all’ascolto è il tratto distintivo della comunità che sa riconoscere nel silenzio il primo passo da compiere per avvicinarsi a mondi e tradizioni altre. Tale aspetto merita maggiore attenzione oggi: non si può agire con violenza, né con pregiudizi innanzi al vissuto di fede altrui. Ognuno di noi è portatore di un messaggio che trascende le stesse parole e i medesimi pensieri. La fatica nel superare pregiudizi, rumori e paure è indice di grande maturità e di autentica conversione a Dio. Tuttavia, quasi sempre, l’altro nel suo costituirsi come differenza ci appare ancora come una minaccia, un pericolo, un peso senza precedenti. Mal sopportiamo l’alterità, anche all’interno delle stesse comunità cristiane e nelle forme del sano pluralismo culturale, 271
teologico, linguistico, etnico. Assumere un atteggiamento positivo, che tende alla condivisione, è segno di una fede genuina, di un vissuto spirituale fondato e motivato. Le tipologie o forme del dialogo interreligioso sono qui considerate a partire da alcuni documenti e pronunciamenti del magistero. Il dialogo è un processo prolungato che mira a formare comunità, società e culture rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Il singolo credente, in tale processo dialogico, è impegnato a compiere i passi necessari per la costruzione di una fraternità allargata («civiltà dell’amore», come amava sognare Paolo VI), ove c’è posto per ogni persona di buona volontà. Il dialogo aiuta a vincere una delle sfide più impellenti della post-modernità: progettare la convivenza pacifica tra popoli eterogenei, comunità e religioni differenti. Perché tale convivenza si sviluppi in modo equilibrato, nel rispetto di tutti, è indispensabile che cadano, tra gli appartenenti alle diverse religioni, le barriere della diffidenza, dei pregiudizi e delle paure, purtroppo ancora esistenti. È sufficiente gettare lo sguardo sui volti di chi si sente spaventato dalla presenza dell’islam in Europa e non riesce a cogliere alcun segno di positività e di fiducia negli incontri che in questo momento storico stanno avvenendo tra Santa Sede ed esponenti significativi del mondo islamico. Si tende, non solo da parte cristiana, ma pure da una cultura laica occidentale fondamentalista e razzista, a interpretare la religione islamica nell’orizzonte esclusivo della violenza e del terrorismo, come anche a vedere nello straniero, nel migrante di turno, nei popoli senza terra, degli ospiti inopportuni, verso i quali si assume un atteggiamento distratto e superficiale, o anche di xenofobia. La formazione al dialogo è un’istanza critica che attende di essere ben focalizzata nel vissuto dei credenti. Gli studi sul pluralismo e su una possibile teologia delle religioni devono – sia per metodo sia per contenuto – assumere la prospettiva pedagogica in modo più significativo e strutturale. Perché il dialogo è un’esperienza, il frutto di un vissuto, di una fede testimoniata e annunciata, nonché dell’avvicinarsi al mistero di Dio insieme agli altri. E si fonda sulla propria identità di fede. Dialogare, infatti, significa anzitutto attingere dalla propria identità e raffor272
zarla in seguito al confronto con l’altrui identità che si rivela a noi nella cifra della differenza partecipata. Certamente, la realtà della comunicazione interreligiosa è abbastanza complessa e variegata. Ed è stata favorita anche dalle pressioni mondiali e dalle spinte della cultura occidentale che praticano il pluralismo. Da questo punto di vista, il «fenomeno dialogo» non manca d’ambiguità e di limiti. Perché non si riduce all’evento della comunicazione in sé che può realizzarsi tra un emittente e un destinatario in rapporto a un contenuto di fede. Il dialogo non è informazione sulla fede dell’altro, né comunicazione asettica della propria esperienza religiosa. Non si riduce a una forma anonima di studio comparato. È relazione , meta - comunicazione, incontro, vissuto. Sicuramente rientra nelle forme della comunicazione umana ad ampio raggio. Tuttavia trascende le stesse dinamiche dell’informazione immediata e della comunicazione stereotipata. Non coincide con gli aspetti filosofici e psico-pedagogici del comunicare, o con gli scambi culturali e i rapporti diplomatici in ambito socio-politico. La formazione al dialogo interreligioso esige queste dinamiche: lo stabilirsi di una relazione personale, il riconoscimento di elementi comuni, il rispetto delle identità e delle differenze, la volontà di aprirsi e di accogliere, come anche di ascoltare l’altro, superando pregiudizi, la questione della verità come ricerca di un bene comune e di un dialogo genuino, autentico.
1. La comunicazione nell’era digitale: on and offline Per un’efficacia e convincente proposta di formazione o pedagogia del dialogo è necessario partire dal contesto socio-politico, economico, culturale e religioso che caratterizza il nostro tempo che è sempre più segnato dall’era digitale e della globalizzazione. Siamo in cammino verso un tipo di società che tende all’individualizzazione massimale del singolo e alla formazione di «massa» o «folla anonima», creando sempre più il divario tra il «locale» e il «globale», il «reale» e il «virtuale», o anche la comunicazione online (in rete) e offline (fuori rete). Inoltre, sembra che 273
le scelte globali siano i criteri ispiratori e decisivi per risolvere i conflitti e le questioni del micro-territorio. A un «dialogo globale», sempre più omologato e impersonale, corrisponde un’agorà globale, cioè uno spazio mondiale anonimo ben lontano dal rappresentare un forum pubblico per il confronto e il dibattito, l’opinione e la proposta, tra le diverse identità e le differenti posizioni culturali e prospettive sociali. L’agorà è scomparsa e al suo posto sono subentrati – cioè nati – i «non luoghi», spazi anonimi d’incontro, ove tutto è effimero, mutevole, liquido, impersonale, ed è affidato a pochi – l’élite – la scelta responsabile per il governo e l’ordine sociale dei molti (gli spettatori) che costituiscono la massa dell’agorà globale e destinati a subire i cambiamenti più che a poterli orientare in base alle proprie esperienze. Si è molto parlato delle conseguenze negative della globalizzazione, come pure degli aspetti positivi. Da una parte, infatti, i mondi sono sempre più vicini, le comunicazioni più dirette. Viaggiamo su autostrade di informazioni, su circuiti mediatici internazionali, attraverso l’occhio indiscreto dei satelliti, dei microchips, i percorsi digitali della Televisione e della Rete. Siamo divenuti navigatori satellitari. Abbiamo imparato a chattare, a linkare, a «vivere in Rete», secondo le esigenze della realtà virtuale e planetaria che tende a sostituirsi a quella reale. Abbiamo a disposizione una massa di informazioni senza precedenti. Possiamo zoommare la realtà in qualsiasi momento, come pure navigare in qualsiasi circuito internazionale o planetario. Così, i mondi e le culture, i popoli e le comunità più diverse, vivono fianco a fianco, gli uni dentro le altre, gomito a gomito. Sono annullate le distanze geografiche e le barriere culturali e sociali. È possibile vivere in diretta la vita degli altri: stare seduti a tavola, o comodamente sul divano di casa, e assistere in prima mondiale allo scoppio della guerra in Iraq, o a Beirut, o in Macedonia, o come da poco in Georgia. Tranquillamente, sul blog si possono creare discussioni, aprire dibattiti, partecipare a convegni, esprimere la propria opinione in diretta simultanea con altri utenti. Si può assistere anche alla decapitazione del malcapitato di turno o alla conta dei morti per gli effetti devastanti dello tsunami in India o del terremoto in Cina o Giappone. L’altro 274
è di casa nelle nostre case, è vicino nella Rete di informazioni che il pianeta ci offre. Partecipiamo delle sue tragedie, dei suoi sentimenti, delle sue avventure sociali e politiche, economiche e culturali. Assieme viviamo anche una sorta di solidarietà umana condividendo stili comunicativi, linguaggi, mode, atteggiamenti culturali, proposte etiche, ecc. Però in misura individualistica, cioè da soli, attraverso il nostro io e il nostro computer… La vicinanza dei mondi ha provocato, negativamente, un senso d’impotenza nel cuore di ogni cittadino globale: siamo divenuti tutti spettatori, incapaci di agire, di prendere posizione innanzi al male nel mondo. Così la condizione che più si addice al cittadino globale è quella dell’isolamento, dell’emarginazione, della solitudine informatica. Sappiamo tutto di tutti ma da soli. Incapaci di tessere legami autentici e interpersonali. Perché la comunicazione, sempre più veloce – fatta di scambi rapidi, di sms –, è divenuta impersonale, virtuale, senza volti. E i dati accumulati possono cancellarsi con maggiore facilità, attraverso un clic sulla memoria del computer (o il «cestinare» in desktop). Così, lo stile comunicativo, da una parte divenuto più diretto, immediato, favorito dai potenti mezzi di comunicazione, è passato per i vicoli ciechi della virtualità: su internet è possibile chattare senza identità, o sostituendo il proprio nome, procurandosi una vita parallela, un’esistenza virtuale accanto a quella reale e quotidiana. Ne emerge un potere comunicativo e dialogico limitato, sempre più impersonale, ove i volti, le voci, i suoni, gli affetti, gli incontri, gli stessi gesti della comunicazione non verbale (analogica) sono sempre più accessori non indispensabili per l’incontro con gli altri, per un dialogo vero tra partner e comunità. Il dialogo è globale e non tiene conto delle differenze, delle diversità, dei localismi: perché tutto è assimilato nel globo, nella rete, nel processo di mondializzazione. Si è orientati ad annullare le differenze, le diversità per un processo di omologazione pieno e alienante. Il fatto poi che non tutti possano attingere alle forze planetarie della cibernetica e dell’alta tecnologia mediatica e satellitare, ha creato un divario ancora più grande tra Nord e Sud del mondo, tra Paesi iperindustrializzati (l’Occidente ricco ed emancipato) e i Paesi poveri (o in via di sviluppo). Il divario tra questi due 275
grandi territori è immenso anche dal punto di vista del potere comunicativo e informatico, e non solamente finanziario ed economico. Ciò determina un’egemonia senza precedente (dal punto di vista culturale e geo-politico) da parte dei Paesi ricchi. È sufficiente raccogliere qualche dato di inizio millennio: il 65% dell’umanità non ha usato mai il telefono e il 40% non dispone di energia elettrica. Tra il 1998 e il 2000, solo il 2,40 % della popolazione mondiale aveva accesso a internet1. È necessario prendere visione degli effetti della mondializzazione sull’esperienza dialogica in generale e di quella interreligiosa in particolare. Lo stile comunicativo globale tende a confondere la forma del messaggio con il suo contenuto. Ci troviamo innanzi a una forma esasperante del processo estetico: conta l’apparire più che l’essere. Qualsiasi evento ha bisogno di mediaticità per apparire rilevante. Occorre entrare in Rete per esistere, per esserci, per ricevere riconoscimento. Senza un blog non si crea dibattito, non si può verificare l’utilità di un gruppo o di un sistema socio-culturale. Anche gli incontri interreligiosi possono ridursi a meri eventi mediatici dove conta l’apparire, il far rumore, il farsi vedere, più che il concreto lavorare in sinergia e il formare le coscienze all’accoglienza dell’altro e delle sue diversità. Le micro esperienze di dialogo, quei vissuti quotidiani di incontro, di dialogo, di fraternità, appaiono irrilevanti e inutili rispetto agli eventi mondiali, ai grandi show della comunicazione. Ci si sente schiacciati, psicologicamente inutili e frustrati. I dialoghi locali, anche se ricchi di contenuti, validi dal punto di vista sociale, culturale, religioso – perché favoriscono la narrazione personale, il racconto simbolico e intersoggettivo della propria esperienza di salvezza e di senso –, hanno scarsa rilevanza mediatica. Contano solo i dialogo globali, quelli che 1 Cf. D. Contreras, Globalización y calidad de la información. Tecnología, contenidos y efectos, in Seminarium 40 (2000), pp. 288-289; M. Castells, The Information Age. Economy, society and culture. I. The rise of the Network society, Oxford 2002, pp. 377-378. La nascita della nuova cultura globale, abitualmente, è considerata con ottimismo. Cf. R. Robertson, Globalization. Social theory and global culture, London 1992. Per una posizione più critica, cf. A. Appadurai, Modernity at large. Cultural dimensions of globalization, Minneapolis 1996.
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durano il tempo di una «messa in onda», di una diretta satellitare. Nell’era delle parabole mediatiche, tempo di grandi opportunità anche per la Chiesa cattolica, per l’annuncio del vangelo su Rete, il dialogo è globalizzato: esige gli stessi codici e processi di decodificazione. Occorre adeguarsi alla nuova condizione umana2. Partiamo da un dato di fatto: la profonda trasformazione in atto nel campo delle comunicazioni guida il flusso di grandi mutamenti culturali e sociali. Le nuove tecnologie non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte a una vasta trasformazione culturale. Con tale modo di diffondere informazioni e conoscenze, sta nascendo un nuovo modo di apprendere e di pensare, con inedite opportunità di stabilire relazioni e di costruire comunione. Si prospettano traguardi fino a qualche tempo fa impensabili, che suscitano stupore per le possibilità offerte dai nuovi mezzi e, al tempo stesso, impongono in modo sempre più pressante una seria riflessione sul senso della comunicazione nell’era digitale. Ciò è particolarmente evidente quando ci si confronta con le straordinarie potenzialità della rete internet e con la complessità delle sue applicazioni. Come ogni altro frutto dell’ingegno umano, le nuove tecnologie della comunicazione chiedono di essere poste al servizio del bene integrale della persona e dell’umanità intera. Se usate saggiamente, esse possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano. Nel mondo digitale, trasmettere informazioni significa sempre più spesso immetterle in una rete sociale, dove la conoscenza viene condivisa nell’ambito di scambi personali (online). La chiara distinzione tra il produttore e il consumatore dell’informazione viene relativizzata e la comunicazione vorrebbe essere non solo uno scambio di dati, ma sempre più anche condivisione. Questa dinamica ha contribuito a una rinnovata valutazione del comunicare, considerato anzitutto come dialogo, scambio, solidarietà e creazione di relazioni positive. D’altro canto, ciò 2 Per approfondimenti, cf. E. Scognamiglio, Dia-Logos. I. Prospettive. Per una pedagogia del dialogo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009, pp. 15-49.
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si scontra con alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell’interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell’immagine di sé, che può indulgere all’autocompiacimento. Soprattutto i giovani stanno vivendo questo cambiamento della comunicazione, con tutte le ansie, le contraddizioni e la creatività proprie di coloro che si aprono con entusiasmo e curiosità alle nuove esperienze della vita. Il coinvolgimento sempre maggiore nella pubblica arena digitale, quella creata dai cosiddetti social network, conduce a stabilire nuove forme di relazione interpersonale, influisce sulla percezione di sé e pone quindi, inevitabilmente, la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere. La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione ad evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo, o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di «amicizie», ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio «profilo» pubblico. Le nuove tecnologie permettono alle persone di incontrarsi oltre i confini dello spazio e delle stesse culture, inaugurando così un intero nuovo mondo di potenziali amicizie. Questa è una grande opportunità, ma comporta anche una maggiore attenzione e una presa di coscienza rispetto ai possibili rischi. Chi è il mio «prossimo» in questo nuovo mondo? Esiste il pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella nostra vita quotidiana ordinaria? Esiste il rischio di essere più distratti, perché la nostra attenzione è frammentata e assorta in un mondo «differente» rispetto a quello in cui viviamo? Abbiamo tempo di riflettere criticamente sulle nostre scelte e di alimentare rapporti umani che siano veramente profondi e duraturi? È importante ricordare sempre che il contatto virtuale non può e non deve sostituire il contatto umano diretto con le persone a tutti i livelli della nostra vita. La Rete non è un luogo: è un ambiante comunicativo, formativo e informativo, non un «mezzo» da «usare» come un martello o un’an-
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tenna. Internet non è un semplice «strumento» di comunicazione che si può usare o meno, ma un «ambiante» culturale, che determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di costruire la conoscenza e le relazioni. L’uomo infatti non resta immutato dal modo con cui manipola il mondo: a trasformarsi non sono soltanto i mezzi con i quali comunica, ma l’uomo stesso e la sua cultura3.
Anche nell’era digitale, ciascuno è posto di fronte alla necessità di essere persona autentica e riflessiva. Del resto, le dinamiche proprie dei social network mostrano che una persona è sempre coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali. Ne consegue che esiste uno stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale: esso si concretizza in una forma di comunicazione onesta e aperta, responsabile e rispettosa dell’altro. Comunicare il vangelo attraverso i nuovi media significa non solo inserire contenuti dichiaratamente religiosi sulle piattaforme dei diversi mezzi, ma anche testimoniare con coerenza, nel proprio profilo digitale e nel modo di comunicare, scelte, preferenze, giudizi che siano profondamente coerenti con il vangelo, anche quando di esso non si parla in forma esplicita. Del resto, anche nel mondo digitale non vi può essere annuncio di un messaggio senza una coerente testimonianza da parte di chi annuncia. Nei nuovi contesti e con le nuove forme di espressione, il cristiano è ancora una volta chiamato a offrire una risposta a chiunque domandi ragione della speranza che è in lui (cf. 1Pt 3,15)4.
Se Gesù ha vissuto una vita in movimento per annunciare ogni dove e a ogni uomo, anche al più «lontano», l’amore del Padre, la missione della Chiesa deve dilatarsi fino agli «estremi confini della terra». La Rete rappresenta, per i cristiani dei nostri giorni, gli «estremi confini della terra» che il Signore Gesù domanda A. Spadaro, Web 2.0. Reti di relazione, Milano 2010, pp. 7-8. Benedetto XVI, Messaggio per la 45ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (5 giugno 2011): Verità, annuncio e autenticità di vita nell’era digitale. 3
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di abitare in nome della responsabilità per il vangelo. Questa, appunto, va «abitata» senza lasciarsi «irretire», soprattutto senza nulla concedere alla migrazione semantica dalla categoria di verità alla categoria di consenso. La missione educativa della Chiesa, tema pastorale del decennio che si apre, ne soffrirebbe. L’impegno per una testimonianza al vangelo nell’era digitale richiede a tutti di essere particolarmente attenti agli aspetti di questo messaggio che possono sfidare alcune delle logiche tipiche del web. Anzitutto dobbiamo essere consapevoli che la verità che cerchiamo di condividere non trae il suo valore dalla sua «popolarità» o dalla quantità di attenzione che riceve. Dobbiamo farla conoscere nella sua integrità, piuttosto che cercare di renderla accettabile, magari «annacquandola». Deve diventare alimento quotidiano e non attrazione di un momento. La verità del vangelo non è qualcosa che possa essere oggetto di consumo, o di fruizione superficiale, ma è un dono che chiede una libera risposta. Essa, pur proclamata nello spazio virtuale della rete, esige sempre di incarnarsi nel mondo reale e in rapporto ai volti concreti dei fratelli e delle sorelle con cui condividiamo la vita quotidiana. Per questo rimangono sempre fondamentali le relazioni umane dirette nella trasmissione della fede!5.
Che posizione assumere innanzi alla realtà virtuale? Oggi sta scomparendo tale espressione e si preferisce quella di realtà/ dialogo online. Nella prefazione a Nati con la Rete6, Luca Sofri parla di tre generazioni che oggi abitano il continente digitale: i nativi, cresciuti a pane e internet, a loro agio quando si muovono nella Rete di cui conoscono meccanismi e soprattutto logiche; i non nativi, che si distinguono in «coloni» (i quali identificano la Rete come un far west da conquistare), «immigrati» (senza cittadinanza digitale, ma che si arrangiano), o «ibridi» (sospesi tra due mondi), in ogni caso persone vecchie abbastanza per avere radici nel passato, nella cultura solida dei libri e delle enciclopeIvi. Cf. L. Sofri, Il mondo salvato dai nativi digitali, in J. Palfrey - U. Gasser, Nati con la Rete. La prima generazione cresciuta su internet. Istruzioni per l’uso, Milano 2009, pp. 5-12. 5 6
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die di carta, della riflessione lineare e consequenziale: a costoro, tra l’altro, è affidato il non facile compito di fare da ponte, di segnalare la discontinuità tra prima e dopo, di capire e discutere il nuovo mondo digitale soprattutto nelle sue ricadute antropologiche. Si tratta del gruppo più avvertito, ma anche più esiguo, non fosse altro per motivi di età. Ma ultimamente – rileva Sofri – con il boom della connettività facile, si è affacciata sulla Rete una nuova generazione più pantofolaia e meno critica, quella dei tardivi digitali, che non possiede né la spontaneità e flessibilità dei nati con la Rete, né il giusto distacco e lo spunto critico di chi ha le antenne nella Rete e i piedi ben piantati fuori dall’online. Si tratta di coloro che nella Rete cercano la continuazione, solo più velocizzata e versatile, della quotidianità: lettura di stampa periodica, frequentazione di siti di gossip, immagini e video su eventi sportivi, politici e culturali. Per molti di questi, Facebook è lo strumento ideale per una socializzazione o risocializzazione estesa, incalzante, ricca – almeno all’inizio – di adrenalina, che fa bottino di numeri più che di qualità. In ogni caso, ritrovare vecchi amici, scambiare fotografie, intrattenere brevi conversazioni non sono di per sé comportamenti trasgressivi ma la riproposta, in chiave alternativa, di navigati modelli familiari. Va tenuto in conto, però, che internet è sempre più non tanto un codice e un linguaggio, quanto un linguaggio di linguaggi, un ambiente strutturale, un meta-codice. In questo senso, la sua «virtualità» è più «vicina al reale» di quanto si possa ipotizzare. È forse necessario andare oltre una certa mitizzazione delle comunità reali: queste non sono solo il luogo delle relazioni profonde, ma contemplano solitamente una molteplicità di relazioni funzionali, deboli e leggere7. Dunque, occorre considerare il mondo di internet quale «areopago» dove la gente si incontra, dialoga, plasma il suo vissuto, rischia e confronta la propria identità, anche se con limiti e ambiguità8. 7 Cf. M. Aime - A. Cossetta, Il dono del tempo in internet, Torino 2010, pp. 29-31. 8 Per approfondimenti, cf. V. Grienti, Chiesa e Web 2.0. Pericoli e opportunità in rete, Milano 2009. Si consideri pure Cei, Chiesa in Rete 2.0, Cinisello Balsamo (Milano) 2010.
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Pur prendendo il largo nel mare digitale senza paura e pregiudizi, come Chiesa che annuncia il vangelo in un mondo che continua a cambiare, è necessario focalizzare almeno questi aspetti della comunicazione e del dialogo oggi: il mondo di internet e della Rete costituiscono un luogo teologico in cui annunciare il vangelo e non possono essere messi da parte, né sottovalutati; un uso solamente strumentale della Rete non favorisce alcun dialogo con le nuove generazioni né aiuta la missione della Chiesa, per cui è necessario abitare la rete con equilibrio, cioè conoscerla e approfondirne le potenzialità e i limiti; la comunicazione digitale o virtuale va integrata con il dialogo interpersonale, l’incontro tra volti, affinché il dialogo si apra sempre a un’esperienza di comunione, tenda cioè alla meta-comunicazione.
2. Che cos’è il dialogo? «Dialogo (dal greco «dià-lògos» = «attraverso il discorso, il ragionamento») indica il processo attraverso cui vari interlocutori tendono a conseguire una qualche conoscenza, una qualche verità. È evidente che la chiarezza del risultato dipende dalla chiarezza del percorso svolto dagli interlocutori, la quale a sua volta dipende dalla chiarezza che detti interlocutori dimostrano di possedere al principio del ragionamento circa se stessi, la propria identità, le proprie posizioni, i propri obiettivi»9. In senso strettamente antropologico, dialogo significa comunicazione reciproca per raggiungere un fine comune o una comunione interpersonale. In ambito cattolico, è l’atteggiamento di rispetto e di amicizia che penetra in tutte le attività che costituiscono la missione evangelizzatrice della Chiesa. In prospettiva religiosa, il dialogo indica l’insieme dei rapporti interreligiosi con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento, nell’obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà. Il dialogo presuppone due verità essenziali: non può, 9 R. Di Ceglie, Recuperare l’identità europea come cultura del dialogo. Verità, filosofia, scienze, cristianesimo, in Giù le mani dalla nostra libertà. L’Occidente e l’islam, a cura di V. Feltri - R. Brunetta, Firenze 2006, p. 45.
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in nessun modo, essere fondato sull’indifferentismo religioso e culturale e non può rinunciare a una sua intrinseca legge: essere «intimamente disposti all’ascolto»10. È questa la vera profezia del cristianesimo. Il mistero dell’incarnazione (Verbum caro) e l’esigenza continua di convocazione-conversione del popolo di Dio (ekklêsia tou theou o ‘al qehal Jhwh: cf. Nm 16,3) hanno come presupposto la legge dell’ascolto. Dove c’è l’ascolto viene meno ogni forma di violenza, di prevalenza sull’altro. La Chiesa cattolica, prima ancora di venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere e di farsi parola, messaggio o colloquio11, deve imparare ad ascoltare la voce dell’uomo assieme a quella di Dio. Il dialogo è segno della forma duplice della realtà che è essenziale per l’attuazione di qualsiasi rapporto: realizzazione di un legame e salvaguardia delle differenze. Senza cedere ad alcuna forma di relativismo esasperante e di sincretismo insignificante, è necessario educarsi e formare a una cultura della pluralità, ove le differenze sono accolte come dono e risorsa per il bene di tutti, anche di noi cristiani. Affinché ci sia un dialogo «glo-cale» è importante, per ogni comunità cristiana, porsi delle domane specifiche e aprirsi agli altri. Ci sembra fondamentale offrire dei suggerimenti concreti per la pratica del dialogo locale nel tentativo di spezzare il circolo vizioso della globalizzazione e del processo di mondializzazione che sono in atto nella società dei consumi e della vita liquida. r In
primo luogo, è fondamentale vivere il dialogo religioso a livello personale e dentro la propria comunità o famiglia. Si tratta di sviluppare dentro di noi un atteggiamento di ascolto sincero per imparare cose nuove dalle altre tradizioni religiose. È l’intradialogo.
r Occorre
poi, nella propria comunità o famiglia (nonché chiesa locale, parrocchia, centro studi, circolo culturale, associazio-
10 Cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte (1 giugno 2001), n. 56: EV 20, 114-116. 11 Cf. Paolo VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam (6 agosto1964), nn. 13-15; 67: EV 2,163-210, qui 168 e 192.
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ne, ecc.), studiare il tema del pluralismo religioso organizzando brevi corsi, laboratori di ricerca, cicli di riunioni, conferenze, giornate di studi e di seminario, nonché una serie di incontri pubblici. È l’attenzione al macroecumenismo. Ciò richiede anche una selezione e riesamina della bibliografia interessata al dialogo interreligioso. r Approfondire
un’esperienza religiosa altra (ebraismo, islam, induismo, ecc.) non solo partendo dai personali interessi o da affinità, ma anche e soprattutto dal confronto con il territorio. Quindi, è bene tracciare una mappa interreligiosa del proprio territorio (cittadino-locale, provinciale, regionale). Tale approfondimento richiede uno studio serio, critico, guidato, nonché la possibilità di contattare persone che sul proprio territorio vivono altre fedi e siano disposte al dialogo e al confronto. È bene proporre incontri mensili con altre comunità interreligiose come anche favorire le visite ai luoghi santi e di preghiera di tali comunità. Si tratta di «farsi incontro», comunità dialogante, fraternità che vive del dialogo (con Dio, con i fratelli, con gli altri, con il mondo). Sono stimolanti anche le iniziative che prevedono viaggi all’estero e lo studio delle lingue locali. È il tentativo di favorire un processo d’inculturazione prima ancora che di evangelizzazione.
r Maturare un atteggiamento di rispetto e di fratellanza verso le
altre religioni: non sono spazi vuoti di salvezza, ma segni concreti dell’amore di Dio, segni della Verità. Ciò richiede lo studio dei testi sacri delle altre religioni. Prima ancora, però, è necessario conoscere la Bibbia e lo specificum della fede cristiana. r Invocare,
contemplare e testimoniare Dio come il Padre di tutti, come colui che vuole che tutti gli uomini siano salvi. Nel dialogo con gli altri esponenti delle religioni è bene testimoniare il nostro vissuto di figli di Dio. Perché lo specifico del cristiano è quello di essere figlio nel Figlio. Ciò richiede, comunque, una valutazione positiva delle altre religioni, pur individuando differenze, limiti e segni negativi.
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r Vivere
l’annuncio cristiano come servizio al regno dei cieli o di Dio che è Cristo stesso. Tale annuncio non è proselitismo, bensì testimonianza di vita e proposta fraterna. L’attenzione ai poveri, agli ultimi, come pure la denuncia del male e dell’ingiustizia, costituiscono una critica interreligiosa profetica e significativa. In tal senso, gli uomini e le donne delle diverse fedi religiose possono fare molto contro il consumismo, i totalitarismi, il relativismo etico, il problema dell’ambiente, come pure per l’accoglienza degli immigrati, dei rifugiati, dei senza tetto, ecc.
r Prendere parte a iniziative interreligiose comuni e impegnarsi
per la pace e la giustizia e la salvaguardia del creato. Ogni religione è sensibile e offre tanti spunti risolutivi per queste problematiche. Il tema del dialogo, d’altronde, fa proprie le missioni per la pace, la giustizia e il riscatto dei poveri12. Popoli e religioni potranno sopravvivere e impedire l’impoverimento dell’umanità solo se le entità culturali riusciranno a non farsi cancellare, bensì a rendersi presenti e a comunicare tra di loro, usufruendo delle potenzialità insite al processo della comunicazione planetaria. Si è parlato, al riguardo, di un futuro in cui avrebbe luogo un clash of civilizations («scontro di civiltà») che rimodellerebbe i destini del mondo13 e nel quale avrebbero successo e, almeno, sopravviverebbero, solamente le identità culturali e religiose più «forti» per senso d’identità, capacità di diffusione e persuasione. Giovanni Paolo II, su tale questione, 12 Su questi punti, sono interessanti le proposte e i suggerimenti raccolti nel testo – abbastanza discutibile dal punto di vista dogmatico e di metodologia teologica – del religioso claretiano J.M. Vigili, Teologia del pluralismo religioso. Verso una rilettura pluralista del cristianesimo, Roma 2008, pp. 484-489. Questo studio può essere utile dal punto di vista della prassi e per ciò che concerne la dimensione pedagogica del dialogo. Lascia aperte, però, molte domande sul tipo di pluralismo che l’autore auspica. Sulla stessa linea teologica si pone la ricerca molto ambigua di A. Torres Queiruga, Dialogo delle religioni e autocomprensione cristiana, Bologna 2007. Si riconosce, a questi autori, la semplicità di esposizione e la chiarezza dei contenuti: il pluralismo è una realtà che ci costituisce. Tuttavia, il metodo teologico d’indagine è completamente mortificato da un approccio socio-politico che lascia poco spazio a considerazioni più oggettive e dogmatiche. 13 Cf. S.P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York 1996.
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nel Messaggio per la pace del 2001, prospettò ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà un futuro meno conflittuale, caratterizzato dal dialogo e dall’accettazione della diversità delle culture pur nella fedeltà alle proprie radici. Nella maggior parte dei casi, le culture si sviluppano su territori determinati, in cui elementi geografici, storici ed etnici si intrecciano in modo originale e irripetibile. Questa «tipicità» di ciascuna cultura si riflette, in modo più o meno rilevante, nelle persone che ne sono portatrici, in un dinamismo continuo d’influssi subiti dai singoli soggetti umani e di contributi che questi, secondo le loro capacità e il loro genio, danno alla loro cultura. In ogni caso, essere uomo significa necessariamente esistere in una determinata cultura. Ciascuna persona è segnata dalla cultura che respira attraverso la famiglia e i gruppi umani con i quali entra in relazione, attraverso i percorsi educativi e le più diverse influenze ambientali, mediante la stessa relazione fondamentale che ha con il territorio in cui vive. In tutto questo non c’è alcun determinismo, ma una costante dialettica tra la forza dei condizionamenti e il dinamismo della libertà. Formazione umana e appartenenza culturale. L’umanità del terzo millennio, segnata da conflitti, non può non tendere verso la riconciliazione e il superamento dei conflitti. Pur parlando di un mondo globale, di mondializzazione, di cittadino globale, dobbiamo riconoscere che gli spazi da noi vissuti sono ancora inospitali ma possibili al cambiamento. In effetti, annunciando lo scontro tra le civiltà, Huntington non ha maturato un dato molto importante: il conflitto riguarda non le culture in sé, in astratto, bensì coloro che incarnano determinati valori, idee, usi e costumi. È il vissuto a divenire conflittuale e non lo sono le matrici culturali in sé. Ogni esperienza di dialogo, allora, sarà significativa soltanto se «localizzata», cioè se vissuta in prima persona e in modo relazionale. Una grande parte dell’umanità sperimenta ogni giorno la continua interazione tra il globale e il locale. Siamo già nel processo di globalizzazione, con o senza plauso: viviamo, di fatti, su autostrade di informazioni. Ci muoviamo tutti assieme, senza sosta o scelta. Quindi, soprattutto a livello d’incontro interpersonale, il processo di globalizzazione 286
potrà trasformarsi in fonte di conflitti o evolversi in occasione di mutuo arricchimento. Orientare o subire il cambiamento è già insito nel doppio significato del termine latino hostis: «nemico» o «ospite». Da qui, allora, l’auspicio alla creazione di un «dialogo glo-cale» e non semplicemente «globale». Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità dell’intera famiglia umana. Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell’amore e della pace. «Il dialogo tra le culture, strumento privilegiato per costruire la civiltà dell’amore, poggia sulla consapevolezza che vi sono valori comuni a ogni cultura, perché radicati nella natura della persona. In tali valori l’umanità esprime i suoi tratti più veri e qualificanti. Lasciandosi alle spalle riserve ideologiche ed egoismi di parte, occorre coltivare negli animi la consapevolezza di questi valori, per alimentare quell’humus culturale di natura universale che rende possibile lo sviluppo fecondo di un dialogo costruttivo. Anche le differenti religioni possono e devono portare un contributo decisivo in questo senso»14.
3. La comunicazione come evento interpersonale Il dialogo, sfera esclusivamente umana del mondo, consiste nel «tra», nell’in-between, in ciò che mette in relazione e separa 14 Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della pace Dialogo tra le culture per la civiltà dell’amore e della pace (8 dicembre 2000), n. 16: EV 19, 1604. La con-sapevolezza auspicata dal papa mediante il dialogo tra le culture riguarda i seguenti valori co-muni: la solidarietà che tende alla promozione della giustizia, perché l’interdipendenza planeta-ria aiuta a meglio percepire la comunanza di destino dell’intera famiglia umana; la pace che è obiettivo primario di ogni società e della convivenza nazionale e internazionale; la vita in quan-to realtà sacra e non commerciabile né violabile; l’educazione indispensabile per il superamen-to dell’egoismo etnocentrico e per coniugare con equilibrio identità e rispetto della diversità; il perdono e la riconciliazione che sono non elementi utopistici o disincarnati, ma il proprium del-la proposta cristiana.
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gli uomini allo stesso tempo, rivelando la loro condizione plurale. Logos, infatti, è parola che divide, distingue e, allo stesso tempo, unisce, mette in relazione. Tuttavia il dialogo è anche la condizione stessa dell’esistenza, del nostro vivere ed esserci. Così come la relazione con gli altri uomini è qualcosa che precede e rende possibile il rapporto di ogni uomo con se stesso. Il dialogo è precisamente questo comunicarsi che, legando attivamente gli unici che sono già ontologicamente legati, tali li mostra. Detto altrimenti, il legame consiste in un’esibizione reciproca che trova il suo medium attivo nella parola. Rendendo secondario tutto l’ambito del detto, sia come contenuto specifico (quel che viene detto) sia come struttura (il sistema di significazione che regola il dirlo), il dire diventa così l’ambito privilegiato di un reciproco comunicarsi che esprime, allo stesso tempo, l’unicità e la relazione. Coloro che in tal modo si comunicano non sono gli individui. Sono degli esseri unici in carne e ossa che, al contrario dell’individuo astratto e universale, hanno un volto, un nome, una storia. Irripetibili e diversi da ogni altro, essi comunicano su una scena condivisa l’unicità della loro identità personale. Comunicano, reciprocamente, chi sono. Proprio in quanto astratto, ente fittizio della modernità politica, l’individuo è invece incomunicabile. Nell’orizzonte della razionalità comunicativa è, infatti, in ultima analisi, il linguaggio stesso a comunicarsi vincolando i parlanti alle sue regole. Da qui il bisogno di conoscere i fattori del processo comunicativo. Non potendoci soffermare sulle infinite definizioni circa il termine dialogo o comunicazione, è necessario, perlomeno, considerare alcuni elementi comuni per segnare con precisione la comunicazione nei suoi tratti primari. Di solito si riconoscono questi fattori essenziali alla comunicazione: l’emittente (o trasmittente), il ricevente (o destinatario), il codice (l’insieme dei segnali, dei simboli e dei segni, attraverso i quali si veicola il messaggio), un messaggio (o contenuto, cioè l’insieme delle informazioni), un effetto e il contesto di trasmissione. La comunicazione avviene nel tempo, per cui è un processo storico, in divenire, che accoglie o produce effetti a breve, a medio o anche a lungo termine. Il dialogo esige sempre 288
l’interazione (scambi di messaggi tra comunicanti). È lo spazio o luogo attraverso cui avviene la ridondanza dei messaggi, la frequenza, la costanza e la sistematicità delle informazioni. Tuttavia, gli esiti della comunicazione possono verificarsi anche in modo inconscio ed essere indiretti e mediati. Ciò, per esempio, avviene nel caso della comunicazione non verbale (o analogica), attraverso la visione di un’opera d’arte, l’uso dell’immaginazione, o l’aver visto un segno particolare, un gesto, un evento… Il comportamento non verbale, come per esempio l’intensità della voce o del sorriso, o un gesto del corpo, è una vera comunicazione che avviene attraverso l’esibizione di sentimento (stati espressivi del corpo o d’animo), adattatori (manipolazioni di oggetti o di sé), emblemi (movimenti verbali particolari), illustratori (legati al linguaggio, per esempio battere il pugno), regolatori (comportamenti che regolano il parlare e l’ascoltare). Certo, di là della condivisione del codice (o canale, cioè il mezzo fisico mediante il quale avviene l’atto comunicativo) tra emittente e destinatario – sono valutati come individui comunicanti dotati di capacità biologiche, psichiche e di effettive esperienze precedenti di dialogo –, occorre considerare l’ampio contesto (storico, culturale, sociale, antropologico, psicologico15, ecc.) in cui il messaggio viene a situarsi. Di fatti, il messaggio è sempre prodotto in condizioni particolari, da specifici individui, per determinati scopi e all’interno di un ambiente in cui ci possono essere messaggi co-occorrenti. Per cui può determinarsi uno iato o una variabile tra significato detto e significato inteso, tra la comunicazione e la sua interpretazione. Ciò coinvolge sia l’emittente all’atto della codifica sia il destinatario all’atto della decodifica. Per cui, ogni messaggio è sempre, necessariamente, 15 Normalmente, si riconoscono quattro dimensioni del contesto: fisica, psicologica, temporale e sociale. La dimensione fisica riguarda l’ambiente in cui avviene la comunicazione: può essere favorevole o contrastare il dialogo stesso. Esercita, l’ambiente, sempre un’influenza sulla comunicazione. Il contesto psicologico si esprime nella cordialità o assenza di empatia, nella formalità o nell’informalità. La dimensione temporale considera, invece, sia il tempo quotidiano che gli sviluppi storici della comunicazione. La dimensione sociale del contesto include le relazioni tra le parti dialoganti, i ruoli che esse giocano, i costumi culturali e le norme vigenti della società in cui gli individui provano a comunicare.
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indeterminato quanto al suo significato. Difficile è, poi, raccontare, comunicare, i tratti salienti della propria esperienza religiosa. In tal senso il dialogo costituisce una parola aperta, un testo inconcluso, che rende possibili più interpretazioni16. Al modello tecnico e lineare della comunicazione bisogna affiancarne un altro che consideri anche la semantica della comunicazione, cioè un modello meno lineare e più circolare che permetta di considerare il problema della semantica e dell’efficacia performativa del linguaggio. L’atto del produrre i messaggi – il parlare o lo scrivere – è una codifica che si compie tutte le volte che vogliamo esprimere dei pensieri o delle emozioni attraverso suoni, gesti e segni. La decodifica avviene, invece, nel momento in cui vogliamo tradurre suoni, gesti e segni in pensieri. Coloro che raccontano un’esperienza religiosa sono i codificatori (cioè gli scriventi o comunicatori). Mentre gli ascoltatori – o i lettori – rappresentano i decodificatori17. Certamente, le due parti sono interscambiabili. In tal senso si può parlare di reciprocità del dialogo come volontà comune d’entrare in contatto, d’intrattenere una relazione. Perché la comunicazione è uno strumento che permette alle persone di creare relazione, di aiutarsi reciprocamente, e non di essere vittime di monologhi autoritari o soliloqui improvvisati e subiti. La comunicazione, verbale o non verbale, ha sempre come riferimento sia il contenuto sia la relazione tra le parti. Sono due facce della stessa medaglia In questa prospettiva il dialogo è questione di vita o di morte in quanto è un’esperienza fondamentale, segnata dall’amore, 16 Su questo aspetto, cf. U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano 1990. Sempre utile lo studio di L. Galliani, Il processo è il messaggio, Bologna 1979; P.E. Ricci Bitti - B. Zani, La comunicazione come processo sociale, Bologna 1983. 17 È sempre riduttivo considerare la comunicazione sulla base di un semplice modello di azione e reazione per quanto possa essere complesso e determinato. Una persona, infatti, non comunica, bensì partecipa a una comunicazione o diventa parte di essa. Più che produrre comunicazione, un individuo vi prende parte. Perché la comunicazione è da considerarsi a un livello transazionale. Cf. R.L. Birdwhistell, Contribution of Linguistic-Kinesic Studies to the Understanding of Schizophrenia, in A. Auerbach (a cura), Schizophrenia. An Integrated Approach, New York 1959, pp. 99-123, qui 104.
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dalla conoscenza, dallo scambio, nonché dalla possibilità di ricercare assieme la verità. E in questo assume il valore di «miracolo»: perché ripristina relazioni interrotte, afferma l’inizio di nuovi scambi, permette di scoprire nuovi contatti, come anche aprirci al senso ultimo della vita. Ciò è ancora più importante per il dialogo tra religione e cultura, tra persone che professano una determinata fede e lo stile di vita da loro incarnato in un contesto sociale, geo-politico e culturale ben preciso. Qui il dialogo opera il miracolo della ricreazione, ovvero la possibilità di fare sintesi dei contenuti della propria esperienza religiosa e di esprimerli in nuovi contesti, con un linguaggio adeguato ai tempi, all’uditorio. Si tratta della possibilità di raccontare la propria esperienza religiosa e di condividerla, per quello che è possibile, con l’altro che ci ascolta e viceversa. Considerando, ovviamente, le barriere della comunicazione che impediscono ai significati d’incontrarsi, rendendo il dialogo frustrante. Quali sono gli obiettivi della comunicazione? Si possono così sintetizzare, a livello generale, cioè per ogni esperienza dialogica e non solo per quella interreligiosa. r Trasmettere
e ricevere informazioni e significati tra individui e gruppi, attraverso un linguaggio delle parole e un linguaggio delle relazioni. In altre parole: rendere accessibile una determinata conoscenza ed esperienza (forma e contenuto della verità o di un evento).
r Rendere
le persone coinvolte nel dialogo responsabili di decidere nei confronti della verità pronunciata o, comunque, di interagire. La comunicazione è fruttuosa nel momento in cui emerge una risposta responsabile (sia affermativa che negativa), educando e formando a soluzioni alternative. Si tratta di tradurre la parola in azione: l’assenso o il dissenso deve essere qualcosa di vissuto.
r Riportare
le forme di vita alla relazione di vitalità originaria dell’amore, restaurando la tensione tra conoscenza e verità.
r Portare
le persone «a essere», «a umanizzarsi» nell’incontro con l’altro: l’«io» con il «tu» forma il «noi». Ciò significa far 291
appello alla propria persona e unirla agli altri. Perché il dialogo è sia una relazione tra persone sia il principio che determina la natura della loro comunicazione. Coloro che sono coinvolti nella relazione dialogica si possono scoprire come persone dialogiche, cioè totalmente autentiche, in quanto vere, presenti a se stesse, disponibile a cambiare, a mettersi i gioco, a donarsi, senza manipolare l’altro. Dialogica è pure la persona aperta, capace di aprirsi senza remore, di lasciarsi scoprire dall’altro, vivendo la comunicazione anche come rischio, kenosi, possibilità di rivedere le proprie convinzioni. Le persone aperte hanno la capacità di ascoltare, di vincere la solitudine, i pregiudizi, di ricevere la rivelazione dell’altro e di rivelarsi, fino a essere aperta al significato e all’influenza dello stesso dialogo, nonché capace di mantenere i legami con responsabilità e agire con disciplina, cioè con metodo dialogico. Perché la parola proferita nel dialogo è quasi un atto di fede da vivere in quanto ci si pone sulla soglia della verità. r Imparare
a gestire le crisi del dialogo e a riprendere la comunicazione lì dove appare difficile o quasi impossibile. Nel dialogo ciascuno deve prendere l’iniziativa, fino ad aprire un varco tra mille difficoltà. Nella crisi dialogica esercita una grande pressione il richiamo della verità che diventa un aiuto necessario nel momento in cui si creano dei conflitti. Spesso, la crisi dialogica è provocata da questi elementi: l’impulso che spinge ognuna della parti ad affermarsi; vedere nell’altro una minaccia per la propria realizzazione; il bisogno che ognuna della parti ha di salvare e di giustificare se stessa; la necessità di sacrificare l’altro per mettersi in salvo; la presenza dello spirito di verità il cui scopo è quello far emergere l’autenticità dei legami, degli eventi, delle cose18. È indispensabile l’uso degli stessi simboli (dati convenzionali) affinché la comunicazione tra due soggetti possa avvenire in misura piena e soddisfacente. Si tratta dell’uso di segni che, prodotti dal proprio interprete, agiscono come un sostituto di qualche altro segno di cui sono sinonimi. Questi segni possono essere
18 Per questa parte, cf. le semplici e belle intuizioni di R.L Howe, Il miracolo del dialogo, a cura di M. Spagnolo, Roma 1996, pp. 49-78; 110-116.
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autonomi, cioè prodotti dal proprio interprete, indipendentemente dall’ambiente esterno; oppure convenzionali, in quanto non vi è un limite alle azioni, agli stati e prodotti dell’organismo che possono variare da una società all’altra, da un individuo all’altro. Nella comunicazione con l’altro, usiamo un nostro linguaggio convenzionale con significati che stiamo cercando di trasmettere, nel tentativo di attivare delle risonanze nell’ascoltatore. Chi inizia la conversazione spesso dimentica che il suo linguaggio può costituire sia uno stimolo che una barriera. In ogni dialogo o comunicazione trasmettiamo dei significati che, inconsapevolmente, potrebbero essere decodificati diversamente dal senso che noi diamo al nostro linguaggio19. Per comunicare non basta produrre, ascoltare e capire espressioni dotate di significato, occorre che il ricevente possa risalire all’intenzione comunicativa dell’emittente poiché una stessa espressione può essere collegata a intenzioni comunicative diverse. I messaggi in linguaggi naturali sono talvolta camuffati e hanno significati diversi da quelli letterali, come nel caso in cui si faccia uso di ironia, sarcasmo, ecc. I messaggi possono anche essere indiretti, così che una stessa espressione può veicolare messaggi diversi a seconda del contesto. Usiamo la lingua non solo per trasmettere informazione, ma per compiere altri tipi di atti linguistici. Quando un parlante usa la lingua, compie un’azione che può corrispondere sia a dare un’informazione, sia a impartire un ordine, a esprimere una condanna, a fare una promessa, ecc. Nell’esperienza della comunicazione vi è sempre un significato che viene trasmesso: mai il dialogo è senza senso. Ogni persona trasmette dei significati della propria vita che sono validi per la comunicazione. Occorre solamente decifrarli. La comunicazione ha luogo ogni qualvolta c’è un incontro di significato tra due o più persone. È fondamentale superare le barriere del significato costituite dal modo di esprimersi o linguaggio (l’uso 19 È sufficiente considerare l’esempio dell’annuncio evangelico di Paolo ad Atene (cf. At 17) e riflettere sulle difficoltà della comunicazione venutesi a creare per più motivi: le attese dell’apostolo, il contesto, il pregiudizio degli ateniesi, il significato diverso di simboli e segni, ecc. Anche Paolo alza delle barriere culturali e religiose innanzi all’uditorio.
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esatto delle parole, i significati reconditi), dalle immagini utilizzate come filtri, dall’ansia (i fattori emotivi), dalle difese, dalle intenzioni particolari (dialogare per raggiungere un proprio scopo). La barriera è qualcosa che impedisce ai significati di incontrarsi e devia la comunicazione fino a ridurla a un monologo: il nostro messaggio non arriva all’uditorio per effetto delle barriere alzate. Dialogare, in qualche modo, significa fare esperienza dell’altro. Il monologo, invece, non permette di aprire un varco tra le barriere della comunicazione – per favorire l’incontro di significati – e le erige ancora di più, riducendo la comunicazione a un groviglio di opinioni, senza prendere sul serio l’interlocutore. Il linguaggio deve essere uno strumento per l’incontro autentico tra le persone per le quali la conversazione è un veicolo per la ricreazione. Colui che parla deve accettare sia la sua responsabilità – di rappresentare ciò che sa e in cui crede e che ritiene vero, quindi di testimoniare la verità che ha ricevuto – sia la sua disponibilità a essere flessibile, a mettere in conto la possibilità di ripensare, di riflettere, di cambiare opinione, di verificare. Si tratta di parlare con apertura all’altro e d’intraprendere una relazione reciproca nella quale ognuna delle parti sperimenta – limitatamente – l’altra perché la comunicazione divenga una vera richiesta e sia un’autentica risposta nella quale ognuno istruisce e impara. Perché lo scopo della comunicazione non è quello di dare delle informazioni, né semplicemente di assicurarsi il consenso dell’interlocutore. Il processo della comunicazione, a volte, è interrotto o reso complesso dai «rumori». Questi non indicano semplicemente dei fenomeni acustici – cioè il sovrapporsi di onde che non presenta né frequenza né intensità costanti e che dunque viene distinto dal suono –, bensì ciò che s’oppone al segnale, un insieme di disturbi che si sovrappone all’informazione e ne compromette la ricezione e l’intellegibilità. Il «rumore» è rappresentato da tutto ciò che distorce e interferisce con il messaggio. Ne consegue che il messaggio ricevuto solitamente differisce, in qualche misura, da quello inviato20. 20
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Gli esempi possono essere infiniti. È sufficiente considerare l’esperienza di
Il dialogo autentico non riesce mai come noi volevamo che fosse. Anzi, in generale è più giusto dire che in un dialogo si è «presi», se non addirittura che il dialogo ci «cattura» e avviluppa. Il modo come una parola segue l’altra, il modo in cui il dialogo prende le sue direzioni, il modo in cui procede e giunge a conclusione, tutto questo ha certo una direzione, ma in essa gli interlocutori non tanto guidano, quanto piuttosto sono guidati. Ciò che «risulta» da un dialogo non si può sapere prima. L’intesa o il fallimento è un evento che si compie in noi. Solo allora possiamo dire che c’è stato un buon dialogo, oppure che esso era nato sotto una cattiva stella. Tutto ciò indica che il dialogo ha un suo spirito, e che le parole che in esso si dicono portano in sé una loro verità, fanno «apparire» qualcosa che d’ora in poi «sarà»21.
Se ne deduce, quindi, che la comprensione di un discorso o della parola non è fondata in un collocarsi nella mente altrui, né partecipando pienamente alla personalità dell’altro. Comunicare significa intendersi sulle parole e sul linguaggio e non invece trasferirsi nell’altro e ripetere in sé i suoi Erlebnisse. Perché c’è sempre un processo ermeneutico da compiere, un’applicatio. Così la parola, il linguaggio, diviene il medium in cui gli interlocutori si comprendono e in cui si verifica l’intesa sulla cosa. Il dialogo è un processo di comprensione. È proprio di ogni vero dialogo il fatto che uno risponda all’altro, riconosca nel loro vero valore i suoi punti di vista e si trasponga in lui non nel senso di volerlo comprendere come individualità particolare, ma di intendere ciò che egli dice. Ciò che si tratta di cogliere sono le sue ragioni, in modo da potersi intendere con lui sull’oggetto del dialogo. Non mettiamo dunque la sua opinione in rapporto con lui come individuo, ma con la nostra propria opinione e con le nostre idee in proposito22. papa Benedetto XVI e la reazione di molte comunità musulmane in seguito alla sua lectio magistralis di Regensburg. La reazione negativa è scaturita anche dai rumori mediatici provocati dalla tv, da giornali e riviste. È vero che ogni comunicazione ha un suo effetto. Tuttavia, l’effetto può verificarsi sia sul primo comunicante sia sul secondo comunicante o anche su entrambi. Non sempre l’effetto dell’atto comunicativo è evidente o efficace in positivo. 21 H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. e a cura di G. Vattimo, Milano 1994, p. 441 [Wahrheit und methode, Tübingen 1962]. 22 Ivi, p.443.
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Tutto ciò che caratterizza la situazione della comprensione nel dialogo ha un significato ermeneutico paragonabile alla condizione del traduttore e dell’interprete di un testo scritto. Così si può parlare di «dialogo ermeneutico» che si costruisce attraverso un suo comune linguaggio da parte di due persone o interlocutori che vivono l’esperienza di un adattamento reciproco. Così, il dialogo interreligioso «indica non solo il colloquio, ma anche l’insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento»23. Come rivelano le scienze umane, nel dialogo interpersonale l’uomo fa esperienza dei propri limiti e della possibilità di superarli; scopre che non possiede la verità in modo perfetto e totale, ma che può camminare con fiducia verso di essa, insieme agli altri. La mutua verifica, la correzione reciproca, lo scambio fraterno dei rispettivi doni favoriscono una maturità sempre più grande, che genera la comunione interpersonale. Il cammino della crescita e della maturità umana richiedono relazioni e dialogo. Là dove mancano, la vita ne risente in termini di «umanità» vera. Questo è un terreno d’incontro che può essere valido per tutti. La Chiesa cattolica si sente impegnata nel dialogo soprattutto a motivo della sua fede. Nel mistero trinitario, la rivelazione ci fa intravedere una vita di comunione e d’interscambio. Il Dio che ci ha creato è «dialogante», un Dio «in relazione» che ci ha creati «a sua immagine». Questo Dio «in relazione» – che è amore trinitario, comunione pericoretica, cioè relazione agapica dell’uno negli altri – ci fa essere costitutivamente «in relazione». Nella rivelazione del mistero trinitario si intravede una vita di comunione e di interscambio, fino a intendere il dialogo come comunicazione d’amore. Nella Trinità, la diversità e la relazione portano a comunione e interscambio, quindi ad arricchimento reciproco delle persone24. Paradossalmente, in senso cristiano, non si può non dialogare. La rivelazione giudaico-cristiana sot23 Segretariato per i non cristiani, Documento L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (4 settembre 1984), n. 3 [d’ora in poi Dialogo e Missione]. 24 Cf. ivi, pp. 21-22.
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tolinea, come anche le scienze umane, soprattutto la pedagogia e la psicologia, l’impossibilità di «non-comunicare». Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro […]. E neppure possiamo dire che la comunicazione ha luogo soltanto quando è intenzionale, conscia, o efficace, cioè quando si ha la comprensione reciproca.
4. La necessità di ascoltare l’altro Molto è stato scritto sul dialogo e sulla comunicazione: teorie, metodi, analisi, proposte, orientamenti. Non manca materiale in proposito. Forse, l’attenzione alla formazione, a come dialogare, cioè ad ascoltare anzitutto l’altro, è una prospettiva poco nota o meno approfondita. Infatti, si tende a identificare la comunicazione con le proprie forme strettamente verbali o si riduce il dialogo alla sola accentuazione dell’espressione personale, quasi a voler sottolineare che è sufficiente dare libero sfogo alle proprie opinioni perché si realizzi veramente uno scambio produttivo di idee e parole. È riduttivo anche il concentrarsi esclusivamente solo sul contenuto di quel che si dice, mettendo da parte tutto ciò che viene, comunque, messo in gioco (le emozioni, le sensazioni, gli atteggiamenti, le esperienze, i valori, le reazioni, ecc.). Minimizzare sul valore delle esigenze contestuali non porta molto lontano: il dialogo potrebbe interrompersi o, la comunicazione, essere deviata. La formazione al dialogo passa – primariamente – per l’ascolto e, quindi, per la valutazione di atteggiamenti interiori: la disponibilità all’ascolto (quindi, al decentramento dell’io), a mettere in discussione i propri pregiudizi, la ricerca del modo più idoneo a esprimersi, la verifica di ciò che s’intende condividere (ad esempio, il grado di convinzione personale, l’opportunità di aprire un confronto su un particolare tema, ecc.), la capacità di valorizzare quel che si riceve anche se viene proposto in forme 297
inadeguate. Non si deve semplicemente cercare nell’altro ciò che vi è di più simile a noi e al nostro ambito religioso e culturale. Questo atteggiamento rappresenta la smentita più netta del dialogo. È necessario accogliere l’altro nella sua alterità, cessando di vedere in lui solo quello che ci assomiglia e che riusciamo a comprendere. Così, il dialogo autentico dà spazio all’ascolto dell’altro che ci apparirà meno estraneo e la sua voce più familiare rispetto ai nostri pregiudizi e luoghi comuni. Nell’ascolto ci confrontiamo con la paura, sentimento che non va rimosso bensì affrontato. Si tratta di ascoltare innanzitutto la presenza dell’altro, verso il quale il primo segno di comunicazione è il saluto, il gesto di benvenuto25. Da qui, poi, la probabilità di costruire un rapporto interpersonale abbastanza solido che consideri: — il rispetto delle possibilità ricettive ed espressive dell’altro (interlocutore); — lo sviluppo di un’abitudine al confronto che accresca la reciproca familiarità; — la capacità di non farsi condizionare dalle diversità culturali e dall’eventuale asimmetria relazionale per accogliere cordialmente tutto ciò che l’interlocutore offre e che può servire a colmare una propria particolare povertà. Dal punto di vista teologico, il dialogo esige il riconoscimento della pari dignità tra i credenti, anche se le rispettive dottrine hanno valore e significato diversi. Il tema dell’ascolto è una prerogativa della rivelazione biblica ed è in corrispondenza con quello della parola di Dio. La di25 L’ascolto permette di cogliere il senso autentico della diversità: è qualcosa di reale che si pone tra l’ospitante e l’ospitato, tra i partner del dialogo che è vero in quanto considera le risorse dei singoli come potenziale comunicativo e relazionale. «Ascoltare non è mai atteggiamento passivo: l’ascolto è attenzione e volontà di una presenza che accoglie, e come tale abbisogna di molte energie e di grande forza di volontà. Ascoltare è far tacere se stessi per dar peso, fiducia alla parola dell’altro. L’altro non lo si ostacola mai invano, ma occorre lasciarsi incontrare da lui: ascoltare è ospitare l’altro dentro di noi, ritrarsi per lasciare campo libero anche all’altro […]. Ascoltare non è semplicemente un atteggiamento di orecchi, ma anche e soprattutto un atteggiamento interiore» (E. Bianchi, La differenza cristiana, Torino 2006, pp. 100-101).
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mensione teologica dell’ascolto non è lontana da quella antropologica. Perché l’ascolto rappresenta il fine della Parola – o del linguaggio-comunicazione tra due soggetti –, anzi, il suo essenziale compimento. Anche la spiritualità cristiana, nel tempo, ha sviluppato lo stretto legame tra Logos-lectio divina. Biblicamente, l’organo più importante dell’uomo è l’orecchio (costituisce l’essenza della persona insieme al cuore e al linguaggio). La sensazione auditiva si rivela come un’indispensabile dotazione per la vita. Tuttavia, affinché la parola faccia da mediazione nel rapporto tra due persone, deve essere accolta in una sede d’intelligenza o di comprensione, che è il cuore. Quindi, biblicamente, il dialogo tra l’uomo e Dio o tra due soggetti è autentico, sincero, vero, relazionale, solamente quando le parole passano dall’orecchio al cuore. Da qui un monito molto importante: non si può parlare prima di ascoltare. Ciò non è solo un principio di saggezza bensì una basilare constatazione di esperienza. L’invito all’ascolto (da parte di Dio o della Sapienza) è un modo per avere rispetto verso l’altro. Biblicamente, poi, in rapporto alla rivelazione divina, ascoltare equivale a obbedire e, quindi, a vivere. Colui che non ascolta i comandamenti del Signore è già morto. Ascoltare significa accogliere e custodire la Parola (cf. Pro 2,1; 4,4; 6,20; 7,1; 8,34). Israele è poi il popolo convocato dalla voce di Dio: dimostra di essere il popolo eletto nella misura in cui si manifesta disponibile all’ascolto della Parola (cf. Es 19,7; 24,3.7). L’ascolto di cui parla la Scrittura è il superamento di una ribellione universale, nonché vittoria sulle naturali resistenze e l’uscita dall’egocentrismo. L’uomo biblico si riconosce nella chiamata che lo interpella, e nella parola che egli riceve. Il linguaggio è giusto se la parola nasce dall’ascolto ed è meditata, nonché misurata e pacificata (cf. Pro 25,12-15; 29,20). Dal rapporto con la Parola dipende il significato e l’identità dell’essere persona. Distogliere l’orecchio significa non voler ascoltare. Il «cuore che ascolta» è lodato e benedetto. L’ascolto con il cuore richiama l’obbedienza filiale. Tuttavia, l’ascolto non solo riguarda Israele nei confronti di Dio e della sua legge (e dei profeti) o i membri della comunità o il rapporto familiare, ma anche Dio 299
verso il suo relazionarsi con il popolo. Infatti, Jhwh è colui che ascolta il popolo e il grido del povero26. Se Dio parla, l’uomo è, essenzialmente, uditore della Parola o «uditore del messaggio»27. Orientare al dialogo significa favorire in noi una maturità progressiva di comportamenti comunicativi efficaci, tra cui, in primis, la capacità di ascoltare facendo silenzio28; seguono: chiarezza e trasparenza, semplicità e linearità, essenzialità e organi26 Cf. N. Lohfink, Ascolta, Israele. Esegesi dei testi del Deuteronomio, Brescia 1968, pp. 57-76. Si consideri pure il numero monografico della rivista Parola Spirito e Vita 1 (1980) intitolato proprio Ascolta…!. Cf. ancora H.W. Wolff, Antropologie des Alten Testaments, München 1973, pp. 116-120 [Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia 1993, pp. 102-110]. Utili anche le voci dei seguenti dizionari: H. Lesêtre, Oreille, in Dctionnaire de la Bible, IV, Paris 1908, 1857; W. Schottroff, qšb, fare attenzione, in DTAT II, coll. 616-620; G. Kittel, Akoúô, in GLNT I, coll. 581-606; M. Delcor, h.rš, tacere, in DTAT I, coll. 554-556. Si consideri poi l’excursus biblico-patristico presente in S.A. Panimolle (dir.), Dizionario di spiritualità biblico-patristica. V. Ascolto-Docilità-Supplica, Roma 1993. 27 K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Cinisello Balsamo (Milano) 1990, p. 45. Questa definizione Rahner la sviluppa in rapporto al messaggio cristiano. Per ogni tipo di comunicazione, esiste un «mutuo rapporto ineliminabile tra gli orizzonti di comprensione e la cosa detta, udita e compresa» (ivi). Il linguaggio è la nostra forma storica, l’esperienza che facciamo di stare nel mondo e di sperimentare la nostra libertà in atto. Certamente, in ambito biblico, la Parola dev’essere ricevuta solo da una capacità corrispondente, attraverso un’accoglienza trascendentale che è già dono di Dio e della sua grazia. Cf. Y. Congar, La Parola e il Soffio, Roma 1985, pp. 33-37. 28 Il silenzio costituisce una categoria filosofica, teologica e antropologico-spirituale abbastanza rilevante. Il «tacere» è fondato nel discorso e ne tutela l’originarietà. Solo il vero discorso rende possibile il silenzio autentico. Per poter tacere, l’esserci deve avere qualcosa da dire, cioè deve poter contare su un’apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso, il silenzio rivela e mette a tacere la chiacchiera (cf. Heidegger, Essere e tempo, p. 265). Il tacere viene a essere una possibilità fondamentale dell’apertura esistenziale e, sul piano teologico, coincide con l’Origine o il Padre. Il silenzio, nella Trinità, si esprime attraverso la generazione del Verbo da parte del Padre e la spirazione passiva dello Spirito. In tal senso, il linguaggio si fonda nel tacere che è il fondamento della parola. In Heidegger, il linguaggio non è solo «discorso» o semplicemente una struttura esistenziale aprente, bensì la comunicazione tra l’esistenza e l’eccedenza, tra la parola e il silenzio. Così, il silenzio diviene il superamento di sé che apre alla differenza, perché è tutto dalla parte di Dio o del mistero. Il tacere svolge questa funzione: dire il tempo di fronte all’eterno. La lingua – la parola – nell’ultimo Heidegger, non è più convenzione o rispecchio dell’io o delle cose del mondo, bensì silenzio al servizio della differenza. Così, il tacere è un silenzio significante, teologicamente fondato e rilevante, che svolge una funzione semantica ed ermeneutica, nonché rivelativa. Divenire muti dinanzi a Dio è l’altro nome del timore di Dio.
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cità, come anche pazienza e perseveranza, capacità propositiva e mediazione delle differenze e dei possibili conflitti. L’esperienza dialogica tra persone – di fedi differenti – deve superare alcuni pregiudizi o luoghi comuni: — il dialogo si realizza solamente quando si verifica una naturale affinità con gli altri (ciò determinerebbe il contrario, cioè un vero monologo, in quanto il dialogo ha come punto di partenza lo specifico delle differenze, il proprium della diversità o dell’alterità); — il dialogo esige, necessariamente, la rinuncia a se stessi, al proprio pensiero, fino a perdere l’identità o l’idea di fondo (la prospettiva personale); il dialogo è sincero, vero, nel momento in cui nessuno è costretto a sacrificare la propria verità o una parte di sé ed è chiamato, però, a valorizzare al massimo le proprie risorse perché gli altri possano giovarsene nel modo migliore; — ogni esperienza di dialogo, nel tempo, è destinata a interrompersi o a mutare (al contrario, il dialogo può farsi più solido e fecondo nel corso degli anni, proprio perché si agisce con flessibilità nell’accogliere tutto ciò che provoca la propria identità o la prassi); — la fatica per il comunicare spinge ad abbandonare qualsiasi progetto di dialogo e ogni tentativo di condivisione con l’altro (qui si tratta di vincere le resistenze psicologiche, culturali, spirituali, religiose e affettive che ci separano dal nostro interlocutore); in questo senso, il dialogo è fondato non sulle parole ma sulla capacità di «cum-patire», di partecipare alla storia dell’altro, almeno in minima parte29. 29 Cf. A. Moles - C. Zeltmann, La comunicacíon, in A. Moles - C. Zeltmann (eds.), Diccionarios del saber moderno. La comunicacíon y los mass media, Bilbao 1975, pp. 119-150; S. Mardyks, Communication, in P. Champy - C. étévé (eds.), Dictionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation, Paris 1994, pp. 179-181; Comunicazione, in M. Pacucci, Dizionario dell’educazione, Bologna 2005, pp. 101-103. Per approfondimenti, cf. A. Cayrol - J. De Saint Paul, Derrière la magie, Paris 1984; M.J. Chalvin, Enseignement et analyse transactionnelle, Paris 1993; C. Baylon - X. Mignot, La communication, Paris 1994. Sempre utili gli articoli e i rimandi bibliografici di: G.F. D’Arcais, Dialogo, in Nuovo dizionario di pedagogia, a cura di G.F. D’Arcais, Cinisello Balsamo (Mi-
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Si tratta di comprendere che il dialogo e l’esperienza immensa e misterica della comunicazione interpersonale non sono dati pre-costituiti: non si possono pretendere, ma solo ricercare e costruire insieme. Formano, di continuo, esclusivamente un punto di partenza e non d’arrivo della comunicazione. Allora, «il primo passo nel dialogo tra religioni, tra culture, tra visioni di vita diverse, consiste nel cancellare i malintesi, il secondo passo consiste nello spiegare le rispettive visioni in forma intelleggibile all’interlocutore, e il terzo è rappresentato dal «dia-logos», vale a dire dal «passare attraverso» il «logos» (la parola), per arrivare a «ciò» che si vuol dire – che sta «dietro» quello che traspare nella parola –, alla cosa significata»30. Ci si rende conto che la parola proferita nel dialogo è un atto di fede nonostante si possano avere dei dubbi sulla finalità della comunicazione in atto. Tuttavia, la «parola dialogica» è una «parola aperta», che attende non semplicemente conferme, bensì risposte, nuove domande, reazioni. Perché proferendo la parola del dialogo ci si pone sempre in cammino verso la verità e ci si apre al mistero di Dio. Sulle tracce di una certa pedagogia del dialogo s’inserisce il documento-guida di orientamento per i catechisti in territorio di missione. Nel dialogo con i fratelli di altre religioni, i catechisti – il cui compito prioritario nella missione è l’annuncio –, devono essere aperti, preparati e impegnati in un tipo di dialogo che consideri i seguenti punti o elementi. — L’ascolto dello Spirito che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8), quindi, nel rispetto di ciò che il Soffio della vita ha operato nell’uomo, per raggiungere quella purificazione interiore, senza la quale il dialogo non porta frutti di salvezza. — La conoscenza corretta delle religioni presenti nel territorio (storia, organizzazioni, valori, limiti ed errori rispetto alla verità evangelica31). lano) 1992, pp. 324-330; E. Monti, Comunicazione, in Nuovo dizionario di sociologia, a cura di F. Demarchi e altri, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, pp. 447-453. Come anche la riflessione di G. Lacroix, Le sens du dialogue, Neûchatel 1944. 30 R. Panikkar, Pace e interculturalità, Milano 2002, p. 39. 31 È la necessità d’operare un sano discernimento per considerare i frutti dello Spirito Santo nella vita personale degli individui, cristiani e non cristiani. Cer-
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— La
convinzione di fede che la salvezza viene da Cristo e che, perciò, il dialogo non dispensa dall’annuncio e dalla missione della Chiesa cattolica. — La collaborazione pratica con gli organismi religiosi non cristiani per risolvere le grandi sfide dell’umanità, quali la pace, la giustizia, lo sviluppo. — Un atteggiamento di stima e di accoglienza verso le persone che nasce dalla carità del Padre comune che riunisce tutta la famiglia degli uomini in ogni opera di bene. — Credere al dialogo anche quando la via per realizzarlo è difficile e incompresa: in certi casi, il dialogo è l’unico modo per testimoniare Cristo, ed è sempre una via verso il Regno e darà sicuramente i suoi frutti32. Merita attenzione il significato della parola «pregiudizio». In senso negativo, indica la preclusione a qualsiasi processo dialogico. Occorre capire, attraverso la psicologia sociale, come si giunge al pregiudizio e quali effetti produce. Di solito, il pregiudizio si forma quando la norma personale o quella di un gruppo diventa unità di valutazione esclusiva per un’altra persona o un altro gruppo. Alla base del pregiudizio soggiace una reazione dito, resta difficile affermare quali siano, concretamente, tutti gli elementi di grazia presenti nelle altre tradizioni religiose. Ogni tradizione religiosa riflette non solo i segni positivi della grazia di Dio ma anche i limiti dello spirito umano e, quindi, gli influssi del peccato. Molte persone sincere, ispirate dallo Spirito di Dio, hanno certamente marcato con la loro impronta l’elaborazione e lo sviluppo delle loro rispettive tradizioni religiose. Per questo discernimento occorre stabilire dei criteri che considerino i valori cristiani e la verità del Vangelo. Affermare che altre tradizioni religiose contengono elementi di grazia non significa peraltro che tutto in esse sia frutto della grazia: il peccato che agisce nel mondo è rispecchiato nei limiti di ogni cultura e tradizione religiosa. Entrare in dialogo con le altre tradizioni religiose significa, per un cristiano, valutare gli elementi negativi e positivi, e avere il coraggio di porre domande e questioni, agli esponenti di tali tradizioni, in uno spirito pacifico. Cf. Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso - Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, Istruzione Dialogo e annuncio (19 maggio 1991), nn. 30-31 [d’ora in poi Dialogo e annuncio]. 32 Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Guida per i catechisti. Documento di orientamento in vista della vocazione, della formazione e della promozione dei catechisti nei territori di missione che dipendono dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (3-12-1993), nn. 15-16: EV 13,33643373. Cf. pure Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), nn. 55-57: EV 12, 656-660.
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fensiva di paura. Il pregiudizio può avere un effetto suggestivo: può talmente influenzare l’individuo o il gruppo a cui esso si ricollega, che questi si comporteranno realmente così come il pregiudizio esige. La rivelazione cristiana, che considera tutti gli uomini uguali davanti a Dio, offre la possibilità di spezzare il pregiudizio nel suo nascere. Il pregiudizio svolge una funzione marcatamente ego-difensiva e costituisce un atteggiamento sfavorevole verso un oggetto, che tende a essere altamente stereotipato, provvisto di carica emozionale e difficilmente soggetto a cambiamento di fronte a informazione contraria. Solitamente, il pregiudizio più rilevante è quello razziale che è diretto verso qualsiasi parte debole del tessuto sociale. Nella persona che se ne fa portatrice, il pregiudizio svolge molte funzioni: fornire uno sfogo momentaneo all’aggressività indotta da un persistente stato di frustrazione; razionalizzare comportamenti socialmente disapprovabili come, ad esempio, quando il pregiudizio serve a giustificare il fatto di sottopagare i lavoratori immigrati; fornire un oggetto su cui proiettare impulsi negati, come l’aggressività e la sessualità; valorizzare se stessi e il proprio gruppo d’appartenenza attraverso la valorizzazione del gruppo dei «diversi». Il pregiudizio si giustifica attraverso teorie centrate sull’individuo o sui gruppi, o anche mediante fattori intraindividuali e interpersonali, nonché del tipo d’interazione tra gruppi33.
Alcuni possibili ostacoli Ci sono, poi, dei fattori di rischi – ostacoli – che non portano molto lontano nel dialogo umano e interreligioso che è bene tenere sotto osservazione. Come ad esempio: 33 Cf. F. Mayer, Vorurteil - Geissel der Menschheit, München 1975; R. Garaudy, Per un dialogo delle civiltà, Assisi 1977; G. Lindzey - E. Aronson (a cura), Handbook of social psychology, New York 1985; H.A. Eagly - S. Chaiken, The psychology of attitudes, Orlando (Florida) 1993; R. Trentin, Gli atteggiamenti sociali, in L. Arcuri (a cura), Manuale di psicologia sociale, Bologna 1995, pp. 229-298. In proposito, la bibliografia è sterminata, cf. anche il classico studio di G.W. Allport, La natura del pregiudizio, Firenze 1973.
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— una
fede scarsamente radicata (si dialoga a partire sempre dalla propria identità); — una conoscenza e comprensione insufficienti del credo e delle pratiche delle altre religioni (ciò conduce a interpretazioni sbagliate e ad apprezzamenti o valutazioni negative); — le divergenze culturali che sorgono dai livelli diversi d’istruzione o dall’uso di lingue differenti; — fattori socio-politici o certi pesi del passato (esempio nel rapporto tra musulmani ed ebrei in Terra Santa, o cristiani e musulmani in Palestina); — una comprensione erronea del significato di termini quali la conversione, il battesimo, il dialogo, la fraternità, ecc.; — la mancanza di convinzione circa il valore del dialogo interreligioso considerato come compito solo degli specialisti o quale segno di debolezza o di tradimento della fede; — l’intolleranza spesso associata a fattori politici, economici, razziali ed etnici; — l’assenza di reciprocità nel dialogo; — il rifiuto dell’esperienza religiosa di qualsiasi fede a motivo del materialismo, dell’indifferenza religiosa, ecc.34; — esigere una relazione dialogica improntata esclusivamente sulla dialettica, come anche pretendere una relazione dialogica in cui emerge solamente il proprio ego pieno di sovrastrutture (l’io si atrofizza a motivo del monologo in cui è assente l’introspezione); — l’affermarsi di una comunicazione solamente dottrinale, disincarnata, lontana dalla prassi, dalla vita di fede (l’io non dimostra di aver assimilato la verità, ma solamente di conoscerla in maniera speculativa). Da un punto di vista strettamente antropologico e sociologico, la possibilità di tessere un dialogo autentico tra fedi differenti esige il recupero di questi elementi: — lo spirito di un sano realismo per affrontare la comunicazione e le varie situazioni che determinano un interscambio o 34
Cf. Dialogo e annuncio, p. 52.
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relazione, evitando sia il formalismo che la preoccupazione di voler salvare a ogni costo le apparenze. È necessaria una visione oggettiva delle circostanze per scorgervi, comunque, nel dialogo, la presenza di Dio; — una discreta atmosfera di maturità da parte dei partners convocati, i quali si scoprono sostenuti da una grandezza d’animo che li spinge alla magnanimità, a essere entusiasti, a riconoscere gli aspetti positivi del dialogo; — l’impegno comune che rende operative e verificabili le tappe del dialogo; — la possibilità di sviluppare una sorta di spiritualità del dialogo attraverso la preghiera e momenti di fraternità; — mantenere un ideale comune che motiva il bisogno di comunicare: convertirsi all’unico Dio; — superare l’egocentrismo per partecipare agli altri i frutti del proprio lavoro e delle proprie esperienze, accogliendo con animo grato le esperienze altrui. La benevolenza porta a cogliere gli aspetti positivi nella personalità altrui; — la capacità di simpatizzare, cioè di trasferirsi solo temporaneamente nel mondo altrui al fine d’intendere fino in fondo le sue motivazioni, rendendosi così disponibili; — l’umiltà nel modo di proporsi e con cui si prova a dialogare, accogliendo sempre le ragioni dell’altro35. Si tratta, in definitiva, di costruire un vero metodo dialogico che non si limita semplicemente a instaurare un buon livello di comunicazione tra due o più soggetti, bensì a favorire un processo formativo mediante il quale si diventa consapevoli del proprio io e dell’altrui identità. Si possono stabilire alcune fasi del processo critico di formazione dialogica: — costruire la formazione sulla base della diversità di esperienze 35 Cf. A. Mercatali, Comunità di vita, in Nuovo dizionario di spiritualità, a cura di S. De Fiores - T. Goffi, Cinisello Balsamo (Milano) 1989, pp. 225-242; M. Amaladoss, Walking Together. The practice of Inter-Religious dialogue, New Delhi 1992; M. Barnes, Theology and the dialogue of religions, Cambridge 2002; E. Ducci, L’uomo umano, Brescia 1979, pp. 98-109; Id., Essere e comunicare, Roma 2003; T. Michel, Come creare la cultura di dialogo: metodologia del dialogo interreligioso, Roma 2003; J.A. Berling, Understanding other religious worlds. A guide for interreligious education, New York 2004.
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delle persone in formazione e delle prospettive delle religioni in esame; — rafforzamento attraverso lo sviluppo di un coinvolgimento attivo e diretto dei formandi, incoraggiandoli a comunicare anche le differenze; — favorire l’allargamento degli orizzonti entrando in altri mondi attraverso l’arte e la narrativa; — non limitarsi solo a fornire nozioni, bensì favorire quei processi alternativi e integrativi di comprensione e d’interpretazione; — sviluppare una flessibilità del linguaggio attraverso la conversazione; — orientare alla prassi, incoraggiando a costruire comunità e relazioni a partire da piccoli eventi36. L’esperienza religiosa è una risposta di fede a una chiamata personale di Dio. Per cui, l’orizzonte del dialogo non è la religione ma Dio stesso. La comprensione di un’altra religione passa non solo attraverso la considerazione dei sistemi e degli aspetti di un particolare contesto, ma anche per l’analisi del ruolo della religione nella vita delle persone, mediante il significato che essa assume per gli stessi credenti. Il metodo dialogico è, anzitutto, maieutico: prova a tirare fuori dal singolo partner la propria esperienza religiosa – insieme al desiderio di comunicare tale esperienza – per poi cercare di sistematizzare il contenuto del vissuto di fede alla luce di uno studio comparato e del confronto con l’altro. In quanto processo dialogico, la comunicazione tra due interlocutori deve raggiungere le rispettive coscienze senza distruggerne la soggettività e l’identità, fino a trasformarsi in un’operazione di scambio: colui che dà scopre nelle reazioni dell’interlocutore nuovi aspetti di ciò che dà, e colui che riceve esprime nuove valenze, fino allora mai udite e nascoste, insieme di se stesso e del messaggio che gli è presentato37. Così, nel dialogo, Cf. Berling, Understanding other religious worlds, pp. 15-45. In tal senso, si può definire il dialogo come una relazione interpersonale che avviene nel rispetto dell’alterità dell’interlocutore, sulla base di una comunione già esistente, in vista di un avvicinamento e di una unione più profonda. L’istruzione 36 37
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il cristiano cammina con i suoi fratelli, ascoltando, interrogando, rispondendo, collaborando e cercando, in sinergia con loro.
Come procedere nel dialogo interreligioso Una delle urgenze più forti della pedagogia del dialogo è quella di formare le comunità (religiose e non) alla differenza, alla capacità di vedere l’altro come dono e non come minaccia che incombe su di noi. È chiaro questo dato per noi cristiani: la cattolicità non è minacciata dall’altro, bensì arricchita, evidenziata. L’altro non è il potenziale nemico, ma l’esperienza possibile di Dio. In tal senso, si può ritenere, a giusta ragione, che il futuro delle città è multietnico. Non esiste – e non ci sarà – l’isola felice per soli cristiani. Occorre, invece, fin da ora, imparare a crescere insieme, a condividere valori ed esperienze; e a testimoniare la propria fede in un contesto multireligioso, anzi, intrareligioso. È possibile tracciare, in misura semplice ed essenziale, una sorta di deontologia del dialogo per non apparire sprovveduti, per non banalizzare o rendere ingenuo il vissuto dialogico. Nel dialogo autentico si rivelano insufficienti l’entusiasmo del cuore e la spontaneità: è necessario un vero e proprio percorso ascetico, una disciplina severa, un paziente e faticoso lavorìo. — Occorre mettersi in ascolto dell’altro accettandone l’alterità, la diversità, e verificandone la disponibilità al dialogo stesso; — è necessario, anche se difficile, lasciare che sia l’altro a definirsi, accettare la sua autolettura, accogliere questa «consegna» che egli fa di se stesso e della propria tradizione: solo così possiamo conoscerla in modo autentico. Non dobbiamo presumere di saper descrivere l’altro: finiremmo, anche senza volerlo, per darne un’immagine riduttiva, falsa, espressione Dialogo e annuncio parla di disposizioni per il dialogo interreligioso e i suoi frutti in cui rientrano questi elementi: atteggiamento equilibrato che non è nell’ipercriticismo né nell’ingenuità, ma nell’esigenza dell’apertura e dell’accoglienza, come pure nel bisogno di essere imparziali e disinteressati, nonché di accettare le differenze e le possibili contraddizioni. È richiesta anche una volontà comune per il servizio alla verità e la prontezza a lasciarsi trasformare dall’incontro. Cf. Dialogo e annuncio, n. 47.
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di un giudizio derivante dalle nostre convinzioni e soprattutto dai nostri parametri culturali; — definire se stessi a partire dalla propria identità culturale e religiosa. Questo è particolarmente importante per noi cattolici perché siamo soliti, con il pretesto dell’universalità, a inglobare tutto: è una tendenza all’et-et, al sommare tradizioni diverse – e a volte incompatibili – senza mai operare scelte discriminanti, rifuggendo l’aut-aut. È una forma di «voracità» teologica, in cui non si rispetta la peculiarità dell’altro ma lo si scimmiotta per rafforzare la propria posizione onnicomprensiva. Ma questo non è dialogo, è indifferentismo alla ricerca di consensi irreali, di convergenze inesistenti. Senza sentire le proprie radici non si può essere autentici interlocutori; essere fedeli al proprio retroterra ed esserne oggettivamente portavoci è condizione perché il dialogo non si riduca a uno scambio di vedute personali, ma divenga confronto tra tradizioni e mondi religiosi e culturali diversi; — ammettere un’uguaglianza, una pariteticità fra interlocutori nel percorrere e vivere il dialogo. Pur nella convinzione che la sua è la vera fede, il cristiano non deve temere le difficoltà che incontra e le obiezioni che suscita; deve, al contrario, ricordare che l’altro costituisce la rivelazione di quanto a lui non è stato dato, la manifestazione di un dono che viene dall’alto. D’altronde la storia, spazio di incontro e di dialogo, è il luogo obbligato per la conoscenza del dono di Dio. Si tratta di procedere nell’accoglienza e nel confronto, evitando sia la tentazione dell’inclusione – di ragionare cioè come se tutti fossero «inclusi» nella chiesa – che quella dell’esclusione, come se gli altri non avessero nulla a che fare né niente da dire alla chiesa; — il dialogo richiede una povertà che esclude ogni autosufficienza e conduce ogni credo a una kenosis, uno svuotamento. Il cristiano non deve temere questo abbassamento perché sa che lo Spirito Santo offre agli uomini tutti, attraverso vie che Dio solo conosce, la possibilità di essere associati a quello che noi cristiani chiamiamo il «mistero pasquale»; — Praticare un dialogo anche all’interno per essere credibile. In309
fine, chi vuole praticare il dialogo fuori del proprio spazio di appartenenza confessionale non può dimenticare che dà prova della sua retta intenzione con la capacità di dialogo e di comunicazione nei confronti di quelli che appartengono alla sua stessa tradizione. Chi, infatti, pratica un dialogo «presbite» con coloro che sono lontani da lui, ma è incapace di dialogare con chi gli è vicino, non potrà mai essere credibile. Pur riconoscendo una sorta di «deontologia del dialogo», si deve ancora lavorare per affermare lo statuto teologico dell’altrui alterità. L’altro è il fondamento dell’etica per la sua alterità e prima ancora di ogni tipo di relazione con l’io e il suo mondo. Sui limiti di un’etica della trascendenza a stampo egocentrico ci aveva informati, qualche anno fa, il teologo Theo Sundermeier. Questi, docente di missiologia e di storia delle religioni alla Facoltà di Teologia evangelica dell’Università di Heidelber, in Germania, ha approfondito – sul piano ermeneutico ed etnologico – l’incontro con lo straniero da parte dell’Europa e dell’Occidente (metafisico e pensante). Egli è convinto che la comprensione sia la condizione e il fondamento di qualsiasi possibile comunicazione con l’altro. Il discorso è strutturato sulla teoria ermeneutica della comprensione, interrogando (in modo interdisciplinare) l’etnologia, la storia dell’arte, la filosofia e, infine, la teoria della comunicazione di Habermas. L’altro e la sua propria alterità sono resi attraverso il concetto (e la realtà complessa) di straniero. La «comprensione dello straniero» è un lungo processo di apprendimento, una salita che è possibile affrontare «un passo dopo l’altro». Nei modelli di comprensione dello straniero (alterità, complementarità, uguaglianza) rientrano, grosso modo, filosofi e teologi che già conosciamo (Hegel, Buber, Husserl, Lévinas). Solo un’«ermeneutica interculturale» o «della differenza» – è quanto ci offre Sundermeir – permette alla filosofia e alla teologia il passaggio dalla soggettività all’intersoggettività. L’altro – lo straniero – non è solamente lo specchio dell’io, né può essere utilizzato come strada per trovare se stessi. Pur ammettendo l’autoriflessione nel tu o altro da sé, lo straniero è tale per la sua diversità, per un’identità a parte che non si coglie e non si determina a partire dall’io. È netto il rifiuto della Verein310
nahmungshermeneutik, dell’ermeneutica dell’incasellamento tipica del pensiero classico e moderno. Si richiede un approccio multidimensionale, una Differenzhermeneutik, un’ermeneutica della differenza, capace di insegnare a comprendere ciò che è diverso, senza incasellarlo nei nostri schemi, offrendo degli aiuti pratici per esercitare la vicinanza del vivere insieme e, nello stesso tempo, assicurare la giusta distanza, rispettando, così, l’identità dello straniero e la comune dignità umana dei soggetti in dialogo, dell’io e del tu. Si parte da questo principio: un’ermeneutica deve essere sempre aperta, se non vuole essere ridotta a una mera strategia di incasellamento. Occorre lavorare per un’ermeneutica xenologica, per una comprensione dal basso. Per un cristiano, la forma più alta del dialogo – il frutto sublime – è la carità, cioè la testimonianza di vita come credibilità della propria fede38. Il dialogo, allora, esercita un potere di conversione e di trasformazione: i soggetti comunicanti s’incontrano attraverso il proprio vissuto di fede e sentono l’azione dello Spirito nel loro cuore. Si può ritenere giusto, senza esagerare, l’espressione iperbolica di Ascheman, secondo il quale le esperienze di dialogo interreligioso sono come dei sacramenti missionari39. Chi dialoga, infatti, non lo fa mai in una posizione neutrale, ma sempre assumendo gli atteggiamenti e le convinzioni della propria fede. Dal dialogo, allora, può nascere un’esperienza di amicizia e poi di fraternità40. E ciò costituisce un elemento importante, vi38 Cf. Th. Sundermeier, Comprendere lo straniero. Una ermeneutica interculturale, Brescia 1999; E. Scognamiglio, Il volto di Dio nelle religioni. Una indagine storica, filosofica e teologica, Milano 2001, pp. 49-59. 39 Cf. le suggestioni e le belle intuizioni di T. Ascheman, Prophetic Dialogue. Challenger and Prospects in India, New Delhi 2003, pp. 15-20. 40 Tra i frutti del dialogo, Giovanni Paolo II prevedeva la possibilità di affermare, riprendendo un’espressione di Paolo VI utilizzata per il primo messaggio per la giornata mondiale della pace (1971), che «ogni uomo è mio fratello!». Se fossimo convinti di essere chiamati a vivere insieme, che è bello conoscersi, stimarsi e aiutarsi, il mondo sarebbe radicalmente diverso. Aiutandoci gli uni gli altri, divenendo degni della vocazione alla quale siamo stati chiamati, possiamo formare una grande famiglia felice di sapersi amata da Dio che ci vuole tutti fratelli. Cf. Giovanni Paolo II, Discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13 gennaio 2001), nn. 2; 4-8, in Insegnamenti, XXIV/1, Città del Vaticano
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sto che viviamo i luoghi anonimi e impersonali della post-modernità. Successivamente, il dialogo tra fedi diversi può favorire la maturazione della propria fede e il passaggio dalla visione dottrinale alla partecipazione esistenziale e storica. L’esperienza religiosa dell’altro fa sperimentare il bisogno di conoscere meglio la propria fede e di liberarla da false convinzioni. In tal senso, il dialogo è una chiamata reciproca, segno dell’appello di Dio che costruisce la comunione universale41. La comunicazione della fede deve, dunque, essere un processo spirituale che inizi le persone al mistero della loro esistenza e non un indottrinamento dogmatico e morale. Non deve forzare la porta delle case per portare il suo messaggio, né tanto meno per convertire qualcuno a qualsiasi prezzo. Dialogare significa ascoltare il mondo, gli uomini e le donne di oggi per poter annunciare loro la buona novella in un linguaggio comprensibile e con credibilità. Forse, il frutto più bello del dialogo è quello di aiutarci ad accettare l’idea che le forme della nostra vita potrebbero essere abbattute, perché in esse potrebbe non esserci più lo Spirito che le ha create; come anche accettare l’ipotesi di un cambiamento, di una necessaria trasformazione dei nostri stili di vita, dei linguaggi che usiamo per comunicare. «Lo scopo del dialogo è quello di mantenere una tensione tra il culto, lo studio e i significati della vita quotidiana. Da questo dialogo potrebbe scaturire il rinnovamento della forma, in questo caso, il rinnovamento della comunità. Ci sono comunità le quali, grazie al dialogo, hanno completamente cambiato il concetto di loro stesse»42.
5. Le forme del dialogo Il n. 42 dell’istruzione Dialogo e annuncio offre una buona sintesi della varietà di forme di dialogo e recupera alcuni suggerimenti presentati dall’allora Segretariato per i non cristiani nel 2001, pp. 162-166. 41 J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Brescia 1997, pp. 510-513. 42 Howe, Il miracolo del dialogo, p. 144.
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documento Dialogo e missione che abbiamo già avuto modo di citare in precedenza. Esistono, in misura complessiva, quattro forme di dialogo interreligioso che si possono coordinare e integrare reciprocamente. a) Il dialogo della vita, dove le persone si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane. b) Il dialogo dell’azione o delle opere, attraverso il quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e in vista della liberazione del loro prossimo e di tutta la gente. c) Il dialogo degli scambi teologici, ove gli esperti cercano di approfondire la comprensione delle loro rispettive eredità religiose e di apprezzare i valori spirituali gli uni degli altri. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, dove persone radicate nelle proprie tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio per ciò che riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e le vie della ricerca di Dio o dell’Assoluto43. L’istruzione ricorda poi il carattere d’interdipendenza delle varie forme di dialogo. Da qui la necessità di non perdere mai di vista questa varietà di forme di dialogo. Infatti, se venisse ridotto a uno scambio teologico, il dialogo potrebbe essere considerato facilmente una sorta di ambito privilegiato nella missione della chiesa, uno spazio (un dominio) riservato agli specialisti. Al contrario, tutte le Chiese locali (e tutti i loro membri) – guidati dal papa e dai loro vescovi – sono chiamate al dialogo, anche se in modi differenti. Si può notare, inoltre, che le diverse forme di dialogo sono interconnesse tra di loro. I contatti all’interno della vita quotidiana e l’impegno comune all’azione apriranno in modo naturale alla collaborazione e alla promozione dei valori umani e spirituali; i contatti e l’impegno comune possono anche, eventualmente, portare al dialogo dell’esperienza religiosa 43
Cf. Dialogo e annuncio, n. 42.
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in risposta alle grandi domande che le circostanze della vita non mancano di far sorgere nelle menti degli uomini. Gli scambi a livello di esperienza religiosa possono dare maggior vita alle discussioni teologiche, e quest’ultime, in cambio, possono illuminare l’esperienza e incoraggiare i contatti più stretti44. In Dialogo e missione nn. 28-35 vengono esplicitate le diverse forme di dialogo cha abbisognano sempre di integrazione e di cooperazione. L’approccio è fenomenico-esperienziale: è basato sulla pratica degli incontri, sul vissuto quotidiano del dialogo, a partire da quelle iniziative fruttuose a livello locale o internazionale. Il dialogo è inteso come: — stile di azione, attitudine e spirito che guida la condotta, atteggiamenti per i quali è implicata l’attenzione, il rispetto e l’accoglienza verso l’altro (riconoscendogli degli spazi propri, una sua identità, dei propri valori ed espressioni). Questo tipo di dialogo è la norma, nonché lo stile necessario, di tutta la missione cristiana e di ogni parte di essa. La missione è per sua natura permeata da uno spirito dialogico; — dialogo della vita quotidiana o testimonianza (riguarda ogni cristiano chiamato a infondere il sapore evangelico in ogni ambiente in cui vive e opera, cioè quello familiare, sociale, educativo, artistico, economico, politico). Il dialogo s’inserisce nel grande dinamismo della missione ecclesiale; — dialogo delle opere e della collaborazione per obiettivi di carattere umanitario, sociale, economico e politico che tendono alla liberazione e alla promozione dell’uomo. Qui il campo delle collaborazione è veramente vastissimo; — dialogo degli esperti, che è richiesto per confrontare, approfondire e arricchire i rispettivi patrimoni religiosi, nonché per applicarne le risorse ai problemi che si pongono all’umanità nel corso della sua storia. A questo livello di particolare 44 Cf. ivi, n. 43. Un contesto particolare nel quale sembra urgente il dialogo interreligioso è quello della cultura che orienta l’esperienza religiosa e ne può subire, a sua volta, influssi. Ogni tradizione culturale contiene un patrimonio di valori da conoscere e da discernere. Scopo di una religione è quello di superare i conflitti e le tensioni provocati da determinati valori culturali che sono in contrasto con la fede. Cf. ivi, n. 45.
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interesse, il dialogo avviene tra interlocutori che hanno una propria visione del mondo a partire dalla propria esperienza di fede; — dialogo spirituale (è forse il livello più profondo e più maturo che si possa stabilire tra gli interlocutori), in quanto prevede la possibilità di condividere le esperienze religiose di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno – espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto – tra persone radicate nelle proprie tradizioni religiose. A questo livello, il dialogo conduce naturalmente a comunicarsi vicendevolmente le ragioni della propria fede e non si arresta di fronte alle differenze talvolta profonde, e si rimette con umiltà e fiducia a Dio, che è «più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20). È il tentativo di offrire all’altro la possibilità di sperimentare in maniera esistenziale i valori del Vangelo e viceversa45. Sembra importante, oggi più che mai, approfondire il dialogo della vita quotidiana o della testimonianza. La fede eloquente del cristiano permette di comunicare la gioia e di abbattere il muro dell’indifferentismo religioso che va progressivamente alzandosi quanto più scompare il carattere della differenza cristiana. Il dialogo della vita quotidiana, poi, offre un criterio interpretativo molto più concreto – rispetto a certe teorie catastrofiche – circa il valore del pluralismo religioso oggi che ha messo in crisi le forme e i modi dell’evangelizzazione. Il cristianesimo non è la religione superiore ma una proposta di vita che sta accanto alle altre senza titoli di predominio né di assolutezza. La differenza, per un cristiano, è data dalla sua capacità di vivere il Cristo e di camminare accanto agli altri, cioè di testimoniare il Vangelo in un contesto interreligioso – pluralista – e allo stesso tempo indifferente in quanto segnato dall’homo technologicus convinto di poter dominare tutto. Le diverse forme di dialogo che si possono intraprendere, in fin dei conti, rivelano una grande verità: i cristiani sono i primi a 45 Cf. Dialogo e missione 28-35. Si consideri pure il valore della testimonianza di fede come dialogo o evangelizzazione sottolineato da Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8 icembre 1975), n. 21: EV 5, 1588-1716, qui 1613.
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essere evangelizzati, ad ascoltare la Parola, a divenire discepoli della sequela del Signore piuttosto che militanti improvvisati. Essi non devono neanche cercare visibilità a ogni costo, né ricorrere a sovraesposizioni per evangelizzare, né a strumenti di potere. La testimonianza quotidiana – una vita fedele al Signore – resta il primo mezzo dell’evangelizzazione e del dialogo. È, infatti, una vita improntata su Gesù Cristo a scandire il senso dell’identità cristiana e della stessa differenza cristiana, come anche a permettere il suscitare di domande di senso negli altri. Il dialogo più grande che un cristiano possa intraprendere è una vita buona, abitata dalla carità, dal fare il bene, dall’amore gratuito che giunge ad abbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini.
6. Tra utopia e profezia Alla luce di quanto affermato sulla pedagogia del dialogo, lasciamoci provocare dalla lezione dottorale che il cardinale Jean-Louis Tauran ha tenuto all’Institut Catholique di Parigi il 23 novembre del 201046. Nella sua dissertazione per il dottorato honoris causa, il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso si è soffermato sulla necessità del confronto tra credenti delle diverse religioni nel momento storico attuale. I rischi, le potenzialità e le esigenze di una ricerca comune nel dialogo in una stagione culturale segnata a un tempo dal ritorno del religioso, ma anche dell’indebolimento delle identità e da una razionalità chiusa al divino che respinge la religione, sono tra i temi affrontati da un testo aperto al positivo contributo delle religioni alla costruzione delle società nella giustizia e nella pace. Fedeltà alla propria tradizione, apertura coraggiosa alla diversità e rigetto di ogni forma di violenza in nome della religione, che significa l’esigenza di coniugare la fede con la ragione, sono indicate dal cardinale Tauran come le basi di un dialogo autentico 46 Cf. J.-L. Tauran, Credenti in dialogo? Utopia o risorsa?, «Il Regno-Documenti» 3/2011, pp. 69-73.
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nel quale i cristiani sono chiamati a offrire in maniera credibile la loro collaborazione a tutti coloro che si sforzano di fare di questa terra un luogo dove vivere insieme è un bene. Riprendendo alcuni punti dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, Tauran afferma che il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo come Dio lo tratta: con bontà, giustizia, amore. Nel mondo complesso che abbiamo costruito, tutto si coniuga al plurale, comprese la cultura e la religione. Due grandi ostacoli condizionano la testimonianza dei credenti: la crisi dell’intelligenza e la difficoltà nella trasmissione dei valori. In tal senso, il dialogo tra le religioni rappresenta un’utopia perché è un bene e una profezia che si pongono davanti a noi, fino a quando l’unità dei popoli non si aprirà al senso di una fratellanza universale, così come auspicava san Francesco; ma è altresì una risorsa, perché attraverso l’esperienza della fede, ogni persona credente lavora ininterrottamente per l’affermazione della giustizia e della pace. In proposito, ci ricorda il cardinale Tauran, nel suo intervento magisteriale, che tutte le religioni considerano la famiglia come ambito nel quale si apprende a vivere insieme, e che la terra d’origine è il luogo che plasma la nostra identità, e ancora che l’educazione non è un semplice fattore di conoscenza, bensì un’esperienza di vita attraverso la quale si trasmettono i valori fondamentali dell’esistenza. In ultimo, ma non meno importante, tutte le religioni considerano la necessità della vita interiore. Resta, però, aperta una domanda: quale sarà il contributo proprio di noi cristiani per il dialogo tra le religioni e, soprattutto, per la costruzione di una società migliore, dove la giustizia, la pace, la libertà e la fratellanza possano trovare piena accoglienza? Il cardinale Tauran sembra non dare una risposta definitiva. Anzi, risponde con un’altra domanda: «Quando il cristianesimo inizierà a esistere?». Come a dire: «Quand’è che ognuno di noi farà la sua parte?». Certamente il dialogo tra le fedi promuove l’integrazione sociale e la pace internazionale, ponendo in evidenza la dimensione pubblica della religione e rivalutando il diritto alla libertà religiosa. Dia-logos significa lasciarsi attraversare dalla parola 317
e dall’esperienza di fede dell’altro. Dia-logos vuol dire, altresì, permettere all’altro di rivelarsi nella sua alterità e di testimoniare il suo vissuto di fede, culturalmente condizionato, attraverso gesti d’amicizia e parole che colpiscono dritto al cuore. Alla luce della propria identità, nel dialogo interreligioso non può venir meno la questione della verità: ci si pone in ascolto dell’altro senza misconoscere il dono della fede che ci costituisce come credenti in Cristo. È chiaro che, per noi cristiani, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, Parola fatta carne, è la verità assoluta e originale (perché universale e concreta) – la forma definitiva – che la Trinità si è data nel tempo. Questa verità ci appartiene, si rende partecipe nella storia del popolo di Dio «e possiede e determina» il mistero stesso dell’identità e della missione della Chiesa. Se ciascuno non resta fedele alla sua fede, il dialogo interreligioso non sarà autentico. Diversamente, ogni forma di tolleranza sarebbe una maschera di perbenismo indifferente o di efficientismo diplomatico che mal si concilia con il rispetto della stessa libertà religiosa e la pretesa di verità insita in ogni esperienza di salvezza. D’altronde, il dialogo non è un semplice colloquio cordiale o uno scambio amichevole, bensì un confronto sulla propria esperienza di Dio. Dunque, il rispetto reciproco esclude una tolleranza indifferente e richiede un’accoglienza convinta dell’altro, senza sottovalutare le divergenze che ci costituiscono nel nostro essere uomini e donne di fede. Non appartiene, quindi, all’esperienza del dialogo il sincretismo affettivo o l’irenismo ingenuo che evita il confronto e il discernimento. Nella forma genuina del dialogo interreligioso rientrano, come elementi permanenti, il confronto critico a partire dalla propria identità e il rispetto dell’alterità. Tuttavia, ciò che rappresenta la questione centrale nel processo dialogico interreligioso non è il tema dell’inculturazione o dello scontro di civiltà o l’impegno per la pace, bensì la domanda su Dio. Perché il riconoscimento di ciò che hanno in comune le diverse tradizioni religiose rinvia sempre alla volontà salvifica dell’unico Dio da cui ha origine una fratellanza universale. D’altronde, il dialogo mira alla conversione reciproca dei partner verso l’unico Dio. Il Dio unico è il fondamento del genere umano e della dignità di 318
ogni individuo. È a questo principio che si è ispirato il Concilio ecumenico Vaticano II attraverso la dichiarazione Nostra aetate. Se Dio è Padre e Creatore di tutti, noi siamo tutti fratelli e formiamo una sola famiglia umana. Da qui l’orientamento pratico ed etico del dialogo interreligioso che fa propria la regola d’oro del saper vivere secondo la Scrittura, cioè in modo sapienziale: «Ciò che non vuoi che sia fatto a te, non farlo agli altri» (cf. Tb 4,15; Sir 31,15; Mt 7,12; Lc 6,31). In senso positivo significa vivere l’impegno comune a favore della giustizia, della libertà e della pace nel mondo e per la lotta comune contro la povertà, la violenza e la discriminazione. «Un tale dialogo pratico non è una strada a senso unico, in cui solo i cristiani svolgono il ruolo di maestri. Per il dialogo è essenziale guardare se stessi con gli occhi dell’altro. Così nel dialogo molto spesso dobbiamo accettare che ci venga criticamente tenuto davanti allo specchio. Anche se i cristiani sono convinti che in Gesù Cristo è stata donata la pienezza della verità, ciò non significa che abbiamo realizzato interamente questa pienezza o l’abbiamo veramente tradotta nella nostra vita. Il dialogo con gli altri ci dà la possibilità di comprendere più profondamente e di purificare la nostra stessa fede e la nostra pratica di fede […]. Il dialogo presuppone partner che abbiano la loro specifica identità, ma che comprendano questa identità non come una monade chiusa in sé ma come un’identità aperta, che realizza se stessa tramite il dialogo e lo scambio. Intesa correttamente, l’identità cristiana non è un’identità timorosa, chiusa in se stessa, barricata dentro la propria fortezza, e non è neppure un ottuso sciovinismo, ma è un’identità aperta all’altro, un’identità che esce da se stessa, che va verso l’altro e che con l’altro s’identifica. Nel far questo, essa non rinuncia a se stessa, ma al contrario si realizza, si dispiega, si approfondisce, viene arricchita dall’altro»47.
47 W. Kasper, Il cristianesimo nel dialogo con le religioni, «Rassegna di teologia» 52 (1/2011), pp. 5-17, qui 15-16.
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