Lucius Etruscus - Tradurre l'incubo

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Lucius Etruscus

Tradurre l’incubo La Cavalla della Notte e le sue varianti

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Introduzione Ancora negli anni Ottanta del Novecento era comune fra i bambini una filastrocca, attestata in varie versioni ma che suonava all’incirca così: «Ponte ponente ponte pi, tappe tapperugia». Nessuno aveva idea di cosa volessero dire quelle parole, perché tutti i bambini che la cantavano – compreso chi scrive – ignoravano che stavano ripetendo una maccheronica traduzione fonetica di una filastrocca francese, «Pomme de reinette et pomme d’api / tapis tapis rouge», così come ignoravano di star stendendo un “tappeto rosso” (tapis rouge) a due celebri qualità di mele francesi: la mela

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renetta e quella appiola. Immaginiamo che io all’epoca avessi scritto un romanzo, un’opera giovanile rivalutata in seguito e divenuta un bestseller, con all’interno riportata la suddetta filastrocca di italiano maccheronico; immaginiamo che dato il successo dell’opera fosse entrato nella lingua italiana il termine “tapperugia”: cosa ne penserebbero gli studiosi della posterità? Immaginiamoli in un lontano futuro, quando ormai la versione italiana della filastrocca sarà andata dimenticata, quei recensori e studiosi che finirebbero per affermare: «Il termine “tapperugia” risale alla celebre opera giovanile di Lucius Etruscus, anche se lo usò una

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volta sola e non lo ripeté mai nei suoi molti altri scritti.» In mancanza di altre fonti, chi può dare loro torto? Ma è solo l’inizio del problema, perché per questi studiosi del futuro il vero dramma è: come tradurre “tapperugia” in un’altra lingua? Questo esempio paradossale curiosamente illustra alla perfezione il vero destino subìto dalla parola inglese nightmare, praticamente ignota ai primi che la usarono e fonte di grandi problemi per i primi italiani che ebbero la fatalità di tradurla.

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1. La Cavalla della Notte Il termine nightmare in sé è molto antico e affonda le radici nella cultura sassone, quando il demone Mårt vedeva il suo nome declinato anche al femminile in marë: l’attività del demone era quella di sedere nottetempo sul petto dei dormienti togliendo loro respiro e libertà di movimento, provocando anche orribili visioni. Era dunque facile trovare nella letteratura sassone riferimenti a questo demone notturno (nachtmårt) anche in versione femminile (nachtmarë). Il nome del demone si perde e visto che mare in inglese vuol dire “cavalla”, ecco che in alcuni nasce l’idea di concepire il

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britannico nightmare come la poetica immagine di una “cavalla della notte”. Volle così intenderlo il celebre pittore svizzero Johann Heinrich Füssli – ben noto per alcuni suoi dipinti ispirati dalle opere di Shakespeare – che rappresentò in più occasioni quello che nella sua lingua era il nacthmahr. Lo divideva in due mostri separati: un piccolo essere sul petto di una donna che applicava la demoniaca oppressione (martröð in sassone, che diventa in inglese martride, termine che suona proprio come “cavalla che galoppa”) ed una vera e propria cavalla (mare) affacciata alla finestra, anche se in un caso appare solo il suo sedere, mentre fugge via. Una versione

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di questo dipinto è talmente celebre che il regista britannico Ken Russell ha voluto ricrearla “dal vivo” nel suo film Gothic (1986). Alcuni ricercatori di Zurigo hanno recentemente sottolineato che Füssli è stato l’artista che più di tutti abbia saputo rendere i sintomi del disordine del sonno, e si sono chiesti come abbia fatto ad identificarli così bene visto che non sembra abbia mai sofferto di alcuna patologia simile (Neurological Disorders in Famous Artists, Karger 2007). In realtà l’artista non faceva altro che rifarsi alla vasta letteratura medica esistente dal Cinquecento in poi, che descriveva il nightmare esattamente come lo vediamo

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nei dipinti di Füssli... ad esclusione del cavallo, personale aggiunta dell’autore. Ma il pittore svizzero non è stato l’unico a dare questa interpretazione dell’“incubo”. Nelle conferenze che tenne in giro per il mondo, nel corso di molti anni, l’argentino Jorge Luis Borges trovava sempre il modo di tirar fuori l’immagine della “cavalla della notte”, immagine che egli amava molto. Per non attribuirsi il merito, egli ne identificava sempre la paternità in Victor Hugo, il quale «in una delle sue poesie, che fa parte delle Contemplations, credo, egli parla di le cheval noir de la nuit, “il cavallo nero della notte”, l’incubo» (da “L’incubo”,

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raccolto in Sette notti, 1980). Chi conosce il Maestro argentino sa che egli non “credeva”: o sapeva o non sapeva. Di solito quando aggiungeva un “credo”, come in questo caso, poteva voler dire che stava inventando. Visto che né in Contemplations né in alcuna altra opera nota Hugo pare aver mai usato quell’espressione, i casi sono due: o Borges ha avuto accesso a testi di Hugo poco noti (il che è possibilissimo) o si è inventato la citazione (il che è ancora più possibile e per nulla raro nell’opera del poeta di Buenos Aires, amante delle ficciones). Borges era invece sicurissimo di una cosa: il suo autore preferito, William

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Shakespeare, ha usato una volta sola il termine nightmare. Di nuovo abbiamo l’ingrato compito di fare i conti in tasca al Maestro argentino e addirittura rettificarlo: Shakespeare non usò mai quel termine coscientemente... perché probabilmente ne ignorava il significato. * Nel Re Lear, scritto probabilmente nei primi anni del 1600, durante un discorso di Edgardo (atto terzo, scena quarta) troviamo il testo di una filastrocca dedicata al fantomatico San Withold, dove ad un certo punto leggiamo: «He met the Night-Mare / and her nine foals». È noto che questa frase non è opera di Shakespeare: il drammaturgo

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non ha fatto altro che riportare una filastrocca propiziatoria (night-spell) nota ai suoi tempi e che risaliva alla cultura sassone del demone notturno nachtmarë. Riportare in drammi e racconti filastrocche popolari, nate – come il citato ponte ponente – dall’ignoranza popolana, è usanza antica. Si usava già dal XIII secolo, e alla fine del Trecento il celeberrimo Geoffrey Chaucer nel secondo dei Racconti di Canterbury cita la filastrocca del “bianco Paternoster” proprio in un periodo in cui i teologi si scagliavano contro l’uso popolano di figure religiose per usi scaramantici, quindi pagani. «Gesù e San Benedetto /

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liberate questo tetto / dagli spiriti maligni! / E tu, sorella di San Pietro, / la nera notte manda indietro / con un bianco Paternoster» (vv. 3483-3486, traduzione di Ermanno Barisone, UTET 1981). Gli “spiriti maligni” citati da Chaucer sono la traduzione italiana di un termine vago che cambia a seconda della copia manoscritta dell’opera, ma che è abbastanza facile da capire: nyghtesuerye, o nyghtes verray o nyghtes mare. Chaucer e Shakespeare, a più di duecento anni di distanza, non fanno altro che riportare parole non loro, storpiate dall’uso popolare – che intanto aveva trasformato il sassone nachtmarë

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nell’inglese nightmare – che formano un anatema contro gli spiriti notturni che ha equivalenti in tutta Europa. Ma visto che in Shakespeare il termine nightmare è subito seguito da h e r (quindi è femminile) nine foals, i recensori come Borges non resistono alla perfetta immagine poetica: “la cavalla della notte e i suoi nove puledri”. Peccato che le cose non siano così semplici. * Nel 1623 John Heminge e Henry Condell raccolsero dagli archivi dei teatri e dai cassetti dei collezionisti tutti i copioni di scena che potevano in qualche modo essere fatti risalire alla firma William Shakespeare, morto da pochi

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anni. Il loro intento era di pubblicare l’opera completa di un drammaturgo che in realtà nessuno sembrava aver conosciuto di persona, e di cui non esisteva altro che qualche testo pubblicato illegalmente, quindi di non chiara origine. Malgrado cercarono di riordinare le cose, molto sfuggì al lavoro dei due curatori, e per almeno un secolo girarono varie versioni delle opere shakespeariane. Visto che la citata filastrocca – dedicata, secondo il settecentesco Thomas Tyrwhitt, al martire milanese San Vitale, storpiato in Withold per questioni di rima (Saint Withold / footed thrice the wold) – si rifà ad un bagaglio

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culturale perduto ed è piena di parole storpiate, è facile trovare copie con versioni discordanti (Swithold footed thrice the old). Ecco che quindi dopo aver fatto “per tre volte il giro del mondo”, questo storpiato San Vitale incontra sì il... anzi, “la” nightmare ma a volte accompagnata dai suoi nove puledri (her nine foals), a volte da nove pieghe (her nine folds) e a volte ancora addirittura si limita a rivelare il suo nome (her name told), con buona pace del povero Borges che deve rinunciare dunque all’immagine della cavalla della notte. Visto che la nebbia ricopre questo strano Withold, scritto in modo diverso

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ad ogni copia dell’opera ritrovata – St. Withold, Swithold, Swithald e via dicendo – e ciò che ha incontrato – è attestata l’esistenza della scritta nightmoore invece che night-mare – la domanda è: come si può capire un testo così impreciso e insicuro? Di certo non lo capiscono neanche gli inglesi dell’epoca, visto che nightmare non è una parola di uso comune ancora nel Settecento: figuriamoci ai tempi di Shakespeare! Quando l’autorevole William Warburton commentò l’opera del drammaturgo britannico agli inizi del ’700, per spiegare la filastrocca del Re Lear disse che era una cantata popolare «against the Epialtes». Perché per

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scrivere “contro gli incubi” ha dovuto scomodare una parola arcaica come Epialtes? (Dal greco εφιάλτης, efiàltes: esiste anche l’italiano efialte, ma è termine davvero raro da trovare.) * Come dicevamo, ancora nel Settecento il termine nightmare non è di uso comune: è un termine tecnico che indica tanto il citato demone sassone che «A morbid oppression in the night, resembling the pressure of weight upon the breast»: un’orribile oppressione notturna, simile alla pressione di un peso sul petto, come scrive il dotto Samuel Johnson nel suo Dictionary of the English Language (1755), opera che

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godette di autorità assoluta fino all’arrivo del dizionario di Oxford. Un profondo conoscitore della lingua inglese come Johnson avrà avuto modo di studiare bene i testi della sua epoca e di quelle precedenti: chi citerà come miglior rappresentante dell’uso del termine nightmare? Incredibile: la sua fonte è William Shakespeare, che neanche è sicuro abbia scritto nightmare o nightmoore! Però il Dictionary cita anche il medico e scrittore scozzese John Arbuthnot (1667-1735), il quale annoverò tra i sintomi dell’apoplessia – oltre a vertigini, rumori nelle orecchie e quant’altro – anche «the night-mares». Dagli inizi del

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Settecento questa sintomatologia la si ritrova in numerosissime pubblicazioni mediche: la attesta anche l’Encyclopædia Britannica dal 1771 in poi. L’autorevole ed indiscutibile Encyclopædia chissà quante fonti avrà avuto modo di vagliare per studiare il termine night-mare... E invece cita solo il medico Arbuthnot... Insomma, fino all’Ottocento soltanto due persone sono divenute famose per aver usato la parola nightmare nella lingua inglese: William Shakespeare, che probabilmente non la conosceva nemmeno e si limitava a riportare un’imprecisa filastrocca di tempi dimenticati, e John Arbuthnot, per il

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quale era semplicemente uno dei sintomi dell’apoplessia. Come si traduce in italiano una parola del genere? La risposta porta a risultati incredibili.

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2. La Versiera Quando nell’Ottocento gli italiani si trovano nella condizione di dover tradurre il nightmare, nascono dei problemi: come rendere qualcosa che neanche gli inglesi sanno ancora identificare bene? Il problema nel nostro Paese si è posto molto tardi perché l’opera shakespeariana è stata praticamente sconosciuta per quasi due secoli. Quando a metà del Settecento Voltaire criticò fortemente l’opera del drammaturgo britannico, si alzò il grido di Giuseppe Baretti – un titano del nostro Paese, che come tutti i nostri titani è stato

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dimenticato – che scrisse un’accorata difesa di Shakespeare, tanto che i distratti teatranti italiani si posero una domanda: perché non mettiamo in scena anche noi le opere di questo tizio inglese? Nessun problema, ma al pubblico italiano bisogna parlare in italiano, e qui nasce un bel problema: come tradurre quella strana filastrocca del Re Lear? «He met the Night-Mare / and her nine foals» Ha incontrato... cosa? Cos’è che ha nove puledri? Come ci racconta Leonardo Bragaglia nel suo Shakespeare in Italia (2005), delle sperimentali rappresentazioni di fine Settecento si è purtroppo persa traccia, ma in seguito abbiamo una buona

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panoramica dei tentativi dei traduttori italiani, i quali fanno un ragionamento chiarissimo: nightmare, che sia il demone notturno sassone dell’immaginario popolare o che sia la patologia medica dell’oppressione notturna, ha un perfetto corrispettivo nel latino medievale. Incubus, non si scappa. Sin dalla nascita della lingua italiana l’“incubo” è tanto demone notturno che oppressione del sonno: combacia alla perfezione. Non ha quindi dubbi Michele Leoni quando, nella Verona del 1821, presenta in italiano la corposa opera shakespeariana. Nel volume XI troviamo il Re Lear e la sua filastrocca: «Tre volte

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s. Withold traversò la pianura, / E incontrò l’incubo e la sua compagna: / Le ordinò di scendere, / E d’impegnar la sua fede. / Ti allontana, o strega: ti allontana!». Ecco la traduzione della “formola magica” (come la chiama il Leoni in nota) nella sua prima veste italiana. Ma... e la “cavalla della notte”? Con buona pace di Füssli e Borges, che amarono quest’immagine, nessun traduttore italiano ci ha mai pensato. L’unica soddisfazione arriverà da Igina Tattoni, che nel 2003 per Donzelli traduce La leggenda di Sleepy Hollow – ristampato poi come Il mistero del cavaliere senza testa – e coglie alla

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perfezione la citazione shakespeariana che l’autore Washington Irving nel 1820 inserisce nel testo. «Nel circondario abbondano leggende locali, luoghi abitati dagli spiriti e vaghe superstizioni; si vedono stelle cadenti e meteore luminose più spesso che in qualunque altra parte della regione, e la giumenta notturna con tutti i suoi nove compagni (night mare and her nine folds)». * I traduttori italiani ottocenteschi non hanno problemi sull’uso di un termine all’epoca ancora poto noto come “incubo” per nightmare, distratti come sono da un altro bel problema: come tradurre quel curioso her nine foals

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oppure folds? Come abbiamo visto il Leoni si inventa una fantomatica “compagna” dell’incubo, mentre Giulio Carcano (Napoli 1854) traduce «E a lui d’incontro l’Incubo venìa / Co’ nove figli suoi». Sembra una traduzione decisamente più fedele, ma qualche anno dopo ritorna il tema della compagna: «Scontrossi nell’incubo e nella sua amica», traduce Carlo Rusconi (Torino 1859). Intanto la scelta di usare l’incubus medievale piace così tanto che attraversa le Alpi: quando nel 1872 François-Victor Hugo (figlio del celebre Victor) si impegna nella traduzione francese

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dell’opera omnia shakespeariana (Œuvres complète de Shakespeare ), ne Le Roi Lear troviamo la particolarissima espressione «Il rencontra l’incube et ses neuf familiers». Per quanto ampiamente attestato, il francese incube non è di uso comune e gli è di gran lunga preferito cauchemar, quindi il buon Hugo-figlio sta percorrendo la stessa via italiana: tradurre una parola popolana con un termine “illustre”. Intanto passa il tempo e non mancano traduzioni italiane assolutamente alternative. «La diavolessa incontrò e le sue nove compagne» scrive a sorpresa Agostino Lombardo (Verona 1973). Che sia femminile è finalmente

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un’idea azzeccata: come abbiamo visto nel capitolo precedente, il marë sassone era il nome femminile del demone Mårt. Sulla stessa linea troviamo Cesare Vico Lodovici che, quando traduce il Re Lear per Einaudi nel 1956, aggiunge qualcosa di molto importante. «Finché non incontrò / con le nove compagne la Versiera». E ora... cos’è questa Versiera? Il Lodovici è andato a pescare un termine italiano dimenticato da molto tempo, una contrazione di “aversiera”, che sarebbe la versione femminile dell’Avversiere: visto che quest’ultimo è l’avversario dell’uomo, cioè il diavolo, la Versiera è un modo come un altro per

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dire diavolessa. Ma c’è qualcosa di più. Sin dall’Ottocento il Dizionario della Crusca ci informa che Versiera è un termine usato a Firenze per indicare quello che a Roma viene chiamato Lupo Mannaro. Non stiamo parlando della licantropia che tanto affascina scrittori e cineasti moderni, ma di demoni inventati dal popolo a mo’ di spauracchi per i bambini, i quali bambini poi per scongiurare detti demoni inventano filastrocche scaramantiche. E qui scopriamo che il Lodovici ha fatto il primo grande passo per una traduzione fedele: invece del medievale e dotto “incubo” ha scelto un termine popolano, nato dalle stesse leggende che hanno

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alimentato il nightmare di Shakespeare. È davvero curioso notare che proprio come nightmare anche la Versiera ha un’accezione popolana e una colta. Tratta dal latino vertere, “girare”, la versiera è anche il nome di una curva geometrica. L’ha studiata a fondo e l’ha codificata la settecentesca Maria Gaetana Agnesi – matematica talmente apprezzata all’epoca da essere considerata la Ipazia italiana, e come tutti i personaggi di spicco italiani anch’essa dimenticata – tanto che ancora oggi viene comunemente chiamata la “versiera di Agnesi”, sebbene fosse già nota a Fermat nel 1666. Per una coincidenza davvero singolare,

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nello stesso momento in cui gli italiani si stanno scervellando per tradurre l’inglese nightmare, gli inglesi ammattiscono nel tentar di tradurre la “versiera” dei testi di geometria della Agnesi. I traduttori anglofoni si informano e scoprono solo l’accezione popolana del termine, e così la curva geometrica nota come “versiera di Agnesi” è ancora oggi attestata in lingua inglese come... The Witch of Agnesi, “la strega di Agnesi”! Povera Maria Gaetana: dimenticata dagli italiani e considerata una strega dagli inglesi... * I traduttori dovrebbero sempre stare attenti alla vita segreta delle parole:

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anche le più blasonate ed autorevoli hanno una doppia esistenza che spesso sfugge ai dizionari. L’ incubus del Medioevo latino è parola di grande autorevolezza, che abbonda in tutti i manuali dedicati al sonno o alla stregoneria, ma proprio questo sfugge ai primi traduttori di Shakespeare, che avrebbero dovuto chiedersi come mai i padri della lingua italiana – Dante, Petrarca e Boccaccio – non la usarono mai. Forse che non si facevano brutti sogni nel Trecento? Visto che ovviamente li facevano, come li chiamava il popolo? Quel popolo che non aveva accesso ai manuali e ai dizionari che parlavano di “incubo”.

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Ci sono stati traduttori italiani che si sono resi conto di tutto questo. C’è stato almeno un traduttore di Shakespeare che ha deciso di fare una ricerca approfondita in groppa alla “cavalla della notte” chiamata nightmare. Un traduttore che ha viaggiato nella lingua italiana fino a trovare il perfetto equivalente shakespeariano nel nostro Paese, fino a trovare il vero nome italiano dell’incubo...

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3 La Fantasima Quando traduce il Re Lear per Sansoni nel 1910, Cino Chiarini trova la vera espressione italiana per il nightmare inglese. «He met the Night-Mare / and her nine foals» suona dunque così: «Incontrò la fantasima e le sue nove scolte». Chiarini deve aver fatto questo ragionamento: se nell’antica letteratura inglese era usanza citare filastrocche popolane, non può darsi che in Italia sia possibile trovare esempi similari e coevi, così da scoprire che termini erano usati all’epoca? Quando Geoffrey Chaucer citava le filastrocche contro i demoni

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maligni, chiamandoli «nyghtes mare», cosa accadeva nel nostro Paese? Basta risalire ad uno dei padri della lingua italiana, Giovanni Boccaccio, per trovare la chiave giusta. Anche se una chiave oggi quasi dimenticata. Intorno al 1350 il Decamerone boccaccesco conquista grande fama perché usa l’italiano volgare come lingua di scrittura, al posto del latino, e nella novella prima (settima giornata) troviamo bella pronta una filastrocca scaramantica contro i demoni della notte: «Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai». È un perfetto esempio di night-spell italiano, di filastrocca

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popolana identica a quelle usate tanto da Chaucer che poi nel Seicento da Shakespeare. (Anche se in questi due casi c’è un’accezione religiosa che sembra decisamente assente dalla “pepata” versione italiana.) Per dovere di cronaca va sottolineato che non è sicuro che Boccaccio abbia citato una vera filastrocca della sua epoca, o se abbia invece parodiato lo stile di queste scaramanzie popolane, ma rimane il fatto che nell’italiano del Trecento non si usa l’incubus latino bensì il termine “fantasima”. Perché prima che entrasse nell’uso comune la parola “incubo”, per il popolo i brutti sogni erano immagini che apparivano:

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erano cioè fantasmi, termine che deriva dal greco φαντασμα, fántasma, dal verbo fantàzo, che vuol dire proprio “apparire”. Quando nella nostra mente appare un’immagine, che sia un brutto sogno o un’ispirazione poetica, chiamarla fantasma o fantasia è la stessa cosa. * Già nel Cinquecento il poeta Francesco Berni si chiede perché Boccaccio utilizzi la fantasima e Francesco Petrarca il fantasma («Mai nocturno fantasma / d’error non fu sì pien, com’ei vèr’ noi», Il Canzoniere 360, vv. 131-132), rimbrottando che la Crusca sbaglia nell’identificare nella prima forma la versione femminile della seconda. Il

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Dizionario dell’Accademia della Crusca dev’essersi risentito della critica e dal Settecento non fa più distinzione fra i due termini, trattandoli come sinonimi, ma ancora nel Seicento era attestato un uso distinto: il fantasma (maschile) è usato dai poeti, la fantasima (femminile) dai prosatori. Una differenza fondamentale, perché questa contrapposizione maschio-femmina è identica al sassone nachtmårt, la cui versione femminile nachtmarë è entrata nel linguaggio delle filastrocche scaramantiche popolane. Per l’altro padre della lingua italiana, Dante Alighieri, gli incubi sono «ombre oranti» (Purgatorio, Canto XI, v. 27).

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Secoli dopo, nella Gerusalemme liberata (1575) di Torquato Tasso, troviamo un «fantasma importuno ai viandanti, / Rompi i brevi lor sonni» (canto X, IX70). Non si sta parlando di un vero fantasma, avvertono i commentatori ottocenteschi, bensì di un «qualche spirito diabolico». Cioè quello che noi oggi chiamiamo incubo. * È il momento di ricapitolare. Il latino incubus e il rispettivo italiano incubo è conosciuto ed usato sin dalla nascita della lingua, ma in manuali e testi specialistici: opere a cui il popolo non ha accesso, e che poeti come Dante, Petrarca e Boccaccio, fedeli alla lingua

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parlata, non usano mai. Il popolo crea dunque una propria parola per identificare il temuto demone notturno. «Entrò dove io dormiva sanza dormire e pianamente mi si pone allato. Io, nel pormi la mano sul petto, entrai in quella frenesia che si pate quando talvolta si dorme col corpo in suso: che pare che una cosa greve greve ti si ponga a sedere nel core, che non ti lascia né parlar né muovere. La fantasima è cotesta». La descrizione di Pietro Aretino, nel Ragionamento della Nanna e della Antonia (1534), testimonia l’uso quasi ufficiale che il popolo fa di un termine ben più antico, visto che già nel 1256 Aldobrandino da Siena scrive che

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dormire supino è “malvagio” in quanto genera malattie come la fantasima «che la fisica appella in Latino incubus» (da Le régime du corps o Libro della sanità del corpo). Per la “fisica”, l’incubo è un demone che «prima succubo all’huomo piglia il seme e poi facendosi incubo alla donna lo trasfonde» (Compendio dell’arte esorcistica di Girolamo Menghi, 1586). (Questa connotazione sessuale è stata ripresa da Ray Russell nel 1976 per il romanzo horror Incubus, da cui il film omonimo del 1982: una storia in cui il sogno si fonde con la violenza sessuale demoniaca.) Per il popolo, ciò che noi oggi

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chiamiamo incubo ha nome fantasima, e chiude il discorso Carlo Malaspina nel 1856: «Incubo è voce de’ medici. Fantasima è voce generata dalla superstizione». * Cino Chiarini per la sua traduzione è riuscito a cogliere il vero nome italiano d e l nightmare, nell’accezione popolana citata da Shakespeare, e non in quella “scientifica” dell’incubus latino. Possibile che nell’Ottocento nessun traduttore italiano abbia colto la frase di Malaspina sulla distinzione fra incubo e fantasima? I traduttori del Re Lear non sembrano averlo fatto, ma in questo periodo di grandi traduzioni di opere

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importanti qualcun altro ha dovuto percorrere lo stesso viaggio del Chiarini. Un traduttore italiano che si è trovato di fronte una sfida ardua: non un incubo ma ben tre! Non solo la cavalla della notte, ma anche i suoi puledri. Chi è questo traduttore e come ha tradotto il triplice incubo?

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4. La Larva Quando nel Vangelo di Matteo viene raccontato il celebre episodio in cui Gesù cammina sulle acque, lo stupore di chi assiste all’evento viene così descritto: «E i discepoli, vedendolo camminar sopra il mare, si turbarono, dicendo: Egli è un fantasma. E di paura gridarono» (14,26). I l Vangelo di Marco racconta lo stesso episodio (6,49) ed usa lo stesso termine greco: φαντασμα, fántasma. (Anche Giovanni riporta l’evento, 6,19, ma tace il commento dei fedeli.) Per rendere questo passo, il calvinista Giovanni Diodati nella Ginevra del 1607 utilizza il termine “fantasima”: oggi sia l’edizione

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Diodati che le altre riportano “fantasma”, al maschile, ma all’epoca il traduttore ha saputo cogliere al meglio lo spirito del suo tempo. Non è in fondo questo che dovrebbe fare un traduttore? Finora abbiamo incontrato un solo “incubo”: ma cosa dovrebbe fare un traduttore di fronte a ben tre incubi in rapida sequenza? È il problema che per primo si trova davanti Giuseppe Gazzino quando, nel 1857 – qualche decennio dopo i primi sforzi di tradurre Shakespeare in italiano – si imbarca nell’arduo compito di tradurre uno dei grandi classici della letteratura di sempre: il Faust di Johann Wolfgang von Goethe. Ma andiamo con ordine.

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* Nel 1832 il celebre poeta tedesco dà alle stampe la seconda parte del suo capolavoro – in realtà la terza, se si conta anche il giovanile Urfaust – chiamandola semplicemente Faust. Zweiter Teil . Faust, seconda parte. Qui Goethe riversa tutto il suo amore per il classicismo, che in questo periodo si contrappone fortemente al romanticismo che sta conquistando l’Europa: come meglio testimoniare l’amore per i classici se non inserendo come personaggio femminile la mitologica Elena dei poemi omerici? Ne è passato di tempo dall’Iliade e l’Odissea, e tanti altri autori hanno

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riscritto il personaggio: la Elena del Faust soffre dell’abuso letterario che è stato fatto di lei. In un punto dell’atto terzo la donna è pressata dal personaggio di Forciade che le ricorda i passati splendori ed amori attingendo alle varie versioni del suo mito, riportandole alla memoria anche di quando si fece vedere contemporaneamente a Troia e in Egitto. Goethe si diverte a ripescare una storia raccontata da Erodoto su Elena e a fonderla con gli eventi dei drammi omerici, ma anche a reinventare il personaggio per la propria opera. Ad Elena tornano alle mente varie memorie di vita, a seconda dell’autore che l’ha scritta, e quando le viene ricordato

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Achille che (secondo un’altra variante ancora del mito) fuggì dal mondo delle ombre per congiungersi con lei, Elena esplode di dolore: «Ich als Idol, ihm dem Idol verband ich mich. / Es war ein Traum, so sagen ja die Worte selbst. / Ich schwinde hin und werde selbst mir ein Idol». Come tradurre in italiano lo sfogo di un personaggio che si rende conto di essere stato null’altro che un sogno di qualcun altro? «Io, come larva, a lui larva mi avvinsi. / Fu sogno. E già lo dicon le parole. / Svengo. E larva son fatta agli occhi miei». Così il germanista romano Vincenzo Errante traduce durante la

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Prima guerra mondiale, seguito nel 1965 da Giovanni Vittorio Amoretti («Come larva mi unii a lui larva»). Cos’è una “larva”, accantonando il significato entomologico? «Credesi originata questa voce da Lares, – ci spiega il dizionario Barberi del 1839 – con tal differenza, che i Lari erano benefici e protettori delle case, laddove la Larva era un Genio errante e malefico che, prendendo forme orribili, incuteva spavento e terrore.» Larva era anche il nome della maschera che copre il volto: lo sa bene il buon vecchio Rigoletto verdiano, quando canta «Ch’io pur mi mascheri, / A me una larva!». Un’immagine finta che diventa reale

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addosso al nostro volto, una “fantasia”... ed infatti, sempre a detta del Barberi, “larva” ha come sinonimo “fantasima”. * L’Idol di Goethe non è proprio l’idolo come noi oggi lo intendiamo, qualcosa o qualcuno che viene amato e rispettato, bensì un ritorno al senso “biblico” del termine greco ειδωλον, èidolon, che sta ad indicare qualcosa che si mostra (proprio come il φαντασμα, fántasma, di cui è sinonimo), ma virato in negativo. Basti ricordare l’Esodo (20,4), «non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo», perché l’idolo è un’immagine ingannatrice, una rappresentazione menzognera della

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realtà. Ce lo confermano i Salmi (114,48), «Gli idoli [...] hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono. [...] Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida.» L’idolo è immagine vuota, ma attenzione: è materia concreta. È anzi l’immagine che si concretizza e quindi tradisce il significato dell’immagine che sta imitando: l’èidolon è insomma una fantasima, cioè un’idea che appare nella mente (fàntasma) ma che si mostra all’esterno (èidolon). E lo capisce bene il genovese Giuseppe Gazzino quando a metà Ottocento per primo traduce in italiano il Fausto, così rendendo l’accorato sfogo di Elena: «Io, fantasima,

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stringomi ad esso lui, fantasima del pari; era quello un sogno, le stesse parole ne fanno fede: io mi svengo, e addivengo per me stessa un fantasima». Ich als Idol, grida Elena, ma anche ein Traum, un sogno: la fantasima della notte, il nightmare, l’incubo, ma anche il sogno. «Le stesse parole ne fanno fede», lo dicono le parole stesse: Goethe sa perfettamente che sta giocando con l’incubo, l’idolo e la fantasima, che sta camminando su un filo lessicale, ma ne ha bisogno per rendere il profondo sconforto di un personaggio che all’improvviso e in modo deflagrante perde il contatto con se stesso e diventa idolo ai propri stessi occhi: la storia di

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Elena, nata dalla fantasia degli scrittori, diventa fantasma per lei stessa, la quale capisce di essere null’altro che personaggio, null’altro che immagine. Null’altro che una fantasima. «Quando Elena si sveglia, accetta la sua esistenza di finzione»: così Barbara Laman nel 2004 rende alla perfezione il gioco letterario di un personaggio che prende coscienza della propria irrealtà. * In questo saggio siamo partiti da un antico termine sassone, nachtmarë, storpiato dal popolo per scacciare il demone notturno che ne prese il nome, nightmare. Viaggiando nei modi con cui si è cercato di tradurlo abbiamo scoperto

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il mondo dell’apparenza: l’idolo, che è sinonimo di larva (maschera), che è sinonimo di fantasma. Che sia forse questo il vero nightmare, il vero incubo: che tutto è immagine, apparenza? Abbiamo incontrato lo sfogo della Elena di Goethe, il suo dolore nel rendersi conto di essere null’altro che un idolo, una finzione letteraria. Ma è il nostro sconforto, non solo quello di Elena: e se fossimo tutti noi idoli di noi stessi? Se fossimo noi i nostri incubi? Non ci costruiamo forse tutti un’immagine di noi stessi che cerchiamo di rendere reale? Non viviamo forse in un mondo di immagini che aspirano alla realtà e, se ci riescono, le chiamiamo

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idoli? Se fossimo noi null’altro che fantasime, cavalle della notte che corrono con le loro nove compagne? Preferiamo non pensare a queste cose, preferiamo voltare le spalle allo sfogo di Elena e indossare una larva, sperando che una maschera non faccia notare che siamo maschere anche noi. Forse i latini l’avevano capito meglio di chiunque altro, e alla maschera utilizzata dagli attori teatrali avevano dato un nome ben preciso: persona.

FINE

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Indice 00 Introduzione 1 La Cavalla della Notte 2 La Versiera 3 La Fantasima 4 La Larva

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