Rivista amatoriale, aperiodica e gratuita di contenuti di genere western raccolti in vari blog italiani In copertina: disegno di Rafael Gallur
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Sharon Stone in Pronti a morire (The Quick and the Dead, 1995) Concessione Columbia
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SPECIALE FUMETTI - Il prezzo dell’onore Kentucky Mon Amour - Senza perdono Fumetti Etruschi SPECIALE CINEMA - Yellow Rock Il Zinefilo - No Country for Old Men Kentucky Mon Amour - E Dio disse a Caino... Obsidian Mirror SPECIALE LIBRI - Attento Trinità Storie da birreria - Un uomo a cavallo Gli Archivi di Uruk MYNIATURE - Tex Willer CITA-SCACCHI - Mezzogiorno e mezzo di fuoco - 4 per Cordoba
Locandina di Open Range (2003) Concessione Medusa Film 3
Le Storie - “Il Prezzo dell’Onore” di Fabrizio Accatino e Paolo Bacilieri il tutto targato Sergio Bonelli Editore cui in paese nessuno sa nulla, ma l’ignoranza non ha mai guastato lo spettacolo forcale. Ormai è l’ora della corda tesa. Sono tutti presenti. Lo sceriffo Baily fuma tanquillo la sua meritata cicca. La moglie di Mel attende l’imminente liberazione e il ritorno al nubilato. Il giudice Samuel Courson si schiarisce la gola per l’intro. Il boia... era occupato e ha mandato il suo garzone di bottega, un ragazzino imbranato che meriterebbe di pendolare pure lui. Perché come dice la Legge di Murphy... La botola del patibolo, che di solito è lo scolo finale degli scarti sociali, diviene il punto di partenza per un’avventura picaresca in cui, tra citazioni di film impensabili, vedremo assalti, sparatorie, fughe, sangue dirompente, figli di cani e cetrioli saltanti. La sceneggiatura è di Fabrizio Accatino, autore di “La vita rubata”, apparso su Maxi Dylan Dog n. 3, e “La strada per Babenco”, su l’Almanacco della Paura 2005. I disegni sono di Paolo Bacilieri, nella scuderia Bonelli dal 1999, e rendono la frontiera ancora più vicina con il loro tratto posado.
San Juan De Coronado, Alta California, 1871. Una calca vociante comprime verso il centro della cittadina, l’euforia dei grandi eventi elettrizza l’aria e le anime. Un’impiccagione ogni tanto ci vuole per risvegliare la gioia di vivere. La portata principale di questo banchetto popolare è Pher Melvin Tucker. Questo bestione alto e grosso come un armadio, una splendida rappresentazione del Bambino abbandonato dalla Trinità, è stato arrestato per furto e abigerato. Il menù come contorno prevede due giacche blù di 4
“Senza perdono” (2015), una storia durissima e nerissima firmata da padre e figlio Huppen Una volta di più, semmai ce ne fosse stato bisogno, il bande dessinée si dimostra capace di stupire, anche con generi abusati (come il western) di cui troppe volte è stata decretata la fine. Con grande tempestività, il settimanale a fumetti Skorpio (Editoriale Aurea) nei numeri 1013 (marzo-aprile) porta in Italia una storia uscita in patria per Le Lombard nel gennaio 2015 e firmata da due colonne portanti del fumetto francese: Hermann (Hermann Huppen) e Yves H. (Yves Huppen), padre e figlio tra i migliori del settore. In quattro puntate arriva da noi una splendida storia autoconclusiva: “Senza perdono” (Sans pardon). Non siamo in un western americano o italiano: siamo nello sporco West dove tutto è lercio, dove tutto è crudele e dove non esiste cuore. Qui conosciamo Buck e Jeb, padre e figlio come i due Huppen che curano il fumetto. Buck è un criminale di vecchia data che torna a casa, dalla sua famiglia per niente dispiaciuta della sua assenza, pronto a continuare la sua vita come se niente fosse; Jeb è il figlio che sta crescendo con le storie paesane di un padre criminale. Quando arriva lo sceriffo Masterson, mille volte più infame dei criminali che dovrebbe assicurare alla giustizia, seguito dai deviati bifolchi con cui ama viaggiare e comincia ad aprire il fuoco su vecchi, donne e bambini, la situazione arriva ad un bivio. E le direzioni che prendono padre Buck e figlio Jeb sono divergenti. Passa il tempo e l’odio di Jeb per suo padre, che l’ha lasciato a marcire tra le volgari mani lerce
dei bifolchi, raggiunge alti vertici: ora sono due criminali che infestano la zona. Serve ancora l’intervento dello sceriffo, più criminale di loro, per porre fine alla storia. Senza perdono è un cuore palpitante di odio sporco in un corpo malato, è sangue e melma che sporcano l’anima nera di un paese infame. È una storia durissima che sotto la cenere della violenza nasconde un odio palpitante. Bella in ogni vignetta e bruciante in ogni dialogo: una storia da applauso! 5
“Yellow Rock” (2011), western con un ottimo cast premiato ma ancora inedito in Italia Lo sguardo vacuo di James Russo, assorto a pensare alla sua trentennale carriera d’attore in attesa di successo, ci introduce nella cittadina di Yellow Rock. Qui il suo personaggio, Max Dietrich, arriva con la sua banda alla ricerca di un altro attore di lunga data mai realmente affermatosi: Michael Biehn. Lo trovano ubriaco sulla panca di una chiesa, piegato dal peso di tanti anni di lavoro passati a scrollarsi di dosso l’Hicks di Aliens, ma in realtà grato del fatto che esiste almeno un personaggio con cui lo si possa ricordare. Max Dietrich ha bisogno d’aiuto, suo fratello e suo nipote sono scomparsi a Falcon’s Peak e sospetta ci sia lo zampino degli indiani Black Paw: ha bisogno di Tom Hanner (Biehn) perché lui conosce come nessun altro quel territorio. Tom non ha nulla da fare se non ubriacarsi e piangere la morte del figlioletto, così accetta l’incarico. Appena entrati in territorio Black Paw, Tom consiglia di chiedere il permesso degli indiani locali tramite una donna bianca di cui si fidano: la dottoressa Sarah Taylor (Lenore Andriel, co-sceneggiatrice del film), che si prende cura dei malati delle tribù circostanti. Lei procura ai viaggiatori il benestare dei vecchi della tribù e li accompagna nel viaggio con la supervisione di Broken Wing (Michael Spears). Sarà proprio quest’ultimo ad avvertire i viaggiatori di non inoltrarsi nel territorio sacro, la zona di Yellock Rock in cui nessuno deve mettere piede se non vuole essere maledetto: è dannatamente ovvio che Max e i suoi uomini ci si infilano di
Se rivedete Il padrino ed aguzzate la vista nelle scene del matrimonio, potrete notare il dodicenne Nick Vallelonga, originario del Bronx e amico della famiglia Coppola. Caratterista in una secchiata di film, ogni tanto gli piace dirigere un piccolo film con magari qualche buon nome nel cast: l’ultimo, in ordine di tempo, è il western Yellow Rock. Uscito negli USA il 1° novembre 2011, risulta ancora inedito in Italia. 6
voluto ricreare a pieno la cultura dei Black Paw rinunciando ad una recitazione decente e chiamando i loro eredi ad interpretare il fiero popolo. Come dite? In realtà Michael Spears e suo fratello Eddie sono attori e per lo più di origine Sioux? Va bÈ, ora non stiamo a sottilizzare: in Balla coi lupi Michael Spears faceva l’indiano Pawnee, siamo sempre lì, no? Come dite? I Black Paw (“Zampe Nere”) non esistono, al massimo c’erano i Black Foot (“Piedi Neri”)? Ma allora che cacchio di premi ha vinto, ‘sto film? «Durante le ricerche abbiamo scoperto che in California c’erano molte tribù di Nativi Americani» racconta la Andriel al Red Nation Film Festival Awards del novembre 2011. «La febbre dell’oro ha spazzato via tutte quelle tribù e non è rimasta traccia di loro: non conosceremo mai quei Nativi e non sapremo mai chi furono. E più compivamo ricerche, più ci rendevamo conto che la loro storia non era ancora stata raccontata per bene. Così ci inventammo la tribù dei Black Paw, che non è mai esistita: volevamo che simboleggiasse tutte quelle tribù che sono scomparse.»
corsa. Il saggio Tom, la buona dottoressa e l’indiano timoroso si fermeranno e non calpesteranno il sacro suolo… e invece procedono pure loro, alla faccia dei cattivi spiriti. In realtà l’unico spirito cattivo è l’oro, il grande protagonista di ogni storia western che si rispetti. La storia della sparizione del fratello, infatti, è solo una menzogna orchestrata da Max per assicurarsi l’aiuto di Tom e la protezione degli indiani: Yellow Rock è una miniera d’oro a cielo aperto, per chi abbia abbastanza coraggio da approfittarsene. L’arrivo ad una miniera abbandonata, grondante oro, è il momento in cui comincia la parte devastante del film: ogni banalità è messa in campo e ogni noioso stereotipo da “buoni contro cattivi” viene tirato in ballo. Il film muore proprio quando dovrebbe raggiungere l’apice, e il pippone sugli indiani buoni che hanno poteri sovrumani non aiuta affatto. Yellow Rock ha vinto diversi premi della comunità dei nativi americani, perché gli sceneggiatori – la citata Lenore Andriel e Steve Doucette, entrambi esordienti alla sceneggiatura – hanno 7
“Non è un paese per vecchi” (2007) da Cormac McCarthy ai fratelli Coen Dopo un ritrovamento del genere nulla può esser come prima, soprattutto se commetti l’errore di ritornare nel luogo del massacro. La fitta alla coscienza che quasi ti alza dal letto e ti trascina a quegli occhi che ti implorano. Ad attenderlo non saranno degli occhi spenti e languidi. Essi saranno più luminosi di una torcia. Ad attenderlo saranno i fari di un fuoristrada che ara quei terreni selvaggi alla ricerca di quei soldi scomparsi come l’alito di quei corpi straziati. Moss può scappare da quegli uomini. Può fuggire da quella caccia stremante, ma in realtà può solo rimandare l’incontro fatidico con le conseguenze di quella scelta. Nessuno dimentica una una borsa piena di dollari, specialmente se chi è sparito insieme ai soldi ha lasciato un indizio grande quanto un pick up. Sarebbe bastato non tornare in quel posto. Sarebbe bastato continuare a dormire. Moss ormai non può più farlo. Moss non può neanche più dormire. Ormai la caccia è iniziata e dietro le sue tracce vi è un uomo che pare quasi la raffigurazione che i menestrelli medievali facevano della morte. Come quelle leggende in cui gli dei scendono sulla terra con le fattezze umane, Chigurh contempla la futura morte del suo interlocutore ignaro. Una morte che sboccia come un fiore. Un fiore perfetto al centro dell’osso frontale. Chigurh ricorda un po’ il Sentenza di “Il Buono, Il Brutto e il Cattivo”, ma in lui vi è qualcosa di talmente freddo da renderlo quasi alieno. Un Dio sceso tra gli uomini e rispettoso di una personalissima Torah. Perché vi è un misticismo contorto in lui. Una fede in se stesso che trasforma ai suoi occhi Moss in un Giobbe. Un Giobbe narcisista incapace di accoglierlo nella sua
Moss quasi aspira l’essenza del deserto, mentre i suoi occhi raggiungono le montagne del Messico e le sue mani stringono un fucile .270 con mirino 12x. Un gruppo di antilopi. Uno sparo sfortunato e inizia la ricerca dell’animale ferito. Fino ad uno spettacolo surreale ed orrendo. Alcuni fuoristrada e dei corpi riversi a terra. Un massacro. Non tutti quei corpi sono privi di vita. Due occhi lo osservano e le loro labbra chiedono dell’acqua. Ripetutamente. Come un mantra. Un mantra che risuona nelle orecchie di Moss mentre indifferente perquisisce quei resti, sapendo cosa può essere all’origine di quel massacro. Alla fine la trova. Una borsa di cuoio piena di soldi. 10
anima, innescando in tal modo la sua vendetta. Chigurh è la pestilenza che si diffonde alle spalle di Moss. Se Chigurh è la pestilenza, lo sceriffo Bell non può che limitarsi ad esser il necroforo di tal male. Bell vorrebbe essere lasciato in pace. Bell vorrebbe che l’oscurità calasse rendendolo invisibile. Vorrebbe che qualcuno lo mettesse al sicuro da quel mondo che ormai non riesce più a capire. Quando sulla statale 90 vede il corpo senza vita di un falco codarossa, lo prende e lo posa sui fili d’erba accanto alla strada. Non accetta che le macchine lo possano deturpare in quella quiete che traspare dai suoi occhi. Vorrebbe che qualcuno allontanasse anche lui da quell’irrazionale moto di eventi assurdi che lentamente, con la pazienza dell’erosione, lo stanno distruggendo. Lo stanno distruggendo nell’anima. È proprio quella che Bell vuole proteggere. Celare. Nascondere. Accecare da quel Male che si diffonde come una nube alienante. È la sua anima che gli preme non la sua vita. La sua vita è per la gente che lo ha votato sceriffo. La consapevolezza del Male. Un’entita definita per Moss, senza un volto, senza una fisionomia certa ma con una sagoma stabilita. Sicura. Umana. Per Bell è tutto diverso. Il male è quasi un qualcosa di impalpabile. Qualcosa non racchiuso in un
bozzo statico. È come un virus in grado di superare le difese di un corpo e di diffondersi in maniera incontrollabile. Se fosse un elemento soprannaturale penseremmo a La Cosa di Campbell/Carpenter, ma per Bell è qualcosa di naturale, anche se inspiegabile. Inspiegabile come neanche la pazzia può essere. Come tutti quegli avvenimenti di cronaca che rimbombano nella sua testa. Per quel male non puoi acquistare un fucile a pompa e modificarne il calcio e la canna. Non puoi. I ricordi dello sceriffo Bell affiorano durante il romanzo. Sono come il respiro della terra. Il respiro del Texas e del suo popolo. Il respiro dell’America ormai mutata. Una pax romana attuata attorno al fuoco, un clemente occhio di uragano in cui le parole sussurrate imprimo i sensi più della disperazione e della distruzione che glorifica all’esterno di quel guscio di quiete. L’esaltazione degli uomini del passato, coloro che riuscivano a riempire il vuoto della legge con la loro persona. Con il loro mito. Oggi è diverso. Il vuoto è esistenziale. Il vuoto è sociale. Non è solo pazzia. È qualcosa che cresce ormai a livello esponenziale insieme ad un’altra forma di male. L’assuefazione. I due elementi si nutrono a vicenda. L’uno è la forza dell’altro. Distruggendo il diritto al libero arbitrio e sostituendolo con un imprinting di egoismo e di empatia suicida.
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Perché proprio il libero arbitrio è il protagonista dell’opera. Il libero arbitrio che resta comunque il fautore dell’umano destino nonostante l’uomo cerchi di abdicare le sue responsabilità sotto l’attenuante di Dio, dell’ideologia, della coerenza, del dovere, della psicoanalisi da quattro soldi... Quella di McCarthy è una cronaca distaccata. Può essere paragonata a quella del verismo e del naturalismo. Una cronaca distaccata ma straziante. Essa viene sussurrata, come i pensieri di Bell, raggelando con quel senso di perdita e insicurezza. Una cronaca che ti rende impotente nella contemplazione di quel male sapientemente descritto nel suo muoversi tra il Texas e il Messico, tra gli occhi e le pieghe dell’anima. L’opera di Cormac McCarthy è stata portata sul grande schermo dai fratelli Coen nel 2007. La parte di Bell è stata assegnata a Tommy Lee Jones, il segugio di Hollywood per antonomasia, quella di Moss a Josh Brolin mentre Javier Bardem interpreta Chigurh. Javier Bardem riesce ad imprimere il calco dell’estasi sul suo volto, quella del distacco dalle sensazioni, dall’emotivita. Chigurh è privo di qualsiasi forma di sadismo e in lui l’omicidio diviene un percorso iniziatico.
I fratelli Coen scelgono di non distaccarsi dall’opera originale, sarebbe stato facile accentuare gli elementi gore e ridurre quel senso di “inadeguatezza” agli eventi. Oltre ai naturali tagli e ai piccoli adattamenti, loro inseriscono delle piccolissime battutte che rendono alcune situazioni e dialoghi assurdi. Così come assurdi appaiono alcuni personaggi. L’impacciato vice di Bell sembra l’Andy Brennan di Twin Peaks mentre la guardia di frontiera fa venire in mente il classico esaltato dell’esercito, da William “Bill” Kilgore al sergente maggiore Hartman. Il film rappresenta una vera prova di coraggio. No Country for Old Men è un opera difficile per una trasposizione cinematografica. Il rischio di eccedere in una delle sue componenti, soprattutto la violenza o la disillusione, è molto alto, ma loro riescono a creare un film fruibile in cui risuona il messaggio dell’opera originale. Questo avviene anche grazie all’ottima performance di Tommy Lee Jones e alla sua capacità di somatizzare la lotta interiore tra istinto di sopravvivenza e desiderio di giustizia. La sua ombra, incorniciata da quella porta, racchiude tutta la sacralità del libero arbitrio. 12
Attento Trinità... arrivano i vampiri! un fanfiction novel incredibile Tra l’altro, una coppia di alieni eccezionalmente somiglianti ai due compare nello speciale bonelliano di Gregory Hunter di qualche anno fa, quindi la mia non è nemmeno un’idea così originale. Dopo aver dato al mio personaggio in Saints Row IV l’aspetto di Bud Spencer (e rendendo così il gioco il doppio più divertente) ho deciso di salire di livello. Ho iniziato a pensare a una serie di racconti con personaggi simili a quelli che Bud e Terence interpretavano nei loro film come protagonisti. Pensavo di riciclare i nomi Paul e Michael, da Paul Smith e Michael Coby, i due “sosia” che interpretarono cinque film scopiazzandoli da quelli della coppia più famosa. Però al momento ho per la testa un’altra serie di racconti, anche già a buon punto, e non me la sento di lanciarmi in questa cosa. Ma si sa che quando hai un’idea che ti batte in testa devi metterla giù per riuscire a liberartene, e così ho deciso, almeno per il momento, di scrivere un unico racconto e di metterlo online in modo gratuito. Non possiedo i diritti per i personaggi, ovviamente. Si tratta di fanfiction, niente di più, niente di meno.
Un po’ di tempo fa rivedevo per l’ennesima volta uno dei due Trinità, non ricordo quale, e mi sono ritrovato a pensare che mi piacerebbe vedere altri, nuovi film con Bud Spencer e Terence Hill. Ovvio che è impossibile, vista l’età ormai raggiunta dai due mostri sacri del cinema italiano, ma la mia testa da scrittore o sedicente tale ha cominciato ad andare per conto suo, e mi sono ritrovato a immaginare i nostri in scenari nuovi e inusitati, come il fantasy o la fantascienza. Bud e Terence che pestano una banda di razziatori orchi? O che trasportano immigrati clandestini venusiani su un cargo spaziale?
Essendo fanfiction, vista la piega che sta prendendo al giorno d’oggi questo tipo di opere mi tocca specificare che non c’è niente di erotico, giusto per evitare fraintendimenti. Si tratta sempli14
Nel mio racconto metto i vampiri cinesi in un’ambientazione western, il che francamente non mi risulta sia successo molte altre volte. L’unico esempio che mi sovviene è il numero 107 di “Magico Vento”, intitolato appunto Vampiri cinesi. Il western, e in particolar modo lo spaghettiwestern, ha avuto sporadici contatti con l’oriente. Il sottogenere venne soprannominato Soja western e consta di una manciata di titoli. Se volete approfondire vi consiglio il breve saggio gratuito Spaghetti Marziali di Lucius Etruscus. In tutti questi film comunque i nostri rudi uomini del west hanno a che fare con giapponesi e non con cinesi. Unica eccezione credo che sia il più recente dittico di Pallottole cinesi, con Jackie Chun e Owen Wilson.
cemente di una nuova avventura dei due fratelli del west, invincibili pistoleri, wannabe criminali ed eroi, uno più e uno meno riluttante. La mia passione per il fantastico non è riuscita a stare zitta nemmeno stavolta, perciò ho dovuto mettere il duo in una situazione che non fosse proprio quella classica dello spaghettiwestern. Ed ecco quindi i vampiri, che qui non sono né sperluccicosi né affascinanti... ma nemmeno così pericolosi. Per l’esattezza si tratta di vampiri cinesi, ma noterete che più che a quelli della tradizione somigliano a quelli del famoso film del 1985 Mr. Vampire. Recuperatelo e fatevi quattro risate. Ho cercato di mantenere l’atmosfera da commedia dei film, quindi nonostante i vampiri non si tratta di un horror. Mettiamolo nel filone del weird western, se vogliamo dargli un’etichetta. La copertina, purtroppo, è mia anch’essa. Se mai pubblicherò ebook a pagamento vedrò se sia il caso di farmi fare le copertine da qualcuno che le sappia fare, pagando il giusto. Visto che questo ebook è gratuito, vi tocca accontentarvi. 15
E Dio disse a Caino... per un motivo o per l’altro non ha vantato che poche sporadiche apparizioni da queste parti. È ora quindi di porre rimedio a questa lacuna e iniziare a parlare un po’ di gotico. Da che parte iniziare, però? La risposta è semplice: dal cinema italiano di genere, quello che ormai da anni rappresenta un buon 80% della mia ormai vasta collezione di DVD. Ma parafrasando la domanda iniziale: qual è il comun denominatore tra Genesi, western e gotico? In una sola parola: Antonio Margheriti, in arte Anthony M. Dawson. Tra i più grandi maestri del cinema di genere non si può non citare Margheriti, tra i suoi contemporanei secondo forse solo a Mario Bava, ma senz’altro di tutti il più eclettico, in grado di spaziare dal western all’horror, dalla fantascienza al poliziottesco, senza batter ciglio. “E Dio disse a Caino” (Satan Der Rache) è un esempio pressoché unico di “western-gotico”, per alcuni una sorta di contaminazione di generi, ma più probabilmente una perfetta miscela tra due atmosfere diametralmente (in questo caso, solo apparentemente) opposte.
Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra. Cos’hanno in comune un passo della Genesi, un film western e il presente blog che, almeno così si direbbe, rappresenta una piccola antologia del gotico? Ebbene sì, ci voleva una calda notte di luglio perchè Obsidian Mirror, dopo un attento esame di coscienza, decidesse di tornare a solcare il suo percorso originale. Sto parlando del gotico, ovviamente, che ormai da un anno abbondante viene citato là in cima, nel sottotitolo del blog, ma che
Come nel più classico dei romanzi gotici abbiamo il castello come ambientazione principale, qui rappresentato dalla magione del latifondista Acombar, e abbiamo il fantasma che tormenta l’apparente serenità del castello. Il fantasma è qui rappresentato da Gary Hamilton, un Klaus Kinski nel ruolo inedito del buono (che solo Margheriti poteva convincerlo ad interpretare), che viene graziato dai lavori forzati e riappa16
dell’alba) Hamilton si lascia dietro le spalle la sua casa, la “terra promessa” appena ritrovata, per il vasto mondo. E, forse, ricominciare.
re ad un incredulo Acombar, l’uomo che lo fece finire ingiustamente in galera e gli rubò la donna. Il film si svolge praticamente tutto in una notte, durante una tempesta che accompagna l’arrivo del vendicatore, il quale sazierà la propria sete di giustizia mietendo vittime, una dopo l’altra, senza essere visto, come un fantasma avvolto dalle tenebre, implacabile ed invincibile come la morte stessa. I tirapiedi di Acombar, in preda ad un timore quasi religioso, sussurrano a mezza voce che Hamilton non è un uomo, ma un mostro dell’inferno… e del resto la tempesta “apocalittica” che oscura il cielo anzitempo, la campana che continua a suonare come posseduta, il prete che diventa agnello sacrificale, il fuoco purificatore e la luce del mattino che riporta con sé la calma sono tutti elementi di sapore biblico. Se mai ce ne fosse bisogno, è lo stesso Hamilton che ci offre un’ulteriore spiegazione per il titolo del film: egli è deciso a portare a termine la sua vendetta a qualunque costo, anche se Dio poi gliene facesse pagare il pegno, rendendolo un reietto come Caino. E difatti, dopo il più classico dei finali western che vede il buono e il cattivo a confronto, come Caino (e come una creatura della notte al sopraggiungere
Probabilmente nessuno, se non Klaus Kinski, avrebbe potuto incarnare meglio il personaggio di Gary Hamilton. Un Klaus Kinski particolarmente ispirato, che ha dato un volto che mai si era visto prima (e mai sarà visto dopo) al desiderio di vendetta. Quello di un uomo dall’animo pieno di luci ed ombre, eppure nonostante il risentimento onesto abbastanza da riconoscere che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Lasciate perdere Kill Bill, Lady Snowblood o la famosa trilogia del coreano Park Chan-Wook: la vendetta sta di casa negli occhi schizofrenici e psicopatici di Klaus Kinski! Non c’è da stupirsi, considerata la bizzarra (per usare un eufemismo) vita dell’attore. Dopo un’infanzia triste e caratterizzata da precoci esperienze sessuali, sembra anche con la sorella, Klaus viene segnato, nel corso della seconda guerra mondiale, dalla terribile esperienza della prigionia. A ventisei anni viene ricoverato in manicomio, dove i medici lo definiscono un “pericolo pubblico”. Nella prima pagina della sua cartella clinica si
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che manifestano questi sintomi, ma da qui a definirli psicopatici ce ne passa. C’è inoltre da considerare il momento storico nel quale queste malattie furono riscontrate in Kinski. La seconda guerra mondiale è stata dura per tutti, molto di più evidentemente per chi ha sperimentato la prigionia. Inoltre quanto più spesso venivano liquidati come pazzi persone normalissime che l’inesperienza dei medici non riusciva a classificare diversamente? Non dimentichiamoci che pratiche criminali come la lobotomia sono state abbandonate quasi completamente solo all’inizio degli anni settanta, e alcuni paesi (Francia, Belgio, Regno Unito) hanno continuato ad applicarle, sebbene su scala ridotta, anche negli anni ottanta. Kinski era quindi probabilmente solo un solitario, una persona timida e riservata e, di conseguenza, spesso violenta ed irascibile. Spesso e volentieri i registi che si trovavano a lavorare con lui dovevano sottostare ai suoi capricci ed erano molti coloro che lo odiavano. Per sua sfortuna Antonio Margheriti non gli era da meno. A proposito di questo film, Edoardo Margheriti, il figlio del regista, ci racconta: «La corda si spezzò dopo pochissimi giorni di riprese: stavano girando dentro delle caverne, quando Kinski ebbe una delle sue crisi da primadonna e stava per lasciare il set. Antonio non ci vide più dalla rabbia e cominciò ad insultarlo, arrivando anche a tirargli dietro uno dei fucili di scena. Curiosamente, questo gesto accrebbe smisuratamente il rispetto di Kinski per Antonio e tornò sul set docile come un cagnolino, completando il film senza dargli ulteriori fastidi. Klaus era un “animale” da cinema, e probabilmente voleva sentirsi “dominato” dalla persona preposta a dirigerlo. Infatti in seguito ebbe un rapporto straordinario con Antonio, lavorando in molti altri suoi film. Credo che Antonio Margheriti e Werner Herzog furono i soli due registi a creare un rapporto di superiorità, e conseguentemente di collaborazione e stima, con Klaus Kinski.»
legge: «Diagnosi temporanea: schizofrenia. Definitivo: psicopatia». Il giovane attore durante l’internamento tentò il suicidio assumendo tre fiale di morfina. Sopravvisse, ma tre giorni dopo assunse nuovamente una dozzina di compresse di sonnifero. In seguito, affetto da una grave infezione alla gola, leggenda narra che se la estirpò da solo con il coltello per non pagare il medico. Anni dopo Klaus Kinski ebbe due figlie e con una di loro, l’attrice Nastassja, avrà si dice una relazione incestuosa. Ma Kinski era davvero un pazzo oppure solamente un personaggio un po’ originale? I concetti di schizofrenia e di psicopatia sono tuttora molto vaghi. Spesso si ricorre a certi appellativi quando non si riesce a definire altrimenti alcuni comportamenti del paziente. Distacco emotivo, assenza di emozioni, incapacità di concentrazione, mancanza di motivazione sono alcuni sintomi che caratterizzano schizofrenia e psicopatia. Ho diversi colleghi 18
Trovata un’altra chicca dalla collana “I Grandi Western” (La Frontiera), anche se questo risulta essere un supplemento: al numero 24 de I Grandi Western (dice la quarta di copertina), al numero 23 c’è scritto all’interno… Ricordo che Ernest Haycox è noto per aver scritto nel 1937 il racconto Stage to Lordsburg, da cui è stato tratto il cult movie Ombre rosse (1939) Ecco la scheda di Uruk: 3. Un uomo a cavallo (Man in the Saddle, 1938) di Ernest Haycox [30 aprile 1980] Traduzione di Jimmy Boraschi * [da questo romanzo il film Il cavaliere del deserto (Man in the Saddle, 1951) di Andre De Toth, con Randolph Scott] Ecco la quarta di copertina: Ernest Haycox è senz’altro riconosciuto da lettori e critici di tutto il mondo come uno dei più grandi Autori western, addirittura uno fra i fondatori, se così si può dire, di questo genere di narrativa, assieme a Zane Grey, Whistles e Max Brand. Il suo nome si erge solitario nella letteratura della Frontiera, poiché più di ogni altro scrittore egli rivoluzionò la storia del “Rangemen”, portando una profondità di caratterizzazione, una narrazione intensa e una drammatica convinzione mai incontrata prima nel genere. Era un uomo che si dedicava totalmente alla sua attività e la sua carriera è stata contraddistinta da una lunga lista di romanzi di successo e soprattutto da centinaia di racconti. Infatti, seguendo gli usi della narrativa popolare ameri-
cana, scriveva particolarmente per le riviste, e le sue opere passarono solo successivamente in volumi, e non tutte. E, per finire, l’incipit: Bourke Prine entrò nel Palace, girò lo sguardo sugli avventori e notò che la porta della stanza posteriore era socchiusa. Andò sulla soglia e si fermò, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta. Dal saloon veniva il brusio delle voci, il trapestio degli stivali, il tintinnio degli speroni e dei gettoni da poker. 19
MYNIATURE figurini & action figures
Tex Willer, il re del fumetto western italiano nella collana “Fumetti 3D Collection” (Fabbri) Numero 3 della “Fumetti 3D Collection” con cui Hobby&Work nel 2012 presenta in edicola il meglio del fumetto italiano: è ora la volta di Tex Willer, il re del fumetto italiano nato dalla penna di Gianluigi Bonelli. Noto anche con il suo nome indiano di Aquila della Notte, con cui guida in modo illuminato i nobili Navajos, con i suoi 66 anni di incontrastato successo il personaggio regna incontrastato nel mondo del fumetto nostrano: peccato che in versione 3D renda veramente male!
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Anche nel selvaggio West si giocava a scacchi… o comunque lo facevano alcuni grandi interpreti dei film western
Immagini scacchistiche tratto dal fornitissimo database “CitaScacchi”, a cui attinge regolarmente il blog omonimo. Qui sopra, Mezzogiorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles, 1974), di Mel Brooks, con il mitico sceriffo Bart interpretato da Cleavon Little. Qui a destra, 4 per Cordoba (Cannon for Cordoba, 1970), di Paul Wendkos con il celebre e compianto George Peppard. 21
Chuck Connors, interprete western di cinema e TV