Lingua e habitudini: il caso dell’arte e della sua riproducibilità tecnica.

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea Specialistica in

TEORIE DELLA PRASSI COMUNICATIVA E COGNITIVA

Tesi di Laurea Specialistica Lingua e habitudini: il caso dell’arte e della sua riproducibilità tecnica. Candidato Luigi Cristaldi 104721 2005/2006

Relatore:

Correlatori:

Prof. Paolo Virno

Prof. Daniele Gambarara Prof. Roberto De Gaetano

Anno accademico 2007/2008 Sessione: Autunnale


Indice ABSTRACT....................................................................................................... pag. 4 INTRODUZIONE:

DELLA LINGUA E DEL SOGGETTO............................. pag.

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PRIMO CAPITOLO RIPRODUCIBILITÀ E SERIALITÀ 1. La riproducibilità tecnica: una questione puramente “tecnica”?............ pag. 16 1.1 Breve storia della riproducibilità tecnica: serialità e fine dell’aura…. pag. 16 1.2 Una nuova (percezione della) realtà: l’uomo nuovo e l’arte...........…. pag. 23 1.3 Una nuova (percezione della) realtà: il cambiamento di funzione..… pag. 27 1.4 Il bambino e la metropoli…………………………………………..... pag. 29 2. Il messaggio razionale dell’avanguardia e la necessità di un nuovo tipo di arte: una questione puramente artistica?................................................ pag. 34 2.1 Dada e Surrealismo…………………………………………………. pag. 34 3. La sintesi di Moholy-Nagy: arte e sensorio…………………………... pag. 40 4. L’industria culturale come sistema…………………………………… pag. 42 5. Il cinema e le masse…………………………………………………... pag. 48 5.1 Configurazioni ornamentali…………………………………………. pag. 49

SECONDO CAPITOLO IL LINGUAGGIO MESSO AL LAVORO (SUL PALCOSCENICO) 2


1. C’è spettacolo e “spettacolo”…………………………………………. pag. 54 1.1 Guy Ernest Debord e il Situazionismo………………………………. pag. 59 2. Radio Alice e Il Male: due esempi di sovversione (linguistica)………. pag. 72 2.1 Radio Alice, la storia………………………………………………... pag. 72 2.2 Perché è importante Radio Alice…………………………………….. pag. 73 2.3 Il Male, la storia…………………………………………………….. pag. 74 2.4 Perché è importante Il Male…………………………………………. pag. 77 2.5 Breve storia della tecnologia dalla fotocopiatrice al videotape…….. pag. 79 2.6 I Commentari alla Società dello spettacolo………………………... pag. 81

TERZO CAPITOLO POSTMODERNISMO O LA LOGICA DI UNA NUOVA BIDIREZIONALITÀ 1. La condizione postmoderna…………………………………………... pag. 84 2. … e la fine della modernità…………………………………………… pag. 88 3. Jameson e il postmodernismo………………………………………… pag. 91 3.1 Architettura, postmodernismo e crisi del sensorio………………….. pag. 98 4. Dagli Environment alle installazioni: Studio Azzurro……………..... pag. 108 5. Dogma 95............................................................................................. pag. 112

CONCLUSIONI: INNOVAZIONI

LINGUISTICHE E PERCEZIONE DELLA

REALTÀ: IL CASO DELL’ARTE…………………………………………. PAG.

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BIBLIOGRAFIA………………………………………………………….....

PAG.

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GLOSSARIO………………………………………….……………………..

PAG.

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Abstract In this thesis we intend to show how the creation of works of art artists are approaching the condition of thinkers: they see in the work of predecessors a theory of implied, that confute decisively with a counter-example well chosen. Over time, these counter-examples are absorbed in the mainstream and lose their power to shock becoming the target of a new vanguard. The initial shock, gradually fades while the entire community absorbs new habits of perception in all its areas of work and exchange. The real revolution, ultimately, takes place in the second and more prolonged phase adjustment of all individual and social life to the new model of perception created by new technology. Great importance in doing this because it will take to understand how close the relationship is that between the advent of reproducible technique of cultural practices and linguistic practices. As might be important to the invention of mechanized procedures if you do not put the emphasis on liaison from the beginning that led handling technology to be handling language is not understood at the bottom end of this work. Works of art, photography, cinema, advertising, television and all other organs of what we have defined cultural industry to bring the issue language issue because it put on display its dual nature as an element of communication but, above all, of cognition. Two phases of a single inseparable process that leads the way to be both part of the message and communication. A film, for example, tells a story but at the same time, thanks to the language (of images, the uses of language, etc.). Conveys habits, customs, which inevitably consolidate what we have or will lead to a modification. This aesthetic use of language deserves attention because it is modified step by step in its own statute and also affect the access of people to reality. The entire operation, in fact, even if aimed at kind of codes, often produces a new kind of world view. It also aims to stimulate a complex interpretative work in the recipient, the sender of a text aesthetic focuses its attention on its possible reactions. The use of

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aesthetic language, put in place so the photograph but especially with the advent of cultural and shown explicitly by situationism, is a true laboratory of language. Even the language and writing have had, over thousands of years, major changes in humans. These are previous put language in the current revolution in media technology and biological sense: the language and alphabets, in fact, a sort of kind of system we have developed new technologies and the resulting mutations that are linked because they do not even the technology is better and more useful to the world we cannot impose a government prepared. Depart from the analysis of Walter Benjamin on Reproducibility technique that will give us the keys to the analysis of Dadaism and Surrealism. Analyze the concept of cultural industry of Adorno and Horkheimer. The analysis also touch studies Kracauer ornamental configurations and Laszlo Moholy-Nagy on the relationship between art and perception that underlies all thesis. In the second chapter, however, the analysis start by Guy Debord and Situationism. Work on the concept of the show and put in the work of the faculty of language: the society of the spectacle is the place where you can see how the linguistic practice coincides with that of capitalist production processes. To show how the innovations identified by situationists are used, take the example of Radio Alice and Evil, a satirical magazine of'70s and'80s. In the third and final chapter will read the works of Fredrich Jameson, Postmodernism, or the cultural logic of late capitalism, Jean-François Lyotard, The postmodern condition, and Gianni Vattimo, The end of modernity in order to obtain a conceptual framework that allows us to demonstrate the contemporaneity. Examples of this conceptual framework can be identified in the artwork of Studio Azzurro and in the movie Dogma 95.

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INTRODUZIONE DELLA LINGUA E DEL SOGGETTO.

L’arte non è una fuga, una via di uscita dalla confusione e dall’incertezza, ma un accesso, una spia del ribollire della coscienza collettiva, del magma della realtà in formazione La pelle della cultura Derrick de Kerckhove

Cosa accade alle arti e all’esperienza estetica dopo l’avvento della riproducibilità tecnica? In questa tesi intendiamo mostrare come nella creazione di opere d’arte gli artisti si avvicinano alla condizione dei pensatori: essi vedono nei lavori predecessori una teoria dell’arte implicita, che confutano con decisione grazie a un controesempio ben scelto. Col tempo questi stessi contro-esempi vengono assorbiti nel mainstream e perdono il loro potere di scioccare diventando il bersaglio di una nuova avanguardia. E così l’arte evolve in direzioni strane e imprevedibili. Anche nell’arte, infatti, ogni epoca parla con le parole che ha. Le evoluzioni tecniche e i cambiamenti tematici si intersecano in una danza che prevede del resto anche la permanenza del vecchio: nessuna novità è capace di cancellare le precedenti esperienze, quelle di cui stesse risulta figlia. Lo shock iniziale gradatamente svanisce mentre l’intera comunità assorbe le nuove abitudini percettive in tutti i suoi settori di lavoro e di scambio. La vera rivoluzione, in definitiva, ha luogo in questa seconda e più prolungata fase di adattamento di tutta la vita individuale e sociale al nuovo modello di percezione creato dalla nuova tecnologia. Ma questo è solo uno dei due lati della medaglia. La stessa domanda posta all’inizio può e deve essere modificata in: cosa accade all’esperienza estetica, intesa come conoscenza, e alle arti dopo l’avvento della riproducibilità tecnica?

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Mettere in risalto la questione dell’esperienza estetica disloca la portata teorica del problema dall’artista e dall’opera fini a se stessi per cercare di discutere, oltre che di questioni di teoria dell’arte, anche dell’indissolubile legame che l’arte ha con la socialità, fatta di uomini in carne e abitudini, e vedere quali modificazioni essa apporta alle persone, al pubblico, nel momento in cui essa cessa di essere qualcosa di elitario, di lontano, e fa il suo ingresso nella prassi quotidiana di ogni essere umano. Nel fare questo, tenteremo di lavorare individuando prima dei modelli teorici “predittivi”, cercheremo, cioè, delle elaborazioni artistiche che hanno anticipato l’avvento di forme di culturali, o meglio di abitudini, forme linguistiche, che poi sono entrate a far parte dell’uso pubblico e hanno modificato i suoi stessi fruitori/utilizzatori. Il fine sarà mostrare come sia l’esperienza estetica a preparare il terreno per le nuove tecnologie: ogni innovazione tecnica, anticipata teoricamente da una analisi precorritrice (teorico-artistica), in realtà, nel passo immediatamente successivo, ne chiama in causa una estetico-percettiva con un lavoro di “accettazione della modernità”, quasi, come direbbe Marx, di «tirocinio alla macchina», proponendo di vota in volta esempi di queste applicazioni nel campo della moderna industria culturale (giornali, radio, esperienze artistiche, etc.) poiché l’arte, l’estetico, erompe quando una nuova tecnologia sfida lo status quo, l’arte prorompe come una minaccia attraverso la crosta del consenso indebolito della realtà portando ad un nuovo corredo di habitudini. Grande importanza nel fare questo assumerà il fatto di capire quanto sia stretto il legame che c’è fra l’avvento della riproducibilità tecnica della prassi culturale e la prassi linguistica. Per quanto possa essere importante l’invenzione di procedure meccanizzabili se non si mette l’accento sulla liaison che sin dagli inizi ha portato la manipolazione tecnologia ad essere anche manipolazione linguistica non si sarà compreso a fondo il fine di questo lavoro. Opere d’arte, fotografia, cinema, pubblicità, televisione, e tutti gli altri organi di quella che abbiamo definito industria culturale, focalizzano il tema sulla questione linguistica in quanto ne mettono in mostra la sua doppia natura di elemento di comunicazione ma, soprattutto, di cognizione. Due fasi di un unico processo inscindibile che porta il mezzo ad essere allo stesso tempo elemento di messaggio e di comunicazione. Un film, ad esempio, narra una vicenda ma allo stesso tempo, 8


sempre grazie al linguaggio (delle immagini, degli usi linguistici, etc.), veicola delle abitudini, degli usi che inevitabilmente consolidano quelle che abbiamo oppure ne portano ad una loro modificazione. Questo uso estetico della lingua merita attenzione perché essa ne risulta modificata passo dopo passo nel suo stesso statuto e allo stesso tempo modifica il modo di accesso delle persone alla realtà. L’intera operazione, infatti, anche se mira alla natura dei codici, produce di frequente un nuovo tipo di visione del mondo. Essa, inoltre, mira a stimolare un complesso lavoro interpretativo nel destinatario, il mittente di un testo estetico focalizza la propria attenzione sulle sue possibili reazioni1. L’uso estetico della lingua, messo in atto sì dalla fotografia ma soprattutto con l’avvento dell’industria culturale e mostrato esplicitamente dal Situazionismo, rappresenta un vero e proprio laboratorio della lingua. Già la lingua e la scrittura2 hanno avuto, nel corso di migliaia di anni, grandi modificazioni sugli esseri umani. Sono questi precedenti linguistici a inquadrare le attuali rivoluzioni mediali in senso tecnologico e biologico: il linguaggio e gli alfabeti costituiscono, infatti, una sorta di sistema che ci ha predisposti alle nuove tecnologie e alle conseguenti mutazioni che a esse sono connesse perché non anche la tecnologia migliore è più utile al mondo non si può imporre a un pubblico non preparato3. La questione, analizzata nel primo capitolo, viene aperta ufficialmente col saggio di Walter Benjamin del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Nel saggio, il filosofo tedesco, individua come elemento spartiacque, tra la rappresentazione artistica classica e quella moderna, la nascita della pratica fotografica. Con la riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale: l’aura (nozione che riunisce in sé quelle di originalità, autenticità, irripetibilità dell’opera, il suo hinc et nunc). L’aura, quindi, è l’alone ideale che rende sensibile al fruitore l'unicità irripetibile dell'atto creativo. Ma questi sono solo i prodromi del discorso. Il problema centrale è un altro: individuare nella riproducibilità tecnica dell’opera d’arte il catalizzatore di un mutamento storico

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Cfr. Eco, Umberto, 1975. Cfr. Mc Luhan, Marshall, 1962 trad. it. 1976. 3 Cfr. de Kerckhove, Derrick 1995 trad. it. 1996. 2

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epocale capace, nel tempo, di modificare la funzione e, quindi, l’essenza stessa dell’arte. C’è un ulteriore punto. La fotografia (e l’avvento delle tecniche di riproduzione in generale) ha portato all’affermarsi sempre più di un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere da parte delle persone in numero sempre maggiore costituendo, praticamente, quello che oggi, diffusamente, chiamiamo “pubblico” e constatando come le modificazioni tecnico-artistiche creino, inevitabilmente, delle modificazioni nel sistema di percezione/comportamento di chi ne

fruisce

attraverso

la

mediazione

attuata

dal

dispositivo

permettendo

all’osservatore di, ad esempio nel caso della fotografia, soffermarsi su un particolare della foto, oppure, nel caso del cinema, fermare il proprio interesse su un unico fotogramma del video. La portata “rivoluzionaria” che Benjamin attribuisce alla fotografia come tecnica della riproduzione e, in maggior misura, al cinema, si esplicita dunque su diversi piani: dissoluzione dell’aura attraverso riproduzioni che sottraggono l’opera d’arte all’hic et nunc della sua esistenza materiale e della sua fruizione, rivelazione di una visibilità che rimane inaccessibile all’occhio empirico e diventa invece accessibile grazie alla mediazione del dispositivo, contestazione di ogni atteggiamento cultuale e “feticistico” nei confronti dell’autenticità e dell’autorità dell’opera. La rivoluzione tecnologica che si verificò tra la fine dell’‘800 e i primi del ‘900, quindi, portò ad una fondamentale ristrutturazione della realtà e del modo di percepirla. La riproducibilità creò modificazioni sensoriali profonde e l’avvento di tecnologie della riproduzione ha ri-prodotto queste modificazioni su larga scala. Essa crea degli shock nella gente, nel pubblico, e, allo stesso modo, in quelle genti che si trovano ad abitare delle città che, con l’avvento della serialità anche nell’industria, si trasformano in metropoli creando l’alter ego del pubblico: la folla. I nuovi lavoratori che si devono abituare a manovrare le nuove macchine e i nuovi trasportatori si trovano nelle stesse condizioni psicologiche in cui si viene a trovare il bambino quando cerca nell’“ancora una volta” del gioco la rassicurazione del presto ritorno della madre. Allo stesso modo, nella ripetizione dei movimenti e dei comportamenti, si cerca di ovviare agli imprevisti e alle novità.

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Il gioco, basato sulla ripetizione tipica anche del nuovo statuto dell’opera d’arte, l’impulso all’“ancora una volta”, tipico dell’infanzia, si prolunga nell’esperienza tecnicamente riproducibile mettendo in atto un «fare sempre nuovo». L’abitudine nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide, sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco. Senza tradizioni né bussole è tanto il bambino che l’abitante della metropoli. Privi del riparo di un “costume”, entrambi devono ricorrere alla ripetizione per smussare gli choc dell’imprevisto e orientarsi alla meno peggio. I movimenti artistici che per primi, parallelamente all’analisi di Benjamin, riuscirono a comprendere che la riproducibilità tecnica stava cambiando il mondo e la realtà furono Dada e Surrealismo. Gli artisti di queste due correnti capirono subito il ruolo che fotografia e cinema potevano rappresentare all’interno dei nuovi procedimenti artistici che stavano nascendo perché il modo di percepire degli esseri umani stava cambiando. Sempre in questa prima parte analizzeremo l’aspra critica di Max Horkheimer e Theodor Adorno all’industria culturale e al controllo che i capitalisti possono mettere in pratica sul pubblico e sui fruitori grazie alla gestione e alla manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa ampiamente diffusisi in pochi anni dall’avvento della riproducibilità tecnica stessa. Nello specifico analizzeremo alcuni saggi del sociologo Siegfried Kracauer sul ruolo che ha avuto il cinema nella contraffazione dei gusti e, soprattutto, delle abitudini delle masse. Questa parte dell’analisi ci servirà a far vedere come il fatto che la riproducibilità tecnica e i nuovi mezzi di diffusione di massa modifichino le abitudini degli esseri umani e come essi possano essere usati e vengano usati come strumenti per indurre le persone ad acquistare sempre merci nuove e far lievitare i fatturati delle industrie (in particolare quella culturale dove si vendono oggetti di natura linguistica come radio, cinema, televisione, musica, giornali, etc.). Il consumatore, in pratica, si trova ingabbiato all’interno di un circolo di manipolazione e consumo, in balia di una società che lo manipola a piacere: il consumatore non è sovrano, come l'industria culturale vorrebbe far credere, non è il suo soggetto bensì il suo oggetto. Schiavo e costretto ad uniformarsi, 11


involontariamente con un passaggio assuefatorio impercettibile, ai comportamenti che vede scorrergli sullo schermo nei film creati ad hoc dalle grandi major del cinema. L’aspra critica all’industria culturale verrà ripresa, simbolicamente, dal movimento situazionista operante in Europa dal 1957 al 1972. Le analisi di Kracauer sulle configurazioni ornamentali e quelle di Adorno/Horkheimer sull’industria culturale trovano, infatti, la loro sintesi nella nozione di spettacolo elaborata da Guy Debord, il rappresentante più importante del movimento situazionista, in quegli anni e teorizzata nello scritto La società dello spettacolo, edita nel 1967. Qui lo “spettacolo”, tema centrale del secondo capitolo della tesi, diventa termine tecnico e si carica di significati teorico-filosofici. Per un verso, esso è la comunicazione umana divenuta merce, una merce tra le altre, sprovvista di speciali competenze. Si tratta solo del prodotto particolare di un’industria particolare, quella detta culturale, dotata di sue tecniche peculiari. Per un altro verso, però, lo spettacolo oltrepassa il proprio ambito settoriale, coinvolgendo l’intera produzione sociale. Ciò che caratterizza la nuova società, infatti, non può essere una semplice proliferazione di immagini. Tutt’altro. Lo spettacolo non è inteso come la genuina e più importante espressione della dittatura dei mass-media, essa, infatti, ne è solo una conseguenza in quanto viene ad essere la marca della stessa economia, il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo. Lo spettacolo è l’economia ormai interamente autonomizzata grazie all’affinamento dei sistemi di riproducibilità tecnica. L’azione di intellettuali-filosofi come Guy Debord e Raoul Vaneigem entra nel cuore del sistema vivisezionando la natura del quotidiano disumanizzato dall’onda barbarica del capitale. Il situazionismo, in particolare, è stato uno dei più importanti (e rari) tentativi di mettere a punto forme di sovversione che fossero all’altezza di un modo di produzione in cui il ruolo preminente spetta alla cultura e alla comunicazione linguistica (lo spettacolo, infatti, riflette la struttura, il processo tipico della prassi linguistica). Nello spettacolo sono esibite, in una forma separata e capovolta, le più rilevanti forze produttive di tutta la società, quelle forze produttive 12


cui

attinge

necessariamente

qualsiasi

processo

lavorativo

contemporaneo:

competenze linguistiche, immaginazione, sapere, cultura. Con il termine spettacolo, Guy Debord prova a render conto della specifica situazione in cui il linguaggio medesimo è stato messo al lavoro, divenendo la principale risorsa della produzione sociale. Questa commistione tra lavoro e linguaggio è un crocevia, in cui convergono necessariamente sia la storia del lavoro salariato, il suo interno sviluppo, sia la concezione del linguaggio che ha contraddistinto la cultura occidentale. Lo spettacolo ha una doppia natura: è un prodotto specifico che si affianca a tutti gli altri, ma, allo stesso tempo, rappresenta (letteralmente) l’elemento fondamentale del modo di produzione nel suo complesso, l’esposizione generale della razionalità del sistema. Nelle merci-spettacolo, il cui valore d’uso è linguisticoculturale, sembra specchiarsi la qualità comunicativa ed epistemica di tutti i processi lavorativi. A dar spettacolo, per così dire, sono le stesse forze produttive della società. Oltre agli esempi messi in atto dai situazionisti stessi attraverso la Pittura industriale, la

Psicogeografia, l’Urbanistica

unitaria

e il

Dètournement,

analizzeremo due casi: l’esperienza di Radio Alice e del Male, rivista satirica settimanale pubblicata fino al 1982. Esperienze che mettono al lavoro le elaborazioni e le anticipazioni di marca situazionista. Mentre Dadaismo, Surrealismo e Bauhaus anticipano l’avvento della riproducibilità tecnica e tutto ciò che ad essa si lega, in questo passo, invece, questa esperienze estetico-comunicative Il Male e Radio Alice, appunto, materializzano l’analisi teorico-filosofica di Debord e compagni. Nel terzo e ultimo capitolo tenteremo di dar conto del periodo che va dalla metà degli anni Settanta fino ai giorni nostri focalizzando la nostra attenzione sulle analisi di Jean-François Lyotard, Gianni Vattimo e, in particolare, di Fredric Jameson sul periodo del Postmodernismo. Cercheremo anche qui di mostrare come le analisi messe in atto dai tre studiosi mettano in risalto elementi che poi verranno messe al lavoro da movimenti artistici come Studio Azzurro e Dogma 95 e sul ruolo che questi processi hanno avuto nella strutturazione/modificazione delle abitudini umane.

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La teoria postmodernista, ad esempio, afferma che le complesse differenziazioni fra sfere o campi della vita (politica, sociale, culturale, etc.) e tra distinte classi e ruoli in ogni campo sono state indebolite dalla crisi del fondazionalismo e dalla conseguente relativizzazione del principio di verità. Jameson critica profondamente questa impostazione affermando che questi fenomeni possono essere spiegati con successo solo all’interno di una logica modernista. Secondo la sua impostazione, il fenomeno postmoderno della fusione di tutti i discorsi in un’unità indifferenziata era il risultato della colonizzazione della sfera culturale che aveva mantenuto una parziale autonomia durante la precedente fase storica, da parte del capitalismo multinazionale. Seguendo le analisi di Adorno e Horkheimer sull’industria

culturale,

Jameson

discute

di

questi

fenomeni

nel

campo

dell’architettura, del cinema, della narrativa e delle arti visuali come anche in termini strettamente filosofici. Il postmodernismo, in sintesi, viene ad essere il consumo della pura mercificazione come processo e la sua analisi si pone in linea diretta, ancor prima che con quella Debord, a quella di Horkheimer e Adorno. Con la frammentarietà del soggetto si sgretola anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche. Esso, sentore dell’imitazione, generatrice del simulacro, nasce in una società nella quale, citando Debord, il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la memoria stessa del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato, ancora, Debord: «l’immagine è diventata la forma finale della reificazione» Per il teorico amicano, l’architettura contemporanea è fra tutte le arti quella che più costitutivamente si avvicina all’economia, al giro d’affari multinazionale, intrattenendo un rapporto potenzialmente immediato con essa e integrando la propria produzione estetica nella produzione di merce in generale. Le architetture moderne, prese a modello delle strutture e dei processi del postmodernismo, però, allo stesso modo sembrano essere un classico esempio di dètournement, esse, infatti, fanno lo sgambetto al modo di percepire, alle abitudini, dell’animale umano, costringendolo ad andare oltre, le architetture si esperiscono, sono una nuova forma di esperienza che modifica il dispositivo stesso dell’esperire allo stesso modo di come la fotografia

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e il nastro trasportatore modificarono l’essere umano descritto da Benjamin e Marx tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. L’esperienza fatta in questo tipo di architetture la si ritrova in nuove forme d’arte come le videoinstallazioni. L'installazione è, in genere, un’opera d’arte tridimensionale non mobile, che comprende media e forme espressive qualsiasi natura per creare, da parte dell'osservatore una particolare esperienza in un determinato ambiente. Questo tipo di arte non è quasi per nulla semplice video-arte, anzi, coniugando lucida consapevolezza e forte sensibilità sociale, esso delinea fin dagli esordi quelle che possono essere considerate le linee guida del suo lavoro: carattere ambientale dell’opera, che si fa più propriamente “evento”, situazione, luogo dove intrecciare liberi percorsi narrativi; ruolo centrale dello spettatore, inscritto com’è in un percorso narrativo meramente evocativo, che stimola il pieno investimento del suo immaginario e lo modella quindi come componente costitutiva essenziale, capace di realizzare le potenzialità dell'opera; neutralizzazione dell'apparato tecnologico, per mettere in scena un complesso gioco di interscambio tra reale e virtuale, verificandone attraverso seducenti e fluide proposte conoscitive la sostanziale ambiguità interpretativa e suggerendo, inoltre, nuove possibilità di integrazione tra uomo e dispositivi tecnologici, in una prospettiva etica di responsabilizzazione e di rinnovato recupero della dimensione poli-sensoriale. Creando ambienti sensibili per stimolare nuovamente il sensorio assopito delle genti contemporanee. Lo stesso lavoro avanguardistico fatto dagli artisti di Studio Azzurro cercheranno di farlo i registi firmatari del patto Dogma nel 1995 per recuperare l’antico e ormai dissolto rapporto tra i registi ed i propri film per purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali e dagli investimenti miliardari delle industrie culturali contemporanee.

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PRIMO CAPITOLO RIPRODUCIBILITÀ E SERIALITÀ

1. La riproducibilità tecnica: una questione puramente “tecnica”?

La questione dell’arte sembra più adatta a una risposta filosofica che a una artistica. Nigel Warburton

1.1Breve storia della riproducibilità tecnica: serialità e fine dell’aura

All’inizio del saggio sulla Riproducibilità tecnica è lo stesso Walter Benjamin a porre subito la questione: ad essere in gioco non è tanto il concetto di riproducibilità perché «in linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini» [Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pag. 20]. La vera questione, piuttosto, è che «la riproduzione tecnica dell’opera d’arte è invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità»4 ma qualcosa di estremamente diverso. Tralasciando i vecchi sistemi di riproduzione5, è con la litografia che le tecniche di riproduzione raggiungono un grado sostanzialmente nuovo perché la prassi produttiva risultava più semplice, e quindi veloce, e permetteva di produrre più copie dello stesso prodotto. La litografia (dal greco lithos = pietra e ghraphé = scrittura), ad esempio, veniva ricavata in origine da una matrice di pietra, solo più tardi anche da lastre di 4 5

Ibidem. Benjamin cita la fusione, il conio, la silografia e la stampa (ibidem).

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metalli porosi come lo zinco e l’alluminio, e la particolarità di questa tecnica è che sulla matrice non c’è incisione, infatti, la litografia è una tecnica con matrice in piano su cui si interviene chimicamente senza rovinare il supporto originario. L’invenzione della stampa litografica6, sul finire del Settecento, ha comportato due rivoluzioni. Da un lato ha reso finalmente possibile la realizzazione della stampa a colori e, dall’altro, ha messo alla portata di tutti i nuovi artisti-tecnici il mezzo incisorio permettendo così lo sviluppo della stampa industriale nel 18° secolo. Pochi decenni dopo, l’invenzione della fotografia7 accelerò ulteriormente il processo intrapreso con la nascita della stampa litografica tanto che, come spiega Benjamin:

Verso il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello, che le permetteva, non soltanto di prendere come oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici. Per lo studio di questo livello nulla è più istruttivo del modo in cui le due manifestazioni – la riproduzione dell’opera d’arte e l’arte cinematografica – hanno agito sull’arte nella sua forma tradizionale [Benjamin 1936, trad. it. 1966, pag. 21].

E’ questa l’operazione che sancì, appunto, quella che nel testo del filosofo tedesco viene definita come perdita dell’aura. Ma vediamo come viene sviluppata la questione. La riproduzione intesa come imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre stata parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in circolazione delle opere. Nel caso della musica, poi, l’opera stessa esiste innanzitutto come ri-esecuzione. La serialità tecnica, come dicevamo poco prima, ha inizio con la silografia8 attraverso la quale diviene riproducibile la grafica e con la stampa, grazie alla quale diviene riproducibile la scrittura. Poi, nel Medioevo, vennero l’acquaforte e la puntasecca e, nel XIX secolo, la litografia. Ma un vero

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Il procedimento era già noto in precedenza ma solo nel 1796 Aloïs Senefelder di Praga riuscì a perfezionare e a mettere a punto un sistema basato su questa proprietà, atto alla stampa. 7 La parola fotografia ha origine da due parole greche: φως (phos) e γραφίς (graphis). Letteralmente quindi fotografia significa scrivere (grafia) con la luce (fotos) perché i colori e le forme che da essi ne derivano altro non sono che variazioni dello spettro fotonico che venivano impressi, stampati, su carta. 8 Cfr. Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pag. 20

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solco nel campo della riproducibilità fu scavato con l’invenzione della fotografia 9: Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all’eloquio [ivi, pag. 21].

L’evoluzione fu così rapida tanto che verso il 1900 la riproducibilità tecnica aveva raggiunto un livello così alto da conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici. Ciò che interessa a Benjamin, però, non è la riproduzione intesa in questo senso bensì la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e, soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente, e la citazione scelta lo postula chiaramente. Di fronte a una tale rivoluzione tecnica, il compito del critico, secondo Benjamin, consiste nel riflettere sul modo in cui la riproducibilità dell’opera d’arte finisce per imporre una ridefinizione dello statuto stesso dell’arte nella sua forma tradizionale. La tesi centrale del saggio di Benjamin consiste nell’affermazione che nella riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale: l’hic et nunc dell’opera d’arte.

L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. Analisi di un genere chimico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua autenticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non di quella tecnica soltanto10 [ivi, pag. 22]. 9

La litografia è fondamentale per i suoi sviluppi in campo tecnico perché per la prima volta permette all’artista di creare qualcosa attraverso una procedura meccanizzata e veloce ma è con la fotografia che inizia sia la rivoluzione sensoriale umana sia dei mezzi di riproduzione tecnica. 10 Addirittura, la riproducibilità in alcuni casi è d’aiuto all’originale stesso: «Ma mentre l'autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell'originale che sono accessibili soltanto all'obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all'occhio umano, oppure, con l'aiuto di certi procedimenti, come l'ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono interamente all'ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la

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Nell’unicità della collocazione spazio-temporale dell’opera risiede il fondamento della sua autenticità e della sua autorità come “originale”, ossia la sua capacità di assumere il ruolo di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia, infatti, sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro unicità (una chiesa, un palazzo). Benjamin sintetizza i valori di unicità, autenticità e autorità dell’opera d’arte nella nozione di “aura”. Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica egli constata come nella società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle immagini11, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere. Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di «rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine» e in cui «si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione», è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza dell’aura: «Cade qui opportuno illustrare il concetto, sopra proposto, di aura a proposito degli oggetti storici mediante quello applicabile agli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa – ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo». Fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza 12, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento

riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venire ascoltato in una camera» (ibidem). 11 La specificazione è necessaria: nel primi del ‘900 l’immagine comincia ad essere il modo più diretto per veicolare informazioni. 12 Benjamin esplicita chiaramente questo punto nella nota al testo numero 8: «Definire l’aura un’«apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina» non significa altro che formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, «lontananza, per quanto vicina». La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva dopo il suo apparire» [Benjamin 1955, trad. it. 1966, pag. 49].

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di una fruizione13 dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. E’ lo stesso filosofo tedesco a chiarire più avanti nel testo questo punto con un esempio, mettendo in contrapposizione il pittore e l’operatore e paragonandoli, rispettivamente, al mago e al chirurgo:

Qui la domanda da porre è la seguente: qual è il rapporto tra l’operatore e il pittore? Per rispondere a questa domanda ci sia consentito ricorrere a una costruzione ausiliaria fondata su un concetto di operatore derivante dalla chirurgia. Il chirurgo incarna il polo di un ordinamento, al polo opposto del quale c’è il mago. L’atteggiamento del mago, che guarisce un ammalato mediante imposizione delle mani, è diverso da quello del chirurgo, il quale intraprende invece un intervento sull’ammalato. Il mago conserva la distanza tra sé e il paziente; in termini più precisi: la riduce – grazie all’apposizione delle sue mani – soltanto di poco e l’accresce – mediante la sua autorità – di molto. Il chirurgo procede alla rovescia: riduce la sua distanza dal paziente di molto – penetrando nel suo interno –, e l’accresce di poco – mediante la cautela con cui la sua mano si muove tra gli organi. In una parola: a differenza del mago (che ancora si nasconde anche nel medico comune), nel momento decisivo, il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale 14 da ciò che gli è dato, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova. Cosi, la rappresentazione filmica della realtà è per l’uomo odierno incomparabilmente più significativa, poiché, precisamente sulla base della sua intensa penetrazione mediante l’apparecchiatura, gli offre quell’aspetto, libero dall’apparecchiatura, che egli può legittimamente richiedere dall’opera d’arte [ivi, pagg. 37-38].

Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale15, prima magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio da questa appartenenza al mondo del culto. In forme secolarizzate, l’atteggiamento rituale e culturale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino agli ultimi anni del Romanticismo. L’avvento della riproducibilità tecnica e 13

Intendiamo in questo testo “fruizione” come sinonimo di “ricezione” e di “osservazione”. Con distanza naturale intendiamo la distanza fisica che il pittore classico manteneva fra l’oggetto rappresentato/da rappresentare e la tela su cui esso veniva ritratto. Una distanza che, con il tipo di arte che per primi Dada e Surrealismo realizzano, scompare quasi del tutto perché i nuovi artisti esplorano dall’interno e da vicino l’oggetto della loro opera. 15 Le opere d’arte hanno sempre fatto parte di un contesto sacrale e sono sempre state viste come qualcosa di lontano, di secolarizzato, questo ha creato nell’immagine collettiva questa sorta di lontananza fra gli osservatori e le opere stesse. Con la riproducibilità tecnica e la nuova concezione dell’arte propagandata dalle avanguardie, l’arte è, per definizione, qualcosa per tutti «tutti devono poter fare poesia» dice Breton nel manifesto del Surrealismo. Questo processo sradica le opere dal loro contesto rituale per aprirsi ad una fruizione collettiva e non semplicemente mitico-rituale. 14

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la sua diffusione mediante la fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, al valore cultuale (Kultwert) dell’opera si sostituisce progressivamente il valore espositivo (Ausstellungswert). La riproduzione de-storicizza16 un’opera facendone decadere l’aura:

Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto [ivi, pag. 23].

Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riconducibile a una forma di nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della riproducibilità. Nella fotografia la dissoluzione del valore cultuale in favore del valore di esponibilità non è ancora completa, in quanto l’aura mantiene una sua ultima forma di sopravvivenza nel “volto dell’uomo”. Non è un caso che le prime fotografie siano state soprattutto dei ritratti, miranti a fissare e a tramandare nel tempo l’identità e lo sguardo dei soggetti fotografati 17: «Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalla prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. E’ questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza» [Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pag. 28]. Il profondo legame tra l’immagine fotografica e l’unicità del soggetto rappresentato nell’hic et nunc del suo essere rappresentato, e quindi il legame tra immagine, temporalità e morte, viene meno con il cinema. La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di mediazione, differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro sequenzialità sono girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il risultato di una serie di scelte legate all’inquadratura e al montaggio 18. A 16

Con questo termine ci riferiamo alla sfera concettuale del filosofo italiano Ernesto De Martino. L’espressione è utilizzata nella sua opera del 1948, Il mondo magico, per indicare il pericolo di essere assorbiti nell’indeterminatezza, nell’incomunicabile. Destorificare significa anche togliere qualcosa o qualcuno fuori dal tempo della storicità tipicamente umana. 17 La fotografia degli inizi sorge, praticamente, per sostituire quei tipi di dipinti in cui si rappresentavano figure e volti umani tipici dell’arte pre-avanguardistica. 18 Benjamin, in Sul concetto di storia, mostra come la questione del montaggio sia strettamente connessa alla sua idea di storia basata su un materialismo storico-teologico e come i suoi scritti sull’arte siano quasi un derivato di questi suoi studi. Cfr. Benjamin, Walter, 1942, Tesi di filosofia

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differenza del pittore – che è come un mago nel mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel conferire un’autorità auratica alla rappresentazione stessa – l’operatore cinematografico è come un chirurgo; penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la sequenza, finendo però per eliminarne l’aura (e quindi la distanza). Benjamin afferma che proprio questa mediatezza consente al cinema di determinare un significativo approfondimento delle nostre capacità percettive. La possibilità di moltiplicare i punti di vista e le inquadrature mediante quella che Benjamin chiama “la dinamite dei decimi di secondo” rende, infatti, più libero e indipendente il nostro sguardo sulle cose. Lo spazio che si rivela alla cinepresa è, inoltre, profondamente diverso da quello che si rivela allo sguardo empirico perché “al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato

inconsciamente”.

Quello

rivelato

dall’istantaneità

dell’immagine

fotografica e dalla sequenzialità dell’immagine in movimento è dunque un inconscio ottico che si rivela soltanto attraverso di esse, così come l’inconscio istintivo viene portato alla luce nella psicoanalisi. La portata “rivoluzionaria” che Benjamin attribuisce alla fotografia come tecnica della riproduzione e, in maggior misura, al cinema, si esplicita dunque su diversi piani: dissoluzione dell’aura attraverso riproduzioni che sottraggono l’opera d’arte all’hic et nunc della sua esistenza materiale e della sua fruizione, rivelazione di una visibilità che rimane inaccessibile all’occhio empirico e diventa invece accessibile grazie alla mediazione del dispositivo, contestazione di ogni atteggiamento cultuale e “feticistico” nei confronti dell’autenticità e dell’autorità dell’opera. Su quest’ultimo punto, Benjamin sottolinea come il cinema, a differenza della pittura, non consenta un atteggiamento puramente contemplativo, fatto di esaltazione e rapimento. Quella del cinema non è una fruizione fatta di raccoglimento ma una fruizione “distratta” in cui lo spettatore non si perde nell’opera, ma si mantiene in un atteggiamento nel quale piacere e giudizio critico coesistono senza limitarsi a vicenda. Il cinema, in altre parole, si allontana dal naturalismo e

della storia, in Id., Gianfranco Bonola, Ranchetti Michele, a cura di, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997.

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dall’illusionismo teatrale e consente di conservare la “distanza 19” e lo “straniamento” che erano al centro, negli stessi anni, della riflessione sul teatro di Brecht. La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse 20 aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva 21 nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine:

Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film [Cfr. ivi, pag. 39].

Certo, anche nel cinema è presente un residuo di aura, in particolare nel culto della personality che trasforma gli attori in divi, e del resto è chiaro che l’«industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse» [Cfr. Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pag. 34].

1.2 Una nuova (percezione della) realtà: l’uomo nuovo e l’arte.

La fine dell’aura, dunque, è tutt’altro che un problema semplicemente estetico. Esso, come abbiamo anticipato, interessa, in particolar modo, il percepire umano:

Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo. Ora, il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, ovvero alle masse, è inteso quanto 19

Cfr. nota 11. Folla e massa sono da intendersi come termini sinonimi spogliati di ogni significato politico. È da intendersi con lo stesso significato con cui usava il temine Hugo e citato da Benjamin a pag. 100: «Folla era per lui, quasi in senso antico, la folla dei clienti, del pubblico». 21 Intesa come accesso simultaneo di più persone ad uno stesso oggetto. 20

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quello di superare l’irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione [Cfr. ivi, pag. 70].

E’ il concetto di riproducibilità al centro della riflessione di Benjamin. La riproducibilità crea modificazioni sensoriali profonde e l’avvento di tecnologie della riproduzione ha prodotto queste modificazioni su larga scala. Il discorso diventa palese già quando Benjamin spiega come la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte: è col cinema che meglio viene messo in risalto questo passaggio. Al cinema, infatti, atteggiamento critico e piacere del pubblico coincidono perché in esso «le reazioni dei singoli, la cui somma costituisce la reazione di massa del pubblico, si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione» [Cfr. Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pp. 38-39]. Ma anche qui, il discorso parte dal piano estetico per spostarsi sul quello percettivo:

Qui il confronto con la pittura continua a rivelarsi utile. Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi. L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensì, in modo relativamente autonomo, attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse. Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film [Cfr. ivi, pag. 39].

Dire che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea non significa tanto che la pittura è un qualcosa di riservato a pochi. Comunque sia, non è questo che preme sottolineare né a Benjamin e né a noi. La questione è un’altra e riguarda l’accesso delle masse (contemporaneo) ai prodotti culturali ed essi stessi sono portati a cambiare e ad aprirsi ad un accesso simultaneo da parte delle persone. Ecco che il film può essere un’ottima cartina di tornasole per mostrare al meglio questa modificazione. C’è di più. La rivoluzione tecnologica che si verificò tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 portò ad una fondamentale ristrutturazione della realtà e del modo di percepirla. Con le parole di Benjamin: 24


Poiché se una funzione economica è quella di mettere alla portata delle masse contenuti che prima si sottraevano al loro consumo (la primavera, personaggi importanti, paesi stranieri) sottoponendo questi contenuti a una rielaborazione alla moda, così una delle sue funzioni politiche è quella di rinnovare il mondo dall’interno – in altre parole: secondo la moda –, lasciandolo così com’è [Cfr. ivi, pag. 209].

Per spiegare questo concetto dobbiamo riprendere il discorso partendo da altri tre saggi fondamentali di Benjamin: Avanguardia e rivoluzione, Di alcuni motivi in Baudelaire ed Esperienza e povertà. E’ in Esperienza e povertà che Benjamin postula quello che possiamo definire il bisogno di ripartire da zero. Quando il filosofo tedesco, infatti, discute della caduta delle quotazioni dell’esperienza in seguito alla prima guerra mondiale, afferma:

Che valore ha allora l’intero patrimonio culturale, se proprio l’esperienza non ci congiunge ad esso? [...] Sì, ammettiamolo: questa povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’uomo in generale. E con questo una nuova specie di barbarie. Barbarie? Proprio così. Diciamo questo proprio per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? E’ indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo [cfr. Benjamin 1933, trad. it. 1978, pag. 204]

Emblematico è il richiamo che fa Benjamin per porre l’attenzione su questo tema chiamando in causa l’artista di origine ceca, Adolf Loos:

Io scrivo – afferma Loos – che possiedono un moderno sentire. Per uomini che si struggono nella nostalgia del Rinascimento o del Rococò, io non scrivo.

E continua Benjamin subito dopo: «Un artista così “ad incastro”, come il pittore Paul Klee, e uno così programmatico, come Loos – entrambi rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo nuovo del nostro tempo che strillando come un neonato, se ne giace nelle sudice fasce di quest’epoca» [cfr. ivi, pag. 205].

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Viene fuori, qui, un concetto tutto nuovo di arte: le nuove avanguardie artistiche parlano una lingua tutta nuova che, a sua volta, può essere compresa da un uomo tutto nuovo. Ma attenzione:

«Povertà di esperienza: questo non lo si deve intendere come se gli uomini anelassero ad una nuova esperienza. No, essi desiderano essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possano far risaltare la propria povertà, quella esteriore e in definitiva anche quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne venga fuori qualcosa di decente» [cfr. ivi, pag. 207].

E gli uomini non sono privi di esperienza, anzi ne sono stanchi. Alla base di tutto questo ragionamento sulla povertà imprevista sta una idea dello “sviluppo della tecnica” come di un processo che colpisce gli uomini, all’interno della società capitalistica, con “una miseria del tutto nuova”, il cui rovescio, l’altra faccia della medaglia, è rappresentato dall’"opprimente ricchezza di idee" costituita dalla “rivitalizzazione”, anzi dalla “galvanizzazione”, di astrologia e sapienza Yoga, Christian science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo. Questo concetto di barbarie può essere messo in relazione con alcune delle argomentazioni del saggio benjaminiano sul surrealismo (1929). E’ a proposito del movimento surrealista che Benjamin afferma: Ma chi ha capito che negli scritti di questo movimento non si tratta di letteratura ma di altro: di manifestazione, parola d’ordine, documento, bluff, contraffazione, solo non di letteratura, sa anche che vi si parla, alla lettera, di esperienze, e non di teorie, e ancor meno che di fantasticherie [Benjamin, 1933, trad. it. 1973, pag. 13].

Ritorna qui il motivo del vivere in una stanza di vetro: è sempre in questo scritto che Nadja di Breton viene definito come «un libro dove la porta sbatte» e viene narrato l’episodio dell’albergo di Mosca dove gli iscritti ad una setta avevano fatto voto di non soggiornare mai in ambienti chiusi e quindi le loro stanze avevano la porta socchiusa. A questo episodio fa eco l’analisi che Benjamin fa in Esperienza e povertà quando spiega come Scheerbart con il suo vetro e il Bauhaus con l’acciaio abbiano realizzato una rivoluzione nel campo della costruzione degli ambienti

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abitativi e degli oggetti tanto da poter parlare di una Glaskultur, in cui non si possono lasciare tracce, una Cultura del vetro che trasformerà completamente l’uomo22.

1.3Una nuova (percezione della) realtà: il cambiamento di funzione.

Ci sono, quindi, punti di contatto tra l’analisi benjaminiana della riproducibilità tecnica (o della rivoluzione tecnologica in generale) e l’elaborazione estetica operata in quegli anni dalle Avanguardie. E’ possibile, a tal proposito, parlare di una equivalenza senza identità tra i due tipi di analisi senza chiamare in causa o riferirci a relazioni di causa-effetto. Per meglio spiegare questo concetto possiamo rifarci al concetto geometrico di congruenza. Due figure, nel nostro caso i due tipi di analisi, si dicono congruenti (dal latino congruens: concordante, appropriato), quando è possibile trasformare l’una nell’altra per mezzo di una isometria, come ad esempio la riflessione. La congruenza, infatti, è una relazione di equivalenza. Cosa vogliamo dimostrare con questo? Che l’analisi di Benjamin sulla riproducibilità tecnica attuata nelle opere citate e quella messa in atto nei principali testi delle Avanguardie storiche quali Dadaismo 23 e Surrealismo24 presentano fondamentali punti di contatto pur partendo da premesse completamente diverse. Il primo spunto di riflessione ci viene dal testo di Benjamin L’autore come produttore. Un’opera ha una tendenza politica giusta25 solo se, allo stesso tempo, essa mostra una corretta tendenza letteraria e viceversa. Ma c’è un passo ulteriore: un’opera, di qualsiasi tipo essa sia, non deve e non deve essere isolata ma deve collocarsi nelle vive connessioni sociali. Un’opera nasce in un dato periodo storico, in esso cresce e si riproduce e lo cambia. 22

Cfr. Benjamin, 1933, trad. it. 1978, pagg. 206-7. Cfr. Tzara, Tristan, 1924 trad. it 1964. 24 Cfr. Breton, André, 1924 trad. it. 1966. 25 Qui il termine “politica” è necessario perché Benjamin, che afferma questo concetto ne L’autore come produttore, tiene questo discorso all’Istituto per gli studi sul fascismo. 23

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Affinché un’opera faccia questo e risieda nelle vive connessioni sociali di un’epoca le deve poter cambiare perché è impensabile che un’opera d’arte non sia un qualcosa di innovatrice in una data epoca. L’esempio addotto dal filosofo tedesco nel testo L’autore come produttore è il caso di Sergej Tretjakov e sul tipo di scrittore «operante» da lui definito e impersonato. Tretjakov distingue due tipi di scrittore: quello che opera e quello che informa. Lo scrittore non deve informare e, semplicemente, rimanere a guardare, a contemplare e riportare, ma lottare, intervenire attivamente come egli stesso fece con gli Scrittori nel kolkoz. «Teatro di questa confusione letteraria – spiega Benjamin – è il giornale» che mette in atto in chi legge una impazienza del lettore che nasconde dietro di essa, in chi legge, il prendere la parola in difesa dei propri interessi. In questo momento dialettico c’è la rivoluzione messa in atto dalla stampa della Russia sovietica: comincia a scomparire, infatti, fra autore e pubblico perché la competenza acquisita dal lettore gli consente di diventare autore creando L’autore come produttore. E’ così che «l’autorità letteraria non si fonda più sulla cultura specialistica ma su quella politecnica, e diventa così bene comune» [Benjamin, 1955, trad. it. 1973, pag. 204]. Ciò non è possibile, all’epoca, in altre nazioni perché la stampa è ancora in mano ai capitalisti e non si sono create le condizioni per una simile trasformazione. Quest’opera di ridefinizione e cambiamento che mette in atto l’autore come produttore impersonificato da Tretjakov nelle strutture sociali realizza quello che Benjamin, citando Brecht, definisce «cambiamento di funzione», una fondamentale operazione che ogni opera deve compiere per rifornire e trasformare un apparato di produzione, altrimenti essa non avrà compiuto a fondo il suo lavoro:

«Per la trasformazione delle forme di produzione e degli strumenti di produzione e degli strumenti di produzione nel senso dell’intellighenzia progressiva – e quindi interessata all’emancipazione dei mezzi di produzione, e quindi utile nella lotta di classe – Brecht ha coniato il concetto di «cambiamento di funzione». Egli è stato il primo ad affermare, per l’intellettuale, questa importante esigenza: egli non deve rifornire l’apparato di produzione senza nello stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile, nel senso del socialismo. «La pubblicazione dei Versuche – dice l’autore nell’introduzione alla raccolta omonima – ha luogo in un momento in cui certi lavori non devono più essere tanto esperienze vissute [Erlebnisse] individuali (avere carattere di opera), quanto essere diretti all’utilizzazione (trasformazione) di determinati istituti e istituzioni». [...] Qui vorrei accontentarmi di sottolineare la differenza decisiva che esiste fra il semplice rifornimento di un apparato produttivo e la sua trasformazione [Benjamin, 1955, trad. it. 1973, pag. 207].

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Modificare l’apparato di produzione, dunque, e non fare come gli agenti o i routiniers «che fanno grande sfoggio della loro povertà e si rallegrano del vuoto che si spalanca davanti a loro. Non ci si poteva sistemare più comodamente in una situazione più scomoda» [Benjamin, 1955, trad. it. 1973, pag. 211]. L’autore deve meditare sulle condizioni di produzione perché solo così il suo lavoro non sarà solo rivolto ai prodotti ma anche ai mezzi della produzione per avviare alla produzione altri produttori e mettere a loro disposizione un apparato migliorato26.

1.4 Il bambino e la metropoli

Ma chi meglio di Tretjakov e Brecht ha saputo mettere in atto questo processo sono stati i dadaisti e i surrealisti che mettendo alla prova il concetto stesso di arte, con la fotografia ed il cinema «hanno messo alla portata della gente comune contenuti che prima si sottraevano al loro consumo (la primavera, i personaggi importanti, pesi stranieri) sottoponendo questi contenuti a una rielaborazione alla moda, così una delle sue funzioni politiche è quella di rinnovare il mondo dall’interno – in altre parole: secondo la moda –, lasciandolo così com’è» [Cfr. Benjamin, 1955, trad. it. 1973, pag. 209]. Benjamin afferma chiaramente che gli scrittori dovrebbero mettersi a fare fotografie perché il «progresso tecnico è alla base del progresso politico» e la crisi di una forma di produzione invecchiata si risolve solo con nuove invenzioni tecniche. Quello che contraddistingue i routiniers o i noninnovatori in generale è il fatto che «si sono sottratti al compito più urgente dello scrittore contemporaneo: quello di riconoscere quanto è povero e quanto deve essere povero, per poter ricominciare da capo» [Cfr. ivi, pag. 211]. Il motivo della povertà richiama i temi discussi in Esperienza e povertà e, in misura maggiore, ad essere chiamata in causa è la povertà, la carenza di abitudini a cui si trova di fronte l’abitante delle metropoli dopo la Prima Guerra Mondiale ma anche il bambino. 26

Cfr. Brecht citato da Benjamin in Benjamin 1955, trad. it. 1973, pp 212-214.

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La forma attuale della tecnica, infatti, ossia quell’intelligenza artificiale che ambisce a oggettivare i processi cognitivi e l’autoriflessione, può essere meglio compresa se messa a confronto con la condizione di apprendimento del bambino nel momento di accesso al mondo. Le forme di vita metropolitane, prive di tradizione e povere di esperienza, esibiscono tratti puerili, che, pur chiamandola prepotentemente in causa quale loro chiave esplicativa, dell’infanzia restituiscono solo un’immagine sbiadita e parodica. Walter Benjamin fissò anche in altri saggi il particolare rapporto che lega la carenza di istinti tipica del neo-abitante della metropoli al bambino (e alla questione inerente la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte). Egli capì al volo le nuove condizioni di produzione della cultura (fotografia, radio, cinema, romanzo di genere) perché non si precluse un accesso all’esperienza del bambino, da essa anzi traendo insegnamenti sulle tendenze fondamentali del suo tempo. Soffermandosi a lungo sul gioco infantile, infatti, caratterizzato dall’inesauribile ripetizione degli stessi gesti e delle stesse formule verbali, poteva intendere l’esatto significato della serialità su grande scala, che contraddistingue ormai non solo l’industria culturale, ma ogni anfratto dell’esperienza immediata. Recensendo un libro sui giocattoli, Benjamin scrive parole che, per certi aspetti, possono essere riferite anche all’abitante delle metropoli contemporanee:

Sappiamo che la legge della ripetizione costituisce l’anima del gioco infantile: che nulla rende più felice il bambino dell’“ancora una volta”. [...] “Tutto potrebbe essere egregiamente accomodato, se le cose potessero essere fatte due volte” - il bambino agisce secondo questa sentenza di Goethe. Solo che per lui non si tratta di due volte, ma di cento e mille, all’infinito. Con questo procedimento egli non soltanto riesce a superare il terrore di certe esperienze originarie, mediante lo smussamento, l’evocazione sbarazzina, la parodia, ma anche a gustare ripetutamente nel modo più intenso trionfi e vittorie. Il bambino si crea tutto ex novo, ricomincia ogni volta da capo [Cfr. Benjamin 1928 (in 1972), trad. it. 1979, pagg. 78-79]

Il gioco, basato sulla ripetizione tipica anche del nuovo statuto dell’opera d’arte, l’impulso all’“ancora una volta”, tipico dell’infanzia, si prolunga nell’esperienza tecnicamente riproducibile mettendo in atto un «fare sempre nuovo». La questione che ci interessa qui è: come mai la società del capitalismo sviluppato riprende uno schema dell’infanzia? Cosa vi è di comune tra l’una e l’altra? L’assenza di solide abitudini, che incanalino come un alveo la prassi, proteggendola 30


dall’aleatorietà: ecco la risposta. L’abitudine nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide, sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco. Senza tradizioni né bussole è tanto il bambino che l’abitante della metropoli. Privi del riparo di un “costume”, entrambi devono ricorrere alla ripetizione per smussare gli choc dell’imprevisto e orientarsi alla meno peggio. L’iterazione ludica della prima età attesta che non vi sono ancora abitudini, predispone alla loro acquisizione, ne è la matrice. Nell’epoca attuale questo stadio preliminare diventa però, in certa misura, permanente. L’esperienza resta ripetitiva, non consegue l’abitualità. La matrice non scompare sotto il cumulo delle sue realizzazioni, ma dura come tale, sempre visibile in primo piano. A questo punto, tuttavia, l’analogia tra infanzia e riproducibilità tecnica si rovescia in diverbio insanabile. Il bambino che esige di ascoltare la stessa favola, o di metter mano allo stesso gioco, percepisce ogni volta come unico ciò che è uguale. Ciascuna replica ha valore di prototipo, di pietra miliare. All’istanza dell’“ancora una volta” è sempre unita quella dell’“una volta per tutte”: in ogni singola iterazione si cerca una sorta di perfetta compiutezza. Viceversa, la riproducibilità tecnica, facendo valere l’uguaglianza di genere perfino in ciò che è unico, brandisce l’“ancora una volta” contro l’“una volta per tutte”. Alla ripetizione del gioco oppone la coazione a ripetere della merce e del lavoro salariato. Mentre l’infanzia fa fronte all’assenza di abitudini attraverso una particolare forma di “eterno ritorno”, l’industria culturale presenta la nuda iteratività come un surrogato di abitudine, scimmiotta ciò che è venuto meno, costruisce una “tradizione” surrettizia e però vincolante. Riepilogando, secondo Benjamin questa tendenza all’ancora una volta tipica del gioco infantile è anche alla base della riproducibilità tecnica e delle abitudini dell’abitante delle metropoli. L’evoluzione degli abitanti delle metropoli è ben descritta da Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire, saggio contenuto nella raccolta Angelus Novus. L’attacco di Benjamin procede nella direzione di una storia dello choc che parte dai testi letterari di un’epoca in cui lo choc era un’eccezione ad un’epoca in cui «si affaccia il problema del modo in cui la poesia lirica potrebbe essere fondata su un’esperienza in cui la ricezione degli choc è divenuta la regola» [Cfr. Benjamin, 31


1955, trad. it. 1962, pag. 96] quasi a sancire un cambiamento nelle modalità percettive e ricettive dell’intero corpus dei possibili lettori. In pratica Benjamin afferma che a cambiare è l’intero sistema percettivo umano e per sostenere una tesi di questo tipo fa un’analisi della folla27. Ritorna, in questa parte del testo, il motivo della contestualizzazione sociale di un’opera messo a tema ne L’autore come produttore: l’analisi parte dai testi letterari dell’Ottocento perché è proprio in questi anni che la folla comincia ad organizzarsi come pubblico e, quindi, come lettore ideale per lo scrittore. Lo fanno Hugo e Baudelaire, soprattutto, ma non lo fanno Poe e Engels che addirittura in essa avvertono «qualcosa di minaccioso». Due tipi di letterati per due città e due tipi di uomini: Benjamin collega, infatti, la minacciosità della folla di Poe ed Engels al Flâneur parigino che ha bisogno dei suoi spazi per camminare e far volteggiare l’ombrello mentre si sposta per i boulevard francesi e lo contrappone al tipico uomo della folla del traffico febbrile della city di Londra investita in pieno dalla rivoluzione tecnologica industriale dell’Ottocento (quello per cui Baudelaire scrive). Baudelaire, a tal proposito, per giustificare questi cambiamenti, sostenne che l’arte tradizionale era inadeguata per le nuove e dinamiche complicazioni della vita moderna. I cambiamenti sociali ed economici portati dall’industrializzazione richiedevano che l’artista si immergesse nella metropoli e diventasse, per usare le parole di Baudelaire stesso, «un botanico del marciapiede», un conoscitore analitico del tessuto urbano. Egli coglie bene la questione e Benjamin si inserisce bene nella questione mostrando come i protagonisti dei testi di Baudelaire e i suoi lettori mettono in atto modificazioni reali riscontrabili nella realtà effettiva. C’è qui un trait d’union fra i punti teorici espressi da Benjamin in vari testi: la povertà dell’esperienza, gli choc, la riproducibilità tecnica e le modificazioni prodotte da esse nella realtà convergono in queste pagine che possono essere definite come una vera e propria storia della evoluzione dei sistemi di sensorio dovuta alla rivoluzione tecnologica:

27

Folla e massa sono da intendersi come termini sinonimi spogliati di ogni significato politico. E’ da intendersi con lo stesso significato con cui usava il temine Hugo e citato da Benjamin a pag. 100: «Folla era per lui, quasi in senso antico, la folla dei clienti, del pubblico».

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Con l’invenzione dei fiammiferi verso la fine del secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco. Questa evoluzione ha luogo in molti campi; è evidente, per esempio, nel telefono dove al posto del moto continuo con cui bisognava girare la manovella dei primi apparecchi, subentra lo stacco del ricevitore. Fra i gesti innumerevoli di azionare, gettare, premere eccetera, è stato particolarmente grave di conseguenze lo «scatto» del fotografo. Bastava premere un dito per fissare un evento per un periodo illimitato di tempo. L’apparecchio comunicava all’istante, per così dire, uno choc postumo. A esperienze tattili di questo genere si affiancavano esperienze ottiche, come quella che suscita la parte degli annunci in un giornale, ma anche il traffico delle grandi città. Muoversi attraverso il traffico, comporta per il singolo una serie di choc e collisioni. [...] Così la tecnica sottoponeva il sensorio dell’uomo a un training di ordine complesso. Venne il giorno in cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli. Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Ciò che determina il ritmo della produzione a catena, condiziona, nel film, il ritmo della ricezione [Cfr. Benjamin 1955, trad. it. 1962, pag. 110].

E’ qui che la liaison strutturale tra la teoria benjaminiana della riproducibilità tecnica e l’analisi estetica delle avanguardie emerge e viene messa a tema. perché se la folla, la massa, ha dei detrattori in Poe e Engels ha anche dei veri e propri adulatori che non si fermano a Baudelaire e a Benjamin e che possiamo identificare negli artisti di due delle più grandi Avanguardie storiche del ‘900: Dadaismo e Surrealismo. Due avanguardie che in un certo senso sono collegate poiché dopo la fine della vena creativa dadaista la maggior parte dei suoi artisti e dei problemi sollevati da essa confluirono naturalmente nella corrente surrealista.

2. Il messaggio razionale dell’avanguardia e la necessità di un nuovo tipo di arte: una questione puramente artistica?

2.2 Dada e Surrealismo

Negli artisti di queste correnti c’è una consapevolezza che sottende gli scritti di Benjamin: le nuove tecnologie stanno creando sostanzialmente un uomo Nuovo28 28

E’ lo stesso Benjamin ad utilizzare il maiuscolo in diversi testi per sottolineare l’importanza del concetto.

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con un sensorio tutto nuovo e una nuova realtà. Ma la rivoluzione tecnica è solo la premessa sottintesa dell’entimema, perché la questione è tutt’altro che solo tecnica. Surrealisti e Dadaisti esaltano il cinema e la fotografia perché – scrive Tristan Tzara a proposito di Man Ray:

Quando tutto quel che si chiama arte fu pieno di reumatismi, il fotografo accese le mille candele della sua lampada, e la carta sensibile assorbì a poco a poco il nero ritagliato da qualche oggetto d’uso comune. Aveva inventato la forza di un tenero e fresco lampo che superava tutte le costellazioni destinate ai nostri piaceri visivi [Cfr. Tzara, 1924, trad. it 1964, pag. 74].

Si guarda anche qui, dunque, al nuovo: Dadà nacque da un’esigenza morale, da una volontà irriducibile di raggiungere la morale assoluta, dal sentimento profondo che l’uomo, centro di tutte le creazioni dello spirito, è in grado di affermare un predominio su ogni nozione che sia svuotata dalla sua sostanza umana, su tutto quel che è privo di vita e su ogni ricchezza mal conquistata. Dada nacque dallo spirito di rivolta [...] Volevamo dire con questo che noi intendevamo guardare il mondo con occhi nuovi, che intendevamo riesaminare, da cima a fondo, le nozioni che ci erano state imposte dai più anziani e verificarle una per una [Cfr. ivi, pag. 90].

E, soprattutto, le Avanguardie mettono in discussione il concetto stesso di poesia come espressione postulando una funziona cognitiva della poesia: «[provavamo odio] per quella poesia che non era riuscita a liberarsi dai suoi limiti di «mezzo d’espressione»29. Il Surrealismo nacque dalle ceneri di Dada30 e come il predecessore cerca di passare oltre il pubblico rifiutando la forzatura del consumo letterario cercando un suo pubblico perché essi intendono lavorare sui mezzi di espressione31 (e quindi sui metodi di ricezione) continuando l’opera dadaista32:

29

Cfr. Tzara 1924, trad. it 1964, pag. 93. Ivi, pag. 96. 31 Cfr. Breton 1924, trad. it 1966, pag. 89 e pag. 232. 32 Cfr. ivi, pagg. 229-231. E’ molto interessante la questione del linguaggio e della concezione che i surrealisti (e le avanguardie in generale) hanno di esso. Cfr. anche Pirani, Federica, Art e Dossier. Paul Klee allegato al n. 43, febbraio 1990 — Colophon. L’operazione che le avanguardie mettono in atto tende a restituire il linguaggio alla sua vera vita. Infatti nel testo di Pirani su Klee, artista dapprima espressionista e chiamato poi da Walter Gropius ad insegnare pittura nella Bauhaus a Dessau,viene indicata come chiave interpretativa dell’epistemologia kleiana la linguistica saussureana facendo intuire gli effettivi punti di contatto presenti fra la concezione che Ferdinand de Saussure aveva della lingua e quella che ne avevano le Avanguardie di inizio ‘900. 30

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Il maggior beneficio che finora il surrealismo abbia tratto da questo tipo d’operazione è di essere riuscito a conciliare dialetticamente 33 questi due termini violentemente contradditori per l’uomo adulto: percezione, rappresentazione; d’aver gettato un ponte sull’abisso che li separava. La pittura e la costruzione surrealista hanno permesso sin d’ora, intorno a certi elementi soggettivi, l’organizzazione di percezioni aventi tendenza oggettiva. Queste percezioni, per la loro stessa tendenza ad imporsi come oggettive, presentano un carattere sconvolgente, rivoluzionarie nel senso che chiamano imperiosamente, nella realtà esterna, qualcosa che risponda loro. Si può prevedere che, in larga misura, questo qualche cosa sarà [Cfr. Breton 1924, trad. it 1966, pag. 211].

E nella loro teoria torna il motivo dell’infanzia che abbiamo visto essere presente in Benjamin. Scrive Breton nel primo manifesto surrealista: Lo spirito che si immerge nel surrealismo rivive con esaltazione la parte migliore della sua infanzia. [...] Ciò che più si avvicina alla «vita vera» è forse l’infanzia; l’infanzia trascorsa la quale l’uomo dispone, in più del suo lasciapassare, appena di qualche biglietto di favore; l’infanzia in cui tutto concorreva invece al possesso efficace, e senz’alea, di se stessi. Grazie al surrealismo, sembra che quelle eventualità ritornino [Cfr. ivi, pag. 43].

Anche per i surrealisti è fondamentale la dimensione dello choc, del corto circuito: «Niente gli è stato [al Surrealismo] e gli starà mai tanto a cuore come riprodurre artificialmente quel momento ideale in cui l’uomo, in preda ad un’emozione particolare, viene ad un tratto abbrancato da qualcosa «più forte di lui» che lo proietta suo malgrado nell’immortale» [Cfr. Breton, 1924, trad. it 1966, pag. 95]. Ma il discorso sulla fotografia e sul cinema, sugli choc e sulla percezione convergono. Sia nella teoria estetica delle Avanguardie e sia in Walter Benjamin. Fu lui che per primo capì realmente l’operazione messa in atto da Dada e Surrealismo:

Un errore ovvio: considerare il surrealismo un movimento letterario. In quanto tale esso è certamente poca cosa, senza influenza, una faccenda di conventicole. Ma gli scritti di questi autori formano per così dire solo la punta aguzza di un iceberg che cela la sua estesa massa sotto lo specchio del mare. È precisamente un compito della critica riconoscere a quali tendenze extraletterarie attuali si connettono questi scritti [Carte per «il surrealismo», 1929].

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Ritorna sia in Benjamin che in Breton in termine dialettico che in entrambi gli autori fonda la loro concezione e della storia e della teoria generale da essi professata. L’uso ricorrente del termine è da far risalire sicuramente all’impostazione materialistica e marxista di entrambi gli autori citati.

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Il “declino”, il “venir meno” dell’aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei mezzi di riproduzione tecnica delle opere, infatti, sarebbe il sintomo di un più vasto mutamento nei modi e nei generi della percezione sensoriale:

Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana – il medium in cui essa ha luogo –, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico [Benjamin, 1955, trad. it. 1973, pag. 24].

A ogni periodo storico, concordando con l’analisi surrealista, corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive correlate a determinate modalità della percezione, e la storia dell’arte deve essere accompagnata da una storia dello sguardo. Già la stessa pittura stava già cessando di essere semplicemente un qualcosa di osservativo-passivo:

Il Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema. [...] Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, che investono gli spettatori a scatti. Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già modificata. Non può venir fissata [Cfr. Benjamin 1936, trad. it. 1966, pp. 42-43].

Si inizia con la fotografia, essa è importante come mezzo di riproduzione ma diventa fondamentale quando dagli scatti stessi scompare l’essere umano:

Ma quando l’uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale. Il fatto di aver dato una propria sede a questo processo costituisce l’importanza incomparabile di Atget, che verso il 1900 fissò gli aspetti delle vie parigine, vuote di uomini [Cfr. ivi, pag. 28].

E Benjamin sceglie come esempio della sua epoca per spiegare questa evoluzione in fotografia Eugène Atget il primo che si mise a struccare anche la realtà, e senza dubbio a lui si deve una forma di visione pura, libera dagli orpelli del simbolico e del pittoresco. In molti casi all’interno della stessa immagine si accumula una grande quantità di piani, documentari e non, e ciò 36


contribuisce a creare quella sensazione di polisemicità che caratterizza il corpus delle opere di Atget, il fatto che sembri una miniera inesauribile, capace di cambiare senso a seconda della prospettiva critica da cui la si osserva. Probabilmente è proprio questa ambiguità che rende la sua produzione un oggetto testuale particolarmente prezioso per la sua capacità senza fine di moltiplicare le chiavi di lettura. Perché in questo nuovo tipo di fotografia non si tratta, tuttavia, di registrare la realtà asetticamente, ma piuttosto di ricrearla fotograficamente, vale a dire per mezzo di luci, ombre ed inquadrature, secondo il proprio punto di vista, sfruttando in maniera interpretativa perfino le limitazioni di un’attrezzatura e di materiali tecnicamente poco evoluti. Atget non era un teorico ma le sue fotografie venivano comprate da alcuni esponenti delle avanguardie artistiche per servirsene come base per i loro quadri. Solo dopo la sua morte gli esponenti del Surrealismo americano, in particolare Man Ray (grazie alla sua assistente Berenice Abbott), scoprirono e diffusero le sue opere che furono di grande importanza per il movimento surrealista. Ma ancor più che la fotografia, fra le fratture delle formazioni artistiche, quella operata dal film è una delle più nette:

«Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, così il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti, «che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti più rapidi, bensì quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali». Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente [Cfr. ivi, pag. 40].

Cambiamenti che non sono radicali ma sono cambiamenti dall’interno, come se ci venisse iniettato qualcosa con un ago ipodermico. Per spiegare questo processo Benjamin nella Riproducibilità tecnica si rifà all’esempio dell’evoluzione architettonica ma non delle architetture contemplative che osserviamo nei viaggi di piacere ma nelle unità abitative dove l’uomo entra, vive e tocca con mano:

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«L’architettura non ha mai conosciuto pause. La sua storia è più lunga di quella di qualsiasi altra arte; rendersi conto del suo influsso è importante per qualunque tentativo di comprendere il rapporto tra le masse e l’opera d’arte. Delle costruzioni si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in termini più precisi: in modo tattico e in modo ottico. Non è possibile definire il concetto di una simile ricezione se essa viene immaginata sul tipo di quelle raccolte per esempio dai viaggiatori di fronte a costruzioni famose. Non c’è nulla, dal lato tattico che faccia da contropartita di ciò che, dal lato ottico, è costituito dalla contemplazione. La fruizione tattica non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nei confronti dell’architettura, anzi, quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, avviene molto meno attraverso un’attenta osservazione che non attraverso sguardi occasionali. Questo genere di ricezione, che si è generata nei confronti dell’architettura ha tuttavia, in certe circostanze, un valore canonico. Poiché i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie all’intervento della ricezione tattica, all’abitudine. Anche colui che è distratto può abituarsi. più ancora: il fatto di essere in grado di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzitutto che per l’individuo in questione è diventata un’abitudine assolverli. Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il singolo sarà sempre tentato di sottrarsi a questi compiti, l’arte affronterà quello più difficile e piú importante quando riuscirà a mobilitare le masse. Attualmente essa fa questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre piú insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento piú autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di shock il cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto [Cfr. ivi, pagg. 45-46]

I cambiamenti, quindi, avvengono naturalmente senza grandi rivoluzioni e ci abituiamo ad essi attraverso la ripetizione dei gesti. Il testo dove questa assimilazione subita passivamente viene messa a tema è il saggio su Baudelaire. Quando precedentemente facevamo riferimento al fatto che «la tecnica sottoponeva il sensorio dell’uomo a un training di ordine complesso» ci riferivamo proprio a questa passività. C’è di più, la riproducibilità tecnica non riguarda soltanto la questione artistica, Benjamin è chiaro su questo, perché la rivoluzione tecnica è generale e investe tutta la realtà. In questo testo egli mostra come la riproducibilità tecnica apporti cambiamenti sostanziali alla realtà stessa e la passività tattile che l’uomo subisce nel cinema la ritrova anche in fabbrica nel nastro automatico:

Il pezzo da lavorare entra nel raggio d’azione dell’operaio indipendentemente dalla sua volontà; e altrettanto liberamente gli si sottrae. «E’ proprio – scrive Marx di ogni produzione capitalistica... che non è il lavoratore a utilizzare la condizione lavorativa, ma la condizione lavorativa ad usare l’uomo; ma solo col macchinario questa inversione acquista una realtà tecnicamente tangibile». Nel rapporto con la macchina gli operai apprendono a coordinare «i loro propri movimenti a quello uniformemente costante di

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un automa». [...] Ogni lavoro alla macchina esige [...] un precoce tirocinio dell’operaio [Cfr. Benjamin 1955, trad. it. 1962, pag. 111].

L’uomo che si forma nella fabbrica anche nella folla si muoverà come un automa rispondendo automaticamente allo choc di ogni urto con un altro passante salutando profondamente quelli da cui avevano ricevuto il colpo, una reazione automatica che ha sede nella memoria involontaria che ogni volta entra in azione per attutirci proprio da questi choc e che ripetuti in serie fondano le nuove abitudini. La fotografia è fondamentale perché amplia gli orizzonti della visione e della memoria involontaria: I procedimenti fondati sulla camera fotografica e sugli apparecchi analoghi successivi estendono l’ambito della mémoire volontaire; in quanto permettono di fissare un evento, sonoramente e visivamente, con l’apparecchio in qualunque momento [Cfr. ivi, pag. 112].

E dopo questo discorso è lo stesso Benjamin a sancire il collegamento fra la sua analisi e quella estetica messa in atto dalle Avanguardie artistiche: La crisi della produzione artistica, che così si delinea, si può considerare come parte integrante di una crisi della percezione stessa [Cfr. ivi, pag. 123].

E’ questa consapevolezza che permette a Fuchs di collezionare caricature e raffigurazioni pornografiche spingendosi in territori estremi dell’arte perché «la gerarchia dei valori che presso Winckelmann o presso Goethe determinava la concezione dell’arte, in Fuchs non esercita più alcun influsso» [Benjamin, 1955, trad. it. 1966, pag. 93]. E il fatto che le pubblicazioni curate dallo stesso Fuchs vendessero migliaia di copie (che all’epoca era davvero un grande risultato editoriale) dimostrava e avallava l’ipotesi di Benjamin e delle Avanguardie che anche le modalità percettive della folla-massa stavano cambiando. Studio dell’arte di massa e riproducibilità tecnica, quindi, vanno a braccetto perché ad ogni epoca corrispondono determinate tecniche riproduttive. Esse sono il risultato delle esigenze di una data epoca stessa che le richiede e le mette al lavoro per soddisfare le proprie esigenze.

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3. La sintesi di Moholy-Nagy: arte e sensorio

Questa nuova concezione di fotografia e cinema, messa in atto da Dada e Surrealismo e teorizzata da Walter Benjamin, trova la sua sintesi in Laszlo MoholyNagy, artista ed esponente del Bauhaus dove dal 1923 viene nominato docente di fotografia fino alla chiusura della scuola. Nella figura di Moholy-Nagy il fatto di considerare fotografia e film (cinema) come estensione del sensorio umano non è un punto di arrivo, ma una base di partenza per il resto. Egli, infatti, fu fra i primi, anticipò di quasi dieci anni le intuizioni benjaminiane, a capire che nel processo storico di trapasso dal lavoro artigianale a quello industriale è certamente implicata anche l’arte sia nella sua funzione che nei suoi valori e che questa trasformazione richiede che l’artista sia capace di instaurare un’intesa, un rapporto organico con la struttura produttiva, che implica per un verso la conoscenza delle tecniche moderne, dall’altro la consapevolezza che la produzione artistica non può più avvenire ad un livello semplicemente manuale ma richiede bensì un potente apporto ideativoprogettuale che subordina il suo compimento estetico alla messa in esercizio di quelle tecniche moderne di cui l’artista-progettatore deve saper disporre. Scrive infatti in Pittura fotografia film, ottavo dei libri editi dal Bauhaus:

La presa di coscienza di questa possibilità avrebbe infatti indotto a rendere visibili, per mezzo dell’apparecchio fotografico, fenomeni che sfuggono alla percezione o alla ricezione del nostro strumento ottico, l’occhio; cioè l’apparecchio fotografico è in grado di perfezionare, e in particolare di integrare il nostro strumento ottico, l’occhio. Questo principio era già stato messo in atto in alcuni esperimenti scientifici [...] ma questi esperimenti rimangono fatti isolati, senza che ne vengano constatate le connessioni. [...] Cento anni di fotografia e due decenni di film ci hanno incredibilmente arricchito sotto questo profilo. Si può dire che noi vediamo il mondo con tutt’altri occhi. Nonostante ciò, finora il risultato complessivo non va molto più in là di una produzione visiva enciclopedica. Questo non ci basta. Noi vogliamo produrre secondo un piano, in quanto per la vita è importante la creazione di nuove relazioni [Cfr. Moholy-Nagy 1967 34, trad. it 1987, pagg. 26-27].

Alla base della concezione di Moholy-Nagy sta l’assunto di una ricerca di nuovi legami fra i fenomeni ottici, acustici ed altri fenomeni funzionali noti o sconosciuti in modo da promuoverne l’acquisizione da parte degli «apparati 34

L’edizione preparata per gli allievi del Bauhaus risale al 1925

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funzionali» in via di costante miglioramento per passare dalla semplice riproduzione alla produzione. Riecheggiano in questi passi i testi citati di Benjamin e di Breton sul ruolo dell’artista e sui cambiamenti di funzione che egli deve mettere in atto per permettere all’uomo e alla società di migliorarsi e di andare avanti. In Moholy-Nagy la questione è sintetizzabile nella dialettica tra produzione e riproduzione che deve necessariamente risolversi in favore della prima per rifornire e trasformare necessariamente un apparato di produzione. E’ l’evoluzione stessa della fotografia ha già portato al cinema e ai nuovi metodi applicativi della tecnica cinematografica portata avanti dall’artista ungherese prima nel Bahuaus e poi nelle successive esperienze. Innovazioni possibili e necessarie perché il sensorio dell’uomo è profondamente cambiato in questi anni: «La realizzazione di simili progetti determina nuove esigenze relative alla potenzialità del nostro organo di percezione ottica, l’occhio, e al nostro centro di ricezione, il cervello. Con l’eccezionale sviluppo della tecnica e delle metropoli i nostri organi di ricezione hanno ampliato la loro idoneità a una funzione acustica e ottica simultanea. Esempi di questo genere si riscontrano anche nella vita di tutti i giorni: dei berlinesi attraversano la Potsdamer Platz. Mentre conversano, essi odono contemporaneamente: lo strombazzare delle automobili, lo scampanellare dei tram, i segnali degli omnibus, gli incitamenti dei cocchieri, il sibilo della metropolitana, le grida del venditore di giornali, il suono di un altoparlante ecc. e sanno mantenere distinte queste diverse impressioni acustiche. Invece, poco tempo fa, sulla stessa piazza, un provinciale si lasciò sconcertare talmente dalla quantità di impressioni da rimanere come inchiodato davanti ad un tram che sopraggiungeva. Ovviamente è possibile ricostruire un caso analogo con le esperienze ottiche» [Cfr. ivi, pag. 41].

4. L’Industria culturale come sistema

La civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza. Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro. Le manifestazioni estetiche anche degli opposti politici celebrano allo stesso modo l’elogio del ritmo d’acciaio. Horkheimer/Adorno, L’industria culturale

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Il termine industria culturale viene usato per la prima da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell'Illuminismo del 1942, in cui è illustrata la trasformazione del progresso culturale nel suo contrario, sulla base di analisi di fenomeni sociali caratteristici della società americana tra gli anni Trenta e Quaranta. Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”, sostituita poi con “industria culturale”, per eliminare l'interpretazione di ciò che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come una forma contemporanea di arte popolare. Ogni settore dell’industria culturale, il cinema, l’industria della musica, la radio, la carta stampata, la pubblicità, è equilibrato al suo interno ed armonizzato con gli altri e l’intero sistema contribuisce a veicolare un determinato insieme di valori e determinati modelli di comportamento. Inoltre, una strutturale interdipendenza tra produzione della cultura e settori potenti dell’industria, come quelli dell’acciaio, della chimica e dell’elettricità, fa sì che i prodotti culturali abbiano carattere tecnologico e siano ispirati esclusivamente a logiche di mercato. Tutto questo forma un sistema integrato. Il mercato di massa impone standardizzazione e organizzazione: i gusti del pubblico e i suoi bisogni impongono stereotipi di bassa qualità. I prodotti dell'industria culturale sono costruiti apposta per un consumo distratto, non impegnativo, questi prodotti riflettono, in ognuno di loro, il modello del meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non- lavoro:

Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo – ch si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante –, ma attraverso segnali. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata. Gli sviluppi devono scaturire ovunque possibile dalla situazione immediatamente precedente, e non dall’idea del tutto. [...]. L’ilarità tronca il piacere che potrebbe dare, in apparenza, la vista dell’abbraccio, e rinvia la soddisfazione al giorno del pogrom. Se i cartoni animati hanno un altro effetto oltre quello di assuefare i sensi al nuovo ritmo, è quello di martellare in tutti i cervelli l’antica verità che il maltrattamento continuo,l’infrangersi di ogni resistenza individuale, è la condizione della vita in questa società. Paperino nei cartoni animati come gli infelici nella realtà ricevono le loro botte perché gli spettatori si abituino alle proprie [Cfr. Horkheimer, Adorno, 1947, trad. it. 1966, pagg. 148-149.

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Anche l’architettura, accusata esplicitamente di essere al servizio della società dello spettacolo35 anni dopo dai situazionisti, notano Adorno e Horkheimer, è una sorta di sottomissione alla serialità negativa dell’industria: Ma i progetti urbanistici che dovrebbero perpetuare, in piccole abitazioni igieniche, l’individuo come essere indipendente, lo sottomettono ancora più radicalmente alla sua antitesi, il potere totale del capitale. Come gli abitanti affluiscono nei centri a scopo di lavoro e di divertimento, come produttori e consumatori, le cellule edilizie si cristallizzano senza soluzioni di continuità in complessi bene organizzati. [...] Ogni civiltà di massa in sistema di economia concentrata è identica, e il suo scheletro, l’armatura concettuale fabbricata da quello, comincia a delinearsi. I dirigenti non sono più così interessati a nasconderla; la sua autorità si rafforza quanto più brutalmente si riconosce. Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari, serve loro solo da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente. Essi si autodefiniscono industrie [...] [Cfr. ivi , pagg. 131-132].

Il processo principale su cui si fonda l’industria culturale riguarda il fatto che il valore d’uso di un oggetto ha ceduto il passo al suo valore di scambio: Tutto ha valore solo in quanto si può scambiare, non in quanto è di per sé qualcosa. Il valore d’uso dell’arte, il suo essere, è per loro un feticcio, e il feticcio, la sua valutazione sociale, che essi prendono per la scala oggettiva delle opere, diventa il loro solo valore d’uso, la sola qualità di cui fruiscono. Così il carattere di merce dell’arte si dissolve proprio nell’atto di realizzarsi integralmente. Essa è un genere di merce, preparato, inserito, assimilato alla produzione industriale, acquistabile e fungibile, ma il genere di merce arte, che viveva del fatto di essere venduto e di essere tuttavia invendibile, diventa – ipocritamente – l’affatto invendibile quando il profitto non è più solo la sua intenzione, ma il suo principio esclusivo. [...]. Il fatto enorme che il discorso penetra ovunque sostituisce il suo contenuto, come l’offerta di quella trasmissione di Toscanini prende il posto del suo contenuto, della sinfonia. [Cfr. ivi, pagg. 170-171].

Succede però che in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che l'unità del sistema si stringe sempre di più. Sotto le differenze, rimane l'identità di fondo: quella del dominio che l'industria culturale persegue sugli individui: ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di uguale. La macchina dell'industria culturale ruota sul posto, essa, infatti, determina essa stessa il consumo ed esclude tutto ciò che è nuovo, che si configura come rischio inutile, avendo eletto a primato l'efficacia dei suoi prodotti. Il problema è che si crea un circolo non virtuoso dove: Non si è sviluppato alcun sistema di replica, e le trasmissioni private sono tenute alla clandestinità. Esse si limitano al mondo eccentrico degli “amatori”, che – per giunta – sono ancora organizzati dall’alto. Ma ogni traccia di spontaneità del pubblico nell’ambito della radio ufficiale viene convogliata e assorbita, in una selezione di tipo specialistico, da cacciatori di talenti, gare davanti al microfono, manifestazioni

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Cfr. il capitolo II di questo elaborato.

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addomesticate di ogni genere. I talenti appartengono all’industria assai prima che questa li presenti: o non si adatterebbero così prontamente. [Cfr. ivi , pag. 132].

Il sempre uguale, in pratica, regola anche il rapporto al passato. La novità dello stadio della cultura di massa rispetto a quello tardo-liberale è l’esclusione del nuovo. La macchina ruota sur place e scarta come rischio inutile ciò che non è stato ancora sperimentato. I cineasti considerano con sospetto ogni manoscritto dietro cui non si trovi già un rassicurante best-seller: Ma il nuovo è che gli elementi inconciliabili della cultura, arte e svago, vengano ridotti, attraverso la loro sottomissione allo scopo, a un solo falso denominatore: la totalità dell’industria culturale. Essa consiste nella ripetizione. Che le sue innovazioni tipiche consistano sempre e soltanto in miglioramenti della riproduzione di massa, non è affatto estrinseco al sistema. A ragione l’interresse di innumerevoli consumatori va tutto alla tecnica, e non ai contenuti rigidamente ripetuti, intimamente svuotati e già messo abbandonati [Cfr. ivi, 146-147].

Nell’era dell'industria culturale l'individuo, infatti, non decide più autonomamente: il conflitto tra impulsi e coscienza è risolto con l'adesione acritica ai valori imposti. L’individuo è libero di scegliere, ma tale libertà è la libertà del sempre uguale. La razionalizzazione delle tecniche produttive arriva a permeare anche gli aspetti più intimi della vita umana, e genera distinzioni e differenze che danno la parvenza di libertà di scelta, ma tali differenze non sono fondate sulla realtà. Esse vengono diffuse artificialmente, attraverso il mezzo pubblicitario, per tenere in pugno i consumatori, classificarli ed organizzarli, ridurli a materiale statistico, in base a logiche economiche che prescindono del tutto dai contenuti particolari trasmessi dai mass media. Il consumatore è ingabbiato all’interno di un circolo di manipolazione e consumo e dovrà riconoscersi solo e sempre come tale: la forza dell’industria è nell’unità col bisogno che essa stessa produce. L’uomo, in pratica, è in balia di una società che lo manipola a piacere: il consumatore non è sovrano, come l'industria culturale vorrebbe far credere, non è il suo soggetto bensì il suo oggetto. Anche se gli individui credono di sottrarsi, nel loro tempo di non-lavoro, ai rigidi meccanismi produttivi, in realtà la meccanizzazione determina così integralmente la fabbricazione dei prodotti di svago, che ciò che si consuma sono solo copie e 44


produzioni del processo lavorativo stesso. Questo perché al vaglio dell’industria culturale è tutta la vita e tutto il mondo. Scrivono ancora i due studiosi: Il mondo intero viene passato al setaccio dell’industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico,a cui la strada fuori sembra la continuazione dello spettacolo appena lasciato, poiché questo vuole appunto riprodurre esattamente il mondo percettivo di tutti i giorni, è divenuta il criterio della produzione. [...]. Dalla brusca introduzione del sonoro il processo di riproduzione meccanica è passato interamente al servizio di questo disegno. La vita, tendenzialmente, non deve più potersi distinguere dal film. [...]. I prodotti stessi, a partire dal più tipico, il film sonoro, paralizzano quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Essi sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d’intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche da vietare addirittura l’attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti. È una tensione così automatica che, nei singoli casi, non ha neppure bisogno di essere attualizzata per rimuovere l’immaginazione. Chi è talmente assorbito dall’universo del film, gesti immagini e parole, da non essere in grado di aggiungergli ciò per cui solo diverrebbe tale, non sarà perciò necessariamente, all’atto della rappresentazione, tutto preso e occupato dagli effetti particolari del macchinario. Da tutti gli altri film e prodotti culturali che deve necessariamente conoscere, le prove di attenzione richieste gli sono così familiari da avvenire automaticamente [Cfr. ivi, pagg. 136-137].

L’influenza dell'industria culturale, in tutte le sue manifestazioni, porta ad alterare la stessa individualità del fruitore: egli è come il prigioniero che cede alla tortura e finisce per confessare qualsiasi cosa, anche ciò che non ha commesso. Tutto si risolve sul gioco del promettere e non dare:

L’industria culturale defrauda continuamente i suoi consumatori di ciò che continuamente promette. La tratta sul piacere emessa dall’azione e dalla presentazione è prorogata indefinitamente: la promessa, a cui lo spettacolo – in realtà – si riduce, malignamente significa che non si viene mai al quid, che l’ospite deve accontentarsi della lettura del menù. [...]. Il riso, rasserenato o terribile, segna sempre il momento in cui svanisce una paura. Esso annuncia la liberazione, sia dal pericolo fisico, sia dalle reti della logica. Il riso rasserenato è come l’eco dello scampo del potere; quello cattivo vince la paura schierandosi con le istanze che sono da temere. È l’eco del potere come forza ineluttabile. Il fun è un bagno ritemprante. L’industria dei divertimenti lo prescrive continuamente. In essa il riso diventa lo strumento di una frode sulla felicità. [...]. Offrire loro qualcosa e privarneli, è un solo e medesimo atto. Questo è l’effetto di tutto l’apparato erotico. Tutto si aggira intorno al coito, proprio perché esso non può mai aver luogo [Cfr. ivi , pagg. 150-151-152].

La partita si gioca a livello linguistico: l’industria culturale è fatta di linguaggio: L’effetto, la trovata, l’exploit isolato e ripetibile, ha legato da sempre con l’esposizione di prodotti a fini pubblicitari, e oggi ogni primo piano dell’attrice è una rèclame del suo nome, ogni motivo di successo il plug della sua melodia. Tecnicamente ed economicamente rèclame e industria culturale si fondono insieme. Nell’una e nell’altra, la stessa cosa appare in luoghi innumerevoli, e la ripetizione meccanica dello stesso prodotto culturale è già quello dello stesso slogan propagandistico. Nell’una e nell’altra,

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sotto l’imperativo dell’efficienza, la tecnica diventa psicotecnica, tecnica del maneggio degli uomini. Nell’una e nell’altra valgono le norme del sorprendente e tuttavia familiare, del leggero e tuttavia incisivo, dell’esperto e tuttavia semplice; si tratta sempre di soggiogare il cliente, rappresentato come distratto o riluttante. Col linguaggio in cui si esprime contribuisce anch’egli al carattere pubblicitario della cultura. Quanto più il linguaggio si risolve in comunicazione, quanto più le parole diventano, da portatrici sostanziali di significato, puri segni privi di qualità, quanto più pura e trasparente è la trasmissione dell’oggetto intenzionato, e tanto più, nello stesso tempo, esse divengono opache e impenetrabili. La demitizzazione del linguaggio, come elemento di tutto il processo illuministico, si rovescia in magia. Reciprocamente distinti e indissolubili, parola e contenuto erano uniti fra loro [Cfr. ivi, pag 176].

La libertà linguistica è stata così bistrattata tanto da portarne a una limitazione di uso come se le fosse applicata una camicia di forza: Ma con ciò la parola, che deve più solo designare e non significare nulla, viene talmente fissata alla cosa da irrigidirsi in formula. [...]. Se la parola, prima della sua razionalizzazione, aveva promosso, insieme al desiderio, anche la menzogna, la parola razionalizzata è divenuta una camicia di forza per il desiderio più ancora che per la menzogna [Cfr. ivi , pag. 177].

I mass media sono tecnologie capaci di trasmettere ad aggregati enormi di popolazione lo stesso contenuto, ma indipendentemente dal contenuto particolare che veicolano essi sono ideologia, perché abituano i consumatori ad essere competenti nei confronti dei messaggi, ma solo come ricettori passivi. Tramite l’invenzione moderna del tempo libero il ritmo della produzione industriale permea qualsiasi aspetto della vita del singolo. Il consumatore, infatti, concepito come atomo isolato, incapace di esercitare resistenza tramite la facoltà critica, viene facilmente manipolato dai mass media, ed integrato a pieno nell’ideologia della classe dominante. Lo spettacolo cinematografico ha adottato il mondo percettivo della realtà quotidiana a criterio della produzione. La vita non deve distinguersi dal film. La natura del prodotto filmico paralizza le facoltà critiche perché richiede solo competenze specifiche e assorbe nel suo universo l’immaginazione dello spettatore. Uno degli studiosi della Scuola di Francoforte che si è occupato approfonditamente del ruolo svolto dal cinema nella strutturazione della società (di massa) è il sociologo e filosofo tedesco Siegfried Kracauer.

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5. Il cinema e le masse

Scrivono Brunetta e Costa: «Ciò che affascina dell’esperienza e dell’avventura cinematografica nell’ambito delle avanguardie storiche è il fatto che, per naturale e unanime convergenza e congruenza di poetiche e di pratica registica, il cinema diventa la chiave magica, lo strumento culturale capace di aprire di colpo universi e prospettive impossibili per le altre arti» 36. Nel primo capitolo abbiamo cercato di dimostrare come l’elaborazione della prassi fotografica (e la parallela teorizzazione fatta dalle Avanguardie storiche quali Dada e Surrealismo) aveva prodotto un nuovo modo di intendere il rapporto arte-fotografia passando per un nuovo modo di concepire l’immagine. A ciò contribuirono decisamente anche le Avanguardie nate a cavallo fra le due guerre, addestrando l’occhio dello spettatore a codici e linguaggi che da lì a poco avrebbero conosciuto vasta diffusione. Con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente. La portata rivoluzionaria che Benjamin attribuisce alla fotografia come tecnica della riproduzione e, in maggior misura al cinema, abbiamo detto esplicitarsi sia sul piano della dissoluzione dell’aura attraverso riproduzioni che sottraggono l’opera d’arte all’hic et nunc della sua esistenza materiale e della sua fruizione, sia sul piano della rivelazione di una visibilità che rimane inaccessibile all’occhio empirico e diventa invece accessibile grazie alla mediazione del dispositivo. Proprio questa mediazione ha permesso al cinema di determinare un significativo approfondimento delle nostre capacità percettive. Ma c’è di più. Benjamin, infatti, mostra come la passività tattile che l’uomo subisce nel cinema la ritrova anche in fabbrica nel nastro automatico perché la macchina condiziona, modifica le abitudini dell’operaio attraverso un vero e proprio tirocinio alla macchina.

36

Brunetta, Gian Piero, Costa Antonio (a cura di), 1990, pag. 19.

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Il pieno riconoscimento del cinema avvenne dopo la Prima Guerra Mondiale, quando esso fu universalmente accettato e riconosciuto in quanto nuovo e potente medium. «Molti videro chiaro, sullo sviluppo del linguaggio cinematografico, compresero cioè le sue molteplici possibilità e la sua disponibilità per l’uso tecnico scientifico, ma pochi riuscirono a prevedere l’enorme successo che avrebbe avuto presso le masse come spettacolo e presso gli intellettuali come arte»37.

5.1 Configurazioni ornamentali

Dell’azione operata sui sensi delle immagini (e del cinema) si interessò anche Siegfrid Kracauer (1889-1966). Il sociologo e filosofo tedesco in Teoria del film (edizione originale del 1960) studiando il ruolo dello spettatore spiega come:

Immagini diverse suscitano reazioni diverse; alcune si rivolgono direttamente sull’intelletto, altre funzionano come semplici simboli o qualcosa di analogo. Supponiamo che, diversamente da altri tipi, le immagini filmiche colpiscano in primo luogo i sensi dello spettatore, impegnandolo fisiologicamente prima che sia in grado di reagire intellettualmente. Tale ipotesi può essere sostenuta con gli argomenti che seguono: In primo luogo, il cinema rappresenta la realtà fisica per se stessa. Colpita del carattere reale delle immagini che ne risultano, lo spettatore non può reagire come reagirebbe agli aspetti materiali della natura viva riprodotta da queste immagini fotografiche. Ecco perché fanno appello alla sua sensibilità. È, come se, con la loro mera presenza, lo inducessero ad assimilare senza pensarci le loro forme indeterminate e spesso amorfe. In secondo luogo, in accordo con i suoi impegni di registrazione, il cinema rende il mondo in movimento. [...] Il movimento è l’alfa e l’omega del mezzo. Sembra che il vederlo abbia un «effetto di risonanza», provocando nello spettatore reazioni cinestetiche come riflessi muscolari, impulsi motori, o simili. In ogni caso il movimento agisce come stimolo fisiologico [Cfr. Kracauer, 1960, trad. it 1995, pag. 253].

Il movimento della pellicola38 fa breccia più della fotografia (anche se è costellato di esse) perché riproduce, appunto, il sistema della visione umana. Con la visione del film i nostri organi sensori sono chiamati in gioco favorendo le tensioni organiche, le eccitazioni indefinite. I film, dunque, tendono ad abbassare la consapevolezza dello spettatore: esso lo induce a rinunciare all’uso delle sue capacità 37

Abruzzese, Alberto, 1969 p. 664. Lo stesso dirà poi della televisione la quale «si nutre sempre più del cibo prima somministrato nelle sale di distribuzione» [Cfr. Kracauer, 1960, trad. it 1995, pag. 263 e segg.]. 38

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mentali e superiori, l’io perde la sua funzione di controllo perché ci si identifica con le sue immagini. Trasporre in immagini gli avvenimenti contemporanei dà sempre luogo al pericolo di influenzare la massa facilmente eccitabile contro potenti istituzioni che, in realtà di attraente hanno ben poco. Spiega Kracauer ne Le piccole commesse vanno al cinema39:

La società è troppo potente per consentire pellicole diverse da quelle a lei gradite. Che lo si voglia o no, il film deve rispecchiare la società. Ma è veramente la società che si mostra nei film di cassetta? [...] Di solito il film di cassetta e la vita coincidono tra di loro, perché le dattilografe modellano la loro esistenza sugli esempi dello schermo [...] [Cfr. ivi, pag. 86].

I film, dunque, si propongono di essere lo specchio della società moderna ma essendo finanziati dai grandi produttori che per fare breccia nei consumatori devono piegarsi ai loro gusti e mai essi produrranno spettacoli che possano attaccare le fondamenta stesse della società perché altrimenti ne risentirebbe il loro potere stesso. Kracauer spiega ancora «Per analizzare la società di oggi bisognerebbe stare ad ascoltare ciò che i prodotti della grande industria cinematografica rivelano. Pur senza averne l’intenzione, spiattellano tutti un grossolano segreto. Nell’infinita serie dei film ritorna sempre un limitato numero di motivi tipici, che mostrano come la società ama vedersi. La quintessenza dei motivi dei film è allo stesso tempo la somma delle ideologie sociali, che vengono smascherate dall’interpretazione di questi motivi» [Cfr. Kracauer 1963, trad. it 1982, pag. 88]. La serie di racconti scritta da lui stesso, Le piccole commesse vanno al cinema, ne è un esempio: essa dimostra come in realtà il cinema porti sullo schermo quello stato di bisogno che conduce a delitti diversi da quelli propriamente sociali. Si evitano riferimenti alle differenze di classe, alla situazione della classe operaia lasciando spazio ai sogni ad occhi aperti di chi guarda i film. Al contrario, i film, con il loro mostrare il riscatto del singolo, impediscono quello dell’intera classe la quale si appaga immedesimandosi nel protagonista del sogno sullo schermo. L’analisi di Kracauer mostra come la nascita di quella che Adorno ed Horkheimer per primi definirono industria culturale abbia ben imparato la lezione 39

Il saggio è del marzo del 1927.

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delle Avanguardie: la fotografia ed il cinema hanno creato il pubblico, o meglio, la massa. Scrive il sociologo tedesco:

Elemento portante delle figurazioni ornamentali è la massa, non il popolo; infatti, quando è il popolo a creare figure, esse non vivono in una dimensione astratta, ma si sviluppano dal seno della comunità. [...] Se entrassero a far parte dello spettacolo, non potrebbero passare inosservati tra gli elementi della coreografia. Ne risulterebbe una variopinta composizione, non completamente calcolabile, giacché, come le punte di un rastrello, i suoi vertici affonderebbero negli strati intermedi dell’anima, dei quali rimarrebbe ancora un residuo. I modelli degli spettacoli negli stadi e nei cabaret non rivelano affatto una simile origine. Vengono composti con elementi che sono solo pietre da costruzione e niente altro. [...]. È la massa che viene utilizzata: solo in quanto membri della massa e non in quanto individui, che credono di ricevere dal profondo una loro propria forma, gli uomini sono frammenti di una figura [Cfr. ivi , pagg. 100-101].

Le ragazze (Girls) che ballano creano solo figure accessoriali, decorative, ornamentali – appunto – che creano una configurazione di elementi meramente decorativi e svuotati di contenuti che le rendono indecifrabili:

La struttura di queste figurazioni ornamentali di massa – continua Kracauer – rispecchiano quella dell’attuale situazione generale 40. Il principio del processo produttivo capitalistico non ha nella natura la sua immediata origine, deve dunque spezzare gli organismi naturali che rappresentano soltanto un ostacolo, o tutt’al più uno strumento. Quando ciò che si richiede è la calcolabilità, si dissolvono comunità popolari e personalità; l’uomo può, senza attriti, scalare tabelle e servire macchine solo come particella della massa. Indifferente alle diversità della forma, il sistema porta di per sé a cancellare ogni particolarità nazionale, a fabbricare masse operaie che, in tutti i punti della terra, possono essere impiegate in modo uniforme. Il processo produttivo capitalistico è fine a se stesso come le figurazioni ornamentali delle masse. Le merci che produce non sono prodotte per essere possedute, ma solo per accrescere senza limiti il profitto. La sua crescita è legata a quella dell’azienda. Il produttore non lavora per un guadagno personale, di cui può godere solo in minima misura [...] il produttore lavora per ingrandire l’azienda [Cfr. ivi, pag. 102].

I valori divengono secondari, il lavoro diventa secondario. Simile al disegno che le Girls mettono in scena nello stadio, l’organizzazione è al di sopra delle masse, figura mostruosa, a mala pena intesa nel suo insieme da colui che l’ha disposta e da questi sottratta alla vista di coloro che la realizzano. Essa è progettata secondo principi tradizionali, di cui il Taylorismo non è che l’estrema conseguenza. In fabbrica le gambe delle Girls corrispondono alle braccia e alle mani.

40

Il saggio è del marzo del 1927.

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Le figure a cui la massa dà forma sono il «riflesso estetico di quella razionalità cui tende il sistema economico dominante» 41. Lo svolgimento del processo produttivo, infatti, non viene regolato tenendo conto dell’uomo e né l’organizzazione socio-economica si basa su di lui. L’attacco delle immagini che dissolve la memoria42 mostra l’elaborazione di un lavoro sull’elemento di massima astrattezza, il linguaggio. Costruire una costellazione di immagini che spazzi via gli argini della memoria altro non vuol dire che i produttori hanno imparato a modificare a monte il processo di montaggio delle stesse costruendo un tipo di linguaggio diverso da quello prospettato da MoholyNagy, Benjamin e dalle Avanguardie. Sono andati a scuola da loro ed hanno utilizzato le loro teorie per fini diversi come sbarrare l’accesso alla ragione:

L’educazione fisica assorbe le energie, mentre la produzione e il consumo sconsiderato delle figura ornamentali distraggono dai mutamenti dell’ordine vigente. Alla ragione viene sbarrato l’accesso, se le masse nelle quali dovrebbe penetrare si abbandonano alle sensazioni concesse loro da un culto mitologico privo di divinità. Non per nulla la rilevanza sociale di questo culto è pari a quella degli spettacoli circensi istituiti dai detentori del potere dell’antica Roma [Cfr. ivi, pag. 109].

Parafrasando l’analisi kracaueriana, il punto cruciale è che mentre la produzione materiale di oggetti è demandata al sistema di macchine automatizzato 43, la produzione dell’industria culturale, l’attività senza opera44, ossia l’attività comunicativa che ha in se stessa il proprio compimento, assomiglia sempre di più a prestazioni linguistiche. Il parlante, infatti, è l’unico in grado di fare a meno di uno spartito o di un copione per produrre un discorso normale e questo processo di produzione culturale, che prende le mosse dall’esperienza linguistica in quanto tale, è lo stesso di quello che sta alla base della produzione delle configurazioni ornamentali, analizzate da Kracauer ne La massa come ornamento che altro non sono 41

Cfr. ivi, pag. 103. Cfr. ivi, pag. 123. 43 Cfr. Taylorismo e Fordismo: Con il termine fordismo si usa indicare una peculiare forma di produzione basata principalmente sull'utilizzo della tecnologia della catena di montaggio (assemblyline) al fine di incrementare la produttività. La parola Fordismo fu coniata attorno al 1916 per descrivere il successo ottenuto nell'industria automobilistica a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (1863 - 1947), ispiratosi alle teorie proposte dal connazionale Frederick Taylor (1856 – 1915). 44 Facciamo qui riferimento ai passi dell’Etica Nicomachea di Aristotele sulla differenza di principio tra prassi (politica, attività senza opera) e poiesi (produzione, con opera) considerando tutti i lavori che implicano l’uso del linguaggio come attività senza opera. Tra gli esempi: il pubblicitario, il politico, l’artista, il prete. 42

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che la matrice del postfordismo, rintracciabili in quella che abbiamo definito Industria culturale. In essa, infatti, l’attività senza opera, ossia l’attività comunicativa che ha in essa stessa il proprio compimento, è un elemento caratterizzante, centrale, necessario. Ma proprio per questo motivo, è anzitutto nell’industria del lavoro salariato ha coinciso con quella dell’azione politica45. Riecheggia qui la predittiva analisi che Horkheimer ed Adorno fecero dell’industria della comunicazione in Dialettica dell’Illuminismo nel saggio su L’industria culturale, trattata ampiamente nell’ultima parte del primo capitolo. Per loro, ricordiamolo, anche le fabbriche dell’anima quali editoria, televisione, cinema e radio, si conformano ai criteri fordisti della serialità e della parcellizzazione poiché in esse si afferma la catena di montaggio fino ad allora tipica della costruzione delle macchine. Il capitalismo mostra di poter meccanizzare e salariare persino la produzione spirituale proprio come è avvenuto per agricoltura ed industria.

45

Cfr Virno, Paolo, 2002 pag. 47 e segg.

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SECONDO CAPITOLO IL LINGUAGGIO MESSO AL LAVORO (SUL PALCOSCENICO)

Ciascuno è figlio delle proprie opere Debord, introduzione alla IV ed. italiana della Società dello Spettacolo

3. C’è spettacolo e “spettacolo”

Le analisi di Kracauer sulle configurazioni ornamentali e quelle di Adorno/Horkheimer sull’industria culturale trovano la loro sintesi nella nozione di spettacolo elaborata da Guy Debord in quegli anni e teorizzata nello scritto La società dello spettacolo, edita nel 1967. Qui lo “spettacolo” diventa termine tecnico e si differenzia dalla nozione classica di spettacolo inteso come puro e semplice rappresentazione, manifestazione, specialmente di tipo teatrale, cinematografico, televisivo, che si svolge davanti a un pubblico riunito appositamente:

Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, poiché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale. Lo spettacolo è materialmente «l’espressione della separazione e dell’estraniarsi tra uomo e uomo». «La nuova potenza del reciproco inganno» che vi si è concentrata ha la sua base in questa produzione, attraverso la quale «con la massa degli oggetti cresce ... il regno degli esseri estranei ai quali l’uomo è soggiogato». È lo stadio supremo di una espansione che ha ritorto il bisogno contro la vita. «Il bisogno del denaro è dunque il vero bisogno prodotto dall’economia politica, e il solo che essa produca» (Manoscritti economico-filosofici). Lo spettacolo estende a tutta la vita sociale il principio che Hegel, nella Realphilosophie di Jena, concepisce come quello del denaro; è «la vita di ciò che è morto, che si muove in sé stesso» [Cfr. Debord, 1967, trad. it. 2002, tesi 215 pag. 156].

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Per un verso, lo spettacolo è, riprendendo quanto detto nel paragrafo precedente, la comunicazione umana divenuta merce, una merce tra le altre da acquistare e fruire distrattamente, sprovvista di speciali competenze. Si tratta solo del prodotto particolare di un’industria particolare, quella detta culturale, dotata di sue tecniche peculiari. Per un altro verso, però, lo spettacolo oltrepassa il proprio ambito settoriale, coinvolgendo l’intera produzione sociale. Torna qui l’eco dell’analisi di Kracauer quando a proposito della struttura delle configurazioni ornamentali affermava: La struttura di queste figurazioni ornamentali di massa rispecchiano quella dell’attuale situazione generale. Il principio del processo produttivo capitalistico non ha nella natura la sua immediata origine, deve dunque spezzare gli organismi naturali che rappresentano soltanto un ostacolo, o tutt’al più uno strumento [Cfr. Kracauer, 1963, trad. it 1982 pag. 102].

Le figure a cui la massa dà forma sono il «riflesso estetico di quella razionalità cui tende il sistema economico dominante»46. E ancora:

Segno della posizione in cui si trova oggi il pensiero capitalistico è la sua astrattezza. Il prevalere dell’astrattezza determina un’area culturale che comprende ogni manifestazione. Se, contro questo pensiero astratto, si obietta che non sarebbe in grado di comprendere i veri contenuti della vita e perciò dovrebbe cedere il posto ad una più concreta considerazione dei fenomeni, si colgono certamente i limiti dell’astratto, ma è una obiezione affrettata, se va a vantaggio di quella falsa e mitologica concretezza che scorge nell’organismo e nella forma il suo fine ultimo. Ritornando ad essa, si rinunzierebbe all’acquisita capacità di astrazione, senza superare l’astrattezza che è piuttosto l’espressione di una razionalità irrigidita [Cfr. ivi, pag. 105].

Ambiguo come l’astrattezza è il disegno in cui si configura la massa: le gambe delle Girls non sono che l’astratto contrassegno dei corpi. Nella configurazione ornamentale la ragione non è penetrata e i suoi disegni sono muti. Il problema, dunque, non è il bombardamento di immagini o l’abuso del mondo visivo. È il modo di produzione a essere in questione. Scrive Debord:

Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo, prodotto dalle tecniche di diffusione massiva delle immagini [...]. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. 46

Cfr. Kracauer 1963, trad. it 1982 pag. 103.

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Non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. E’ il cuore dell’irrealismo della società reale. [...] È l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è un corollario [Cfr. Debord, 1967, trad. it 2002, pag. 44].

Il tempo delle immagini è solo il tempo in cui gli strumenti dello spettacolo vengono esercitati in pieno:

Il tempo pseudo-ciclico consumabile è il tempo spettacolare, contemporaneamente come tempo del consumo delle immagini, nel senso stretto del termine, e come immagine del consumo del tempo, in tutta la sua estensione. Il tempo del consumo delle immagini, medium di tutte le merci, è inseparabilmente il campo dove si esercitano appieno gli strumenti dello spettacolo, e il fine che questi presentano globalmente, come luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: si sa che i risparmi di tempo costantemente ricercati dalla società moderna – che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso delle minestre in polvere – si traducono positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la contemplazione della televisione le occupa da sola da tre a sei ore al giorno di media. L’immagine sociale del consumo del tempo, da parte sua, è dominata esclusivamente dai momenti di tempo libero e di vacanze, momenti rappresentati a distanza e desiderabili per postulato, come ogni merce spettacolare. Questa merce viene qui esplicitamente data come il momento della vita reale, di cui si tratta di attendere il ritorno ciclico. Ma in questi stessi momenti assegnati alla vita, è ancora lo spettacolo che si dà da vedere e da riprodurre, raggiungendo un grado più intenso. Ciò che è stato rappresentato come la vita reale si rivela semplicemente come la vita più realmente spettacolare [Cfr. ivi, tesi 153 pag. 127].

L’omogeneità e l’astrattezza della merce sono lo sfondo all’analisi di Debord circa il concetto filosofico di spettacolo e mostrano importanti punti di contatto con la nozione di configurazione ornamentale di Kracauer (anch’essa di natura astratta e omogenea e vuota) e con la critica alla ciclicità dei prodotti dell’industria culturale di Adorno/Horkheimer47. I punti d’intersezione tra queste linee di pensiero sono riconducibili ad una critica spasmodica della società capitalistica, degli usi e dei consumi della nuova avvilente borghesia, dell’impoverimento culturale a vantaggio di una diffusione tanto dilagante quanto inarrestabile dell’intrattenimento mediatico e tecnologico. Ciò che fa la differenza, in Debord, è l’universalizzazione desolante del modo in cui il sistema capitalistico ha preso il sopravvento: non in termini di consumo o di svago (o per lo meno, non solo) ma in termini di produzione. È qui, nella produzione della merce, che va ricercata la chiave di lettura dell’opera di Debord48. Lo spettacolo non è inteso come la genuina e più importante espressione della dittatura dei mass-media, essa, infatti, ne è solo una conseguenza in 47 48

Cfr. supra. Cfr. Debord, 1967, trad. it 2002, tesi 6 pag. 44.

55


quanto viene ad essere la marca della stessa economia, il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo. Lo spettacolo è l’economia ormai interamente autonomizzata:

«Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppatesi per se stessa. È il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori [Cfr. ivi, tesi 16 pag. 47].

Con le parole di Agamben: Solo dopo aver falsificato l’insieme della produzione, essa può ora manipolare la percezione collettiva ed impadronirsi della memoria e della comunicazione sociale per trasformarle in un’unica merce spettacolare, in cui tutto può essere messo in discussione, tranne lo spettacolo stesso, che, in sé, non dice altro che “ciò che appare è buono e ciò che è buono appare [Cfr. Agamben, 1999, pag. 9].

È qui che, seguendo l’analisi di Debord, la merce diviene spettacolo. Il diventar immagine del capitale, infatti, non è che l’ultima metamorfosi della merce, in cui il valore di scambio ha ormai completamente eclissato il valore d’uso e, dopo aver falsificato l’intera produzione sociale, può ormai accedere a uno statuto di sovranità assoluta e irresponsabile sulla vita intera. Nella tesi 47 Debord annota: Questa costante dell’economia capitalistica che rappresenta la caduta tendenziale del valore d’uso sviluppa una nuova forma di privazione all’interno della sopravvivenza aumentata, la quale non si è affatto affrancata dall’antica penuria, poiché esige la partecipazione della grande maggioranza degli uomini come lavoratori salariati, al proseguimento infinito del suo sforzo, e che ciascuno sappia che si deve sottomettere o morire. È la realtà di questo ricatto, il fatto che l’uso sotto la sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, è questa la base reale dell’accettazione dell’illusione in generale del consumo delle merci moderne. Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale e lo spettacolo la sua manifestazione generale [Cfr. Debord, 1967, trad. it 2002, pag. 61].

Lo sviluppo della potenza economica sotto forma di merce ha alterato il lavoro umano rendendolo lavoro-merce e porta alla creazione di una abbondanza che innegabilmente risolve la questione della sopravvivenza, ma, allo stesso tempo, crea 56


una situazione di pseudo-bisogno che si ripropone continuamente, innescando una sorta di circolo vizioso: si consuma perché si è portati a farlo da questo pseudobisogno senza che ce ne sia una necessità reale. Cogliere lo spettacolo in quanto attestazione di un modo di produzione alienato significa comprendere come l’alienazione si sia estesa dal prodotto, dalla merce, alla vita del lavoratore. Secondo Debord lo spettacolo non è che una fabbricazione tangibile dell’alienazione: «L’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla propria vita» [Cfr. Debord 1967, trad. it 2002 pag. 54]. Lo spettacolo, di conseguenza, è «il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» [Cfr. ivi, pag. 55] ed è così rilevante da definire il rapporto sociale fra gli individui nelle immagini dello spettacolo, prodotte dalla merce e dal suo consumo. L’abbondanza nella produzione delle merci ha portato ad un miglioramento nelle condizioni dei lavoratori, ma ha portato anche ad un aumento quantitativo che ha svalutato gli elementi qualitativi della vita. L’abbondanza delle merci porta l’uomo ad accettare la miseria di questo stato di sopravvivenza fino ad assuefarsi all’illusione della scelta, ed è proprio l’illusione della scelta il bersaglio teorico a cui tendono le tesi debordiane per cercare di mettere alla berlina questo stato infetto di passività generalizzata generato dal consumo smodato della merce attraverso beni contraffatti e bisogni artefatti. Scrive Debord nelle tesi 30 e 32:

L’alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua attività incosciente) si esprime così: più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. [...]Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione. L’espansione economica è principalmente l’espansione di questa precisa produzione industriale. Ciò che cresce con l’economia che si muove per sé stessa non può essere che l’alienazione che era già presente nel suo nucleo originario [Cfr. ivi, pag. 53].

L’alienazione generata dallo spettacolo implica un’apatia contemplativa che rende affascinante ciò che dovrebbe inorridire per la sua banalità somministrata in 57


serie, per la sua miseria standardizzata, per la sua mediocrità ricoperta di gloria, per il surplus di produzione inutile ed inutilizzabile rifilato come necessità irrinunciabile. La potenza cumulativa della “cosa” viva e autonoma, il consumo obbligato, comporta una totale falsificazione della socialità. Ciò che ci viene offerto, secondo Debord, non è che un simulacro alterato di una presunta (felice) unità della società dettata dall’incontestabile collante del consumo, che genera sogni sempre nuovi di appagante benessere pronti per essere consumati e presto dimenticati. Condannato ad un assordante silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le meravigliose immagini che altri hanno scelto per lui: lo spettacolo implica infatti l’assoluta passività da parte dello spettatore-acquirente il quale è interamente dominato dal flusso delle immagini, che si è oramai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale in cui è vero solo ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra in quelle cose selezionate dal potere è semplicemente falso oppure non esiste. La società dello spettacolo è percorsa da questo scenario desolante di mercificazione spettacolare in cui siamo tutti integrati49, come in un grande imbroglio, continuato e aggravato, e

in cui non ci accorgiamo del danno che

subiamo.

1.1 Guy Ernest Debord e il Situazionismo

Debord è il personaggio più importante del movimento detto Internazionale Situazionista (abbreviato I.S.). Questo movimento, fondato nel 1957 in Italia come nuova avanguardia estetica europea, e formatosi nell’ambito dell’ormai svigorita cultura surrealista di cui rinnovava l’istanza bretoniana della trasformazione del sociale, ebbe tre dirette e precise ascendenze storiche: il movimento Cobra (19481951, che riuniva nel 1948 gruppi neosurrealisti in Danimarca, Belgio e Olanda), il Movimento 49

Internazionale

per

una

Bauhaus

immaginista

(1953-1957)

e

Cfr. infra, I Commentari alla Società dello spettacolo.

58


l’Internazionale Lettrista (1952-1957), gruppo scissionista del Lettrismo di Isidore Isou, che dal 1945 a Parigi svolgeva un violento programma di sovvertimento culturale. Lo stesso Debord, infatti, intende il sovvertimento culturale come inscindibile da quello sociale: arte e politica d’ora in poi, per lui e per il nuovo gruppo, devono essere affrontate insieme. La critica della vita quotidiana situazionista è condotta attraverso una rilettura marxiana delle condizioni di esistenza inerenti al capitalismo avanzato nella società moderna50 quali la pseudoabbondanza dei costumi, la riduzione della vita a spettacolo, l’urbanistica repressiva e l’ideologia per riscattare e trasformare la società dando all’arte un ruolo di soggetto rivoluzionario. In una situazione storica europea incapace di recepire le istanze di rinnovamento, l’I.S. non poteva che assumere le forme provocatorie delle avanguardie artistiche storiche (Dada e Surrealismo), delle quali ne raccoglie la cui eredità, radicalizzandole, e, in ultima analisi, giungendo a una radicale politicizzazione dell’arte. Lo sperimentalismo e la ricerca, infatti, erano stati del resto una delle direttrici fondamentali del Surrealismo dalla sua fondazione (1924), insieme ad un grande interesse per le indagini antropologiche, sociologiche e etnologiche. Il gruppo intorno a Breton concepiva infatti l’arte come esperienza creativa, diritto inalienabile dell’uomo e condannava ogni forma di dogmatismo culturale ed estetico che poteva condurre a un’arte aristocratica e privilegiata, nata dal potere per il potere. Riprendendo alcune posizioni della cultura anarchica, i surrealisti privilegiavano, più che l’opera, l’atto creativo, la spontaneità dell’azione, l’autenticità del sentimento. Il momento artistico è parte della vita, e, proprio per questo, deve avere una dimensione sociale e politica. La lezione surrealista, dicevamo, viene fatta propria dai situazionisti e, almeno agli inizi, la pittura d’azione, come ad esempio i rotoli di Pittura industriale di Pinot Gallizio, è non solo azione vitale e liberatrice, ma esperienza totale dell’uomo sociale e storico. L’arte deve essere trasferita direttamente nel campo dell’esperienza. Oltre

il

fondamentale

apporto

della

programmaticità

surrealista,

nell’ideologia, prima di Cobra e poi Situazionista, confluisce anche un altro elemento 50

È in questo clima ideologico che Debord scriverà le tesi sulla società dello spettacolo.

59


dominante (anche esso formatosi in ambiente surrealista e marxiano): il pensiero di Henri Lefebvre di cui era uscito nel 1946 a Parigi il primo volume della Critique de la vie quotidienne. In questo testo, riprendendo il progetto surrealista di una trasformazione, metamorfosi della vita, arenatosi in Breton, egli analizza l’enorme ricchezza della quotidianità teorizzando che la trasformazione della vita quotidiana doveva avvenire all’interno di essa. Una critica, quindi, a quella che nel secondo volume dell’opera, edito nel ‘61, definirà société de consommation. Da qui il programma di sovvertimento, con la teoria dei momenti della vita quotidiana che Lefebvre svolgerà parallelamente, in collegamento con la teorizzazione della costruzione delle situazioni situazionista. Scrive l’architetto e pittore olandese Nieuwenhuys Constant nel quarto fascicolo della rivista Cobra del gruppo omonimo: La sperimentazione è un mezzo necessario per conoscere la sorgente e il fine delle nostre aspirazioni, le loro possibilità, i loro limiti [...] parlare di desiderio, significa parlare dello sconosciuto, del desiderio di libertà [...]. La liberazione della nostra vita sociale, che proponiamo come impegno elementare, ci aprirà le porte di un mondo nuovo [...] [Cfr. Bandini, 1977, pag. 27].

La totale liberazione da tutte le alienazioni, dunque, diverrà la tematica fondamentale dell’Internazionale Situazionista. Debord e l’I.S. trasformano, infatti, la problematica dei giovani da soggetto economico-sociale a soggetto politico (e il loro ruolo, a seguito della crescita quantitativa nell’istruzione secondaria e universitaria), inserendola nel vivo della forza specifica della lotta di classe, in un percorso che dal 1957 giunge alla famosa brochure De la misère en milieu ètudiant di Mustapha Khayati, che aprirà lo scandalo di Strasburgo nel 1966-1967. La situazione europea del 1968 vedrà gli studenti e poi la classe operaia protagonisti di una critica di massa non solo di una istituzione ma dell’intera organizzazione della società. Al contrario del modus operandi delle opere culturali, ben mostrato dall’analisi sul cinema operata da Kracauer ne La massa come ornamento, Asger Jorn, uno dei maggiori situazionisti e tra i fondatori dell’I.S., scriveva nel suo Immagine e Forma: «L’estetica di un oggetto non è l’armonia formale dell’insieme, o dei sui dettagli, o della sua funzione, ma la sua comunicazione, il suo effetto immediato sui nostri sensi, senza tener conto della sua utilità o del suo valore 60


strutturale: deve svegliare la nostra curiosità, la nostra intelligenza, sorprenderla. Il nuovo è identico allo sconosciuto. E lo sconosciuto è perfettamente inutile» [Cfr. Bandini, 1977, pag. 77]. Alla base del Situazionismo, infatti, c’è la formulazione del concetto di situazione, intesa come costruzione concreta di ambienti momentanei della vita, dove le parole vita e ambiente vanno intese nella maniera onnivora e totalizzante, interamente improntata al culto dell’effimero e dello spreco di libere energie vitali, immaginative e creative... in opposizione alla vecchia nozione finita e conclusa di opera. La situazione agisce in due direzioni, una ambientale (esterna) che prevede attraverso il riciclaggio di vecchie pratiche e strutture preesistenti la creazione di forme nuove (Dètournement), e che presto si allargherà alla dimensione degli oggetti industriali e dei paesaggi urbani,ed un’altra di carattere comportamentale (interna) esposta attraverso il culto del rischio e della sorpresa nel lasciarsi trascinare dagli eventi accidentali (Dèrive). La situazione diventa la pratica e la teoria fondante di un nuovo modo di costituire il procedimento artistico, che vede nella transitorietà degli atti il suo punto centrale, nella esaltazione dell’effimero una dichiarazione d’intenti. Nascono così diverse forme di tecniche di condizionamento e straniamento:

la Pittura industriale, il quale intento è di inflazionare il valore artistico delle opere, realizzando decine di metri di tele pitturate; la Psicogeografia, che studia gli effetti dell’ambiente geografico esercita sul comportamento affettivo degli individui; l’Urbanistica unitaria, che prevede un ruolo attivo dell’artista come costruttore materiale degli ambienti al fine di creare spazi di vita oltre il rigido funzionalismo degli architetti; il Dètournement, il nucleo sta nella perdita del significato originale di un elemento che unito ad altri ne crea uno nuovo modificando il concetto finale,una sorta di negazione dell’arte attraverso la comunicazione immediata di ogni nuovo elemento. Tecniche

che

nascono

dalla

necessità

di

riappropriazione

e

autodeterminazione del proprio ambiente di vita che ogni singolo essere umano dovrebbe mettere in atto perché tutti devono sono artisti51. 51

Riecheggia anche in questo punto un concetto surrealista, quello di negazione del talento. I surrealisti, infatti, furono i primi a proclamare di non aver talento e che il talento letterario non esiste.

61


Sono questi i punti alla base dell’I.S. che viene fondata ufficialmente il 28 luglio 1957 a Cosio d’Arroscia in provincia di Imperia in Italia. I fondatori sono: Ralph Rumner, Michèle Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn, Walter Olmo, Pinot Gallizio, Piero Simondo ed Elena Verrone. Il loro fine è dilatare l’esperienza e l’attività conoscitiva a settori e problemi emarginati dalla ragione borghese52. Risente di questo giudizio anche la figura dell’artista. Egli infatti, attraverso l’Urbanismo unitario, cessa di essere l’artefice di forme inutili ed inefficaci per diventare il costruttore di ambienti e modi di vivere completi, trasformando non solo la struttura urbana, ma anche il comportamento degli abitanti attraverso il gioco, il nomadismo e l’avventura: in questo modo si sviluppano e si concretizzano gli aspetti autenticamente liberatori e rivoluzionari impliciti nell’attività artistica. Mentre attraverso la dérive e la psicogeografia si attua l’osservazione analitica ed ecologica dell’ambiente urbano da cui passa inevitabilmente il rilancio della soggettività, della quotidianità, nella costruzione delle situazioni, infine, si attua il recupero della socialità, dell’istinto, dell’impulso, dell’avventura da parte dell’uomo urbano53. Il superamento dell’arte messo in atto nell’urbanismo unitario porta ad un rifiuto dell’opera, ad una rottura con gli ambienti artistici e con la critica d’arte in una totale ripulsa del mondo culturale. E in questo clima che nasce la pittura industriale di Pinot Gallizio, ovvero l’idea di lunghissime tele dipinte avvolte su rulli, da vendere a metro nelle strade, nei mercati, nei grandi magazzini, cioè pittura da usare in dètournement, come quadro su cui sedersi con cui vestirsi e vivere negli ambienti mobili del nuovo urbanismo in una sintesi di arte e vita. La pittura industriale è il nodo centrale della teoria del superamento dell’arte situazionista, cioè la banalizzazione dell’arte, delle configurazioni ornamentali, con la distruzione del valore-merce e il suo consumo immediato in azioni collettive 54. L’arte deve essere superata dalla situazione per permettere alle nuove pratiche di costruire il presente in modo rivoluzionario e liberatorio, così come è ora fare arte è allontanarsi dalla realtà è servire il mercato e la sua nicchia di vuoto elitarismo. Un utilizzo gioioso e sregolato delle proprie energie biologiche e mentali che attraverso i mezzi artistici situazionisti creano le condizioni di un superamento del concetto di arte, scavalcando 52

Cfr. Bandini, 1977, pag. 96. Cfr. Perniola citato in Bandini, 1977, pag. 97. 54 Cfr. Bandini, 1977, pag. 98. 53

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l’immutabilità recuperando con la sperimentazione e la ricerca l’uso della nostra apparecchiatura sensoria, facendosi vita e mettendo fine alla massa come ornamento. Per la prima volta dopo il Surrealismo, arte e politica sono affrontate insieme nel Rapporto sulla costruzione delle situazioni con un programma le cui linee di tendenza vengono nettamente tracciate da Debord. Richiamandosi a Lefebvre, egli sostiene che il fallimento del Surrealismo, a cui essi si richiamano, è da ricercarsi nel distacco dalla quotidianità: bisogna invece immettere l’arte nella vita dandole un ruolo di soggetto rivoluzionario. Debord notò come la povertà culturale ufficiale e il suo monopolio sui mezzi di produzione culturale determinino una povertà proporzionale nella teoria delle manifestazioni dell’avanguardia. La costituzione dell’I.S. cercò di invertire questa tendenza cercando di entrare direttamente nella vita, nel quotidiano. La situazione è creata per essere vissuta dai suoi costruttori, gli esseri umani stessi. Per inventare le situazioni bisogna approfondire i momenti accentrandovi gli istanti, trasformarli e decentrarli. Il suolo passivo del pubblico deve diminuire, fino a divenire parte vivente. Si devono dunque moltiplicare gli oggetti e i soggetti poetici, oggi talmente rari che anche i minimi assumono un ruolo esagerato. Ciò lo si potrà fare impossessandosi della cultura moderna per negarla e cambiarla. Ma la dicotomia tra l’integrazione nella vita quotidiana di un livello artistico unito al progresso tecnoscientifico e l’inscindibilità di un cambiamento globale di vita dalla rivoluzione proletaria porterà ad un allontanamento di tutta l’ala artistica del gruppo. La contraddizione tra le tesi del superamento e del rifiuto dell’arte insieme a tutte le strutture di produzione e commerciali dell’industria culturale (l’eclettismo, le mode, il mercantilismo) e la soggettività dell’artista, si rivela in tutta la sua evidenza nei primi mesi del 196055, questa dicotomia unita ad un utopistico riformismo della architettura di Constant basato sul progresso tecnoscientifico porterà alla spaccatura. Debord ribadirà la necessità di una centralità del concetto di situazione costruita dentro la vita quotidiana. È nel successivo Manifesto56 del 1960 che si comincia ad intravedere una elaborazione del concetto di spettacolo: 55 56

Cfr. Bandini, 1977, pag. 182. Pubblicato nella rivista Internationale Situationniste numero 4 del 1960.

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In una società in cui l’automazione produttiva e la socializzazione dei beni ridurranno sempre più il lavoro, si afferma, l’individuo godrà di una libertà che lo porterà alla disponibilità di un nuovo plusvalore: quello del gioco, e della vita liberamente costruita attraverso la “situazione”. In una società da sempre usa a reprimere le tendenze ludiche primitive (conservate nelle feste popolari), e a produrre massivamente squallidi pseudogiochi non partecipativi, in cui un’autentica attività artistica può vivere solo clandestinamente, come una forma di scandalo o di criminalità, l’esercizio del gioco situazionista attraverso la “costruzione delle situazioni” è garanzia di libertà personale e di tutti, quale “superamento dell’antica divisione tra il lavoro imposto e gli svaghi passivi del tempo libero”. [...] L’arte diverrà ora comunicazione completa. Gli artisti sono completamente separati dalla società [...]: tutti diventeranno ora artisti a uno stadio superiore, cioè congiuntamente produttori e conservatori di una creazione culturale globale. Divenendo situazionisti [si procederà alla] costruzione della propria vita [Cfr. Bandini, 1977, pag. 185].

L’arte diverrà ora comunicazione completa. La cultura situazionista sarà un’arte del dialogo e dell’interazione. Ma è nel IV numero di Internationale Situationniste che l’I.S. ne chiarifica e ne mette a tema il problema e l’elaborazione concettuale. Nell’introduzione, infatti, vengono distinte tre forme di spettacolo culturale: il primo, tradizionale, di forma “classica”; il secondo, degradato, quale rappresentazione della società dominante trasmessa agli sfruttati tramite la mistificazione (giochi televisivi, la quasi totalità del cinema e del romanzo, la pubblicità, l’automobile); e infine la terza, che è la negazione avanguardistica dello spettacolo, sovente incosciente dei suoi motivi. Nella rivista Arguments, in un testo redatto con Canjuers (Daniel Blanchard), del gruppo di Socialisme ou Barbarie a cui i situazionisti si avvicinarono degli ultimi anni, che Debord anticipò alcune tesi che appariranno ne La Società dello Spettacolo: il consumatore è moralmente e psicologicamente consumato dal mercato, il mondo dei consumi è quello dell’allestimento spettacolare di tutto per tutti, cioè, della divisione, della estraneità e della non partecipazione per tutti. Al di fuori del lavoro, lo spettacolo è il più importante dei rapporti tra gli uomini: attraverso lo spettacolo gli uomini prendono conoscenza – falsa – di certi aspetti della vita sociale, e il rapporto tra autori e spettatori è una trasposizione del rapporto tra dirigenti ed esecutori57. Tra il 1957 e il 1972, data del suo scioglimento, l’I.S. diviene un’organizzazione internazionale con 70 membri di 16 diverse nazionalità, che attraverso esclusioni, dimissioni, scissioni agiscono sulla scena europea con 57

Cfr. Bandini, 1977, pag. 197.

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l’inflessibile leadership di Debord, affiancato fino al 1960-1962 da Jorn, Constant, Gallizio, dal gruppo tedesco SPUR e, dopo il loro allontanamento, da nuovi protagonisti quali Vaneigem, Kotanyi, Viénet che conducono il movimento verso una riorganizzazione essenzialmente politica. Da qui lo sviluppo, sempre più radicale, della critica della nozione di società mercantile-spettacolare, della sua alienazione e del suo rovesciamento che culminerà nel noto testo di Debord del 1967 La Società dello spettacolo, e nel 1968 negli esiti del Maggio francese.

1.2 La svolta situazionista

L’I.S. nella sua storia, data la sua predisposizione a superare l’ambito della creazione artistica, ha agito sopratutto per mezzo della parola scritta, dove esce fuori la propria natura social-rivoluzionaria impegnata nella critica del mondo capitalistico e delle sue mille declinazioni intente a togliere quanto di più prezioso l’uomo possiede: il tempo (tramite il lavoro) è la realtà (tramite lo spettacolo). L’azione di intellettuali-filosofi come Guy Debord e Raoul Vaneigem entra nel cuore del sistema vivisezionando la natura del quotidiano disumanizzato dall’onda barbarica del capitale. Nascono così la critica alla società dello spettacolo, contro la passività degenerativa dell’uomo, la critica contro la specializzazione che riduce i costi e tempi di produzione, la critica contro il funzionalismo urbano, contro l’isolamento degli individui in nuclei pseudo-collettivi (casa, fabbrica) senza possibilità d’azione. Una protesta contro la società dei consumi, in cui l’elemento principale è la coscienza della realtà del sovvertimento. La sostanza della realtà contemporanea è la sopravvivenza, cioè la negazione della vita reale. Il sistema capitalistico ha creato un nuovo mondo di desideri e oggetti che allontanano dalla natura elementare e concreta del mondo, stabilendo un nuovo clima di insoddisfazione e insignificanza che la quantità dei prodotti non può lenire. Il torpore e la passività del nuovo stile di vita sottrae stimoli ed energie creative, che secondo 65


l’I.S. deve essere superato attraverso l’utilizzo della “soggettività radicale”, cioè accostandosi al mondo con le armi della soggettività e ricostruire tutto, a partire da se stessi, trasformando le qualità umane in valori reali. Prendere ogni singolo aspetto della modernità e verificare quale grado di alienazione e irrealtà sta consumando l’uomo contemporaneo,in modo da opporre una realtà non utopica, ma bensì delle nuove pratiche che ristrutturano e rovesciano i rapporti tra realtà e immaginazione tra speranze individuali e movimenti storici. Il situazionismo, in particolare, è stato uno dei più importanti (e rari) tentativi di mettere a punto forme di sovversione che fossero all’altezza di un modo di produzione in cui il ruolo preminente spetta alla cultura e alla comunicazione linguistica (lo spettacolo, infatti, riflette la struttura, il processo tipico della prassi linguistica). Nello spettacolo sono esibite, in una forma separata e capovolta, le più rilevanti forze produttive di tutta la società, quelle forze produttive cui attinge necessariamente

qualsiasi

processo

lavorativo

contemporaneo:

competenze

linguistiche, immaginazione, sapere, cultura. Con il termine spettacolo, Guy Debord prova a render conto della specifica situazione in cui il linguaggio medesimo è stato messo al lavoro, divenendo la principale risorsa della produzione sociale. Questa commistione tra lavoro e linguaggio è un crocevia, in cui convergono necessariamente sia la storia del lavoro salariato, il suo interno sviluppo, sia la concezione del linguaggio che ha contraddistinto la cultura occidentale. Scrive Debord: «Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale […]. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà» [Cfr. Debord 1967, trad. it 2002 pag. 48]. Lo spettacolo è, infatti, una rappresentazione visiva o verbale, resasi autonoma da qualsivoglia referente esterno, in grado di determinare volta per volta il proprio contenuto, dunque sempre sicura di “corrispondere” a qualcosa. Il rapporto tra spettacolo e prassi linguistica è teorizzato dal filosofo italiano Paolo Virno [2002, pagg. 108-109]:

66


[...] la concezione denotativa del linguaggio, il cui punto d’onore è garantire la perfetta sutura tra parole e cose, fin dall’inizio ha aspirato a un tal genere di “rappresentazione”, che, producendo da sé il proprio referente, si emancipi da ogni incertezza. Non a caso, un modello insuperato di denotazione linguistica è stato, per la filosofia, la “prova ontologica” dell’esistenza di Dio, che dal significato del nome impiegato, “l’essere perfettissimo”, deduce l’effettiva sussistenza dell’ente corrispondente. La pretesa della “prova ontologica” è stata realizzata appieno dalla società dello spettacolo: l’immagine e il discorso deducono da sé il proprio oggetto, costruiscono il referente loro adeguato, sono essi stessi il fatto di cui danno rappresentazione. L’intenzione metafisica di perseguire una corrispondenza trasparente tra segni e cose ha avuto per esito che i segni, divenuti infine “spettacoli” indipendenti, siano anche le sole cose reali. Si capisce, pertanto, perché la critica del capitalismo contemporaneo richieda, come suo passaggio obbligato, la critica della tradizionale filosofia del linguaggio. E viceversa: è altresì chiaro che la confutazione della metafisica denotativa ha il proprio banco di prova nel rovesciamento della società dello spettacolo.

Lo spettacolo ha, dunque, una doppia natura: è un prodotto specifico che si affianca a tutti gli altri, ma, allo stesso tempo, rappresenta (letteralmente) l’elemento fondamentale del modo di produzione nel suo complesso, l’esposizione generale della razionalità del sistema. Nelle merci-spettacolo, il cui valore d’uso è linguisticoculturale, sembra specchiarsi la qualità comunicativa ed epistemica di tutti i processi lavorativi. A dar spettacolo, per così dire, sono le stesse forze produttive della società. Essi, quindi, anticipando le peculiarità di quel modo di produzione affermatosi compiutamente solo negli anni ’80, in seguito al declino della fabbrica taylorista, predissero l’inclusione massiccia del sapere e della comunicazione nel processo produttivo immediato58. La sintesi tra industria culturale e industria dei mezzi di produzione è messa a tema ancora in Virno [2002, pag. 107]: In entrambe, infatti, vengono elaborati intensivamente gli strumenti e le procedure operative che poi troveranno larga applicazione in ogni angolo del processo lavorativo sociale. Particolare e universale al tempo stesso, la macchina polivalente (il calcolatore, per esempio) è un articolo merceologico tra i tanti, venduto e comprato senza patemi d’animo, ma il suo valore d’uso consiste nell’imprimere una certa forma organizzativa ai più diversi processi produttivi. Così lo spettacolo: in esso si concentra allo stato puro, in veste di merce specifica, quell’“agire comunicativo” che però adempie a un ruolo di crescente importanza in ogni prassi lavorativa, anche in quella dei settori più “tradizionali”.

Sia nella macchina che nello spettacolo sono oggettivati scienza, cultura, relazioni sociali. Lo spettacolo è la forma reificata con cui si dà a vedere quella quota 58

Processo che è la base materiale del luna park postmoderno, del pluralismo di spettacoli spacciato per culto delle “differenze”, dell’apparente “fine della storia”. Cfr. Virno, 2002, pagg. 106 e segg.

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di comunicazione, intelligenza, sapere, che, pur sempre in nome della produttività capitalistica, non può venire depositata nelle macchine, ma deve manifestarsi nella cooperazione di soggetti viventi. Lo spettacolo mette a lavoro il linguaggio o, più in generale, la prassi linguistica. È chiaro che lo spettacolo è il linguaggio, la stessa comunicatività e l’essere linguistico dell’uomo. Nei primi tre capitoli della Società dello spettacolo, Debord traccia un percorso organico partendo dal concetto di separazione59 per raggiungere quello di falsa unità che informa di sé tutta la realtà spettacolare. La separazione che si compie per Debord sembra riportare a compimento quel processo di scissione tra il soggetto e se stesso originato dalla rottura dell’unità presente nel mondo greco e ormai in via di compimento nel capitalismo. La separazione è dunque tra il vissuto e la sua rappresentazione, ovvero, la rappresentazione tende ad accumularsi e a predominare sul vissuto che nella società capitalistica viene sempre di più a marginalizzarsi e a diventare, nella sua verità, solo il momento di una rappresentazione totalizzante che sappiamo falsa. L’agente dello spettacolo fa diventare l’individuo un vissuto apparente: «L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo» [Cfr. Debord 1967, trad. it 2002, pag. 67]. Leggiamo, a tal proposito, nella tesi 25: La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. L’istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro, la formazione delle classi, aveva fondato una prima contemplazione sacra, l’ordine mitico di cui ogni potere s’ammanta fin dall’origine. Il sacro ha giustificato l’ordinamento cosmico e ontologico che corrispondeva agli interessi dei padroni, ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare. Ogni potere separato è stato dunque spettacolare, ma l’adesione di tutti a una tale immagine immobile non esprimeva che il riconoscimento comune di un prolungamento immaginario per la povertà dell’attività sociale reale, ancora largamente sentita come condizione unitaria. Lo spettacolo moderno esprime invece ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si oppone assolutamente al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le proprie regole: è uno pseudo-sacro. Mostra ciò che è: la potenza separata che si sviluppa in sé stessa, nell’aumento della produttività per mezzo del perfezionamento incessante della divisione del lavoro in parcellizzazione dei gesti, che sono allora dominati dal movimento indipendente delle macchine; e che lavora per un mercato sempre più esteso. Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto accrescersi separandosi non si sono ancora ritrovate [Cfr. ivi, tesi 25 pag. 50].

59

Il concetto riprende in una prospettiva innovativa sia il concetto di alienazione (Hegel, Feuerbach, Marx) che quello di scissione (Lukacs). Cfr Stanziale in Debord 1967, La société du spectacle, Buchet/Chastel, Paris trad. it La Società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano, 2002, pag.17.

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Il capitalismo (o qualunque altro nome oggi si voglia dare al processo che domina oggi la storia mondiale) non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio stesso, della stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo, di quel logos in cui un frammento di Eraclito identifica il Comune60:

Perdendo la comunità della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della comunità inattiva può essere superata con l’accesso alla reale comunità storica. L’arte, che fu questo linguaggio comune dell’inazione sociale, appena si costituisce in arte indipendente nel senso moderno, che emerge dal suo primo universo religioso, e che diviene produzione individuale di opere separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia dell’insieme della cultura separata. La sua affermazione indipendente è l’inizio della sua dissoluzione [Cfr. ivi, tesi 186 pag. 141].

La forma estrema di questa espropriazione del Comune è lo spettacolo, cioè la politica in cui viviamo. Lo spettacolo è il diretto erede dell’elitarismo della creazione artistica (e in generale di un certo tipo di linguaggio) che raggiunge il suo massimo grado nel Barocco:

Dal romanticismo al cubismo, è infine un’arte della negazione sempre più individualizzata, rinnovantesi di continuo fino allo sbriciolamento e alla negazione compiuti della sfera artistica, che è seguita al corso generale del barocco. La scomparsa dell’arte storica, che era legata alla comunicazione interna di una élite, la quale aveva la sua base sociale semi-indipendente nelle condizioni parzialmente ludiche ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce perciò il fatto che il capitalismo conosce il primo potere di classe che si riconosca spogliato di ogni qualità ontologica; e la cui radice del potere nella sola gestione dell’economia è anche la perdita di ogni signoria umana. L’insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso un’unità perduta da molto tempo, si ritrova in qualche modo nell’attuale consumo della totalità del passato artistico. La conoscenza e il riconoscimento storici di tutta l’arte del passato, costituita retrospettivamente in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa dell’arte barocca e tutte le sue reviviscenze. Per la prima volta le arti di tutte le civiltà e di tutte le epoche possono essere conosciute e ammesse tutte insieme. È una “collezione dei ricordi” della storia dell’arte che, divenendo possibile, è quindi anche la fine del mondo dell’arte. In quest’epoca dei musei, allorché non può più esistere alcuna comunicazione artistica, tutti gli antichi momenti dell’arte possono essere ugualmente ammessi, poiché nessuno di essi soffre più della perdita delle sue particolari condizioni di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di comunicazione in generale [Cfr. ivi, tesi 189 pag. 143-4].

60

Cfr. Agamben in Debord (1988), Commentaires sur la Société du spectacle, Èditions Gérard Lebovici, Paris, trad. it. Commentari alla Società dello spettacolo, Sugarco, Milano, 1990, pag. 243.

69


Ma ciò vuol dire che nello spettacolo ci viene incontro, in modo rovesciato, la nostra natura linguistica perché il linguaggio si costituisce in una sfera autonoma e non rivela più nulla, l’elemento base della comunicazione non comunica più nulla, anzi solo il nulla delle cose. Esso disarticola e svuota tradizioni, credenze, ideologie, religioni, identità e comunità. Il tempo della produzione economica, della mercespettacolo, trasforma in negativo la società. I media 61 creano una società spettacolare. Per questo lo spettacolo porta in sé una violenza distruttrice, ma allo stesso tempo porta una possibilità positiva:

l’età in cui stiamo vivendo è anche quella in cui diventa per la prima volta possibile per gli uomini far esperienza della loro stessa essenza linguistica [...] del fatto stesso che si parli. [...]. Solo coloro che riusciranno a compierlo [questo experimentum linguae] fino in fondo, senza lasciare che, nello spettacolo, il rivelante resti velato nel nulla che rivela, ma portando al linguaggio il linguaggio stesso, saranno i primi cittadini di una comunità senza presupposti ne stato, in cui il potere nullificante e destinante di ciò che è comune sarà pacificato [...], essi entreranno ed usciranno illesi dal paradiso del linguaggio62.

4. Radio Alice e Il Male: due esempi di sovversione (linguistica).

2.7 Radio Alice, la storia

Concepita nel 1975 durante il periodo di esplosione delle radio libere, la radio inizia a trasmettere il 9 febbraio 1976 sulla frequenza fm 100.6 mhz, utilizzando un trasmettitore militare. Lo studio della radio è un appartamento di via del Pratello, nel centro di Bologna. La piccola emittente radiofonica dell’"ala creativa" del movimento studentesco vuole farsi portavoce della "comunicazione liberata": di qui

61

Intendiamo qui per media il linguaggio inteso come struttura relazionale i quali condizionano la storia con il loro avvicendarsi. Cfr. Mc Luhan, Marshall, 1962, (trad. it. La galassia Gutenberg, Armando, Roma, 1976). 62 Cfr. Agamben in Debord, Guy, 1988 pag. 246.

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le decisioni di aprire il microfono a chiunque e di trasformare la radio in strumento di produzione culturale attraverso l’organizzazione di concerti e di raduni giovanili. La radio viene chiusa dai carabinieri il 12 marzo 1977 con l’accusa di avere diretto via etere i violenti scontri all’indomani dell’uccisione dello studente Francesco Lorusso per mano della polizia. I redattori della radio che non riescono a fuggire durante l’irruzione negli studi vengono arrestati. Gli apparati di trasmissione vengono distrutti. Per la prima volta nella storia repubblicana una testata radiofonica è soppressa per mano militare.

2.8 Perché è importante Radio Alice

Negli anni Settanta, grazie al crollo dei prezzi delle tecnologie comunicative, mentre cessava il monopolio statale sull’etere fiorirono un po’ dappertutto esperimenti con strumenti off-set a basso costo, con radiotrasmittenti e video amatoriali. Una proliferazione senza precedenti di macchine linguistiche che trasferirono nell’etere la potenza sociale delle piazze italiane, una sorta di prolungamento tecnologico dello spazio pubblico metropolitano. I media come Radio Alice (e poi in seguito vedremo Il Male) realizzano la lezione situazionista. Spiegano Bifo e Gomma, due dei fondatori della radio, riportando il manifesto del collettivo A/traverso: La controinformazione ha denunciato quello che il potere dice il falso, laddove lo specchio del linguaggio del potere riflette in modo deformato la realtà- ha ristabilito il vero, ma come mero rispecchiamento. Radio Alice, il linguaggio al di là dello specchio ha costruito lo spazio in cui il soggetto si riconosce, non più come specchio, come verità ristabilita, come immobile riproduzione, ma come pratica di esistenza in trasformazione (ed il linguaggio è un livello della trasformazione). Ora andiamo oltre. Non basta denunciare il falso del potere; occorre denunciare e rompere il vero del potere. Quando il potere dice la verità e pretende sia Naturale va denunciato quanto disumano ed assurdo sia l’ordine di realtà che l’ordine del discorso (il discorso d’ordine) riflette e riproduce: consolida. Portare allo scoperto la deliranza del potere. Ma non solo. Occorre prendere il posto (autovalidantesi) del potere, parlare con la sua voce. Emettere segni con la voce e il tono del potere. Ma segni falsi. Produciamo informazioni false che mostrino quel che il potere nasconde, e che producano rivolta contro la forza del discorso d’ordine. Riproduciamo il gioco magico della Verità falsificante per dire con il linguaggio dei mass-media quello che essi vogliono scongiurare. Basta un piccolo scarto perché il potere mostri il suo delirio: Lama dice ogni giorno che vanno fucilati gli assenteisti. Ma questa verità del potere si nasconde dietro un piccolo schermo

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linguistico. Rompiamolo, e facciamo dire a Lama quello che pensa realmente. Ma la forza del potere sta nel parlare col potere della forza. Facciamo dire alle Prefetture che è giusto portare via la carne gratis dalle macellerie. Su questa strada, oltre la contro informazione, oltre Alice; la realtà trasforma il linguaggio. Il linguaggio può trasformare la realtà [Cfr. Bifo, Gomma, 2002, pagg. 15-16]

Gli attivisti di Radio Alice compresero subito che solo un nuovo uso del media, del linguaggio, poteva scardinare lo status quo poiché esso viene concepito come mezzo ma come pratica, un terreno assolutamente materiale che modifica la realtà, i rapporti tra le classi, la forma dei rapporti interpersonali. L’operazione che il movimento comprese che doveva essere compiuta nei confronti del linguaggio codificato non era quella di una semplice inserzione di contenuti nuovi entro modelli comunicativi vecchi ma, bensì, quella di far irrompere il desiderio sovversivo dentro l’organizzazione del quotidiano comunicativo. Non è importante soltanto dire qualcosa ma l’importante è chi lo dice e come lo si dice risalendo alle vere fonti63. Continuano i due autori: Possiamo dire che il 1977 bolognese, […], più che la coda dei movimenti studenteschi del ‘68, fu l’anticipazione delle dinamiche produttive, politiche e comunicative che si sono poi sviluppate nei due decenni successivi, e che oggi si collocano al centro del campo sociale: le dinamiche di proliferazione degli strumenti di comunicazione [Cfr. ivi, pag. 159]

E più avanti: Non si trattava di ristabilire una qualche verità rivoluzionaria contro la menzogna borghese, non si trattava di fare controinformazione per smascherare le trame nascoste di qualche nemico. L’esigenza era quella di agire sulle forme dell’immaginario sociale, di mettere in circolazione flussi deliranti, cioè capaci di de/lirare il messaggio dominante del lavoro, dell’ordine, della disciplina [Cfr. ivi, pag. 159]

E qual è lo strumento più diretto di azione sull’immaginario e quindi sui movimenti della società? Il collettivo A/traverso mentre preparava il lancio di Radio Alice si interrogò, come le avanguardie, come Benjamin, come Debord, tanto per citare altri esempi, sulla centralità e la specificità del linguaggio e della comunicazione nel processo di trasformazione sociale lavorando sul carattere specifico, irriducibile, della ricerca e della sperimentazione linguistica e comunicativa. 63

Ad esempio, spiegano Bifo e Gomma, se è stata occupata una scuola bisogna far parlare gli studenti stessi.

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A favore di chi fece sperimentalismo come il collettivo A/traverso, giocò il fatto che nella storia sociale dell’ultimo trentennio è avvenuta la massificazione e la popolarizzazione degli strumenti di produzione tecno-comunicativa. I mezzi di riproduzione tecnica dei messaggi giocano un ruolo essenziale nel divenire sociale. Tra il Diciannovesimo ed il Ventesimo secolo si sono sviluppate e diffuse tecnologie di riproduzione tecnica dell’immagine e del suono che hanno modificato l’infosfera e l’immaginario collettivo. Tra gli anni ‘60 e ‘70 si crearono le condizioni per una loro diffusione di massa. L’esperienza di Alice si colloca proprio in questo punto. Radio Alice fu una delle prime esperienza di impresa sociale nella quale ci si impadronì di strumenti di produzione comunicativa e si crearono le condizioni per costruire un ascolto, un mercato. Essa: nacque in un ambiente – quello della rivista A/traverso e del movimento creativo maodadaista bolognese – in cui la lezione Dada-Situazionista era stata assimilata largamente. Abolire l’arte, abolire la vita quotidiana, abolire la separazione tra l’arte e la vita quotidiana era il grido dadaista da quale eravamo partiti [Cfr. ivi, pag. 172].

2.9 Il Male, la storia

Il Male è stata una delle più importanti riviste satiriche italiane. Fu fondata da Pino Zac (nome d’arte di Giuseppe Zaccaria), e diretta, dal quarto numero in poi, da Vincino. Dapprima nominato I quaderni del Sale venne subito cambiato con Il Male per un accordo con il distributore Parrini. Il Male ebbe come fonte satirica d’ispirazione il giornale satirico parigino Le Canard enchaîné, da cui Pino Zac proveniva. Un ruolo importante nella fondazione del giornale e nella sua direzione fu svolto da Vincenzo Sparagna, che collaborò con la testata fino 1980, quando andò a fondare, con altri, Frigidaire. Nato nel settembre 1977, il settimanale venne pubblicato fino al marzo 1982.

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Nelle pagine de Il Male i lettori trovavano vignette e articoli giornalistici. Una delle più brillanti invenzioni del settimanale fu l’imitazione a più riprese delle prime pagine dei quotidiani, con titoli assolutamente demenziali ma verosimili; molti caddero nell’inganno, ed il giornale passò alla storia del costume. Assieme a racconti, poesie farneticanti ed interviste - vere e fasulle - il settimanale fu contraddistinto dalla ferocia dei suoi fumetti e delle sue vignette, alcune delle quali pubblicate persino sotto pseudonimo, per evitare denunce. Ebbe moltissimi sequestri e più di cento processi per “offese a capo di stato estero” (il Papa), “vilipendio”, “diffusione di materiale osceno”, e altre cose simili. Riscosse un grande successo, e la sua satira corrosiva gli procurò una storia tormentata di ritorsioni e censure. Fra le beffe più famose del Male quella cui si prestò Ugo Tognazzi, del quale veniva annunciato l’arresto con l’accusa di essere il capo delle Brigate Rosse: su falsi di diversi quotidiani immagini del noto attore ammanettato e scortato da agenti in divisa, tra i quali si riconosce uno dei redattori. Da ricordare anche il numero con “Dieci grammi di droga gratis” (contenente una bustina di pepe), o il falso numero de la Repubblica dal titolo "Lo Stato si è Estinto" durante i funerali di Aldo Moro. Clamorosissimo il finto numero del Corriere dello Sport - Stadio, dove si annunciava l’annullamento del titolo argentino ai Mondiali del ‘78, in seguito alla segnalazione per doping di alcuni calciatori olandesi, una voce realmente circolata dopo la sconfitta azzurra contro la nazionale olandese, la quale giocò poi la finale con i sudamericani. L’evento causò l’ira di Giorgio Tosatti, all’epoca direttore del Corriere dello Sport - Stadio, il quale affermò che lo sport e il calcio non andavano infangati. Nel settembre 1978, al termine di un Congresso dell’allora PCI, apparve un falso de L’Unità dove l’allora segretario Enrico Berlinguer annunciava la rottura con la Democrazia cristiana e quindi la fine del Compromesso Storico. Seguì nell’inverno dello stesso anno un falso del Corriere della Sera che annunciava l’incontro di una delegazione O.N.U. con degli extraterrestri (“Arrivano da un’altra galassia”) e sei mesi dopo, in concomitanza delle elezioni politiche anticipate del 1979, con la notizia “La Democrazia Cristiana abbandona”. Una copia giunse persino in Parlamento, ma deliziò i lettori del settimanale. Nel frattempo, durante la guerra tra Cina e Vietnam, a seguito della liberazione della Cambogia dal regime di Pol Pot, un’edizione straordinaria de La

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Repubblica con tanto di foto di fungo atomico, annuncia lo scoppio di un terzo conflitto mondiale. I falsi erano credibili per l’impaginazione e la grafica. Superato lo stupore iniziale, il lettore si dilettava nella lettura di intere colonne di articoli dal sapore satirico insieme alle versioni rivedute e corrette di inserti pubblicitari allora conosciuti.

2.10

Perché è importante Il Male

Non ci ricavammo una lira, ma quel che contava era non dargliela vinta. Vincino, Il Male

Il lavoro dei redattori del Male fu quello di riscoprire, alla fine degli anni Settanta, le pratiche dadaiste. Venivano creati dei falsi giornali che creavano eventi veri, una sorta di dètournement situazionista volto a cambiare la percezione degli eventi:

Quando nasce il falso ha già un suo retroterra storico, teorico di riferimento. In realtà era quello che aspettavamo, era la mela, la pera che pendeva su di noi e a un certo punto ci è caduta in testa. Però noi l’aspettavamo, avevamo già coltelli e forchette pronti per tagliarla, mangiarla e spiegarla. Sulla teoria eravamo già ferrati, ma ci mancava ancora la mela. Il falso nasce casualmente, dall’idea di un grafico, Marcello Borsetti. All’epoca schizzavamo il menabò del «Male» su dei giornali completamente bianchi e questo suggerì a Marcello una soluzione stupefacente. Un giorno si alzò davanti a tutti noi e fece un gesto di una semplicità che si sarebbe rivelata geniale: aprì nel mezzo uno di quei giornali prova e lo rivoltò. «Vedete? Se apriamo il giornale e lo rigiriamo, ci si ritrova il paginone centrale in prima pagina!» In quel modo la copertina vera e propria del «Male» finiva al centro, mentre all’esterno il giornale diventava un’altra cosa, diventava – di volta in volta – una copia perfetta della «Repubblica», di «Paese Sera», della «Stampa»... insomma, il lettore comprava «Il Male» e con un semplice gesto si ritrovava per le mani tutt’altro: un gioco facile, immediato, uno trucco perfetto. La nostra avventura comincia da una falsa «Repubblica», una finta prima pagina in cui il quotidiano di Scalfari, in un’edizione straordinaria nei giorni dei funerali di Moro con le facce impietrite dei dirigenti democristiani, dichiarava "Lo Stato si è estinto", e di conseguenza, il giornale cessava le pubblicazioni. [...] Il falso era nato. Il falso, l’imitazione sono gli strumenti più antichi della satira, ma per noi non si trattava solo di un gioco fine a se stesso: era come annusare l’aria, intuire uno stato d’animo diffuso,

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un’aspettativa... insomma, il punto non era trovare e sbattere in prima pagina una qualsiasi idea folle o smisurata, il nostro scopo era quello di dar voce a un bisogno reale, a un’aspirazione che girava fra la gente senza avere il modo di essere espressa. Era solo trovando un’idea che rispecchiasse un desiderio generale che il falso poteva dirsi riuscito. Se non si creava questa magia, questo scambio di stimoli fra noi e i lettori, non si poteva sperare che qualcuno ci cascasse. Ma perché uno creda a una bugia, bisogna fare in modo che questa somigli in tutto e per tutto a una cosa vera. Non basta un’idea, bisogna che il racconto si sviluppi secondo le regole. Inventandoti la prima pagina di un giornale nazionale, studi e analizzi come si comporta la stampa,come si muovono i vari giornali, il meccanismo delle notizie. Quindi, una volta individuata la notizia nell’aria, si cominciava la nostra ricerca. Era fondamentale che nei nostri falsi tutto somigliasse al vero. L’impaginazione, la titolazione, la rilevanza tipografica, l’uso delle foto e delle firme ...ogni dettaglio veniva studiato a fondo e riprodotto con precisione, rispettando fedelmente lo schema della testata. La teoria era semplice: se nasce un’idea la devi raccontare subito. Infatti i falsi nascevano sull’onda di una grande ingiustizia nel campo dello sport, nel campo della politica o nel campo di chissà cos’altro, perché la gente voleva rimuovere, cambiare questa realtà che aveva davanti. Il falso muoveva, cambiava questa realtà [Cfr. Vincino, 2007, pagg. 133-137].

Il retroterra teorico già pronto: il falso non era solo una furbata o, peggio ancora, un gioco. Lavorare al falso era una cosa seria perché veniva massacrata la stampa italiana, mettendo alla berlina il modo in cui si riportavano le notizie, mostrando al lettore come i casi giornalistici venivano montati a dismisura. Cambiando la percezione degli eventi. In questo lavoro sulla realtà sta l’essenza del linguaggio della satira: «La satira ha la capacità di annusare il vento, di capirne in fretta la direzione e di anticiparlo» [Cfr. Vincino, 2007, pag. 147 e segg.]. Il Male non era un giornale di satira politica o, meglio, non era un giornale di satira politica per come lo si intende nella vulgata comune. Come un laboratorio, conduceva un’analisi, uno studio della realtà, osservandola da un altro punto di vista, da un punto di vista che non è quello normale, quello semplice, ma quello che ti permette di scoprire ben altro rispetto alla realtà, che a volte te la fa leggere meglio e prima: E difatti «Il Male» ha azzeccato tante previsioni. Per esempio quando facciamo il falso «Bild», c’inventiamo per la prima pagina l’unificazione della Germania, cosa che sarebbe avvenuta solo dieci anni dopo. Ma la cosa più bella non è tanto aver anticipato l’unificazione della Germania.. no, la cosa più bella è aver intuito quale sarebbe stata l’immagine fotografica che avrebbe rappresentato questo evento: la gente che entra ed esce dalla Porta di Brandeburgo! È questo il punto, la magia di quel falso: non si limita a raccontare qualcosa di strambo o improbabile, ma cattura anche l’iconografia, l’immagine che nel 1989 avrebbe rappresentato il tutto. L’episodio del «Bild» è una delle nostre magie più riuscite, anche perché intrecciava perfettamente la nostra aspirazione internazionale a una dimensione piuttosto locale, infatti il falso venne distribuito solo nelle edicole della Riviera romagnola, in modo da raggiungere i molti

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turisti tedeschi. In seguito arrivò anche in Germania, attraverso un circuito anomalo, dalle librerie italo-tedesche ai ristoranti italiani di nostri amici emigrati. Fu talmente apprezzato che Axel Springer, l’editore del «Bild», ci telefonò per complimentarsi [Cfr. ivi, pagg. 147-148].

2.11

Breve storia della tecnologia dalla fotocopiatrice al

videotape

La mutazione che attraversa la produzione culturale negli ultimi decenni è legata al cambiamento delle tecnologie di produzione culturale. A partire da un certo momento, che si può collocare negli anni Settanta, la diffusione di tecnologie di produzione comunicativa diviene un fenomeno di massa. Gli strumenti di produzione semiotica, cioè gli strumenti che servono a produrre segni che poi entrano nel circuito distributivo dell’infosfera, sono commercializzati a costi facilmente abbordabili, e questo rende possibile un accesso sempre più vasto alla produzione culturale. Dal punto di vista del consumo, questo significa che l’infosfera 64 diviene sempre più densa, sempre più fitta con effetti sociali e culturali che oggi cominciamo a poter valutare in termini di mutazione della cognizione collettiva. Negli anni Sessanta la diffusione del registratore e del ciclostile interessa soprattutto l’associazionismo politico, e solo marginalmente le culture underground. Non possiamo capire la grande diffusione dei messaggi politici del ‘68 se non pensiamo alla funzione del ciclostile, che in quegli anni rese possibile un’azione capillare di sensibilizzazione informale, selvaggia, autogestita, impensabile con gli strumenti tradizionali di stampa a rotativa. Il ciclostile permette di produrre un messaggio in migliaia di copie in tempi rapidissimi. Negli anni ‘70, poi, fanno la loro comparsa diversi strumenti decisivi per la massificazione del prodotto semiosico (di tipo culturale, artistico, politico o informativo): la fotocopiatrice, l’offset, la radio e il videotape. La fotocopiatrice velocizza la riproduzione di copie. L’offset comincia a facilitare la stampa a colori basata sulla quadricromia. Con la radio, invece, si 64

La sfera in cui circolano segni portatori di intenzione culturale.

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comincia a diffondere un modo di produzione che permise una forma di riconoscimento culturale e linguistico ma soprattutto come strumento di informazione indipendente dal potere politico. Altro strumento di produzione semiotica di massa, è il videotape che comincio a circolare a metà degli anni ‘70, grazie all’azione di piccoli collettivi di videomilitanti, che in Italia non riuscirono mai a trasformarsi in un vero movimento di autoproduzione indipendente, ma prepararono la strada per il lavoro di critica diffusa della televisione, che negli anni ‘90 comincia a prendere forma. Grazie a questa trasformazione strutturale della produzione comunicativa, nell’Italia degli anni ‘70, con un certo anticipo e con una maggiore incidenza sociale rispetto ad altri paesi europei, si cominciò a fondere la sperimentazione artistica con l’intenzionalità politica sovversiva, riprendendo una direzione che l’underground americano aveva sperimentato in condizioni diverse fin dagli anni ‘60. Negli ultimi anni ‘70 iniziò la sperimentazione degli strumenti tecnologici di comunicazione elettronica, ma poi, negli anni subito successivi lo sviluppo delle tecnologie procedette rapidissimo. Così rapido che i formati e gli standard si modificarono nel giro di pochi anni, rendendo obsolete le apparecchiature usate dai gruppi di sperimentazione. Pensiamo, per esempio, a quel che accade nel campo della produzione video. Tra il 1976 e il 1979 fiorì un’esperienza diffusa di produzione video legata ai movimenti e più in generale alle esperienze di vita collettiva. Centinaia di video-operatori di Movimento documentarono la vita sociale di quegli anni, e poi rapidamente passarono ad usare tecnologie più evolute. Solo molti anni più tardi ci si rese conto del fatto che l’obsolescenza rapida degli standard, il deterioramento dei supporti elettronici sperimentali, aveva reso inutilizzabili molti prodotti del lavoro di quegli anni. Cassette video e registrazioni radiofoniche vennero lasciate marcire in qualche cantina per anni e anni. Quando la repressione rendeva tutti quei materiali pericolosi. Quando si andarono a recuperare quelle cassette erano deteriorate e irrecuperabili65. Il lavoro creativo ad alta tecnologia fece le sue prime prove nei movimenti culturali degli anni ‘60 e ‘70, e poi cominciò a trovare un campo di applicazione sempre più ampio nel corso degli anni ‘80, quando si diffusero le nuove tecnologie e si mise in moto il processo di mentalizzazione della produzione di merce. 65

Per una trattazione più approfondita del problema rimandiamo al testo di Bifo e Gomma al quale questa breve ricostruzione si ispira.

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Oggi possiamo dire che il lavoro creativo ad alta tecnologia è divenuto il fattore decisivo del processo di produzione globalizzato.

2.12

I Commentari alla Società dello spettacolo

lo spettacolo ha continuato a consolidarsi ovunque, cioè ad estendersi alle estremità da tutti i lati, e al tempo stesso ad accrescere la sua densità al centro. Ha perfino appreso nuovi metodi difensivi, come avviene normalmente ai poteri attaccati [Debord, 1988 trad. it. 1990 tesi II pag. 12].

Nei Commentari Debord radicalizza la sua teoria critica estendendo la nozione di spettacolo ad ogni ambito dell’esistenza umana, non più solo a livello di produzione, consumo o mezzi di comunicazione di

massa: ora a rendersi

spettacolare è soprattutto il sistema governativo, supportato nella crescita del suo impero dalla sistematica esclusione delle voci fuori dal coro dall’impianto informativo “reale”, dalla complicità dell’alleato meccanismo mediale portato all’estremo e dal raggiungimento di un apparato definito “spettacolare integrato”. Ne La società dello spettacolo, Debord distingueva due diverse forme del potere spettacolare: quella concentrata, che risiedeva nelle società a regime dittatoriale contro-rivoluzionario e quella diffusa, tipica dei regimi democratici, che imponeva il modello americano della società dei consumi:

[...] Nel 1967 distinguevo due forme, successive e antagonistiche, del potere spettacolare: quella concentrata e quella diffusa. Entrambe aleggiavano sulla società reale, come suo scopo e sua menzogna. La prima, mettendo in risalto l’ideologia riassunta intorno ad una personalità dittatoriale, aveva accompagnato la controrivoluzione totalitaria, sia nazista che stalinista. L’altra, incitando i salariati ad effettuare liberamente le loro scelte tra una grande varietà di merci nuove in competizione, aveva costituito quel!’americanizzazione del mondo che per certi aspetti spaventava, ma soprattutto affascinava i paesi in cui le condizioni delle democrazie borghesi di tipo tradizionale avevano potuto mantenersi più a lungo. Successivamente si è costituita una terza forma, attraverso la combinazione ragionata delle due precedenti, e sulla base generale di una vittoria di quella che si era mostrata più forte, la forma diffusa. Si tratta dello spettacolare integrato, che tende ormai a imporsi su scala mondiale. [...] Quando lo spettacolare era concentrato gli sfuggiva la maggior parte della società periferica; quando era diffuso, una piccola parte; oggi, niente. Lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà, irradiandola. Come era facilmente prevedibile sul piano teorico, l’esperienza pratica della realizzazione sfrenata delle volontà della

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ragione mercantile avrà dimostrato rapidamente e senza eccezioni che il divenir mondo della falsificazione era anche un divenir-falsificazione del mondo. Eccetto un patrimonio ancora cospicuo, ma destinato a ridursi sempre di più, di libri e di edifici antichi, peraltro selezionati e disposti in prospettiva sempre più spesso secondo le preferenze dello spettacolo, non esiste più nulla, nella cultura e nella natura, che non sia stato trasformato, e inquinato, secondo le capacità e gli interessi dell’industria moderna. La genetica stessa è diventata pienamente accessibile alle forze dominanti della società. Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna da solo ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie. In tali condizioni possiamo vedere scatenarsi all’improvviso, con un tripudio carnevalesco, una fine parodistica della divisione del lavoro; tanto più tempestiva in quanto coincide col movimento generale di scomparsa di ogni autentica competenza. [Cfr. ivi, tesi III pagg. 16-19].

La terza forma nasce dalla perfetta combinazione delle due precedenti e viene chiamata “spettacolare integrata”; lo spettacolare integrato è contemporaneamente concentrato e diffuso, è la naturale evoluzione di entrambe le forme e rappresenta l’ultima fase di un processo di spettacolarizzazione che ha inglobato ogni spazio, tempo e luogo. La vittoria indiscussa della logica mercantile ha condotto ad una totale falsificazione del mondo: un mondo in cui non esiste nulla che non sia già stato insudiciato e trasformato dagli interessi dell’industria moderna. Il governo dello spettacolo ha a sua disposizione tutti i mezzi possibili per falsificare tanto la produzione quanto la percezione di tutti gli eventi e i progetti che invaderanno in un futuro sempre più prossimo la vita degli individui. La nuova fase dello spettacolo si chiama il mediale:

In effetti questa critica spettacolare dello spettacolo, tardiva e che per di più vorrebbe «farsi conoscere» sullo stesso terreno, si limiterà necessariamente a vane generalizzazioni o a ipocriti rimpianti; come sembra vana anche la saggezza disillusa che sproloquia su un giornale. La vuota discussione sullo spettacolo, ossia su ciò che fanno i proprietari del mondo, è così organizzata da esso stesso: si insiste sui grandi mezzi dello spettacolo per non dire niente del loro grande uso. Spesso si preferisce chiamarlo, invece che spettacolo, «il mediale». E con questo termine si intende designare un semplice strumento, una sorta di servizio pubblico che gestirebbe con imparziale «professionismo» la nuova ricchezza della comunicazione di tutti attraverso i mass media, comunicazione finalmente giunta alla purezza unilaterale, in cui la decisione già presa si lascia tranquillamente ammirare. Ciò che è comunicato sono degli ordini; e, in modo molto armonioso, coloro che li hanno dati sono anche quelli che diranno ciò che ne pensano. Il potere dello spettacolo, così essenzialmente unitario, centralizzatore per forza di cose, e completamente dispotico nello spirito, si indigna assai spesso vedendo formarsi sotto il suo regno una politica-spettacolo, una giustiziaspettacolo, una medicina-spettacolo o tanti altri «eccessi mediali» così sorprendenti. Dunque lo spettacolo non sarebbe altro che l’eccesso del mediale, la cui natura, indiscutibilmente buona dato che serve a comunicare, è talvolta portata all’eccesso [Cfr. ivi, tesi III pag. 15].

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Lo spettacolo è ormai quel potentissimo oppio dei popoli che gira in tondo su se stesso, persuadendo il fedelissimo di turno alla totale bontà e giustificazione di una presupposta illusione di felicità che è sempre meglio non mettere in dubbio, in cui la pena è la miseria o l’inferno, punizione economico-divina che spazza via ogni tetra ipotesi sobillatrice con la promessa di un sempre imminente e sfavillante paradiso artificiale. Se nell’ottica di Adorno le peculiarità delle società di matrice capitalistica erano l’aumento del benessere materiale, l’indebolimento dell’individuo ed il rafforzamento della stessa società, in quella di Debord, nella fase di spettacolarizzazione integrata, riscontriamo il perenne rinnovo tecnologico, la fusione economico-statale, il segreto generalizzato, il falso indiscutibile ed un eterno presente: il tutto rivestito da una patina protettiva di verità inoppugnabile, come se il germe delle parole di Adorno ed Horkheimer, nonostante i moniti e le paure, avesse trovato terreno prolifico nella storia dell’ultimo quarantennio dischiudendosi con tutta la sua potenza nella realtà sociale dipinta nelle tesi debordiane, il cui tratto inquietante è la perdita del giudizio indipendente, della valutazione autonoma, della libertà effettiva. Non esiste opposizione e capacità critica semplicemente perché non esiste più la stessa condizione della distinzione. Ad essere messa in pericolo ora è la coscienza storica, correlata alla scomparsa dell’opinione pubblica: lo spettacolo adombra la lucidità

di giudizio

dirigendo sinfonicamente

l’ignoranza generalizzata

e

compiaciuta, facendo leva sulla pigrizia e sul confortevole oblio in modo che le cose realmente importanti siano accuratamente celate e sommerse di menzogne.

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TERZO CAPITOLO POSTMODERNISMO O LA LOGICA DI UNA NUOVA BIDIREZIONALITÀ

1. La condizione postmoderna…

Gli echi dei testi di Debord arrivano fino alla “condizione postmoderna”. Il movimento di idee che avrà, come abbiamo visto nel capitolo precedente, intorno alla fine degli anni ’50, un’influenza europea notevole sulle arti visive e, in modo del tutto indiretto, anche sull’architettura, è il Situazionismo. Il libro di Guy Debord dal titolo La société du spectacle ne è il fondamento: in esso sono preannunciati molti elementi che diverranno strutturali nella società dei nostri anni. Chi ripropone la questione dell’avvento di un nuovo tipo di società e di sapere, dopo Debord e l’I.S., a nostro avviso, è il filosofo francese Jean-François Lyotard pubblicando nel 1979 il libro La condizione postmoderna in cui egli descrive la mutazione in atto (tramonto dell’età della macchina, globalismo, immaterialità, cultura dell’immagine) ed analizza le ragioni dello stato delle cose. Il suo pamphlet, nello specifico, è uno studio condotto nell’ambito della collaborazione fra Università e governo del Quebec, che ne ha autorizzato la pubblicazione, in Francia, nel lontano 1979. Il postmoderno non chiama in causa un’epoca, ma una condizione (dirà poi Fredric Jameson una dominante culturale), la condizione di crisi permanente della modernizzazione. Lyotard indaga il declino delle grandi narrazioni legittimanti. I metaracconti, cioè i pensieri sintetici universali della modernità come l’Illuminismo, il Marxismo, il Cristianesimo, il Capitalismo, ecc. che danno una sintesi onnicomprensiva, sono inefficaci e incomprensibili. Non hanno alcuna validità. Il sapere si può esprimere solo secondo il gioco del linguaggio e consiste nella ricerca sulla instabilità, ciò che egli chiama paralogia. Sono validi solo i miniracconti ai quali si dà l’assenso per un

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consenso temporale degli interlocutori, sia nel campo internazionale, sia in quello politico, affettivo, sessuale, familiare, culturale. Oggi, secondo il filosofo francese, viviamo in una condizione frantumata e disseminativa dei saperi, che hanno perduto Unità e Senso. Questa condizione, produce, una sensibilità per le differenze e capacità di tollerare l'incommensurabile che si rivolge alle instabilità. La legittimazione dei saperi, dunque, riprendendo quanto detto poc’anzi, si ottiene per “paralogia”, ovvero per “dissenso”, per mosse anche audaci, secondo un'idea di pratica scientifica che si lega all'anti-modello di un sistema stabile e reclama un pluralismo di approcci senza più nessuna idea di consenso universale regolato dal dialogo delle argomentazioni. In questo orizzonte dei saperi attuali, ciò che emerge come principio o regola, è lo statuto di complessità disorganica che li attraversa e li sostiene: complessità polimorfa e senza centro. Oggi i saperi vivono nella tensione continua e nel proliferare di modelli della ricerca e di questa condizione sono direttamente lo specchio. Se non possediamo più metanarrazioni che ci orientino tra i saperi, di quei saperi dobbiamo, invece, recepire il dismorfismo, la dialettica, l'iter disseminativo. Da qui risulta una pluralità che non è riducibile all’unità, che non ha universalità. È un’invenzione anarchica del linguaggio. L’universalità metafisica è solo una frottola. Non vi è possibilità di sintesi nell’eterogeneità del gioco linguistico. Il pensiero postmoderno disumanizza l’uomo per tornare a umanizzarlo nell’instabilità. Precisamente, dicevamo, si tratta di un rapporto sullo statuto del sapere, messo in crisi dalla crisi delle narrazioni innestando il discorso sul problema del sapere scientifico nell’epoca postmoderna. Anche il sapere scientifico, infatti, è una narrazione, che si trasmette attraverso discorsi. Proprio come i miti, le favole, il gossip. O come la pubblicità, forma particolarmente invadente di racconto sociale. A partire dagli anni ’60, la tecnologia e, in particolare, l’informatizzazione della società hanno cominciato a incidere sul sapere: è ragionevole pensare che la moltiplicazione di queste macchine per il trattamento delle informazioni investe ed investirà la circolazione delle conoscenze, così com’è avvenuto con lo sviluppo dei mezzi di circolazione delle persone, prima (trasporti), e di quelli dei suoni e delle immagini, poi (media) [Cfr. Lyotard, 1979, trad. it. 1981, pag. 11].

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Su questa premessa, in accordo intellettuale con Debord, suo amico, Lyotard ha preannunciato il futuro del sapere come merce prodotta per essere venduta: L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la crisi delle narrazioni [Cfr. ivi, pag. 9].

L’ipotesi di lavoro di Lyotard è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età postindustriale e le culture nell’età postmoderna. E, così come ampiamente dimostrato dal lavoro dei situazionisti, le scienze e le tecnologie di punta vertono sul linguaggio 66. L’incidenza di queste trasformazioni tecnologiche sul sapere, sempre secondo il filosofo francese, è destinata ad essere considerevole. Esso ne viene o ne verrà colpito nelle sue due principali funzioni: la ricerca e la trasmissione delle conoscenze poiché il sapere potrà circolare nei nuovi canali, e divenire operativo, solo se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione per essere venduta: Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi, per essere scambiato. Cessa di essere fine a se stesso, perde il proprio “valore d’uso”. E’ noto come negli ultimi decenni il sapere sia divenuto la principale forza produttiva, cosa che ha già notevolmente modificato la composizione della popolazione attiva nei paesi più sviluppati e che costituisce il principale collo di bottiglia per i paesi in via di sviluppo […] Nella sua forma di merce-informazione indispensabile alla potenza produttiva, il sapere è già e sarà sempre più una delle maggiori poste, se non la più importante, della competizione mondiale per il potere. Come gli Stati-nazione si sono battuti per dominare dei territori, e in seguito per controllare l’accesso e lo sfruttamento delle materie prime e della mano d’opera a buon mercato, è ipotizzabile che in futuro essi si batteranno per dominare l’informazione [Cfr. ivi, pagg. 12-14].

Nella società postindustriale, dunque, acquista preminenza la dimensione immateriale dei canonici processi socio-economici di produzione, distribuzione e consumo. Il richiamo agli stessi testi di Marx letti da Debord qui è palese. Nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, scrive Marx, citato in nota da Lyotard, «Il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata».

66

Lyotard cita: fonologia, teorie linguistiche, problemi della comunicazione, cibernetica, algebra, informatica, traduzione linguistica, linguaggi-macchina, banche dati e telematica.

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I germi di questa «delegittimazione» e di nichilismo erano già immanenti alle grandi narrazioni del XIX secolo per comprendere come la scienza contemporanea fosse già esposta a simili impatti assai prima che essi avessero luogo e il risultato è che lo stesso soggetto sociale sembra dissolversi in questa disseminazione di giochi linguistici. Il legame sociale è linguistico, ma non è fatto di un’unica fibra. È una trama in cui si intrecciano almeno due, in realtà un numero indefinito, tipi di gioco linguistico, governati da regole differenti: Esiste quindi una incommensurabilità fra la pragmatica narrativa popolare, che è immediatamente legittimante, ed il gioco linguistico che l’Occidente conosce come problema della legittimità, o meglio la legittimità come referente del gioco interrogativo. Abbiamo visto che i racconti determinano i criteri di competenza e/o ne illustrano l’applicazione. In tal modo essi definiscono ciò che può essere detto e fatto nella cultura, e , dal momento che ne sono anche parte integrante, ne vengono per ciò stesso legittimati [Cfr. ivi, pag. 45].

Lo stesso soggetto sociale sembra dissolversi in questa disseminazione di giochi linguistici. Wittgenstein, di frequente chiamato in causa da Lyotard nella sua analisi, nelle Ricerche, scrive: Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi […] E quante case o strade ci vogliono perché una città cominci ad essere città?67.

Continua Lyotard: Nuovi linguaggi vengono affiancandosi agli antichi, formando i sobborghi della vecchia città (…) i linguaggi-macchina, le matrici della teoria dei giochi, le nuove notazioni musicali, le notazioni delle logiche non denotative (logiche temporali, deontiche, morali), il linguaggio del codice genetico, i grafi delle strutture fonologiche, ecc. [Cfr. ivi, pag. 74].

Proseguendo quanto già annunciato da Debord, Lyotard spiega come le tecniche assumano importanza nel postmoderno proprio perché operano questa riflessione sul linguaggio tanto che la pedagogia futura non dovrà insegnare agli studenti i contenuti ma l’uso dei terminali (soprattutto telematica ed informatica), e quindi dei nuovi linguaggi, da una parte, e, dall’altra, l’uso più raffinato del gioco

67

Paragrafo 18 delle Ricerche Filosofiche.

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linguistico interrogativo68: dove indirizzare la domanda? Come formularla per evitare errori? Il termine postmoderno, dunque, designa uno sviluppo tecnologico e scientifico derivato strettamente da modificazioni linguistiche che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Di fatto il carattere invasivo dello sviluppo e della logica della produzione penetra addirittura nei laboratori, nelle redazioni, persino nella camera dove lo scrittore lavora per ottenere, alla fine, il prodotto che il sistema saprà smerciare e far circolare.

2. … e la fine della modernità

Gianni Vattimo, in sintonia con Lyotard, è convinto che la modernità abbia ormai fatto il suo tempo e che, se il postmoderno è l'esperienza di una fine, lo sia, in primo luogo, in quanto esperienza della fine della storia, cioè della concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi. Il filosofo italiano è persuaso che i grandi racconti, lyotardiani, legittimanti della modernità facciano parte di una forma mentis metafìsica e fondazionalista ormai superata. Accanto alla fine del colonialismo e dell’imperialismo, infatti, un altro grande fattore è stato determinante per la dissoluzione dell'idea di storia e per la fine della modernità, ed è l’avvento della società della comunicazione. Nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato, infatti, dai mass media: la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei linguaggi vincolati e veicolati attraverso i mass media. Essa è caratterizzata dalla oscillazione, pluralità, in definitiva, dice Vattimo, dalla stessa erosione del principio di realtà. Non c’è più nulla di assolutamente certo, sicuro, evidente ma tutto è finzione, favola, cambiamento continuo. L'accostamento tra il decollo dei media e delle tecnologie dell'informazione, e la riflessione sul pensiero della contemporaneità è così pregnante e denso di valenze che, come è noto, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta di questo 68

Cfr. Lyotard, 1979, trad. it 1981, pag. 93.

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secolo, Jean-François Lyotard ha identificato l’eziologia della nascita della condizione postmoderna proprio con l'avvento della società informatizzata e Gianni Vattimo ha rintracciato l'essenza stessa della postmodernità nella moltiplicazione delle immagini del mondo ad opera dei media. La postmodernità per Lyotard, infatti, è l'epoca di fine millennio ed è caratterizzata dal venir meno delle grandi ideologie (illuminismo, idealismo, marxismo) che costituivano la base della coesione sociale e delle utopie rivoluzionarie. Compito del filosofo, di fronte a una condizione umana profondamente mutata, è quello di individuare criteri di giudizio che abbiano un valore locale, circoscritto, e non pretese globali o totalizzanti. Per Vattimo nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media. Ne La fine della modernità dichiara che oggi si prendono le distanze dalla modernità soprattutto in riferimento a uno dei suoi ideali dominanti: quello di progresso, di superamento critico e, nelle arti, di avanguardia. Ma il fenomeno della fine dell'epoca moderna, se è una fine, ha anche conseguenze sociali ed economiche, religiose e filosofiche. Con la modernità viene dichiarata chiusa un'epoca ancorata alla fiducia nel progresso continuo dell'umanità, che aveva, a sua volta, ripreso laicizzandola, l'idea cristiana della salvezza. È la fine di ogni filosofia della storia, cioè di ogni visione unitaria e compatta della storia, come se fosse dotata di senso. Ma la fine della modernità apre una fase nuova, una fase di ascolto, di attenzione a ciò che, nella luce forte della ragione e della storia, era non avvertito, o, comunque risultava inintelligibile. È una fase di apertura e di comunicazione alle "culture altre" , caratterizzata da una visione più tollerante e pacifica della convivenza umana. Il passaggio obbligato è la nietzscheana “morte di Dio” intesa ovviamente come “fine della metafisica”, come fine cioè di tutte le certezze e l’abdicazione del pensiero, del cogito, che aveva sempre pensato di poter approdare ad esiti ultimativi e dunque definitivi. L’individuo post-istorico e post-moderno è colui che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la dissoluzione del pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere senza nevrosi in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente morto, ossia in un mondo in cui non ci sono più strutture fisse e garantite capaci di fornire una fondazione unica, ultima, normativa alla nostra conoscenza e alla nostra azione. In altri termini, l'individuo postmoderno è colui che non avendo più bisogno della rassicurazione estrema, di tipo magico, che era fornita dall'idea di Dio ha accettato il nichilismo come chance destinale ed ha imparato a 87


vivere senza ansie nel mondo relativo delle “mezze verità”, con la raggiunta consapevolezza che l'ideale di una certezza assoluta, di un sapere totalmente fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto è solo un mito rassicurativo proprio di un'umanità ancora primitiva e barbara. In sintesi, l'individuo postmoderno è colui che avendo assunto fino in fondo la condizione “debole” dell'essere e dell'esistenza ha imparato a convivere con se stesso e con la propria finitudine (cioè infondatezza), al di là di ogni residua nostalgia per gli assoluti trascendenti o immanenti della metafìsica. È questo passaggio che conduce Vattimo a pervenire alla postmetafisica e ad elaborare il “pensiero debole”. Tuttavia è opportuno, per chiarezza, fare riferimento al concetto di postmoderno così come è stato concepito da Lyotard, proprio perché Vattimo identifica il postmoderno con l”età postmetafisica”. Il filosofo francese, che conia il termine in ambito filosofico nel saggio del 1979, La condizione postmoderna, parte dal presupposto che la modernità sia finita e ciò per molteplici ragioni: storico-sociali (l’olocausto, gli avvenimenti nell’Est sovietizzato, le crisi economico-finanziarie del ‘900), tecnologiche (mass media e informatizzazione) e culturali (la fine delle “grandi narrazioni”). Se il postmoderno non è un dopo, ma è uno stato del sentire e del pensare, quelli che Lyotard chiama i “grandi racconti” della modernità sono del tutto delegittimati perché hanno pensato la storia in termini di progresso che si dirige verso una meta prefissata. Illuminismo, idealismo, marxismo, cristianesimo, capitalismo hanno preteso (o se si vuole, teso) ad una spiegazione unitaria, universale, assoluta della realtà, partendo da un’idea universale che si sarebbe potuta concretizzare in un futuro più o meno vicino, e tutti hanno fallito. La conclusione è che la valenza totalitaria e totalizzante della ragione è messa in discussione e, dunque, la razionalità si deve muovere nel breve periodo e mirare a legittimazioni parziali, reversibili, non assolute. L’epoca della fine della metafisica, l’esperienza postmoderna, si riscontra soprattutto nell’esperienza della morte dell’arte: «La morte dell’arte è uno di quei termini che descrivono, o meglio costituiscono, l’epoca della fine della metafisica così come Hegel la profetizza, come Nietzsche la vive e come Heidegger la registra» [Vattimo, 1985, pag. 60]. Nella seconda sezione dedicata alla Verità dell’arte, la nozione di morte dell’arte assume: «in senso forte, e utopico, la fine dell’arte come fatto specifico e separato dal resto dell’esperienza, in una esistenza riscattata e 88


reintegrata; in senso debole, o reale, l’estetizzazione come estensione del dominio dei mass-media» [Vattimo, 1985, pag. 64]. La dimensione linguistica (quella dei mass-media) è centrale nella misura in cui il linguaggio è la mediazione tra l’esistenza e il mondo, e conseguentemente il pensiero assume il linguaggio nella sua finitezza e storicità e non nelle categorie definitive e aprioristiche. In altri termini il senso degli eventi è inquadrato in contesti linguistici definiti, variabili, mutevoli e storicamente determinati.

3. Jameson e il postmodernismo

Ma il testo che mostra in maniera più netta le analisi dei Situazionisti ed in particolare delle tesi de La società dello spettacolo, è quello del marxista statunitense Fredric Jameson. Postmodernism,

or,

The

Cultural

Logic

of

Late

Capitalism

(Il

postmodernismo o la logica culturale del tardo capitalismo) fu inizialmente pubblicato sulla rivista americana New Left Review nel 1984, mentre Jameson insegnava Letteratura e storia delle idee come professore ordinario all’Università di California a Santa Cruz. Questo controverso articolo che più tardi sarebbe stato espanso alle dimensioni di un vero e proprio libro, era parte di una serie di analisi del postmodernismo che Jameson aveva sviluppato nei suoi precedenti lavori sulla narrativa. La teoria postmodernista afferma che le complesse differenziazioni fra sfere o campi della vita (politica, sociale, culturale, etc.) e tra distinte classi e ruoli in ogni campo sono state indebolite dalla crisi del fondazionalismo e dalla conseguente relativizzazione del principio di verità. Jameson critica profondamente questa impostazione affermando che questi fenomeni possono essere spiegati con successo solo all’interno di una logica modernista. Secondo la sua impostazione, il fenomeno postmoderno della fusione di tutti i discorsi in un’unità indifferenziata era il risultato della colonizzazione della sfera culturale che aveva mantenuto una parziale autonomia durante la precedente fase storica, da parte del capitalismo multinazionale. Seguendo le analisi di Adorno e Horkheimer sull’industria culturale, 89


Jameson discute di questi fenomeni nel campo dell’architettura, del cinema, della narrativa e delle arti visuali come anche in termini strettamente filosofici. L’analisi di Jameson del postmodernismo tenta di dimostrare come esso sia radicato nella storia, per questo motivo egli rigetta esplicitamente ogni opposizione di tipo moralistico alla postmodernità come fenomeno culturale e continua a insistere sulla necessità di una critica immanente di natura hegeliana. Il fatto che in quest’opera Jameson non neghi l’esistenza del postmodernismo alla radice fu comunque percepita come un implicito riconoscimento della visione postmoderna. Già nell’introduzione alla edizione italiana del 2007 69 sostiene che la postmodernità costituisce «la terza fase del capitalismo». Egli, infatti, preferisce parlare della postmodernità come una fase storica del capitalismo, in piena sintonia con le analisi di Karl Marx. Nella prefazione, quindi, Jameson precisa la distinzione tra “postmoderno” e “postmodernismo”, definendo quest’ultimo come la tendenza ideologica, culturale, artistica e letteraria del postmoderno o postmodernità. Mentre con quest’ultimo termine (postmodernità) intende un periodo storico, cioè un momento che si identifica con ciò che egli chiama la «terza fase del capitalismo» costituendo una frattura radicale tra le pratiche e le esperienze postmoderniste rispetto al periodo precedente, quello della modernità (la II fase): Questa nuova produzione artistica cominciò a essere identificata con uno stile, che a sua volta venne noto come postmodernismo. E seguendo il tipico destino degli stili, soggetti, come la produzione di merci nel tardo capitalismo, a un sempre più rapido ricambio, questo cosiddetto stile “postmoderno” divenne in breve sorpassato, e così ci si iniziò a chiedere cosa sarebbe venuto dopo questo postmodernismo dal nome ormai paradossale: ci sarebbe stato un post-postmodernismo? Una domanda simile è stata rivolta anche a questo libro ed ecco perché è cruciale insistere che qui a essere proposta è una tesi sulla periodizzazione storica e non una descrizione di uno stile artistico o, si potrebbe aggiungere, filosofico, se si pensa a espressioni come “filosofia postmoderna” [Jameson, 1991, trad. it. 2007, p. VII].

Il postmodernismo, in sintesi, è il consumo della pura mercificazione come processo e la sua analisi si pone in linea diretta, ancor prima che con quella Debord, a quella di Horkheimer e Adorno: Di fatto qualunque raffinata teoria del postmoderno e la vecchia nozione di «industria culturale» formulata da Horkheimer e Adorno deve darsi il medesimo rapporto che c’è

69

Edita da Fazi.

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tra MTV e le pubblicità frattali da una parte e le serie televisive degli anni Cinquanta dall’altra [Cfr. ivi, p. VII].

Al contrario dell’analisi di Lyotard, il quale propone una grande narrazione della storia in cui le grandi narrazioni della storia sono esse stesse in crisi, e documenta la comparsa di nuove forme di conoscenza che segnano una frattura rispetto a quelle precedenti del moderno, il postmoderno è una fase che viene dopo il moderno e non prima: «tuttavia egli stesso, profondamente moderno per temperamento estetico e politico, cerca di salvare l’arte dalle banalità del postmodernismo postulando che la postmodernità non succede alla modernità ma la precorre, ne costituisce il preparativo storico per la sua nascita!» [Jameson, 1991, trad. it. 2007, pag. VIII]. La contraddizione sta nel fatto che una teoria che vada contro le grandi narrazioni deve essere anch’essa espressa in forma narrativa. Espressionismo astratto in pittura, esistenzialismo in filosofia, le forme ultime della rappresentazione del romanzo, i film d’autore o la scuola poetica modernista sono tutte manifestazioni considerate come ormai l’ultima straordinaria fioritura di un impulso tardo modernista che si è concluso ed esaurito con esse. E né tantomeno, a tal proposito, si può pensare alla frattura in questione soltanto da un punto di vista puramente culturale, infatti, le teorie del postmoderno mostrano una notevole somiglianza di famiglia con quelle generalizzazioni sociologiche più ambiziose, che quasi contemporaneamente ci annunciano l’avvento di un genere di società totalmente nuovo, noto come «società postindustriale», ma anche come società dei consumi, società dei media, dell’informazione, elettronica, high-tech o simili: Queste teorie hanno l’evidente obiettivo ideologico di dimostrare, a loro conforto, che le nuove formazioni sociali in questione non obbediscono più alle leggi del capitalismo classico, ossia al primato della produzione industriale e all’onnipresenza della lotta di classe. Per questo la tradizione marxista ha opposto una resistenza veemente, con la notevole eccezione dell’economista Ernest Mandel, il cui libro, Der Spätkapitalismus non si oppone semplicemente di anatomizzare la l’originalità storica di questa nuova società (che Mandel considera come un terzo stadio o momento dell’evoluzione del capitale), ma anche di dimostrare, se non altro, che tale società rappresenta uno stadio del capitalismo più puro di qualsiasi altro momento precedente [Cfr. ivi, p. 21].

Per questi motivi, più che uno stile, il postmodernismo è una vera e propria dominante culturale: un concetto che permette la coesistenza di una serie di caratteristiche molto diverse ma subordinate70.

70

Cfr. Jameson, 1991, trad. it. 2007, p. 21.

91


Proseguendo le analisi di Benjamin e Debord, Jameson afferma come sia accaduto che oggi la produzione estetica si è integrata nella produzione di merci in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto, con un giro d’affari sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturale sempre più essenziali. Le principali categorie estetiche dell’età postmoderna sono, secondo il filosofo americano: a) Scomparsa della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh richiedevano un atto interpretativo (come ben sapeva Martin Heidegger), le scarpe da ballerina di Warhol – assunte come simbolo dell’arte postmoderna restano superficiali e misteriose, “non ci parlano affatto” e si configurano come “oggetti morti” e feticisti. b) Scomparsa della storicità. c) Scomparsa dello stile individuale. Il cambiamento in età postmoderna è stato così radicale che concetti come quelli di angoscia ed alienazione (e le esperienze cui corrispondono, come nel Grido di Munch) non sono più adeguati. I grandi ritratti di Wharol, ad esempio, i celebri casi di schizofrenia, della droga, di autodistruzione ed esaurimento dei tardi anni ’60 sembrerebbero avere piuttosto poco in comune con gli isterici e i nevrotici dell’epoca di Freud, o di follia di Van Gogh. Si potrebbe definire tale mutamento nella dinamica della patologia culturale come una sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato. Con la frammentarietà del soggetto si sgretola anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche71. Gli stili moderni diventano codici per il postmoderno, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Il pastiche, sentore dell’imitazione, generatrice del simulacro, nasce in una società nella quale, citando Debord, il valore di scambio si è talmente generalizzato 71

Un pastiche è l'incorporazione in un unico testo letterario o teatrale di frammenti di testi diversi come articoli di giornali, dialoghi tratti da film, poesie, canzoni, simboli e fotografie. È un elemento caratteristico della narrativa del postmodernismo, i cui tratti salienti sono appunto un'apertura del testo attraverso forme differenti di intertestualità, esplicite relazioni di un testo con altri testi.

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da cancellare la memoria stessa del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato, ancora, Debord: «l’immagine è diventata la forma finale della reificazione»72. Con il disgregarsi della vita sociale, il frammentarsi dell’esistenza tanto singola quanto collettiva in una molteplicità irrelata di tempi e spazi, con l'esplosione del linguaggio reificato dei media, la parodia tende a perdere la propria originaria vocazione, aprendo così le porte a quella «statua con le orbite vuote» che è il pastiche. Anche il pastiche vuole essere imitazione di una determinata maschera, anch'esso si dimostra in apparenza come provocazione, come stimolo e slancio creativo, ma in realtà finisce necessariamente per chiudersi all'interno di una viziosa circolarità, ricadendo su se stesso. Si potrebbe dire che il pastiche sia in qualche modo già la parodia di se stesso. In altre parole, con il crollo dell'ideologia moderna dello stile, la parodia perde la propria funzione svuotandosi e trasformandosi in uno stile bianco fine a se stesso e privo di un qualsivoglia referente donatore di senso. Si tratta di una dinamica molto simile a quella incontrata a proposito del confronto delle scarpe di Van Gogh e di Warhol, in cui si vedeva chiaramente il passaggio da un modello di realtà strutturato nel senso della profondità ad uno completamente irretito in una dimensione di piattezza e di lucidità. Nella pratica del pastiche l'universo linguistico viene ridotto ad un groviglio inestricabile di stili e dialetti in cui appare impossibile trovare un centro. La vita del pastiche consiste nel saccheggio indiscriminato e sistematico degli stili morti del passato, e in ultima istanza è proprio al passato in quanto tale e alla sua onnivora presenza che essa richiama lo sguardo del critico. Se la dimensione dominante della cultura primonovecentesca, soprattutto nel caso delle avanguardie, era tutta incentrata intorno all'idea redentiva e un po' messianica dell'attesa, dell'utopia e, infine, del futuro, a partire dalla seconda metà del secolo si assiste ad una sorta di colpo di frusta in cui il passato viene bruscamente sostituito al futuro. Una simile dinamica si può riscontrare a livello della produzione culturale, al di là ovviamente del pastiche che ce la rivela, nella più giovane delle forme di espressione artistica, cioè nel cinema, ed in particolar modo nella produzione e soprattutto nel crescente successo del cosiddetto nostalgia film. Questo tipo di film, secondo Jameson è significativo in quanto riconfigura «l'intera questione del pastiche proiettandola su un piano sociale e collettivo». Nel film nostalgico il passato viene 72

Cfr. La società dello spettacolo citata in Jameson, 1991, trad. it. 2007, p. 35.

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letteralmente evocato mediante una soppressione radicale del presente. Qui ci si accosta ad un determinato passato storico al di là di qualsiasi possibile relazione con la storia reale, isolandolo e, per così dire, congelandolo in una sorta di eternità, di immobilità temporale e astorica. La nostalgia consiste poi nel tentativo disperato di appropriarsi di una realtà ormai trascorsa e conclusa che viene trasformata in un oggetto di desiderio: così, ad esempio, American Graffiti può essere letto come un recupero fantastico e appagante dei perduti e prosperosi anni Cinquanta americani. Tuttavia, ciò che appare immediatamente e in modo più emblematico no è tanto la perdita di un mondo e a una società irrimediabilmente frammentati, corrisponde dunque, un soggetto analogamente “indebolito, problematizzato e frammentato”. Se nella modernità l’individuo borghese (pur insidiato dall’angoscia, dalla lacerazione, dall’alienazione) era comunque capace di programmarsi e di autoaffermarsi, il soggetto postmoderno non è più in grado di farlo. All’esperienza, tipica della modernità, dell’angoscia e dell’isteria si contrappone la nuova esperienza tipica della postmodernità: la frammentazione schizofrenica, l’adattamento della psiche umana alla nuova esperienza della molteplicità, della serialità, della proiezione di sempre nuovi punti di vista. Se il soggetto moderno era alienato, il soggetto postmoderno è frantumato, dissolto e disorientato dalla crisi e dal crollo di tutte le identità collettive tipiche della modernità (la nazione, il partito, lo Stato, etc.) e il frammento postmoderno non ha nulla a che vedere con il frammento, ad esempio romantico: per i romantici il frammento è una totalità perché aspira a contenere in sé il mondo, per i postmoderni invece è un residuo, è ciò che resta del mondo dopo l’implosione. Scarto o reperto, il frammento postmoderno si presta, per la caduta di ogni legame con un ordine che lo trascenda, a essere perennemente riutilizzato e mescolato con altri reperti sopravvissuti o provenienti da altre tradizioni. Così, l’intertestualità e il pastiche diventano l’orizzonte e l’unica forma creativa possibile, come l’euforia e la schizofrenia sono le nuove tonalità emotive di un soggetto frammentato e disorientato nella perdita di ogni prospettiva universale e di ogni forma di totalità. L’identità che ne risulta non è più unitaria e compiuta, ma fluida e mutevole, poliforme e plurale, privata e individuale. Il soggetto postmoderno reagisce alla dispersione che lo circonda con una strana forma di “allegria allucinatoria”: è una 94


forma di euforia che configura una nuova tonalità emotiva dominata da un’intensità di alti e bassi, che però non esprime una situazione sottostante, non rinvia a nulla che riguarda il mondo, cioè non ha più funzione conoscitiva. E l’atteggiamento in questa condizione è ancora una volta diversificato: spesso è di rassegnazione/accettazione o di ironico rimpianto per la più serena epoca moderna passata, oppure di sempre ironico e distaccato divertimento per il tragicomico dramma umano, o anche di una possibile e nuova emancipazione futura, di una chance di un nuovo modo di essere. Pluralismo e frammentazione ci conducono a quello che forse è l’unico possibile elemento di coerenza in un paradigma segnato dalla contraddittorietà: Jameson spiega come nel postmoderno “la differenza eclissa la norma”. La differenza agisce su tutti i piani, a ogni livello: è una forma della sensibilità contemporanea ma è anche una pratica comunicativa e relazionale, come pure un possibile metodo di lavoro. Se il moderno privilegiava il ricorsivo, il seriale, il tipico, insomma l’ordine, il postmoderno privilegia invece l’eccentrico, l’atipico, il difforme, il differenziale, cercando in essi non tanto lo choc, quanto l’eccitazione, l’alto e il basso sensoriale, l’“allegria allucinatoria”. Ma senza mai ovviamente prendersi troppo sul serio, senza mai dimenticare la dimensione ludica e ironica che investe tutte le componenti della postmodernità, vale a dire: la legge secondo cui la differenza eclissa la norma vale anche per la differenza che si trova così a convivere con il suo opposto, per cui l’identico sfocia nel differente mentre a sua volta dal differente riaffiora comunque l’identico. La coabitazione degli opposti diventa allora forse l’unico carattere indiscutibile del paradigma postmoderno. Ma non si tratta di una coesistenza statica fra gli opposti, bensì è una coesistenza dinamica e cangiante, duttile e flessibile, sottoposta a un processo di continua e imprevedibile ridefinizione oltre che a un’inesauribile e mai definitiva negoziazione di ruoli: è un processo irrefrenabile e spontaneo che spinge ogni categoria concettuale a cercare il suo contrario, a rapportarvisi, attraverso una vera e propria dissolvenza incrociata. Tale situazione, ovviamente, ha degli esiti estetici e/o culturali: la nostra critica recente […] si è preoccupata di sottolineare l’eterogeneità e le profonde discontinuità dell’opera d’arte, non più organica o unitaria, ma divenuta un potenziale calderone o ripostiglio di sottosistemi disarticolati, di disparati materiali grezzi e impulsi di ogni sorta. In altre parole, l’opera d’arte di una volta risulta essere un testo, la cui lettura procede più per differenziazione che per unificazione. Le teorie della differenza hanno però cercato di mettere in risalto la disarticolazione a tal punto che i materiali del testo, comprese le parole e le frasi, tendono a disintegrarsi nella passività inerte e aleatoria di un insieme di elementi separati gli uni dagli altri [Cfr. ivi, p. 47].

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Da ciò deriva che la vecchia estetica è praticata dagli spettatori, che, messi di fronte alla molteplicità degli schermi come nell’opera di Nam June Paik, si soffermano su uno solo degli schermi che trasmette immagini insignificanti cercando nel loro susseguirsi una catena significante mentre allo spettatore postmodernista è chiamato a fare gli straordinari, l’impossibile, cioè a tenere sotto controllo tutti gli schermi nella loro diversità.

3.1 Architettura, postmodernismo e crisi del sensorio

Per Jameson l’architettura contemporanea è fra tutte le arti quella che più costitutivamente si avvicina all’economia, al giro d’affari multinazionale, intrattenendo un rapporto potenzialmente immediato con essa e integrando la propria produzione estetica nella produzione di merce in generale. Se la dimensione della temporalità si offre all’esperienza post-moderna come avvilita nella sua essenza, trasformata in stereotipo, simulacro, mera idea del passato di un presente assoluto e atemporale, la spazialità pare invece sottrarsi all'idea stessa della possibilità dell’esperienza. L’originalità dello spazio post-moderno consiste infatti nel suo eccedere in maniera radicale il sensorio umano, nell'organizzarsi cioè al di là di una sua accessibilità da parte del soggetto che ne usufruisce. Lo spazio post-moderno, che Jameson definisce, e vedremo perché, un iperspazio, appare del tutto inadeguato al bagaglio percettivo dell'uomo post-moderno che rimane ancora necessariamente legato al moderno avanzato ed alle sue strutture. In un certo senso è come se la nuova spazialità costruita irrompesse da un non precisato futuro in cui gli uomini non si sarebbero ancora adattati vivere. Da questo punto di vista si potrebbe dire che l'imperativo estetico dell'architettura post-moderna sia quello di sfidare la sensorialità ed espandere il corpo umano in forme e dimensioni ancora inimmaginate. Nell'analizzare la spazialità post-moderna e le sue strutture Jameson si abbandona ad una descrizione critica di un colosso dell'architettura post-moderna,

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L'Hotel Bonaventure73 a Los Angeles (1977) dell'architetto e imprenditore John Portman: Credo che il Bonaventure, insieme a un certo numero di edifici tipicamente postmoderni, come il Beaubourg a Parigi o l’Eaton Centre a Toronto, aspiri ad essere uno spazio totale, un mondo completo, una specie di città in miniatura (e vorrei aggiungere che a questo nuovo spazio totale corrisponde una nuova pratica collettiva, una nuova maniera di spostarsi e di riunirsi degli individui, qualcosa come una specie di iperfolla nuova e storicamente originale). In questo senso, idealmente, la minicittà del Bonaventure di Portman non dovrebbe avere alcuna entrata, essendo l’ingresso la giuntura tra l’edificio e il resto della città che lo circonda; dal momento che l’edificio non desidera essere parte della città, ma piuttosto un suo equivalente o sostituto. Ma poiché, ovviamente, ciò non è né possibile né pratico, ecco la riduzione al minimo della funzione di ingresso. Questo scollamento dalla città circostante è però molto diverso da quello dei grandi monumenti dell’International Style: lì lo scollamento era violento, visibile, e aveva un significato simbolico molto reale – come nei grandi pilotis di Le Corbusier, il cui gesto separa radicalmente il nuovo spazio utopico del moderno dal tessuto urbano degradato e “caduto”, che in tal modo viene esplicitamente rifiutato (benché la sfida del moderno fosse che questo nuovo spazio utopico, nella virulenza del suo Novum, si sarebbe propagato e avrebbe infine trasformato lo spazio circostante proprio grazie al potere del nuovo linguaggio spaziale [Cfr. ivi, pag. 55-57].

Ciò sarebbe confermato non solo dagli ingressi del Bonaventure che più che ingressi sembrano essere soluzioni per porte laterali o per porte sul retro, ossia sono piccolissimi e senza rilievo in modo da risultare quasi inavvertiti, ammorbidendo così il passaggio dalla strada della città all’interno dell’Hotel, ma anche dalla «grande pellicola di vetro riflettente che riveste il Bonaventure». Si tratta di una grande costruzione, le cui pareti, in vetro opaco appunto, impediscono di vedere l’esterno, per cui dall’interno si ha l’impressione di essere in un mondo autosufficiente, autonomo e, potremmo dire, totalitario: vorrei sottolineare piuttosto il modo in cui il rivestimento di vetro respinge la città esterna; una repulsione analoga a quella esercitata dagli occhiali a specchio, che rendono impossibile all’interlocutore vedere gli occhi di chi li porta e in tal modo si caricano di aggressività e potere sull’altro. Così, il rivestimento di vetro produce una peculiare e inubicata dissociazione del Bonaventure dal suo ambiente: non è neppure un esterno, dato che quando tentate di guardare le pareti esterne dell’hotel non si vede l’hotel, ma soltanto le immagini distorte di tutto ciò che lo circonda [Cfr. ivi, pag. 57].

Per quanto riguarda, invece, la nuova maniera di spostarsi e di riunirsi degli individui all’interno di queste «microcittà totali» in cui si trovano banche, cinema e 73

O l’Eaton Centre a Toronto o il Beaubourg a Parigi. Si tratta di vere città nelle città, di una specie di città in miniatura, minicittà nella città. Ciò che, infatti, colpisce di queste costruzioni è che, da un lato, questi nuovi edifici sono opere popolari cioè frequentati tanto dagli abitanti della città che dai turisti; e, dall’altro, si tratta invece di opere che non tentano più di opporsi con il loro linguaggio alla città circostante, ma piuttosto, al contrario, tentano di essere un loro equivalente.

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soprattutto giganteschi shopping center come per esempio nell’Eaton Center di Toronto, dando vita a ciò che Jameson definisce «una specie di iperfolla nuova e storicamente originale» che riempie e attualizza attraverso lo spostamento dei nostri corpi traiettorie che formano possibili storie o narrazioni, è necessario soffermarsi sulle scale mobili e sugli ascensori, definiti dallo stesso Portman gigantesche sculture cinetiche o sposta-persone. A di là della loro semplice funzione – afferma Jameson - «mi sembra che le scale mobili e gli ascensori d’ora in avanti sostituiscono il movimento, ma anche e soprattutto designino se stessi quali nuovi emblemi e segni riflessivi del movimento stesso […]. Qui la passeggiata narrativa è stata enfatizzata, simbolizzata, reificata e sostituita dal trasporto meccanico, che diventa così il significante allegorico della passeggiata di una volta, che ormai non ci è più permesso condurre per conto nostro: e ciò costituisce un’intensificazione dialettica dell’autoreferenzialità propria di tutta la cultura moderna, che tende a riferirsi a se stessa e a designare come suo contenuto la propria produzione culturale» (ivi, 56). In questi edifici è, dunque, possibile spostarsi velocemente con scale mobili e ascensori. Ma che tipo di esperienza dello spazio si fa quando abbandoniamo queste macchine sposta-persone? Si tratta senza dubbio di una esperienza spaziale radicalmente differente rispetto a quella di una volta in cui, invece, era possibile la percezione della distanza, della prospettiva e del volume. Inserito nell'Hotel Bonaventure il corpo esperisce una netta separazione dallo spazio «che sta all'iniziale disorientamento del moderno come la velocità del missile a quella dell'automobile» Jameson si aggira per le immense e informi sale dell’edificio come il Baudelaire raccontatoci da Benjamin si aggirava tra le vie della Parigi del XIX secolo, constatando l'emergere di una nuova tecnologia della città che paralizza il corpo e le sue precedenti abitudini in una serie di shock. In effetti, il Bonaventure viene accostato da Jameson all'esperienza della guerra così come viene evocata da Michael Herr nel suo Dispatsces, cioè come una enorme e inquietante macchina in movimento intorno al soggetto, il quale, ne rimane irrimediabilmente coinvolto, affascinato e soggiogato. L’annullamento della profondità in questi iperspazi provoca un senso continuo di disorientamento o una confusione schiacciante, come la definisce lo steso Jameson, che obbliga a seguire continuamente le indicazioni, i colori

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segnaletici o segnali direzionali, e a muoversi solo guidati da esse nel tentativo disperato di ristabilire le coordinate dello spazio di una volta: Arrivo così al punto principale della mia analisi: quest’ultima mutazione dello spazio – dell’iperspazio postmoderno – è riuscita infine a trascendere le capacità di orientarsi del corpo umano individuale, di organizzare percettivamente le cose che lo circondano da vicino e, cognitivamente, di tracciare una mappa della sua posizione in un mondo esterno che questo allarmante punto di separazione tra il corpo e l’ambiente costruito che lo circonda – che sta all’iniziale disorientamento del moderno come la velocità del missile a quella dell’automobile – possa essere a sua volta simbolo e analogo di quella questione ancora più spinosa che è l’incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa del grande network comunicazionale, globale, multinazionale e decentrato, in cui ci troviamo impigliati come soggetti individuali [Cfr. ivi, pag. 60].

La descrizione che Benjamin dà di Baudelaire e dell’emergere del modernismo da una nuova esperienza della tecnologia della città, che trascende tutte le precedenti abitudini della percezione corporea, risulta al contempo singolarmente pertinente e singolarmente antiquata alla luce di questo nuovo balzo in avanti, pressoché inimmaginabile, nell’alienazione tecnologica74: Noi stessi, i soggetti umani che irrompono in questo nuovo spazio, non abbiamo tenuto il passo con questa evoluzione; finora la mutazione dell’oggetto non è stata accompagnata da alcuna mutazione equivalente nel soggetto. Ancora non possediamo il corredo percettivo per armonizzarci con questo che chiamerò iperspazio, in parte perché le nostre abitudini percettive di sono formate in quel tipo antecedente di spazio che ho denominato spazio del modernismo avanzato. Pertanto l’architettura più recente – come molti altri prodotti culturali che ho evocato nelle osservazioni precedenti – si pone come una sorta di imperativo a sviluppare nuovi organi, a espandere le nostre funzioni sensoriali e il nostro corpo in nuove dimensioni ancora inimmaginabili e forse, in ultima analisi, impossibili [Cfr. ivi, pagg. 54-55].

Lo spazio di Portman non è qualcosa di eccezionale oppure qualcosa di originale o di confinato al tempo libero (come invece lo è Disneyland) ma qualcosa che sta diventando sempre più solito. Per Jameson, la cultura della postmodernità non è, quindi, altro che un «paesaggio “degradato” di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico e del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e della fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente

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Jameson, 1991, trad. it. 2007, pagg. 60-61.

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“citati”, come sarebbe potuto accadere in Joyce o Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza»75. Ma essa non è per nulla una ludica e innocente sperimentazione nietzscheana, quanto piuttosto la ben più concreta espressione sovrastrutturale del nuovo dominio economico e militare dell’America nel mondo. «Soltanto nei termini di quest’altra realtà, quella delle istituzioni economiche e sociali – afferma il critico letterario – è a mio avviso possibile teorizzare adeguatamente il sublime postmoderno»76. Un elenco di ciò che viene immediatamente dopo l’ultima fioritura del tardo modernismo, cioè ciò che si rifà alla logica culturale del tardo capitalismo, si fa empirico, caotico ed eterogeneo: Andy Warhol e la pop art, ma anche l’iperrealismo e, ancora oltre, il “neoespressionismo”; nella musica John Cage, ma anche la sintesi di classico e “popolare” che si riscontra in compositori come Phil Glass e Terry Riley, e anche il punk e la new wave […]; nel cinema, Godard, il post-Godard, il video e il cinema sperimentali [Cfr. ivi, pag. 19].

Seguendo i caratteri della dominante culturale “Postmodernismo” delineati dal filosofo americano, dunque, l’architettura77 e il cinema sperimentale, e il video in generale, del XX secolo sono molto vicini. Nell’artificio generalizzato del nuovo ordine civile si inscrive la fine della modernità, intesa come trionfo del simulacro e conseguente indebolimento della storicità78. A questo artificio totalizzante corrisponde l’affermarsi dello «spettacolo imperiale» che si attua come «spettacolo globale», inteso a recuperare un’unità fittizia del mondo79, sia come «virtualità». Mentre da una parte, dunque, si realizza la spettacolarità diffusa descritta da Debord, dall’altra si realizza la dimensione simulativa del pastiche, sentore dell’imitazione e generatrice del simulacro, di marca postmodernista. È il feticismo della merce informatica (linguistica) che sta alla base della (post)modern(ist)a infosfera, di quello che possiamo definire facendo una crasi tra l’ideologia di Jameson e di Debord, spettacolare simulativo. 75

Cfr. Jameson, 1991, trad. it. 2007, pag. 20. Cfr. Introduzione in Jameson, 1991, trad. it. 2007, pagg. 5-6. 77 «È tuttavia nell’ambito dell’architettura che le modificazioni della produzione estetica sono più platealmente visibili e che i problemi teorici da esse sollevati hanno ottenuto una centralità e un’articolazione maggiori che in altri campi, ed è anzi proprio dal dibattito architettonico che ha preso il via la mia personale concezione del postmodernismo» [Cfr. Jameson, 1991, trad. it. 2007, pag. 20]. 78 Cfr. Jameson, 1991, trad. it. 2007, pag. 19 e segg.. 79 Cfr. Debord 1967, trad. it 2002 tesi 29. 76

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Le architetture moderne, prese a modello delle strutture e dei processi del postmodernismo, però, allo stesso modo sembrano essere un classico esempio di dètournement, esse, infatti, fanno lo sgambetto al modo di percepire, alle abitudini, dell’animale umano, costringendolo ad andare oltre, le architetture si esperiscono, sono una nuova forma di esperienza che modifica il dispositivo stesso dell’esperire allo stesso modo di come la fotografia e il nastro trasportatore modificarono l’essere umano descritto da Benjamin e Marx tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Esse, andando contro le abitudini della forma di vita, la costringe a dialogare con ciò che le sta incontro alla ricerca di nuove certezze e, quindi, di un nuovo modo di esperire ciò che le sta intorno creando un rapporto di bilateralità:

Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l'ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E' l'autoritratto del potere all'epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d'esistenza. L'apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra uomini e tra classi: una seconda natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali. Ma lo spettacolo non è un prodotto necessario dello sviluppo tecnico visto come sviluppo naturale. La società dello spettacolo è al contrario la forma che sceglie il proprio contenuto tecnico. Se lo spettacolo, esaminato sotto l'aspetto ristretto dei "mezzi di comunicazione di massa", che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell'epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l'amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa "comunicazione" è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell'amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata. La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, vale a dire dalla forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe [Cfr. Debord 1967, trad. it 2002, tesi 24 pagg. 49-50].

Nell’unilateralità della merce-spettacolo, nel suo tenere l’ordine delle cose su se stessa, sta la peculiarità del falso distacco provocato dalla società dello spettacolo. E il suo contrappasso non può non essere nella bilateralità: nella interazione tra essere umano e mondo sta il segreto del situazionismo e del postmodernismo. Nelle tesi 158 e 159 Debord chiarisce, infatti, che lo spettacolo come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell'abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo e per portare i lavoratori allo statuto di produttori e consumatori «liberi» del tempo-merce, 101


la condizione preliminare e stata l'espropriazione violenta del loro tempo. Uno spossessamento che però deve avvenire anche a livello spaziale e non solo temporale. Si compie in questo modo un ulteriore allineamento teorico fra Jameson e Debord: lavorare sull’urbanismo (Debord e il Situazionismo in generale) e sull’architettura (Jameson) significa cercare di inserire il corpo in un nuovo sistema di percezione che lo smuove dal guscio iper-ovattato dell’industria spettacolare: L'urbanismo è il compimento moderno del compito ininterrotto che salvaguarda il potere di classe: il mantenimento dell'atomizzazione dei lavoratori che le condizioni urbane di produzione avevano pericolosamente riunito. La lotta costante che ha dovuto essere condotta contro tutti gli aspetti di questa possibilità d'incontro trova nell'urbanismo il proprio terreno privilegiato. Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell'ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse. «Con i mezzi di comunicazione di massa su grandi distanze, l'isolamento della popolazione si è rivelato un mezzo di controllo molto efficace», constata Lewis Mumford in La città nella storia, descrivendo «un mondo ormai a senso unico». Ma il movimento generale dell'isolamento, che costituisce la realtà dell'urbanismo, deve anche contenere una reintegrazione controllata dei lavoratori, secondo le necessità pianificabili della produzione e del consumo. L'integrazione nel sistema deve recuperare gli individui in quanto individui isolati insieme: le fabbriche, come le case della cultura, i villaggi delle vacanze come «i grandi agglomerati», sono organizzati in modo specifico ai fini di questa pseudocollettività che accompagna anche l'individuo isolato nella cellula famigliare, ovvero l'impiego generalizzato dei ricevitori del messaggio spettacolare fa sì che il suo isolamento si ritrovi popolato delle immagini dominanti, immagini che solo per questo isolamento acquistano la loro piena potenza.

Merita una rilettura anche la tesi successiva: Per la prima volta una nuova architettura, che ad ogni epoca precedente era riservata alla soddisfazione delle classi dominanti, si trova direttamente destinata ai poveri. La miseria formale e l'estensione gigantesca di questa nuova esperienza di habitat provengono entrambe dal suo carattere di massa, che è il portato sia della sua destinazione che delle moderne condizioni di costruzione. La decisione autoritaria, che configura astrattamente il territorio in territorio dell'astrazione, è evidentemente al centro di queste moderne condizioni di costruzione. La stessa architettura appare ovunque incominci l'industrializzazione dei paesi sotto questo aspetto arretrati, come terreno adeguato al nuovo genere di esistenza sociale che si tratta di impiantarvi. Altrettanto nettamente che nelle questioni dell'armamento termonucleare o della natalità - riscontrando già in quest'ultima la possibilità di una manipolazione dell'ereditarietà - la soglia varcata nell'aumento del potere materiale della società, e il ritardo del dominio cosciente di questo potere, sono evidenti nell'urbanismo [Cfr. ivi, tesi 172-173 pagg. 134-135].

L’urbanismo unitario cessa di essere l’artefice di forme inutili ed inefficaci per diventare il costruttore di ambienti e modi di vivere completi, trasformando non solo la struttura urbana, ma anche il comportamento degli abitanti, la pittura industriale di Pinot Gallizio ne è stata un esempio. La sua Caverna dell'antimateria, 102


essai de construction80 d'une ambiance, (ambiente sinestetico: pittorico visivo, olfattivo e musicale), idea dell’antimondo che risulta un’opera scientifica, poetica e artistica insieme, è così descritta in un documento dell’epoca da Gallizio stesso: Così io, piccolo mago dell’antimondo, cerco di descriverlo e creo la mia caverna, scatola con senso magico, esattamente come loro, impaurito, credo che il mio linguaggio sia sincero, magico, reale, anzi interreale, è per questo che il mio gioco è terribilmente semplice e quindi emotivo, irrazionale, fantastico, unico, artistico e quindi irripetibile, almeno come gesto. Nella mia caverna basterà uno specchio, piano concavo o convesso per creare un labirinto, un gioco di luce creerà nuove immagini fantastiche, con luce ultravioletta, normale, infrarossa calda, alta, bassa o riflessa con una superfice metallica esterna o portata dagli spettatori a mo’ di torcia … Dobbiamo far giocare i fruitori con dei gesti semplici, basterà che uno di noi si avvicini in un determinato punto della sala, affinché un urlo magico, del mio apparecchio elettronico, lo svegli e lo impaurisca (pittura parlata). L’aroma resinoso li porterà in un ambiente irreale … un sottofondo musicale, come di un fiume che scorra dentro o di un mare che batta sotto, creerà l’atmosfera ansiosa di un mondo in formazione … contro il mercato dell’arte, le emozioni che noi avremmo provocate rimarranno soltanto nello spazio e nel tempo che noi abbiamo creato. Non è materia vendibile, s’in ora l’aria non è ancora monopolizzata ... e la pittura industriale e d’ambiente ricopre le pareti interne della Caverna 81.

In uno dei rari studi su Gallizio possiamo leggere: Gallizio’s outmoded cavern is revelatory, rather than retrogressive, in its attempt to stage a return of what modern, elevated modes of habitation repress. It is therefore not an embrace of an irrational, primitive space per se, but a strategic use of the irrational to expose what the Situationists understood as the terrorism done to the subject under functionalist conditions of living. [...] Sensate and mobile participants were both anticipated and activated by this space, which included random squirts of perfume and the triggering of unexpected noises emitted by a motion-detector sound device called a tereminofono that was hidden behind the unframed rolls of canvas walls. The frequency of the noise produced depended on the vibrations triggered by the speed and location of passing or orbiting bodies: for example, the vibrations of close proximity produced a high pitch, and distanced movements a low one [Stracey, 2006, pag. 90-91].

Gallizio stabilisce una collisione di molteplici avventure sensoriali inaspettate attraverso dispositivi di figurazione pittorica e audio polifonico a sorpresa per eccitare, e confondere i suoi esperitori per stimolarli a interagire con ciò che gli si trova intorno e non soltanto a fruirne passivamente la costruzione: Gallizio sets up a collision of multiple subjectivities within this street-level underworld of unexpected sensory adventures. In contrast to what the SI conceived of as the passive boxes of modernist architecture, where technology, such as television, is used to subdue, distract, and placate its captive audiences, we have here a use of modern, polyphonic sound devices to surprise, excite, and confound its mobile agitators/activators; this is a place not for passive actors but wandering, vitalized “livers.” The playful construction of this “cavern” follows the ambition of unitary urbanism to use the given environment as a terrain for participatory games. The quiet, 80

Presentata come Prova di costruzione di uno stato d'animo. Il testo completo è disponibile a http://www.equilibriarte.org/tramacererrica/blog/la-caverna-dellantimateria-di-pinot-gallizio 81

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contemplative gallery with its “do not touch” policy is détourned into an unruly, noisy, smelly, kinaesthetic adventure playground. A space apart for play is no longer devalued as the preserve for the child, but play as such is recentered as a value productive of collective forms of nonalienated or “lived” experiences. Gallizio successfully applies and extends, within the interior space of the gallery, the principle of a Situationist urban dérive, a type of collective, aleatory drifting through a cityscape in order to solicit unfamiliar, nonhabituated responses. This cavern dweller is encouraged to lose his or her way in the murky environment, to get disorientated—tactics that promote a desire to discover a new self, where established patterns of behavior are undone. It is important to stress that unitary urbanism was not concerned with fixing the parameters of such new behavioral discoveries. Rather, it was about constructing a space in which “unexpected forms” could develop. Such a provisional horizon was emphasized by the temporary aspect of this limited duration installation and by the impermanence of its structure: this was no fixed, rock-bound cave for settled troglodytes, but an itinerant shelter, a paradoxically portable, tentlike cavern suited for nomadic travelers, whose transient and makeshift abodes contested Le Corbusier’s model of an eternal and permanent modern architecture one [Cfr. ivi, pag. 90].

Stracey dimostra come la caverna di Gallizio abbia elementi di contatto con la caverna di Thomas Hirschhorn, artista contemporaneo che si occupa anch’esso di arte ambientale e videoinstallazioni: By way of a brief conclusion we can say that a cave, literally defined, is a hollow or cavity within a solid body. As a void the cave represents a nonplace, and as a model for a subject it presents one full of holes. But to build a cave, to dig underground, points to a process that aims at excavating what lies beneath the ossified surface, to probe in order to liberate and reveal secret or repressed realities—be they lost thoughts or derelict utopian dreams, as in Hirschhorn’s abandoned philosopher’s cave, or the as-yetto-be discovered ways of being in the world indicated by Gallizio’s ambition of constructing a “provisional reality” premised on the collapse or ruination of the Old World Order. It is my contention that at stake in both artists’ cave-building projects is a living archaeology that has both regressive and utopian tendencies. The desire to tunnel can point to a nostalgic retreat or denial of the conditions of the present, but can also indicate a way to use the archaic or outmoded as a way out of the impasse of a present crisis, through a process of immanent excavation. Of course, it may seem that compared to the processes of conventional archaeology, which is understood as a discipline that traces a genealogy of the past within the present through the excavation of actual archaic artifacts, these two phantasmatic digs, with their artificial and constructed artifacts, appear as superficial dramatizations or parodies of archaeology. But perhaps there is also a way in which the art caves of Gallizio and Hirschhorn still perform archaeology in a profound sense: as excavations of fundamental structuring principles (or arche) denied or repressed in and by the present, but on which the present is built: for example, tracing and exposing the hidden roots of the prevailing conditions of the gallery, capitalism, or architecture and its modern inhabitants. So, perhaps, as compared to what we know as conventional archaeology, Gallizio and Hirschhorn present us with what we should think of as an art of archaeology [Cfr. ivi, pag. 100].

Gli Environment di Gallizio gli uomini “giocano” con gesti semplici, elementari, rendendoli parte viva dello spettacolo. Esso saranno: imprevedibil[i] per toni e contrasti di colori... per violenza, ... violenza... materie in eruzione come la lava, in esplosione per effetti sorprendenti di colori dai più tenui ai

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più scuri... pittura atomizzata, disintegrata! Le reazioni a catena descritte sulle pareti illustreranno gli attori-visitatori un dramma vissuto a loro insaputa... l’aroma resinoso li porterà in un ambiente irreale che solo la presenza di una realtà provvisoria, la mannequin vestita di pittura potrà diradare... Un sottofondo musicale, come di un fiume che scorra dentro o di un mare che batta sotto, creerà l’atmosfera ansiosa di un mondo in formazione82.

A questo testo ne fa eco un altro che anticipiamo per poi essere ripreso in seguito: L’aspetto ludico è una componente intrinseca dell’interattività, di qualsiasi forma d’interattività anche la più arcaica. L’aspetto divertito può suonare come sinonimo di superficiale: cadere ingenuamente nelle regole di un gioco prefigurato. Ma come tutti sappiamo giocare vuole soprattutto dire conoscere attraverso una simulazione, comporre un’esperienza attraverso un’avventura immaginativa. Basta osservare un bambino per rendersene conto. Il gioco è una soglia d’accesso. In quanto tale deve condurti a strati di progressiva complessità, in cui le regole man mano conosciute, ti offrono straordinarie libertà interpretative. Del resto è meglio agire sapendo le regole, piuttosto che muoversi pensando che non esistano ed esserne schiavo inconsapevole. L’interattività e la sua componente ludica sono una chiave per conquistare un accesso a questi strati più riflessivi, non devono essere pensati come una porta sul vuoto83.

Le descrizioni della Caverna di

Gallizio (e dei Situazionisti) e del

Bonaventure di Jameson collidono: esse devono mettere in scacco (il sensorio del)l’essere

umano

per

tirarlo

via

dalla

bufera

dell’infosfera,

surrogato

postmodernista della società spettacolare.

4. Dagli Environment alle installazioni: Studio Azzurro

Seguendo l’analisi di Gallizio e di Jameson, l’architettura ha lo stesso linguaggio degli Environment, gli Ambienti, che possono essere messi in diretta connessione con le contemporanee istallazioni. Riportiamo quanto detto in precedenza dal filosofo americano: Noi stessi, i soggetti umani che irrompono in questo nuovo spazio, non abbiamo tenuto il passo con questa evoluzione; finora la mutazione dell’oggetto non è stata accompagnata da alcuna mutazione equivalente nel soggetto. Ancora non possediamo il corredo percettivo per armonizzarci con questo che chiamerò iperspazio, in parte perché le nostre abitudini percettive di sono formate in quel tipo antecedente di spazio che ho 82

Cfr. le lettere di Gallizio cit. in Bandini, 1977, pag. 151. Cfr. Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, Studio Azzurro (Paolo Rosa), http://www.studioazzurro.com/sito_italiano/corpus%2Bnav.htm 83

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denominato spazio del modernismo avanzato. Pertanto l’architettura più recente – come molti altri prodotti culturali che ho evocato nelle osservazioni precedenti – si pone come una sorta di imperativo a sviluppare nuovi organi, a espandere le nostre funzioni sensoriali e il nostro corpo in nuove dimensioni ancora inimmaginabili e forse, in ultima analisi, impossibili [Cfr. Jameson, 1991, trad. it. 2007, pagg. 54-55].

La

descrizione

contemporanee

che

può

benissimo

lavorano

sulla

essere

applicata

video-arte

e

alle sulle

Avanguardie istallazioni

(videoambientazioni). Per installazione intendiamo un genere di arte basato sul visuale e sull’audio sviluppatosi a partire dagli anni settanta. L'installazione è in genere un'opera d'arte tridimensionale non mobile, che comprende media e forme espressive qualsiasi natura per creare, da parte dell'osservatore una particolare esperienza in un determinato ambiente. Nel tentare questa analisi ci occuperemo di alcuni scritti di Studio Azzurro, una avanguardia attiva nel settore audivisivo che da tempo opera anche con videoinstallazioni e videoambientazioni nell’esplorazione, appunto, del rapporto tra l’oggetto video, la realtà quotidiana e il soggetto. Occorre precisare che Studio Azzurro rifiutò sin da subito l'etichetta di “video-arte”, intendendo denunciare con questo un certo scetticismo nei confronti di un «uso diffuso e spesso immotivato di nuove tecnologie ridotte a puri strumenti espressivi, senza alcuna consapevolezza del mondo mediatico che rappresentano». Infatti, contro quella che rischiava di diventare una tendenza formalistica, puramente decorativa, che interpretava il video come strumento alternativo al pennello, l'intenzione programmatica del gruppo milanese consisteva piuttosto nel rilevare le trasformazioni in atto attraverso un'esplicitazione del più autentico significato del video come sistema simbolico della contemporaneità, capace in sé di riassumere il mutamento epocale, coinvolgente sia il pensiero dell'arte, sia l'universo della comunicazione, fino ad arrivare alle modalità percettive di base del singolo individuo. Coniugando lucida consapevolezza e forte sensibilità sociale, esso delinea fin dagli esordi quelle che possono essere considerate le linee guida del suo lavoro: carattere ambientale dell'opera, che si fa più propriamente "evento", situazione, luogo dove intrecciare liberi percorsi narrativi; ruolo centrale dello spettatore, inscritto com'è in un percorso narrativo meramente evocativo, che stimola il pieno investimento del suo immaginario e lo modella quindi come componente costitutiva essenziale, capace di realizzare le potenzialità dell'opera; neutralizzazione 106


dell'apparato tecnologico, per mettere in scena un complesso gioco di interscambio tra reale e virtuale, verificandone attraverso seducenti e fluide proposte conoscitive la sostanziale ambiguità interpretativa e suggerendo, inoltre, nuove possibilità di integrazione tra uomo e dispositivi tecnologici, in una prospettiva etica di responsabilizzazione e di rinnovato recupero della dimensione poli-sensoriale. Uno spazio socializzato è il senso primo della loro definizione di “ambienti sensibili”. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo con la macchina, altre, eventualmente, stanno ad osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga il confronto, anche complice, con le altre persone (più persone partecipano all’interazione con il dispositivo, ma contemporaneamente mantengono un contatto tra loro, un confronto tra le loro reazioni, le loro sensibilità). È una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile. Scrive Studio Azzurro a proposito della ricerca sul video: Solitamente infatti si pensa al video soprattutto in relazione a ciò che avviene “nello schermo”: come mezzo che produce sostanzialmente immagini. Di conseguenza lo si valuta spesso come esperienza di velocità, di sinteticità, di molteplicità, di fantasmagoria, aderendo a uno stereotipo pretestuoso e superficiale. Più raramente lo si considera per quel che produce dilatandosi “fuori dallo schermo”. Questo mezzo non impedisce infatti allo spettatore durante la fruizione di dialogare con lo spazio circostante, non lo costringe ad annullarsi, dal punto di vista fisico, nel buio e nel silenzio della sala84, come avviene in una sala cinematografica, ma si prolunga al di fuori, ricomponendo significativamente quella separazione tra realtà e immaginazione che è una delle caratteristiche della nostra epoca [Cfr. Studio Azzurro, 1988, pag. 7].

L’interazione con l’ambiente, quindi, è il presupposto programmatica della loro ricerca. I monitor si inseriscono in uno spazio ma al tempo stesso lo ricreano in virtù della loro presenza oggettuale. Una videoinstallazione, infatti, assomiglia molto ad un evento teatrale che si rinnova ogni volta che viene messo in scena, dove ci sono elementi costanti ed elementi variabili. Essa crea uno spettacolo fluido che, lentamente, trasporta dentro una diversa dimensione senza che quasi lo spettatore se ne accorga: «Il perdersi è una condizione dell'uomo contemporaneo che bisogna 84

Tornano alla mente in questo passo le descrizioni di Kracauer.

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saper accettare. Positivamente può aiutarci a recuperare una curiosità esplorativa, una sensibilità alle cose e ai segnali, un gusto della ricerca. Di fronte a questo impatto forte si potranno scoprire i limiti dimenticati della nostra superiorità e costruire nuove, avventurose narrazioni»85. Elemento strutturante di tale esperienza è il ruolo partecipativo dello spettatore, attore di una testualità della percezione e complice di nuove modalità di narrazione, dove si esplica la caratteristica di evento dell’opera. Non più elemento di rappresentazione ma portatrice di esperienza, l’opera si concretizza in una tipologia delle immagini della comunicazione, luogo di pratiche plurisensoriali, definita dallo spazio del videoambiente. Pratiche plurisensoriali che hanno il compito di svegliare l’uomo che, come direbbe Jameson, è rimasto formato ancora con un «del tutto inadeguato al bagaglio percettivo dell'uomo post-moderno che rimane ancora necessariamente legato al moderno avanzato ed alle sue strutture» e vive sotto la campana di cemento della società spettacolare. Essa, la videoambientazione, si configura come una risposta istintiva all’esperienza riflessa e sempre più indiretta dell’uomo davanti allo schermo-finestra sul mondo. L’immagine, quindi, cessa di essere solo oggetto di osservazione e contemplazione e diviene elemento di possibilità di linguaggio e di ricerca delle sue potenzialità, ridefinendo i concetti di realtà e simulazione. L’immagine e l’oggetto, lo schermo e i suoi confini, il corpo e il simulacro sono

diventati

gli

elementi

di

un’efficace

pratica

linguistica

che

è

contemporaneamente riflessione teorica sui meccanismi della simulazione e della comunicazione. La videoambientazione, infatti, rappresenta una dimensione visionaria che ha come riferimento il linguaggio della quotidianità e per questo riattiva la percezione di sé come soggetto partecipe al racconto e, nello stesso momento, lo rende consapevole dell’enorme livello di falsificazione del linguaggio ordinario giocato nello scambio tra realtà e virtualità86. È il fruitore che decide, con le nuove videoinstallazioni egli rompe l’immobilità o l’inarrestabilità dell’immagine. È la decisione di toccare il video (o l’immagine) e la volontà di appropriarsi di un mondo artificiale che assume rilievo in

85

Cfr. Rosa, Paolo, (Studio Azzurro), Punto e caos, www.studioazzurro.com/sito_italiano/testo1.htm Possiamo individuare in questa falsificazione del linguaggio ordinario il processo che sta alla base della società spettacolare. 86

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quanto egli sceglie di abbandonare, ancora una volta dopo l’avvento della fotografia, la distanza auratica che lo separa dall’opera per entrare ludicamente nell’arte. L’opera di Studio Azzurro mette in pratica questo comandamento permettendo di toccare la merce esposta per sfatare l’incantesimo dello spettacolare creando bilateralità e interazione. Essa, inoltre, mette in scena uno dei punti chiave identificati da Jameson nella logica del postmodernismo: con la frammentarietà del soggetto si sgretola, abbiamo detto in precedenza, anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche. Studio Azzurro mette in scena proprio questo, l’autore qui non esiste, esistono dei campi (sonoro, tecnica, grafica) dove ognuno mette alla prova i propri studi mettendo la parte la propria autorialità. Gli stili moderni (musica, arte figurativa, conoscenza tecnica) diventano codici per il postmoderno che si dispiega nel pastiche delle videoinstallazioni di Studio Azzurro. I nuovi linguaggi creati dal citazionismo degli stili moderni attraverso il postmodernista pastiche sono proprio quelli evocati da Lyotard e Vattimo: essi sono quelli che vengono affiancandosi agli antichi, formando i sobborghi della vecchia città. I nuovi linguaggi sono quelli messi al lavoro da Studio Azzurro ma anche quelli chiamati in causa dal manifesto di Dogma 95.

5. Dogma 95

Dogma 95 (Dogme 95) è il nome di un movimento cinematografico particolare, creato e fondato su precise regole espresse in un manifesto87 pubblicato nel 1995 (da cui il nome) dal regista danese Lars von Trier (e da altri tre firmatari), e quindi non nato ed evoluto spontaneamente come nella maggior parte dei casi nella storia del cinema. Il decalogo, a cui hanno aderito diversi registi danesi, oltre allo stesso von Trier: Thomas Vinterberg, Kristian Levring e Søren Kragh-Jacobsen, è spesso definito anche con il significativo nome di Voto di Castità, che lascia intendere lo

87

Il manifesto è anche online su www.dogme95.dk.

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spirito del movimento, ed è stato stilato e firmato ufficialmente a Copenaghen, lunedì 13 marzo 199588: Com’è accaduto che le tempestuose storie d’amore della storia del cinema del passato si siano ridotte a matrimoni di convenienza? Che cos’è capitato a questi vecchi maschi? Che cos’è che ha logorato questi grandi maestri dell’attrazione sessuale? La risposta è scontata: il voler piacere a tutti i costi e il timore di essere smascherati (non è grave essere impotenti se la vostra compagna vi si nega da molto); hanno tradito quello che agli inizi infondeva vita nella loro relazione: il Fascino! I registi sono i soli colpevoli di questa scialba routine. Come dei despoti non hanno mai permesso alle loro beneamate di sbocciare nella relazione amorosa... per orgoglio non hanno voluto la scintilla divina nello sguardo della loro “compagna-film”. Le hanno distrutto e hanno distrutto se stessi [Cfr. Porcelli, 2002, pag. 5].

L'obiettivo, ambizioso, era quello di purificare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali e dagli investimenti miliardari89. Niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano: Sono troppo scure, troppo mosse, troppo finte, troppo liquide, troppo sporche, troppo sovraesposte, troppo parossistiche, troppo invasive, troppo reali. Sono sempre troppo. Troppo o troppo poco. I film di Lars Von Trier emozionano o irritano [Cfr. ivi, pag. 21].

Si realizzano qui le riflessioni di Fredric Jameson sullo spazio post-moderno: esso appare un iperspazio del tutto inadeguato al bagaglio percettivo dell'uomo postmoderno che rimane ancora necessariamente legato al moderno avanzato ed alle sue strutture, un iperspazio dove gli uomini non si sarebbero ancora adattati vivere e a cui ci si può abituare a vivere solo grazie all’architettura postmoderna: da questo punto di vista, infatti, si potrebbe dire che l'imperativo estetico dell'architettura postmoderna sia quello di sfidare la sensorialità ed espandere il corpo umano in forme e dimensioni ancora inimmaginate. Allo stesso modo, Dogma, con i suoi severi dettami, cerca di portare sullo schermo il reale “così come è” per mostrare alle persone che i film attuali non sono altro che semplici inganni creati per vendere e per il puro gusto di esaltare la personalità del regista. 88

L’esperienza si concluse 10 anni dopo nel 2005. Cfr. Lyotard, 1979, trad. it. 1981, pagg. 12-14. Nel passo Lyotard spiega come nel momento in cui avviene la rivoluzione postmoderna il sapere viene fatto per essere venduto. Applicando questo passo alla critica di Dogma risulta chiaro come il cinema contemporaneo segua i canoni dell’analisi lyotardiana e come il manifesto stesso redatto dai registi danesi prospetti una nuova concezione della pratica cinematografica basata, chiamando in causa ancora Lyotard, sui «nuovi linguaggi che si affiancano agli antichi». 89

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La serie di regole proposta da von Trier e compagni lasciò perplessa l'intera critica che non prende seriamente la provocazione definendo Dogma una grande trovata pubblicitaria. Dogma 95 è una provocazione e come tale va accolta: von Trier e compagni ebbero la certezza che l'establishment cinematografico avrebbe dovuto inevitabilmente reagire di fronte a un documento che nega la spettacolarità e il trionfo della manipolazione. I due cofondatori del movimento, von Trier e Vinterberg, hanno sostenuto in più momenti che quelle regole specifiche e apparentemente ferree che appaiono nel manifesto si sono dimostrate un elemento di fondamentale importanza nel processo creativo della realizzazione dei film dogma. Molte delle regole sono state redatte dallo stesso von Trier per costringersi a fare qualcosa di diverso rispetto a quello che sino a quel momento aveva fatto, focalizzare l'attenzione su qualcosa di differente ti porta a esplorare e reinventare il modo di rappresentare quello che ti circonda: Per il quartetto danese, il film viene prima di qualsiasi altra sovrastruttura ed è anzitutto il frutto di un lavoro collettivo. Lo spettatore deve andare a vedere un film per emozionarsi, indignarsi, vivere un’esperienza, non perché conosce, elogia o scusa le eventuali déblacle di un singolo regista. Lars von Trier dice che dopo la pubblicazione del manifesto ha invitato numerosi registi di Hollywood a unirsi a Dogma, ma che non ha mai ricevuto alcuna risposta, e Vinterberg dichiara di averlo proposto personalmente a Spielberg, che si era mostrato entusiasta all’idea per poi però scomparire nel nulla [...] Dogma ha aperto la strada verso un cinema veramente democratico. A partire dal Dogma, possiamo riprendere a proseguire laddove si era arrestato l’ormai defunto cinema muto. Possiamo ritornare alle basi della comunicazione delle idee e dell’esperienza, grazie a dei mezzi puramente emozionali e visivi, piuttosto che raffinatamente tecnici. Ecco perché, malgrado l’aderenza pedissequa a un modello normativo prestabilito, i primi quattro film sfornati dal movimento Dogma sono completamente diversi tra di loro proprio negli elementi che più avrebbero dovuto omologarli: nella forma, nello stile, nel linguaggio cinematografico [Cfr. ivi, pagg. 122123].

Mettere in pratica il Voto di castità è possibile grazie alla semplificazione della prassi cinematografica che si sta mettendo in pratica in questi anni: La facilitazione delle procedure produttive, e la conseguente gestione più autonoma e indipendente del fare film, è certamente uno dei motiv principali dell’adesione al movimento danese, parimenti alla legittimazione di uno stile specifico – quello legato all’uso del mezzo video – delle potenzialità in fieri e dai risultati ancora in via di sperimentazione. D’altronde la decisione di non filmare con la macchina da presa e la pellicola, sempre più diffusa indipendentemente dal Dogma, se in alcuni casi sembra essere determinata dai soli motivi economici (ma la differenza di costi non è così rilevante se poi il film viene riversato su pellicola), in altri si rivela una scelta estetica

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coraggiosa e consapevole che tiene conto dei vantaggi e dei limiti del video come forma espressiva [Cfr. ivi, pag. 149].

E le innovazioni di Dogma 95 sono di portata ben superiore rispetto alla semplice “trovata pubblicitaria” a cui inneggiavano i media subito dopo l’uscita del manifesto: Gilles Bissot ci conferma come le sperimentazioni formali del Dogma e l’uso di nuovi mezzi stiano andando verso una nuova e vitale direzione che Lars von Trier è stato tra i primi ad intuire e che sta totalmente rivoluzionando il linguaggio cinematografico tradizionale. Anche secondo Agnès Varda 90 è proprio questa la cosa più straordinaria delle mini-dv, il piccolo schermo, come lo chiama la regista durante una interessante riflessione sul cinema digitale, che permette di trovarsi già in una situazione “di cinema” e non più solo di “macchina da presa”, di creare un contatto tra l’oggetto della rappresentazione e lo spettatore. E non è una differenza da poco perché mentre con una macchina da presa/videocamera tradizionale l’operatore (o il regista che decidesse di fare le riprese da sé) si trovava a vivere una condizione mutilata – come se fosse stato in un sarcofago, come le immagini di quei primi fotografi che nel momento dello scatto ficcavano la testa sotto un telo – la rivoluzione tecnologica sta lentamente e radicalmente mutando la concezione estetica del fuori campo [Cfr. ivi, pag. 150].

Dogma esprime l'intenzione di un ritorno programmatico alla purezza originaria del cinema, fatta d'improvvisazione, rifiuto di ogni tecnologia e realismo. L'utilizzo della camera a mano risulta esser e uno dei precetti fondamentali del programma attraverso il quale è possibile raggiungere l'intento di restituire al cinema il tanto ricercato realismo, di dare alle immagini una sorta di impronta documentaristica: Oggi infuria una tempesta tecnologica il cui risultato finale sarà la definitiva democratizzazione del cinema Per la prima volta chiunque può realizzare un film ma più i mezzi diventano accessibili a tutti, più si fa importante l’avanguardia. Non a caso il termine “avanguardia” ha connotazioni militari. Disciplina è la risposta... dobbiamo mettere i nostri film in uniforme perché il film individualista è decadente per definizione! [Cfr. ivi, pag. 8].

Ancora una volta, Von Trier e Vinterberg insistono sul ruolo del progresso tecnologico inteso come possibile affrancamento dallo spettacolare classico: Fortunatamente il progresso tecnologico sta dalla nostra parte. Una volta ci si poteva nascondere dietro la montagna di equipaggiamenti costosi, dietro gli insormontabili ostacoli finanziari. A quei tempi si poteva osservare con una certa evidenza che il mezzo cinematografico era una faccenda tanto costosa da non essere fatta per l’uomo 90

Gli interventi fanno riferimento ad una tavola rotonda proposta dai Cahiers du Cinéma, Le numérique entre immédiateté et solitude, con Alain Cavalier, Caroline Champetier, Raymond Depardon,, Thierry Jousse, Agnès Varda, 559, luglio-agosto 2001.

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della strada. Oggi il progresso sta minando alle fondamenta questa motivazione. Presto chiunque sarà in grado di produrre lavori con poca spesa ma con mezzi assolutamente professionali. Il cinema non è qualcosa che si possa tenere ancora per molto sottochiave, né i segreti dell’industria, l’apprendimento dell’uso degli strumenti o delle specifiche regole del linguaggio come prerequisiti per accedere a questa forma privilegiata di comunicazione, perché quello stesso progresso che aveva dettato quelle regole fortunatamente – e inevitabilmente – si è sgretolato. È in corso un’evidente democratizzazione. Alla fine degli anni Novanta i tempi stessi erano maturi per smascherare interamente la menzogna dell’inacessibilità! [Cfr. ivi, pag. 11].

Infatti: Fra i dilettanti – “i non selezionati” – potremmo trovare la lealtà che è stata così rigorosamente elusa dai vecchi detentori dei mezzi di produzione, la volontà di avere cura, la disponibilità a discutere degli obiettivi, i significati e i modi che sono indispensabili per un cinema vitale, tutto ciò che è stato trascurato per ipocrisia [Cfr. ivi, pag. 12].

Dogma 95 protrae, dunque, la denuncia di Kracauer e Debord (e Jameson): il fine supremo dei cineasti decadenti dell’era dello spettacolo è ingannare il pubblico affidando a delle illusioni il compito di comunicare delle emozioni il cui risultato è vuoto. Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore. Nella stessa direzione va l’analisi delle nuove tecnologie usate nel cinema: per loro il cinema non è illusione, e mentre oggi infuria una tempesta tecnologica, da cui deriva l’elevazione dei cosmetici a Dio, non ci si rende conto che usando la nuova tecnologia nella realizzazione dei film chiunque, in qualsiasi momento, può lavare via gli ultimi granelli di verità nell’abbraccio mortale della sensazione. Le illusioni sono tutto ciò che il cinema può nascondere dietro di sé. Torna qui il motivo jamesoniano della fine dell’autorialità: l’autore si astrae lasciandosi ingabbiare dal pastiche generato dalle regole del Dogma. Detto questo non c’è bisogno nemmeno di un titolo: i film che ottenevano la certificazione del Dogma, infatti, portavano come titolo la dicitura “Dogma #” e poi il numero del film ordinati in sequenza cronologica proprio per cercare di annullare il culto della personality del regista che ha portare alla rovina del cinema.

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CONCLUSIONI INNOVAZIONI LINGUISTICHE E PERCEZIONE DELLA REALTÀ: IL CASO DELL’ARTE.

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Walter Benjamin constatò come nella società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle immagini, si stava affermando sempre più un’esigenza di avvicinamento, da parte degli uomini, alle cose e alle opere.

“Fine dell’aura”

significava, appunto, fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riconducibile a una forma di nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della riproducibilità. Una riproducibilità che portò in sé la capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse grazie al cinema e alla possibilità di una fruizione collettiva che soffocò quella forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine pittorica che aveva caratterizzato il periodo precedente. La fine dell’aura, dunque, è tutt’altro che un problema semplicemente estetico. Esso, come abbiamo anticipato, interessa, in particolar modo, il percepire umano: con l’accesso delle masse (contemporaneo) ai prodotti culturali ed essi stessi sono portati a cambiare e ad aprirsi ad un accesso simultaneo da parte delle persone. Ecco che il film può essere un’ottima cartina di tornasole per mostrare al meglio questa modificazione. Il film, e le ricerche di Kracauer ne sono l’esempio migliore: il movimento della pellicola fa breccia più della fotografia (anche se è costellato di esse) perché riproduce, appunto, il sistema della visione umana. Con la visione del film i nostri organi sensori sono chiamati in gioco favorendo le tensioni organiche, le eccitazioni indefinite. I film, dunque, tendono ad abbassare la consapevolezza dello spettatore: esso lo induce a rinunciare all’uso delle sue capacità mentali e superiori, l’io perde la sua funzione di controllo perché ci si identifica con le sue immagini. Trasporre in 114


immagini gli avvenimenti contemporanei dà sempre luogo al pericolo di influenzare la massa facilmente eccitabile contro potenti istituzioni che, in realtà di attraente hanno ben poco. I film, dunque, si propongono di essere lo specchio della società moderna ma essendo finanziati dai grandi produttori che per fare breccia nei consumatori devono piegarsi ai loro gusti e mai essi produrranno spettacoli che possano attaccare le fondamenta stesse della società perché altrimenti ne risentirebbe il loro potere stesso. L’analisi di Kracauer mostra per filo e per segno come la nascita di quella che Adorno ed Horkheimer per primi definirono industria culturale abbia ben imparato la lezione delle Avanguardie: la fotografia ed il cinema hanno creato il pubblico, o meglio, la massa. Un insieme compatto di figure omogenee e vuote da spingere solo a consumare. Nell’era dell'industria culturale l'individuo, infatti, non decide più autonomamente: il conflitto tra impulsi e coscienza è risolto con l'adesione acritica ai valori imposti. L’individuo è libero di scegliere, ma tale libertà è la libertà del sempre uguale. La razionalizzazione delle tecniche produttive arriva a permeare anche gli aspetti più intimi della vita umana, e genera distinzioni e differenze che danno la parvenza di libertà di scelta, ma tali differenze non sono fondate sulla realtà. L’influenza dell'industria culturale, in tutte le sue manifestazioni, porta ad alterare la stessa individualità del fruitore: egli è come il prigioniero che cede alla tortura e finisce per confessare qualsiasi cosa, anche ciò che non ha commesso. Tutto si risolve sul gioco del promettere e non dare. In un fort/da spezzato: mentre il bambino con il suo rocchetto, lanciandolo al di là del lettino e facendolo sparire, per poi trarlo a sé, facendolo ricomparire, inganna proficuamente l’attesa del presto ritorno della madre, l’industria culturale defrauda continuamente i suoi consumatori di ciò che continuamente promette. La tratta sul piacere emessa dall’azione e dalla presentazione è prorogata indefinitamente: la promessa, a cui lo spettacolo – in realtà – si riduce, malignamente significa che non si viene mai al quid, che l’ospite deve accontentarsi della lettura del menù e non vedrà mai le portate sul tavolo né potrà, tantomeno, mai assaggiarle. La partita si gioca a livello linguistico: l’industria culturale è fatta di linguaggio, o meglio, di lingua, di segni dove il significante si stacca dal suo significato: quanto più il linguaggio si risolve in comunicazione, quanto più le parole 115


diventano, da portatrici sostanziali di significato, puri segni privi di qualità, quanto più pura e trasparente è la trasmissione dell’oggetto intenzionato, e tanto più, nello stesso tempo, esse divengono opache e impenetrabili. La demitizzazione del linguaggio, come elemento di tutto il processo illuministico, si rovescia in magia. Reciprocamente distinti e indissolubili, parola e contenuto erano uniti fra loro. La libertà linguistica è stata così bistrattata tanto da portarne a una limitazione di uso come se le fosse applicata una camicia di forza: «Ma con ciò la parola, che deve più solo designare e non significare nulla, viene talmente fissata alla cosa da irrigidirsi in formula. [...]. Se la parola, prima della sua razionalizzazione, aveva promosso, insieme al desiderio, anche la menzogna, la parola razionalizzata è divenuta una camicia di forza per il desiderio più ancora che per la menzogna» [Cfr. Horkheimer, Adorno, 1947, trad. it. 1966, pag. 177]. L’omogeneità e l’astrattezza di questo tipo di segno linguistico viene incastonato nella merce, elemento centrale attraverso il quale l’industria culturale esercita il suo controllo sulla massa. Le analisi di Adorno/Horkheimer sull’industria culturale trovano la loro sintesi nella nozione di spettacolo elaborata da Guy Debord, il rappresentante più importante del movimento situazionista, in quegli anni e teorizzata nello scritto La società dello spettacolo, edita nel 1967. Qui lo “spettacolo”, tema centrale del secondo capitolo della tesi, diventa termine tecnico e si carica di significati teoricofilosofici. Per un verso, esso è la comunicazione umana divenuta merce, una merce tra le altre, sprovvista di speciali competenze. Si tratta solo del prodotto particolare di un’industria particolare, quella detta culturale, dotata di sue tecniche peculiari. Per un altro verso, però, lo spettacolo oltrepassa il proprio ambito settoriale, coinvolgendo l’intera produzione sociale. Ciò che caratterizza la nuova società, quindi, non può essere una semplice proliferazione di immagini. Tutt’altro. Lo spettacolo non è inteso come la genuina e più importante espressione della dittatura dei mass-media, essa, infatti, ne è solo una conseguenza in quanto viene ad essere la marca della stessa economia, il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo. Lo spettacolo è l’economia ormai interamente autonomizzata grazie all’affinamento dei sistemi di riproducibilità tecnica. 116


Il tempo delle immagini è solo il tempo in cui gli strumenti dello spettacolo vengono esercitati in pieno. Il tempo pseudo-ciclico consumabile è il tempo spettacolare, contemporaneamente come tempo del consumo delle immagini, nel senso stretto del termine, e come immagine del consumo del tempo, in tutta la sua estensione. L’omogeneità e l’astrattezza della merce sono lo sfondo all’analisi di Debord circa il concetto filosofico di spettacolo e mostrano importanti punti di contatto con la nozione di configurazione ornamentale di Kracauer (anch’essa di natura astratta e omogenea e vuota) e con la critica alla ciclicità dei prodotti dell’industria culturale di Adorno/Horkheimer. I punti d’intersezione tra queste linee di pensiero sono riconducibili ad una critica spasmodica della società capitalistica, degli usi e dei consumi della nuova avvilente borghesia, dell’impoverimento culturale a vantaggio di una diffusione tanto dilagante quanto inarrestabile dell’intrattenimento mediatico e tecnologico. Ciò che fa la differenza, in Debord, è l’universalizzazione desolante del modo in cui il sistema capitalistico ha preso il sopravvento: non in termini di consumo o di svago (o per lo meno, non solo) ma in termini di produzione. Manipolare l’intero processo di produzione che sta alla base dell’industria cultira e non significa anche, inevitabilmente, poter manipolare la percezione collettiva ed impadronirsi della memoria e della comunicazione sociale per trasformarle in un’unica merce spettacolare, in cui tutto può essere messo in discussione, tranne lo spettacolo stesso, che, in sé, non dice altro che «ciò che appare è buono e ciò che è buono appare» [Cfr. Agamben, 1999, pag. 9]. Condannato ad un assordante silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le meravigliose immagini che altri hanno scelto per lui: lo spettacolo implica infatti l’assoluta passività da parte dello spettatore-acquirente il quale è interamente dominato dal flusso delle immagini, che si è oramai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale in cui è vero solo ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra in quelle cose selezionate dal potere è semplicemente falso oppure non esiste. La società dello spettacolo è percorsa da questo scenario desolante di mercificazione spettacolare in cui siamo tutti integrati, come in un grande imbroglio, continuato e aggravato, e in cui non ci accorgiamo del danno che subiamo. 117


La critica della vita quotidiana messa in atto dal Situazionismo, l’avanguardia di cui Debord era il massimo rappresentante, è condotta attraverso una rilettura marxiana delle condizioni di esistenza inerenti al capitalismo avanzato nella società moderna quali la pseudoabbondanza dei costumi, la riduzione della vita a spettacolo, l’urbanistica repressiva e l’ideologia per riscattare e trasformare la società dando all’arte un ruolo di soggetto rivoluzionario. Alla base del Situazionismo c’è la formulazione del concetto di situazione, intesa come costruzione concreta di ambienti momentanei della vita,dove le parole vita e ambiente vanno intese nella maniera onnivora e totalizzante,interamente improntata al culto dell’effimero e dello spreco di libere energie vitali,immaginative e creative... in opposizione alla vecchia nozione finita e conclusa di opera. La situazione agisce in due direzioni, una ambientale (esterna) che prevede attraverso il riciclaggio di vecchie pratiche e strutture preesistenti la creazione di forme nuove (Dètournement) ,e che presto si allargherà alla dimensione degli oggetti industriali e dei paesaggi urbani,ed un’altra di carattere comportamentale (interna) esposta attraverso il culto del rischio e della sorpresa nel lasciarsi trascinare dagli eventi accidentali (Dèrive). La situazione diventa la pratica e la teoria fondante di un nuovo modo di costituire il procedimento artistico, che vede nella transitorietà degli atti il suo punto centrale, nella esaltazione dell’effimero una dichiarazione d’intenti. Nascono così diverse forme di tecniche di condizionamento e straniamento: la Pittura industriale, la Psicogeografia, l’Urbanistica unitaria e il Dètournement. Tecniche che nascono dalla necessità di riappropriazione e autodeterminazione del proprio ambiente di vita che ogni singolo essere umano dovrebbe mettere in atto perché tutti devono sono artisti . Il situazionismo, inoltre, è stato uno dei più importanti (e rari) tentativi di mettere a punto forme di sovversione che fossero all’altezza di un modo di produzione in cui il ruolo preminente spetta alla cultura e alla comunicazione linguistica (lo spettacolo, infatti, riflette la struttura, il processo tipico della prassi linguistica). Nello spettacolo sono esibite, in una forma separata e capovolta, le più rilevanti forze produttive di tutta la società, quelle forze produttive cui attinge necessariamente

qualsiasi

processo

lavorativo

contemporaneo:

competenze

linguistiche, immaginazione, sapere, cultura. Con il termine spettacolo, Guy Debord prova a render conto della specifica situazione in cui il linguaggio medesimo è stato 118


messo al lavoro, divenendo la principale risorsa della produzione sociale. Questa commistione tra lavoro e linguaggio è un crocevia, in cui convergono necessariamente sia la storia del lavoro salariato, il suo interno sviluppo, sia la concezione del linguaggio che ha contraddistinto la cultura occidentale. Scrive Debord: «Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale […]. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà» [Cfr. Debord 1967, trad. it 2002 pag. 48]. Lo spettacolo è, infatti, una rappresentazione visiva o verbale, resasi autonoma da qualsivoglia referente esterno, in grado di determinare volta per volta il proprio contenuto, dunque sempre sicura di “corrispondere” a qualcosa. Lo spettacolo ha, dunque, una doppia natura: è un prodotto specifico che si affianca a tutti gli altri, ma, allo stesso tempo, rappresenta (letteralmente) l’elemento fondamentale del modo di produzione nel suo complesso, l’esposizione generale della razionalità del sistema. Nelle merci-spettacolo, il cui valore d’uso è linguisticoculturale, sembra specchiarsi la qualità comunicativa ed epistemica di tutti i processi lavorativi. A dar spettacolo, per così dire, sono le stesse forze produttive della società portando ad una sintesi tra industria culturale e industria dei mezzi di produzione: in entrambe, infatti, vengono elaborati intensivamente gli strumenti e le procedure operative che poi troveranno larga applicazione in ogni angolo del processo lavorativo sociale. Particolare e universale al tempo stesso, la macchina polivalente (il calcolatore, per esempio) è un articolo merceologico tra i tanti, venduto e comprato senza patemi d’animo, ma il suo valore d’uso consiste nell’imprimere una certa forma organizzativa ai più diversi processi produttivi. Così lo spettacolo: in esso si concentra allo stato puro, in veste di merce specifica, quell’“agire comunicativo” che però adempie a un ruolo di crescente importanza in ogni prassi lavorativa, anche in quella dei settori più “tradizionali”. Il capitalismo (o qualunque altro nome oggi si voglia dare al processo che domina oggi la storia mondiale) non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio stesso, della stessa natura linguistica e comunicativa dell’uomo, del mezzo che porta alla comunità.

119


Lavorare sui linguaggi significa, quindi, poter manipolare la massa, ma all’opposto, può significare anche risvegliarle le persone: due esempi sono Radio Alice e la rivista satirica Il Male. Radio Alice fu una delle prime esperienza di impresa sociale nella quale ci si impadronì di strumenti di produzione comunicativa e si crearono le condizioni per costruire un ascolto, un mercato. Essa «nacque in un ambiente – quello della rivista A/traverso e del movimento creativo mao-dadaista bolognese – in cui la lezione Dada-Situazionista era stata assimilata largamente. Abolire l’arte, abolire la vita quotidiana, abolire la separazione tra l’arte e la vita quotidiana era il grido dadaista da quale eravamo partiti [Cfr. Bifo, Gomma, 2002, pag. 172]. Gli attivisti di Radio Alice compresero subito che solo un nuovo uso del media, del linguaggio, poteva scardinare lo status quo poiché esso viene concepito come mezzo ma come pratica, un terreno assolutamente materiale che modifica la realtà, i rapporti tra le classi, la forma dei rapporti interpersonali Il lavoro dei redattori del Male, invece, fu quello di riscoprire, alla fine degli anni Settanta, le pratiche dadaiste. Venivano creati dei falsi giornali, un vero e proprio dètournement situazionista, che creavano eventi veri, una sorta di dètournement situazionista volto a cambiare la percezione degli eventi: il falso messo in atto con le loro contro-copertine non era solo una furbata o, peggio ancora, un gioco. Lavorare al falso era una cosa seria perché veniva massacrata la stampa italiana, mettendo alla berlina il modo in cui si riportavano le notizie, mostrando al lettore come i casi giornalistici venivano montati a dismisura. Cambiando la percezione degli eventi. Nei Commentari, usciti nell’‘88, Debord radicalizza la sua teoria critica estendendo la nozione di spettacolo ad ogni ambito dell’esistenza umana, non più solo a livello di produzione, consumo o mezzi di comunicazione di massa: ora a rendersi spettacolare è soprattutto il sistema governativo, supportato nella crescita del suo impero dalla sistematica esclusione delle voci fuori dal coro dall’impianto informativo “reale”, dalla complicità dell’alleato meccanismo mediale portato all’estremo e dal raggiungimento di un apparato definito “spettacolare integrato”. Questa terza forma nasce dalla perfetta combinazione delle due precedenti (concentrata e diffusa) e viene chiamata “spettacolare integrato”; lo spettacolare 120


integrato (detta anche il mediale) è contemporaneamente concentrato e diffuso, è la naturale evoluzione di entrambe le forme e rappresenta l’ultima fase di un processo di spettacolarizzazione che ha inglobato ogni spazio, tempo e luogo. La vittoria indiscussa della logica mercantile ha condotto ad una totale falsificazione del mondo: un mondo in cui non esiste nulla che non sia già stato insudiciato e trasformato dagli interessi dell’industria moderna. Il governo dello spettacolo ha a sua disposizione tutti i mezzi possibili per falsificare tanto la produzione quanto la percezione di tutti gli eventi e i progetti che invaderanno in un futuro sempre più prossimo la vita degli individui. La questione linguistica torna in auge con La condizione postmoderna di Jean-Francois Lyotard. Si tratta di un rapporto sullo statuto del sapere, messo in crisi dalla crisi delle narrazioni innestando il discorso sul problema del sapere scientifico nell’epoca postmoderna. L’ipotesi di lavoro di Lyotard è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età postindustriale e le culture nell’età postmoderna. E, così come ampiamente dimostrato dal lavoro dei situazionisti, le scienze e le tecnologie di punta vertono sul linguaggio. L’incidenza di queste trasformazioni tecnologiche sul sapere, sempre secondo il filosofo francese, è destinata ad essere considerevole. Esso ne viene o ne verrà colpito nelle sue due principali funzioni: la ricerca e la trasmissione delle conoscenze poiché il sapere potrà circolare nei nuovi canali, e divenire operativo, solo se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione per essere venduta: «Nuovi linguaggi vengono affiancandosi agli antichi, formando i sobborghi della vecchia città (…) i linguaggi-macchina, le matrici della teoria dei giochi, le nuove notazioni musicali, le notazioni delle logiche non denotative (logiche temporali, deontiche, morali), il linguaggio del codice genetico, i grafi delle strutture fonologiche, ecc.». [Cfr. Lyotard, 1979, trad. it. 1981, pag. 74]. L'accostamento tra il decollo dei media e delle tecnologie dell'informazione, e la riflessione sul pensiero della contemporaneità è così pregnante e denso di valenze che, come è noto, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta di questo secolo, Jean-François Lyotard ha identificato l’eziologia della nascita della condizione postmoderna proprio con l'avvento della società informatizzata, mentre, 121


Gianni Vattimo ha rintracciato l'essenza stessa della postmodernità nella moltiplicazione delle immagini del mondo ad opera dei media. Compito del filosofo, di fronte a una condizione umana profondamente mutata, è quello di individuare criteri di giudizio che abbiano un valore locale, circoscritto, e non pretese globali o totalizzanti. Per Vattimo nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media. Al contrario dell’analisi di Lyotard, il quale propone una grande narrazione della storia in cui le grandi narrazioni della storia sono esse stesse in crisi, e documenta la comparsa di nuove forme di conoscenza che segnano una frattura rispetto a quelle precedenti del moderno, per Fredric Jameson, il postmoderno è una fase che viene dopo il moderno e non prima: «tuttavia egli stesso, profondamente moderno per temperamento estetico e politico, cerca di salvare l’arte dalle banalità del postmodernismo postulando che la postmodernità non succede alla modernità ma la precorre, ne costituisce il preparativo storico per la sua nascita!» [Jameson, 1991, trad. it. 2007, pag. VIII]. La contraddizione sta nel fatto che una teoria che vada contro le grandi narrazioni deve essere anch’essa espressa in forma narrativa. Espressionismo astratto in pittura, esistenzialismo in filosofia, le forme ultime della rappresentazione del romanzo, i film d’autore o la scuola poetica modernista sono tutte manifestazioni considerate come ormai l’ultima straordinaria fioritura di un impulso tardo modernista che si è concluso ed esaurito con esse. E né tantomeno, a tal proposito, si può pensare alla frattura in questione soltanto da un punto di vista puramente culturale, infatti, le teorie del postmoderno mostrano una notevole somiglianza di famiglia con quelle generalizzazioni sociologiche più ambiziose, che quasi contemporaneamente ci annunciano l’avvento di un genere di società totalmente nuovo, noto come «società postindustriale», ma anche come società dei consumi, società dei media, dell’informazione, elettronica, high-tech o simili. Proseguendo le analisi di Benjamin e Debord, Jameson afferma come sia accaduto che oggi la produzione estetica si è integrata nella produzione di merci in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto, con un giro d’affari sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturale sempre più essenziali. 122


Le principali categorie estetiche dell’età postmoderna sono, secondo il filosofo americano: scomparsa della profondità, scomparsa della storicità e scomparsa dello stile individuale. Con la frammentarietà del soggetto si sgretola anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche. Gli stili moderni diventano codici per il postmoderno, il pastiche è l’imitazione di uno stile peculiare, idiosincratico, è una maschera linguistica, un discorso in una lingua morta. Il pastiche, sentore dell’imitazione, generatrice del simulacro, nasce in una società nella quale, citando Debord, il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la memoria stessa del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato, ancora, Debord: «l’immagine è diventata la forma finale della reificazione». Se il soggetto moderno era alienato, il soggetto postmoderno è frantumato, dissolto e disorientato dalla crisi e dal crollo di tutte le identità collettive tipiche della modernità (la nazione, il partito, lo Stato, etc.) e il frammento postmoderno non ha nulla a che vedere con il frammento, ad esempio, romantico, e la coabitazione degli opposti diventa allora forse l’unico carattere indiscutibile del paradigma postmoderno. L’annullamento della profondità in questi iperspazi provoca un senso continuo di disorientamento o una confusione schiacciante, come la definisce lo steso Jameson, che obbliga a seguire continuamente le indicazioni, i colori segnaletici o segnali direzionali, e a muoversi solo guidati da esse nel tentativo disperato di ristabilire le coordinate dello spazio di una volta. Ne sono un esempio schiacciante le architetture contemporanee come il Bonaventure di Portman. Nell’artificio generalizzato del nuovo ordine civile si inscrive la fine della modernità, intesa come trionfo del simulacro e conseguente indebolimento della storicità. A questo artificio totalizzante corrisponde l’affermarsi dello «spettacolo imperiale» che si attua come «spettacolo globale», inteso a recuperare un’unità fittizia del mondo, sia come «virtualità». Mentre da una parte, dunque, si realizza la spettacolarità diffusa descritta da Debord, dall’altra si realizza la dimensione simulativa del pastiche, sentore dell’imitazione e generatrice del simulacro, di marca postmodernista. È il feticismo della merce informatica (linguistica) che sta alla base 123


della (post)modern(ist)a infosfera, di quello che possiamo definire facendo una crasi tra l’ideologia di Jameson e di Debord, spettacolare simulativo. Le architetture moderne, prese a modello delle strutture e dei processi del postmodernismo, però, allo stesso modo sembrano essere un classico esempio di dètournement, esse, infatti, fanno lo sgambetto al modo di percepire, alle abitudini, dell’animale umano, costringendolo ad andare oltre, le architetture si esperiscono, sono una nuova forma di esperienza che modifica il dispositivo stesso dell’esperire allo stesso modo di come la fotografia e il nastro trasportatore modificarono l’essere umano descritto da Benjamin e Marx tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Esse, andando contro le abitudini della forma di vita, la costringe a dialogare con ciò che le sta incontro alla ricerca di nuove certezze e, quindi, di un nuovo modo di esperire ciò che le sta intorno creando un rapporto di bilateralità. Si compie in questo modo un ulteriore allineamento teorico fra Jameson e Debord: lavorare sull’urbanismo (Debord e il Situazionismo in generale) e sull’architettura (Jameson) significa cercare di inserire il corpo in un nuovo sistema di percezione che lo smuove dal guscio iper-ovattato dell’industria spettacolare. L’urbanismo unitario cessa di essere l’artefice di forme inutili ed inefficaci per diventare il costruttore di ambienti e modi di vivere completi, trasformando non solo la struttura urbana, ma anche il comportamento degli abitanti, la pittura industriale di Pinot Gallizio ne è stata un esempio tanto da poter assorgere a predecessore delle moderne videoinstallazioni. Negli Environment di Gallizio, così come nel Bonaventure di Portman descritto da Jameson, gli uomini “giocano” con gesti semplici, elementari, rendendoli parte viva dello spettacolo. Questa descrizione può benissimo essere applicata alle Avanguardie contemporanee

che

lavorano

sulla

video-arte

e

sulle

istallazioni

(videoambientazioni). In particolare, l’esperienza di Studio Azzurro e di Dogma 95 mostrano come siano necessarie nuove opere basate su nuove pratiche plurisensoriali con il compito di svegliare l’uomo che, come direbbe Jameson, è rimasto formato ancora con un «del tutto inadeguato al bagaglio percettivo dell'uomo post-moderno

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che rimane ancora necessariamente legato al moderno avanzato ed alle sue strutture» e vive sotto la campana di cemento della società spettacolare. L’opera di Studio Azzurro mette in pratica questo comandamento permettendo di toccare la merce esposta per sfatare l’incantesimo dello spettacolare creando bilateralità e interazione (quello che manca alla merce, ben messo in mostra dai saggi di Kracauer). Essa, inoltre, mette in scena uno dei punti chiave identificati da Jameson nella logica del postmodernismo: con la frammentarietà del soggetto si sgretola, abbiamo detto in precedenza, anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche. Studio Azzurro mette in scena proprio questo, l’autore qui non esiste, esistono dei campi (sonoro, tecnica, grafica) dove ognuno mette alla prova i propri studi mettendo la parte la propria autorialità. Gli stili moderni (musica, arte figurativa, conoscenza tecnica) diventano codici per il postmoderno che si dispiega nel pastiche delle videoinstallazioni di Studio Azzurro. I nuovi linguaggi creati dal citazionismo degli stili moderni attraverso il postmodernista pastiche sono proprio quelli evocati da Lyotard e Vattimo: essi sono quelli che vengono affiancandosi agli antichi, formando i sobborghi della vecchia città. I nuovi linguaggi sono quelli messi al lavoro da Studio Azzurro ma anche quelli chiamati in causa dal manifesto di Dogma 95. Dogma 95 rinnova la denuncia di Kracauer e Debord (e Jameson): il fine supremo dei cineasti decadenti dell’era dello spettacolo è ingannare il pubblico affidando a delle illusioni il compito di comunicare delle emozioni il cui risultato è vuoto. Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore. Il monito jamesoniano della fine dell’autorialità va in questa direzione: l’autore si deve astrarre lasciandosi ingabbiare dal pastiche generato dalle regole del Dogma. Detto questo non c’è bisogno nemmeno di un titolo: i film che ottenevano la certificazione del Dogma, infatti, portavano come titolo la dicitura “Dogma #” e poi il numero del film ordinati in sequenza cronologica proprio per cercare di annullare il culto della personality del regista che ha portare alla rovina del cinema Sono questi i nuovi linguaggi di cui parlava Lyotard, quelli sperimentati da Dogma e da Studio Azzurro, solo per citare alcuni esempi. Nuovi linguaggi che hanno il compito di svegliare una società che si è formata nella passività della fruizione televisiva. In questa direzione vanno anche i nuovi linguaggi informatici 125


messi in campo da Google (Youtube ma non solo), le community, i software e ebay, solo per fare alcuni esempi restaurano una bilateralità cercata per protrarre la battaglia contro l’unilateralità, l’omogeneità e l’astrattezza dei linguaggi messi in campo dalla merce.

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GLOSSARIO

Abitudini: il corredo dei comportamenti, degli atti, dell’animale umano. Bilateralità: I nuovi linguaggi di cui parlava Lyotard, quelli sperimentati da Dogma e da Studio Azzurro, solo per citare alcuni esempi. I linguaggi che hanno il compito di svegliare una società che si è formata nella passività della fruizione televisiva, dalle merci-spettacolo, dalle configurazioni ornamentali. Essi, andando contro le abitudini della forma di vita, la costringe a dialogare con ciò che le sta incontro alla ricerca di nuove certezze e, quindi, di un nuovo modo di esperire ciò che le sta intorno creando un rapporto di bilateralità. Le installazioni di Studio Azzurro e le architetture totalizzanti del postmodernismo, gli Environment dei situazionisti, mettono in pratica questo precetto permettendo di toccare la merce esposta per sfatare l’incantesimo dello spettacolare creando bilateralità e interazione. Cambiamento di funzione: un’opera, di qualsiasi tipo essa sia, non deve e non deve essere isolata ma deve collocarsi nelle vive connessioni sociali. Un’opera nasce in un dato periodo storico, in esso cresce e si riproduce e lo cambia. Affinché un’opera faccia questo e risieda nelle vive connessioni sociali di un’epoca le deve poter cambiare perché è impensabile che un’opera d’arte non sia un qualcosa di innovatrice in una data epoca. Essa deve portare a dei cambiamenti nelle abitudini degli esseri umani. Choc: Forte emozione improvvisa e violenta. Sono quei processi insiti nei mutamenti innescati dall’avvento della riproducibilità tecnica che hanno portato al cambiamento quasi totale delle abitudini, cioè del modo di comportarsi, tipico degli esseri umani. Configurazioni ornamentali: prodotti omogenei e vuoti. La struttura di queste figurazioni ornamentali di massa rispecchiano quella della situazione generale della società degli anni ’20-‘30. Il principio del processo produttivo capitalistico non ha nella natura la sua immediata origine, deve dunque spezzare gli organismi naturali che rappresentano soltanto un ostacolo, o tutt’al più uno strumento [Cfr. Kracauer, 1963, trad. it 1982 pag. 102]. I film, modello di configurazione ornamentale, ad esempio, tendono ad abbassare la consapevolezza dello spettatore: esso lo induce a rinunciare all’uso delle sue capacità mentali e superiori, l’io perde la sua funzione di controllo perché ci si identifica con le sue immagini. Trasporre in immagini gli avvenimenti contemporanei dà sempre luogo al pericolo di influenzare la massa facilmente eccitabile contro potenti istituzioni che, in realtà di attraente hanno ben poco. Dètournement: forma tecnica di condizionamento e straniamento il cui nucleo sta nella perdita del significato originale di un elemento che unito ad altri ne 130


crea uno nuovo modificando il concetto finale,una sorta di negazione dell’arte attraverso la comunicazione immediata di ogni nuovo elemento. Esperienza: secondo l’analisi benjaminiana la crisi subita dalla massa (folla) con l’avvento della riproducibilità tecnica e con la guerra mondiale ha portato all’appiattimento dell’Erfahrung, dell’esperienza accumulata nell’Erlebnis, il vissuto, la vivida percezione attuale, puntuale, come presentificazione alla coscienza di un qualsiasi contenuto. Questo ha portato alla fine della tradizione e dell’esperienza a favore del vissuto labile e sfuggente. Fine dell’aura (Verfall der Aura): significa fine di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il rapporto tra l’essere umano e le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. Folla e massa: sono da intendersi come termini sinonimi spogliati di ogni significato politico. È da intendersi con lo stesso significato con cui usava il temine Hugo e citato da Benjamin: «Folla era per lui, quasi in senso antico, la folla dei clienti, del pubblico» [Cfr. Benjamin, 1936, trad. it. 1966, pag. 100]. Frammentarietà del soggetto: la merce omogenea e vuota crea un soggetto frammentato, prima era solo diviso, nel postmodernismo si frammenta del tutto. Il postmodernismo, in sintesi infatti, viene ad essere il consumo della pura mercificazione come processo e la sua analisi si pone in linea diretta, ancor prima che con quella Debord, a quella di Horkheimer e Adorno. Con la frammentarietà del soggetto si sgretola anche l’ego borghese, dello stile unico e personale (reso possibile dalla riproduzione meccanica), scompare il soggetto individuale e si genera una pratica universale, il pastiche. Esso, sentore dell’imitazione, generatrice del simulacro, nasce in una società nella quale, citando Debord, il valore di scambio si è talmente generalizzato da cancellare la memoria stessa del valore d’uso, una società in cui, come ha osservato, ancora, Debord: «l’immagine è diventata la forma finale della reificazione». Industria culturale (cultura di massa): il termine industria culturale viene elaborato da Adorno ed Horkheimer per definire la produzione del materiale d’intrattenimento della società massificata. Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”, sostituita poi con “industria culturale”, per eliminare l'interpretazione di ciò che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come una forma contemporanea di arte popolare. Ogni settore dell’industria culturale, il cinema, l’industria della musica, la radio, la carta stampata, la pubblicità, è equilibrato al suo interno ed armonizzato con gli altri e l’intero sistema contribuisce a veicolare un determinato insieme di valori e determinati modelli di comportamento. Omogeneità e Astrattezza: con questi termini si intendono le caratteristiche della merce, dello spettacolo, delle configurazioni ornamentali, di tutti quei prodotti dell’industria culturale che mostrano omogeneità ma allo stesso tempo sono 131


pervasi dall’astrattezza e dal vuoto di significato creando una falsa omogeneità che si ritorce contro il fruitore. Passività: è il processo che subisce l’uomo quando si trova ad essere sotto l’effetto della merce-spettacolo e, in generale, dei prodotti dell’industria culturale. Pastiche: l'incorporazione, la commistione, in un unico testo letterario o teatrale di frammenti di testi diversi come articoli di giornali, dialoghi tratti da film, poesie, canzoni, simboli e fotografie. È un elemento caratteristico della narrativa del postmodernismo, i cui tratti salienti sono appunto un'apertura del testo attraverso forme differenti di intertestualità, esplicite relazioni di un testo con altri testi. Pittura industriale: forma tecnica di condizionamento e straniamento il cui intento è di inflazionare il valore artistico delle opere, realizzando decine di metri di tele pitturate. Prassi linguistica: il modo di produzione tipicamente linguistico, l’agire comunicativo proprio dell’animale umano. Essa mostra le stesse caratteristiche dell’industria dei mezzi di produzione. In entrambe, infatti, vengono elaborati intensivamente gli strumenti e le procedure operative che poi troveranno larga applicazione in ogni angolo del processo lavorativo sociale. Particolare e universale al tempo stesso, la macchina polivalente (il calcolatore, per esempio) è un articolo merceologico tra i tanti, venduto e comprato senza patemi d’animo, ma il suo valore d’uso consiste nell’imprimere una certa forma organizzativa ai più diversi processi produttivi. Così lo spettacolo: in esso si concentra allo stato puro, in veste di merce specifica, quell’“agire comunicativo” che però adempie a un ruolo di crescente importanza in ogni prassi lavorativa, anche in quella dei settori più “tradizionali”. Psicogeografia: forma tecnica di condizionamento e straniamento che studia gli effetti dell’ambiente geografico esercita sul comportamento affettivo degli individui. Ricezione collettiva simultanea: la vera questione del saggio di Benjamin sulla riproducibilità riguarda l’accesso delle masse (contemporaneo) ai prodotti culturali. La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. Questo permette di annullare la distanza che esisteva fino ad allora fra l’opera d’arte e i suoi pochi fruitori. La riproducibilità tecnica avvicina le persone alle opere creando il pubblico. Riproducibilità tecnica: in linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. La vera questione, piuttosto, è che la riproduzione tecnica dell’opera d’arte è invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità ma qualcosa di estremamente 132


diverso. Tralasciando i vecchi sistemi di riproduzione, è con la litografia che le tecniche di riproduzione raggiungono un grado sostanzialmente nuovo perché la prassi produttiva risultava più semplice, e quindi veloce, e permetteva di produrre più copie dello stesso prodotto. La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del “sempre uguale”, per uomini rimasti privi di saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l'accesso all'arte e alle sue capacità di contestazione dell'ordine esistente. Solo attraverso la distruzione violenta di quest'ordine, ormai diventato inumano, si può aprire lo spazio per la redenzione e la felicità. L’avvento della riproducibilità tecnica sancisce la fine dell’aura. Sensorio: è l’insieme del sistema ricettivo-percettivo dell’animale umano. Il sistema attraverso il quale gli uomini percepiscono gli eventi. Situazione: costruzione concreta di ambienti momentanei della vita, dove le parole vita e ambiente vanno intese nella maniera onnivora e totalizzante, interamente improntata al culto dell’effimero e dello spreco di libere energie vitali, immaginative e creative. La situazione agisce in due direzioni, una ambientale (esterna) che prevede attraverso il riciclaggio di vecchie pratiche e strutture preesistenti la creazione di forme nuove (Dètournement), e che presto si allargherà alla dimensione degli oggetti industriali e dei paesaggi urbani, ed un’altra di carattere comportamentale (interna) esposta attraverso il culto del rischio e della sorpresa nel lasciarsi trascinare dagli eventi accidentali (Dèrive). La situazione diventa la pratica e la teoria fondante di un nuovo modo di costituire il procedimento artistico. Spettacolo (società dello spettacolo): è il più importante dei rapporti tra gli uomini: attraverso lo spettacolo gli uomini prendono conoscenza – falsa – di certi aspetti della vita sociale, e il rapporto tra autori e spettatori è una trasposizione del rapporto tra dirigenti ed esecutori. In esso vengono esibite, in una forma separata e capovolta, le più rilevanti forze produttive di tutta la società, quelle forze produttive cui attinge necessariamente qualsiasi processo lavorativo contemporaneo: competenze linguistiche, immaginazione, sapere, cultura. Lo spettacolo ha una doppia natura: è un prodotto specifico che si affianca a tutti gli altri, ma, allo stesso tempo, rappresenta (letteralmente) l’elemento fondamentale del modo di produzione nel suo complesso, l’esposizione generale della razionalità del sistema. Nelle mercispettacolo, il cui valore d’uso è linguistico-culturale, sembra specchiarsi la qualità comunicativa ed epistemica di tutti i processi lavorativi. A dar spettacolo, per così dire, sono le stesse forze produttive della società. Per questo Debord parla di Società dello Spettacolo. Superamento dell’arte: esso viene messo in atto dai situazionisti nell’Urbanismo unitario e porta ad un rifiuto dell’opera, ad una rottura con gli ambienti artistici e con la critica d’arte in una totale ripulsa del mondo culturale. La pittura industriale è il nodo centrale della teoria del superamento dell’arte situazionista, cioè la banalizzazione dell’arte, delle configurazioni ornamentali, con la distruzione del valore-merce e il suo consumo immediato in azioni collettive . L’arte deve essere superata dalla situazione per permettere alle nuove pratiche di costruire il presente in modo rivoluzionario e liberatorio, così come è ora fare arte è 133


allontanarsi dalla realtà è servire il mercato e la sua nicchia di vuoto elitarismo. Un utilizzo gioioso e sregolato delle proprie energie biologiche e mentali che attraverso i mezzi artistici situazionisti creano le condizioni di un superamento del concetto di arte, scavalcando l’immutabilità recuperando con la sperimentazione e la ricerca l’uso della nostra apparecchiatura sensoria, facendosi vita e mettendo fine alla massa come ornamento. Tecnologie di produzione comunicativa: i nuovi strumenti tecnologici nati nel corso del ‘900 e sono basati sul processo semiosico-comunicativo. Unilateralità: nell’unilateralità della merce-spettacolo, nel suo tenere l’ordine delle cose su se stessa, sta la peculiarità del falso distacco provocato dalla società dello spettacolo. Le merci dello spettacolo sono unilaterali perché non permettono una reale interazione tra oggetto e bisogni del soggetto ma lo condizionano soltanto nel creare uno pseudo-bisogno della merce stessa. Esse sono dunque autoreferenziali. Urbanistica unitaria: forma tecnica di condizionamento e straniamento che prevede un ruolo attivo dell’artista come costruttore materiale degli ambienti al fine di creare spazi di vita oltre il rigido funzionalismo degli architetti.

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