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onostante i progressi della scienza e della medifill.I, Ii i

morte è ancora avvolta da un alone di mistero. NUllle'ro, 1 medici si sono appassionati al problema, occupandosi in ".1111 colare delle cosiddette «esperienze di premorte», eppul"t· i cI,11I sono ancora controversi. In queste pagine l'autore ha raccolto, dopo anni di ritc'n'ho, sedici incredibili storie di pazienti, adulti e bambini, ch(' hallllll affrontato il momento del trapasso con un'incredibile' p.lIl· interiore. Lerma, testimone di misteriose visioni e di ('OIlVI·' .... 1 zioni tra malati terminali e creature angeliche, è giunlO .111 , 1 consapevolezza che la conoscenza della morte è indislwlI ..... hlll· per vi ncere la paura e il dolore, e per prepar arsi serenallll·III.· all'ultimo viaggio verso la luce.

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John Lerma, medico e direttore del r inomato TMC Hospice,

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del più grande ospedale del mondo, il Medicai Center di HOUSlOll ,

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pa da più di dieci anni della cura dei malati termi nal i.

l, Grafica di copertina Nalalia Marin

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Un medico specializzato lira del malati terminali pres, le storie vere di visite anqellche (' di visioni dell'altra vita narrate dal suoi pazienti

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Sono usciti nella stessa collana; LA MORTE È DI VITALE IMPORTANZA

di Elisabeth KUbIer-Ross

JOHN LERMA

LA TERAPIA DELLE VITE PASSATE

di Judy Hall

LA CRISI DELLA MORTE

di Ernesto Bozzano I MORTI RITORNANO

di Ernesto Bozzano I SETI'E GRADINI VERSO

LE PROVE DELLA REINCARNAZIONE

di lan Stevenson

LALDllÀ

di J oyee KeUer CURARE CON LE MANI E CON IL CUORE

REINCARNAZIONE, 20 di lan Stevenson

Dopo

CASI A SOSTEGNO

LA MORTE, PRIMA DELLA

di Joel L. Whitton e Joe Fisher SPIRITI GUIDA

di Elio Blancato

di lris BeIhayes

LA

Dopo LA MORTE di ReynaId Roussel

VITA DOPO UN GRANDE DOLORE

di Raymond Moody Jr. e Dianne Arcangel TELEPATIA

di Danielle Fecteau LE PROVE SCIENTIFICHE DELLA VITA DOPO LA MORTE

di Grant e Jane Solomon ITALIA MISTERIOSA

di Dario Spada LA MIA VITA CON GU SPIRITI

di Adriana Sossi

VISIONI

DELL' ,. ALDILA

RINASCITA

VAMPIRI DELLA MENTE

di Joe H. SIate COME DIFENDERSI DAGU INFLUSSI NEGATIVI

di Dion Fortune IL CORPO ASTRALE

di Herbert B. Greenhouse NON MORIAMO MAI

di Bernard Jakoby

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SIAMO TUTTI SENSITIVI

di Manuela Pompas QUANDO LE COSE NON ACCADONO PER CASO

di David Richo LANIMA - PRIMA DELLA NASCITA, IN VITA, DOPO LA MORTE

a cura di Eliot Jay Rosen

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REINCARNAZIONE - LANELLO MANCANTE DEL CRISTIANESIMO

di Elizabeth CIare Prophet KARMA, L'EREDITÀ DEL PASSATO

di Mary T. Browne IL PICCOLO LffiRO DEL KARMA

di Riehard Lawrence

ARMENIA


Vorrei dedicare questo libro

a mio padre, John Lerma Sr.,

e alla mia prozia Eladia, «Zia Lala» Rodriguez,

per la sua gentilezza e il suo amore incondizionato

in passato sulla terra e ora nel regno celeste.

***

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ISBN 978-88-344-2223-6 Titolo origìnale dell'opera: lnto the Light Copyright It) 2007 by JoOO Lerma, M.D. Original English language edition pubIìshed by Career Press, 3 Tice Rd, Franklin Lakes, NJ 07417 USA. Ali rights reserved Traduzione di Elena Tonazzo 2009 Gruppo Editoriale Armenia S.pA Via Valtellina, 63 - Milano It)

armenia@armenia.it www.armenia.it Stampato da Print Duemila S.r.l. per conto del Gruppo Editoriale Armenia S.pA

Dedico questo libro anche

a mia madre, Carmen Lerma

e ai miei figli:

Daniella Lerma,

MarkLerma

e Ariana Lerma.

Quattro meravigliosi esempi dell'amore di Dio.


Prefazione

Il nostro amore sta in tutto e per tutto;

la nostra separazione è -solo paura;

la nostra nascita, la nostra morte, la nostra nascita;

così è questa esilarante commedia di Dio.

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Dottor John Lerma

t r pesso mi descrivono come un tipo pieno di energia e quasi tutti vogliono sapere perché mi sono specializzato in medicina palliativa. Persino i miei familiari all'inizio non riuscivano a capirlo. Dicevano: «Ma come, hai passato tutto quel tempo a iÌnparare a far guarire le persone, e adesso vuoi aiutarle a morire?». Oppure: «Perché ci tieni tanto a stare con gente che sta per morire? Non è deprimente?». Alcuni possono pensare che i medici degli hospice debbano essere seri e parlare a bassa voce; ma i pazienti che stanno morendo non lo vogliono affatto. Vogliono essere trattati come gli altri, perché sono come gli altri. Vogliono che si scherzi con loro e che si rida, quasi che ci si improvvisi clown per farli divertire e sentire ancora vivi. I malati terminali desiderano con tutto il cuore questi atteggia­ menti gioiosi, perché proprio alla fine della malattia colgono il significato della vita e della morte, e arrivano a capire che quel momento dovrebbe essere celebrato e onorato come !'inizio di un viaggio emozionante: il viaggio che ci porta fra le braccia del nostro benevolo Creatore. Durante il tirocinio alla facoltà di medicina dovetti affronta­ re l'insorgere dell'epidemia di AIDS, che fu devastante. I prono­ stiCÌ per la popolazione infetta erano spaventosi. Di conseguen­ za iniziai a nutrire un gran rispetto per il processo di morte; avrei tanto voluto aiutare quelle anime a completare la loro vita con serenità, anziché aiutarle solo a sopravvivere. A volte fu straziante dover rianimare pazienti che, lo sapevo, volevano

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essere lasciati andare, ma erano del tutto impossibilitati ad esprimere i loro desideri. Doveva pur esserci un modo migliore ? per affrontare l'ineluttabilità di quella malattia. Battersi con le 'P. 'I unghie e con i denti, costringendo i malati a sopportare un gran dolore ... per cosa poi? Solo per posticipare l'inevitabile. Era di­ I sumano. In fondo chi stavamo cercando di servire: noi stessi o i f,y 1 pazienti? Di lì a pochi mesi fui testimone di un evento eccezionale, che in seguito avrebbe non solo indirizzato la mia carriera nell'am­ bito della medicina palliativa, ma anche dato una risposta deci­ siva sulla irrilevanza delle cure mediche in fin di vita. Ero anco­ ra tirocinante in un ospedale di San Antonio quando, in una notte di luna piena, uno scontro frontale mortale mandò cinque persone dritte al nostro pronto soccorso. Le vittime furono smi­ state secondo la gravità delle loro condizioni, e i pazienti più giovani con maggiori probabilità di sopravvivenza impegnarono .~ i medici con più esperienza. Nel frattempo avrei dovuto occu­ ~: parmi io dei pazienti con problemi meno gravi o con probabili­ tà di sopravvivenza minime. E proprio allora i paramedici mi portarono Ricardo, un anziano di 82 anni che aveva avuto un collasso mentre cenava a casa sua. Ci precipitammo in sala P emergenze, dove iniziai subito la rianimazione cardiopolmona­ re. Alla prima scarica il ritmo cardiaco tornò alla normalità. Poi l!. Ricardo si svegliò lentamente, borbottando qualcosa su «la luce» e sull'essersi ritrovato fuori dal corpo. Mentre cercavo di il ~,' stabilizzare il suo ritmo cardiaco, Ricardo ripeteva di continuo: «Era come un giro sull'ottovolante; era proprio come l'ottovo­ lante». Tornato in sé, fu in grado di dirmi i suoi sintomi, in par­ ticolare che gli faceva male il torace. Lo tranquillizzai dicendo che gli avevo somministrato dei farmaci per il dolore e di non preoccuparsi. Per distrarlo, gli chiesi di dirmi di più del suo giro sull'ottovolante. «Non so cosa mi è successo», rispose Ricardo, {{tranne che volavo sopra al mio corpo e gli angeli mi mostrava­ no delle cose che feci in passato}}. Mi guardò e con un sorriso entusiasta disse: «Era così bello. Dio e gli angeli mi dissero che sarei sopravvissuto anche a questo}). Subito dopo, il tracciato )'1

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sul monitor si appiattì; impiegai ancora il defibrillatore, ma le scariche non sortirono alcun effetto. Riuscii a ripristinare il bat­ tito cardiaco solo iniettando epinefrina direttamente nel cuore. Poi Ricardo fu portato in fretta e furia all'unità di terapia inten­ siva cardiologica, dove i cardiologi gli somministrarono farma­ ci antiaritmici per via endovenosa, nel tentativo di stabilizzare la frequenza e il ritmo cardiaco. Alla fine risultò che Ricardo aveva avuto un forte infarto che però aveva risposto bene agli antiaritmici, agli anticoagulanti e all'angioplastica. Mi apprestavo a fare il giro dei pazienti che avevo fatto rico­ verare la notte precedente, quando vidi Ricardo agitare una mano e farmi segno di visitarlo per primo. Non riuscivo a cre­ dere che quell'uomo fosse sveglio e così pieno di energia. «Grazie per avermi aiutato», disse con un sorriso radioso che gli illuminò il viso. Ribattei che ero molto contento del suo notevo­ le recupero. (cDevo tutto a Dio)}, ammise Ricardo. «Dottor Lerma, ricorda quando le raccontai della luce e di essere uscito dal mio corpo?», {{Certo che sì», risposi. {{Be', in quell'intervallo di tempo capii molto. Immagino di poter dire che negoziai con gli angeli e con Dio per mettere a posto le cose con la mia famiglia. Sa, dottor Lerma, li avevo trat­ tati male, i miei familiari e i miei amici, ma Dio mi ha dato l'op­ portunità di rimediare almeno con mia moglie». Affascinato da ciò che diceva, mi domandai se le storie di esperienze di pre­ morte che avevo sentito raccontare da altri medici fossero vere o soltanto una reazione del cervello a improvvise alterazioni chi­ miche e gassose. Nel caso di Ricardo ero sicuro che fosse acca­ duto qualcosa di miracoloso, ma non c'era modo di verificarlo. In balia delle sue parole, speravo mi dicesse ,qualcosa che pro­ vasse la sua esperienza. «Dottor Lerma, ho bisogno del suo aiuto. So che dubita della mia storia. e in un certo senso anch'io. Per questo devo sapere se quell'evento spirituale fu reale o meno». Prima che gli chie­ dessi come fare, Ricardo continuò: «Quando ero fuori dal mio corpo e mi libravo in alto nella sala emergenze, vidi una rivista

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trimestrale del 1985 sopra quel monitor cardiaco alto più di due metri, di preciso nell'angolo sulla destra. Era in mezzo alla pol­ vere, come se fosse stata messa li apposta perché oggi avessi la mia conferma. Dottor Lerma, potre,bbe controllare? Significhe­ rebbe molto per me». Ero incuriosito e scettico abbastanza da fargli quella corte­ sia, così andai al pronto soccorso con una scala. Salii, con le infermiere che aspettavano di sotto con il naso all'insù. Anche loro erano curiose di sapere se un paziente aveva veramente visto qualcosa mentre lo riportavamo in vita. Di storie come quella ne sentivamo in continuazione, ma di solito non c'era modo di provare se il malato aveva detto il vero o se si era immaginato tutto. Eppure, con nostra grande sorpresa, il trime­ strale c'era, proprio dove l'aveva visto Ricardo, ed era giusto anche l'anno: 1985. Senz'ombra di dubbio, l'unico modo in cui avrebbe potuto sapere che era lì era o mettercelo lui stesso, o averlo visto mentre si librava rasente al soffitto come ci aveva raccontato. Ma io ero ancora scettico; perciò feci altri controlli, da cui risultò effettivamente che Ricardo non poteva saperne nulla. Infatti, ormai erano passati anni da che era stato in grado di salire una scala a pioli, e non aveva mai lavorato in ambito edilizio. Inoltre, non riuscii a trovare nessuna relazione fra lui e qualcuno che avesse approntato le sale emergenze più recenti del pronto soccorso. Si trattava dunque di una conferma che non esistiamo solo con il corpo? Comunque fosse, il caso di Ricardo suscitò in me un vivo interesse per il processo di morte, che alla fine mi portò a intraprendere una carriera in cui storie del genere sono una regola più che un'eccezione. Questo libro parla di alcune persone comuni in situazioni straordinarie che con grande altruismo vollero condividere i loro ultimi giorni di vita con me, ben sapendo che le loro espe­ rienze di un Dio giusto e pieno di amore avrebbero portato pace e conforto a chi, direttamente o indirettamente, ne avesse udito parlare. Le storie dell'amore di Dio vissute e narrate da un bam­ bino di 9 anni, da un assassino, da una tossicodipendente, da un predicatore cristiano, da un ateo e da un nazista tedesco non

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Hono soltanto mistiche, ma anche curative ed edificanti. Tutte parlano dell'Unico Dio che crea con amore totale, e ci ricordano che ogni uomo su questo pianeta è dedito a uno scopo e fa parte di un tutt'uno, un'unità che, a tempo debito, creerà amore e pace eterni e universali. In particolare, un paziente rivela che l'amore incondizionato c gli atti di gentilezza gratuiti innalzano il livello dell'umanità, contribuendo alla crescita spirituale del nostro pianeta e dell'u­ niverso. Un altro spiega che, una volta unite, scienza e spiritua­ lità porteranno a molte scoperte, fra cui una sequenza proteica nel DNA che, quando verrà attivata, accelererà il nostro evolve­ re a entità pacifiche. Molte visioni e molti messaggi sono incen­ trati sulla necessità di amarsi e perdonarsi per poter avere un buon rapporto con la terra ed. effettuare un passaggio sereno nell'aldilà. Alcuni protagonisti delle storie ebbero un trapasso pacifico, altri difficile; ciononostante, il. loro denominatore comune fu il desiderio di darci uno scorcio del misterioso lega­ me tra la vita e la morte.

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Quando iniziai a parlare diffusamente di queste storie e a condurre i miei studi personali sulla validità delle visioni pre­ morte, dovetti affrontare critiche e indagini sul mio lavoro da parte della comunità medica. Ma anche se mettevo a rischio la mia carriera, mi sentivo obbligato ad andare avanti, convinto che i messaggi dei racconti potessero servire ad alleviare il dolo­ re interpersonale, spirituale ed emotivo sia dei pazienti sia dei loro familiari. I risultati furono a dir poco stupefacenti. Da lì ini-' ziò il mio progetto di ricerca sulle esperienze di premorte. Al tempo in cui finii di scrivere Illuminati avevo condotto più di duemila interviste a malati terminali valide ai fini dello studio; fra di esse, cinquecento e passa erano registrazioni di racconti di esperienze di premorte. Di base, io sono uno scienziato, e non fu facile accettare l'i­ dea degli angeli e delle entità incorporee. Credendo che la scien­ 13


za non avesse fatto abbastanza per definire la vita in senso stret­ to, iniziai a considerare, seppur con scetticismo, il numero apparentemente elevato di eventi soprannaturali che precedeva­ no la morte. Ogni volta che mi fu possibile trovai una spiegazio­ ne razionale, e molto spesso finii per attribuire le visioni dei pazienti allo stadio avanzato della loro malattia, ai farmaci, oppure a un blocco completo del loro metabolismo. Ma la somi­ glianza e la mera quantità delle storie, unitamente ad alcuni fenomeni inspiegabili, iniziarono ad avere un peso non indiffe­ rente in favore di qualcos'altro. Non voglio cercare di spiegare cos'è questo «qualcos'altro», ma solo raccontare le avvincenti storie dei malati terminali di cui mi occupai. Gli aspetti religiosi delle storie si devono ai loro protagonisti e non riflettono necessariamente le mie convinzioni; infatti, nel considerare tutte le possibilità, rispetto e mantengo un punto di vista scientifico e scettico. Invece, è con profonda compassione che spero queste sentite esperienze spirituali possano essere d'i­ spirazione e incoraggiamento sia per i moribondi sia per i sopravvissuti alla perdita, vale a dire per tutti noi. Il mio inten­ to è di offrire al mondo ciò che osservai e imparai dagli innume­ revoli pazienti cui ebbi l'onore di dare sollievo, ossia che alla fine del nostro viaggio terrestre ci attendono speranza, reden­ zione e amore incondizionato. Spero anche che l'industria medica accolga queste informazioni e arrivi a considerare diver­ samente il processo di morte, tanto da rivolgere maggiori atten­ zioni ai bisogni spirituali dei pazienti che stanno lasciando que­ sto mondo. I racconti di questo libro sono di pazienti ricoverati in hospi­ ce nelle loro ultime ore o nei loro ultimi giorni di vita, poco prima di intraprendere il loro viaggio finale e più solenne. (N.b.: anche se iri tutto il libro uso le virgolette per indicare i dialoghi fra i malati, i loro familiari e me, in realtà si tratta di un misto fra citazioni dai miei appunti presi durante le interviste e i miei ricordi). La maggior parte delle storie esplorano i regni miste­ riosi delle visioni, le sincronicità, le profezie eil campo quanti­ co delle infinite possibilità. Data la natura strettamente confi­

denziale dei racconti, ho cambiato i nomi e i dati personali. Spero che gli straordinari messaggi degli angeli vi piacciano e siano edificanti per voi come lo furono per me.

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Introduzione .. "

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Gli ultimi giorni di vita

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egli ultimi giorni di vita il malato terminale si ritrae in se stesso, quasi volesse prepararsi a liberare la propria anima. Tende a rivivere le vicende di un lontano passa­ to con sentimenti diversi e spesso ha bisogno di aiuto per affran­ carsi da questo mondo. Ciò è importante affinché l'anima possa essere resa al momento dovuto. In questo periodo il paziente può fissare intensamente alcuni angoli della stanza, oppure sostenere brevi conversazioni con spi­ riti invisibili di familiari deceduti o con angeli luminosi. Sono que­ sti esseri spirituali a recargli pace e conforto e ad aiutarlo a risol­ vere le sue questioni emotive, interpersonali e spirituali rimaste in sospeso; il loro fine ultimo è che il loro assistito possa effettuare il passaggio alla vita ultraterrena in pace con se stesso e con gli altri. A volte chi osserva dall'esterno può formulare giudizi affret­ tati e parlare apertamente di comportamenti allucinatori e deli­ ranti del paziente; ma così facendo non si rende conto che tali asserzioni negative dissuadono il malato dal parlare liberamen­ te delle sue esperienze spirituali (cosa che, ironicamente, finisce con il prolungare la sua sofferenza). Al contrario, per favorire un trapasso sereno, la famiglia e gli amici dovrebbero sforzarsi di creare un'atmosfera in cui il paziente si senta al sicuro, amato, per nulla esposto a critiche. Un atteggiamento simile lo invoglia a descrivere le sue visioni confortanti e le sue esperien­ ze di redenzione; l'effetto finale è lo sfogo del suo dolore emoti­ vo, interpersonale e spirituale.

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Anche se si trova fra le mura domestiche, il paziente manife­ I I sta un forte desiderio di tornare a casa. Insiste che deve «prendere il treno», «prendere l'autobus» o «prendere l'aereo» per 1 casa. Queste espressioni sono metafore dell'ultimo viaggio, il ,. più sacro di tutti: il viaggio in paradiso. li malato può tendere le' i braccia verso l'alto, quasi cercasse di sfiorare l'intangibile. Molti ' pazienti descrivono questo protendersi come lo sforzo di tenere 'I per mano i loro cari defunti o di accarezzare «le ali di un ange­ 16». È il momento in cui gli esseri spirituali invitano i pazienti a", camminare verso di loro, a inoltrarsi nella luce fino a essere del i~, tutto illuminati. Quando la fine è vicina, affiora il delirio. li paziente può but­ tare da parte le lenzuola e strapparsi di dosso i vestiti o i catete­ ri venoso e vescicale. Questo comportamento è noto come deli- jli rio ed è causato da una moltitudine di fattori tra i quali (ma non ;" solo) il dolore, l'incapacità di svuotare del tutto la vescica, la sti- \ tichezza, la disidratazione, l'insufficienza epatica e renale, la febbre, le infezioni, un basso contenuto di ossigeno nel sangue ~. e, da ultimo ma non meno importante, lo stadio avanzato della ': malattia. li trattamento del delirio comprende varie misure fra cui gli oppiacei (come la morfina) contro il dolore e la dispnea, un catetere per ovviare alla ritenzione di urina, lassativi per la stitichezza, liquidi per via endovenosa o sottocutanea per la di­ h sidratazione, ossigeno somministrato con cannula o maschera ·'J1i nasale, farmaci sedativi quali l'aloperidolo, la clorpromazina o (meno spesso) illorazepam per conseguire un sollievo immedia­ to e durevole. A quel punto l'impiego di oppiacei, di neurolettici e di ansio- i. I litici, il cui effetto indesiderato principale è la sedazione, di soli- . I to diventa necessario per far rilassare e proteggere il paziente. I:equilibrio tra sollievo dal dolore e mantenimento .della consa­ pevolezza cognitiva negli ultimi giorni di vita subisce un drasti­ co tracollo, che però è inevitabile. Dato l'aumento esponenziale il delle tossine in circolazione in prossimità della morte, ciò compromette ancor più la capacità del paziente di rimanere vigile. Va ricordato che si tratta di una reazione naturale del corpo, il \1 18 1,

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!lllUle rimuove la consapevolezza di morire per proteggere il

lHI:t.iente dagli effetti traumatici dell'agonia. La famiglia e gli Il 111 id vorrebbero tanto che la persona amata rimanesse sempre vll;(ile fino alla fine, ma sta di fatto che per il malato sarebbe Il'Oppo doloroso. In quest'ultima fase è indispensabile che amici e parenti ImiCÌno dormire il paziente quando e quanto desidera. Dato che Il nervo stato-acustico sopravvive più di tutti al processo causti­ i.'O di agonia, si potrà constatare che accarezzare piano la perso­ ìlll amata sulla testa, umettarle le labbra secche e la bocca ul-idutta e sussurrarle che tutta la famiglia e gli amici sono riuni­ ti in amore e in preghiera, le porterà un senso di liberazione e ti I pace. Un continuo incoraggiamento a seguire gli angeli di Dio (' i cari defunti le assicurerà inoltre un passaggio sereno nel !'t'~no celeste. Con una diminuzione del livello di coscienza, la congestione ru)lmonare, la mancata percezione del polso distale e le estremi­ ItI cianotiche, quasi sicuramente la morte avverrà nel giro di poche ore. Nel frattempo il paziente di solito riesce ad affrancar­ MI da questo mondo con la mente, il corpo e lo spirito e resta in tlllesa della fine pervaso da un'inebriante sensazione di euforia. 1\ pochi minuti dalla dipartita, sul suo viso si possono scorgere Il n'ultima lacrima e un sorriso. Quest'ultima lacrimazione viene l'Ipesso chiamata epifora. Dopo la morte, la famiglia e gli amici che sono stati intimamente coinvolti nell'alleviare il gran dolore fisico del paziente trovano conforto in un travolgente senso di l';\curezza che la persona amata sia stata portata sulle ali degli IIngeli nel regno celeste di Dio.

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Negoziare con gli angeli

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ra uno di quei giorni di luglio grondanti umidità, afosi e pieni di luce, quando varcai il cancello del MedicaI Center Hospice con la mia solita fretta. Lungo la via che portava all'ingresso mi concessi un momento per apprezzare la tranquillità dei giardini e riprendere fiato in quella bellezza ver­ deggiante, che emanava pace e amore quasi palpabili. Ral­ lentando il passo, gustai appieno la sensazione di essere avvol­ to dalla grazia, dalla gentilezza e dal perfetto amore. Era una sensazione familiare in prossimità dell'hospice, ma così intensa Il0n era mai stata. Stavo per incontrare la saggezza e il sapere sotto le spoglie di un bambino di 9 anni con un cancro in fase terminale. Matthew non era un mio paziente, ma la sua dottoressa era fuori sede, perciò mi aveva chiesto se potevo occuparmi io del suo ricovero all'hospice, l'ultima fermata per la maggior parte ùei malati terminali. Ero stato felice di accettare. Avevo sentito çhe quello era un bambino molto speciale. Aveva chiesto lui di passare dall'hòspice domiciliare all'hospice residenziale per sgravare di un peso la sua famiglia. Ero curioso di vedere che tipo era. Avviandomi verso la sua stanza, diedi una scorsa alle centinaia di pagine tra rapporti medici e chirurgici e registrazio­ ni delle terapie invasive e aggressive che gli erano state sommi­ Ilistrate in quegli ultimi due anni. Era già tanto per chiunque sopravvivere, figuriamoci per un bambino della sua età. Inalai un profondo respiro ed entrai nella stanza. Appena

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notai i danni provocati dalla sua malattia provai una gran pena. E avvertii anche qualcos'altro, qualcosa di invisibile ma palpa­ bile che assorbì gran parte della mia attenzione. Una sensazio­ ne? .Energia? Saggezza? Coraggio? Era qualcosa di familiare, ! ma non riuscivo ad afferrarlo. Mi fermai un istante nel tentati- \:, vo di capire che cos'era, ma Matthew udì o percepì il mio ingres- ): so, perciò dovetti scrollarmi di dosso quella sensazione e pre­ sentarmi per non mettere la famiglia a disagio. «Sono il dottor ùrma. Benvenuto. Tu devi essere Matthew», dissi rivolgendomi ' però alla sua sorellina, seduta proprio davanti a lui. La bambina scoppiò a ridere, ma Matthew protestò a gran voce: «No, scema che non sei altro! Matthew sono io!». Considerando che era cieco da più di un anno, rimasi sorpreso che avesse colto in pieno il mio scherzo. Mi fece un magico sor­ riso birichino e si produsse in un vivace tentativo di farmi ride­ re anche lui: «Dottor Lerma, voglio presentarti Regina, il mio tumore. I dottori la chiamano retinoblastoma e mi dicono che è un tumore cattivo. lo però la considero un'amica. Devi sapere, dottor Lerma, che Regina aiuterà la mia famiglia e anche gli altri bambini ammalati». «E come?», domandai. ({Be', Dio è l'unico a saperlo! lo devo solo accettarla». Dissi a Matthew che gli faceva onore voler aiutare gli .altri. Pensai che fosse una strategia di coping [cioè, di risposta alla malattia - N.d.R.], anche se non avrei mai creduto che un bam­ bino di soli nove anni con un cancro incurabile e aggressivo a entrambi gli occhi fosse in grado di elaborarne una. Com'era possibile che quel bambino, cui la diagnosi era stata fatta ben tre anni prima, seguita da rimozione chirurgica degli occhi, sottopo- i' sto a vari e concomitanti cicli di chemio e radioterapia, fosse tanto altruista e, almeno all'apparenza, non provasse ansia o paura? La sua miracolosa sopravvivenza era forse dovuta alla sua spiritualità? «Allllora», interloquÌ Matthew, quasi fosse un dottor Freud, «tu non sei uno di quei dottori serissssimi, vero?». Non appena gli risposi di no, Matthew esclamò tutto entusiasta: «Lo sapevo! Sei quello che aspettavo. Quello di cui mi hanno par­

lato loro!». In quell'istante colsi un movimento ai margini del mio campo visivo e mi girai di scatto, pensando che fosse entra­ to qualcuno nella stanza. Invece non c'era nessuno. Strano. Respinsi anche quella sensazione e chiesi a Matthew che cosa voleva dire. «Te lo dirò un'altra volta. Adesso non è il momento. È un segreto», fu la sua enigmatica risposta, pronunciata con calma. Quel bambino aveva carattere e irradiava una straordinaria carica di energia e di allegria, tanto che, in quanto medico, mi domandai se avesse le carte in regola per rimanere all'hospice. Non sembrava tanto prossimo alla morte quanto la maggior parte dei pazienti che arrivavano da noi. Domandai a sua madre perché ce l'avesse portato. Con le lacrime agli occhi e la voce tre­ mante, la signora confermò quello che avevo sentito dire. «Ha insistito lui a voler venire qui per non morire a casa. Dottor Lerma, gli ho ripetuto più volte che Dio l'avrebbe guarito e che era presto per andare in cielo, ma non c'è stato verso di fargli cambiare idea. La sua ora era vicina, diceva sempre, e non vole­ va gravare le sue sorelle e me del compito di assisterlo in punto di morte. È un bambino meraviglioso, sempre in pensiero per noi, sempre cosÌ attento. Una volta mi ha detto che, se avesse potuto diventare grande, sarebbe stato il tipo di uomo che pro­ tegge la sua famiglia. Non so come fa. lo non avrei la sua stessa forza di rimanere in vita. Sa, dottor Lerma, io non credo vera­ mente in Dio. Però sto iniziando a pensare che il mio Matthew ci sia stato inviato da un'entità superiore. Dio stesso, magari? Vuole pregare con me, dottor Lerma?». Ormai piangeva senza ritegno. Asciugandomi anch'io una lacrima, le misi un braccio intorno alle spalle e, con voce som­ messa ma con fervore, recitai l'unica preghiera che sapevo: il Padre Nostro. A spizzichi la signora mi venne dietro, poi mi guardò dritto negli occhi e disse: «Non la sente, dottor Lerma? Non sente una presenza meravigliosa e piena di amore?». «Certamente», risposi. «Certamente». Mi stupì che anche la madre di Matthew avvertisse qualcosa di insolito nell'aria. TI coraggio e la forza di Matthew, la sua capacità di trovare

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gioia nelle awersità erano stupefacenti. Non era un'impressione solo mia. Anche i medici e le infermiere dell'Istituto tumori dice­ vano che quel bambino irradiava amore e gioia, che nonostante le terapie dolorose aveva sempre avuto un sorriso, parole sagge e abbracci spontanei per tutti. In çompagnia di Matthew ci si sen­ tiva amati. Dal punto di vista clinico, quell'esserino fragile, con un tumore grande quanto una palla da softball sporgente sul lato destro del cuoio capelluto, avrebbe dovuto essere morto da mesi, o sprofondato in uno stato di incoscienza, o almeno in preda a dolori atroci. Invece era andato oltre ogni aspettativa. Anziché un ' bambino intollerante e pieno di risentimento, avevamo una per­ soncina di nove anni che sosteneva brillanti conversazioni senza problemi e aveva una capacità fuori dal comune di rallegrare i suoi interlocutori. Bastarono poche visite per constatare che non ero l'unico a essere ammaliato dal suo sorriso contagioso. Per tutti era un piacere conoscerlo, e tutti lo definivano maturo, divertente, affettuoso, comprensivo e saggio nonostante la sua giovanissima età. Sentendo parlare di lui, molti familiari dei malati nelle stanze vicine venivano a trovarlo, per poi andarsene immancabilmente commossi. La sua accettazione ottimista della vita che Dio gli aveva assegnato era dawero incredibile. Per dirla con le parole di Matthew: «La mia malattia riporterà la mia mamma da Gesù Cristo, perciò ne vale la pena!». Anche dopo il rientro in servizio della sua dottoressa, non smisi di andare a trovarlo. I:awertivo come una necessità. Ogni volta che passavo davanti alla sua porta, mi sentivo risucchiare nella stanza come per magia. Un giorno chiesi a Matthew come aveva fatto a sopportare tutto quello che aveva passato ed essere ancora tanto vibrante di energia. Rimase assorto un momento, come per decidere se darmi o meno quell'informazione. Chinò la testa, quasi ascoltasse qualcuno, poi disse con fare spiccio: «OK, OK, adesso glielo dico. Doc, è un regalo degli angeli di Dio». Confesso che quella rivelazione mi meravigliò un poco, anche se mi era già capitato di sentire altri pazienti riferirsi agli angeli. Di solito, mi limitavo a far finta di niente, pensando che fosse solo un effetto indesiderato delle terapie o un' allucinazione di una

I nente

prossima alla morte. Ma con Matthew era diverso. Matthew era lucido e dal suo ricovero aveva rifiutato la sommi­ nlstrazione di un qualsiasi farmaco. Siccome non volevo com­ promettere il bel rapporto che si era instaurato fra noi due mani­ restando dei dubbi, gli chiesi con interesse che cosa intendeva dire con «un regalo degli angeli di Dio». Matthew rispose: ((Adesso te lo posso anche dire, il mio segreto. Gli angeli mi hanno appena dato il permesso di parlarti. Sono ancora vivo per­ t:hé ho chiesto loro se potevo restare qui un po' di più, finché la mamma e le mie sorelle non accettano la mia malattia e la mia morte e, soprattutto, non tornano a credere in Dio». «Perché pensi che abbiano bisogno del tuo aiuto?» gli doman­ !.lui.

«Dottor Lerma, quando papà se ne andò, la mamma si arrab­ biò con Dio. Era senza lavoro e lui non ci aiutò mai con i soldi.

Mamma rimase arrabbiata con Dio. Quando poi mi trovarono il cuncro, perse del tutto la fede. Si chiedeva sempre perché, per­ ché Dio le portava via le persone che amava e per di più nei momenti peggiori della sua vita. Smise di andare in chiesa, e le mie sorelle lo stesso. lo voglio aiutare mamma e le mie sorelle. Ilio mi ha permesso di rimanere finché non saranno guarite». «E tu non vuoi guarire, Matthew?». «All'inizio sì. Ma adesso so che, se guarisco, mamma non ritroverà più Dio, e questo non va bene. lo voglio la mamma per sempre. Quindi devo morire per aiutarla a ritrovare Dio. Solo L'OSÌ potrà stare con me per sempre. Lo capisci questo, dottor Lerma?». «Oh, Matthew, sì che capisco. Non so che dire. Vorrei che tu I~uarissi e anche che tua mamma ritrovasse Dio. Perché gli angeli c Dio non possono far succedere entrambe le cose?». «Dottor Lerma, se avessi visto anche tu l'aldilà, non mi fare­ sti questa domanda. Vedrai. Andrà tutto perfettamente bene». Le sue insolite rivelazioni mi colpirono. Come potevano esse­ re generate dal delirio? Ragionava con una chiarezza e una luci­ dità eccezionali per le sue condizioni. Molto incuriosito, decisi di indagare più a fondo sulle sue visioni.

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«Gli angeli mi hanno assicurato che la mia famiglia troverà la pace in Cristo come risultato della mia fede e del mio amore incondizionato per loro», continuò Matthew. Di nuovo: a soli nove anni, come poteva essere tanto saggio? Disse di aver sem­ pre creduto negli angeli di Dio ,e di aver iniziato a conversare con loro ogni venerdì da quando aveva iniziato la chemiotera- ! pia. Allora aveva capito che la sua malattia aveva uno scopo, lo scopo di aiutare la sua famiglia e il mondo. Gli chiesi in che ì • modo avrebbe aiutato il mondo. «Oh, lo vedrai anche tu, come funziona», mi rispose. «Gli angeli hanno piani anche per te, ma , per adesso devono restare segreti». Ma per quante domande gli ' facessi, non riuscii a cavargli nessun'altra informazione. Mai conosciuto un bambino che sapesse mantenere tanto bene un segreto! Gli angeli avevano scelto un valido messaggero. Chi era quel bambino per parlare della morte con tanta sere­ nità ed essere più in ansia per gli altri che per se stesso? Perché aveva chiesto di essere ,ricoverato al nostro centro per malati terminali? Che cosa l'aveva indotto a pensare che stava per morire? Come mai non soffriva dolori atroci, con quel tumore intracranico aggressivo che si ritrovava? Erano domande che mi frullavano per la testa tutto il santo giorno. Quella seragli chiesi perché aveva voluto venire da noi. «So che la mia ora è vicina e non voglio morire a casa», mi rispose. «Mamma e le mie sorelle diventerebbero troppo tristi». «Come lo sai?». «Me l'hanno detto i miei angeli», rispose Matthew lanciando uno sguardo a sua madre. «Non me l'hai mai detto, che vedevi gli angeli. Perché?» chie­ se la signora con aria assai perplessa. Era la prima volta che Matthew parlava di loro in sua presenza. «Non ero tenuto a dirvelo prima. Ma adesso sÌ», rispose come se fosse la cosa più normale del mondo. «Dai, allora raccontaci qualcosa di loro!» esclamai, fingendo di essere un bambino curioso. . «Ti dirò tante cose, ma prima», disse Matthew con un sorri­ so birichino, «devi leggermi una storia». Mi passò un libretto

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per bambini e me lo fece aprire a pagina 24. Mi accorsi subito che erano storie semplicissime, e mi sentii sciocco all'idea di dovergliene leggere una. Faticavo a vedere Matthew come un bambino. Tuttavia pensai fosse meglio compiacerlo e mi misi a leggere la storia con un tono allegro. Matthew aveva un vero lalento per indurre gli altri a fare quello che lui voleva; sembra­ va renderli ansiosi di accondiscendere alle sue richieste. La let­ lura non durò più di cinque minuti. Era la storia di una bambi­ na che serbava un fantastico segreto. Gliel'aveva confidato una fata, dicendole anche che avrebbe dovuto rivelarlo solo e soltan­ lo in un momento speciale. Il messaggio della storia era velato eppure evidente. Sia la madre di Matthew sia io ci rendemmo conto che «il momento speciale» era la sua morte, e che ormai era prossima. «Dottor Le:rrn,a, risponderò alle tue domande sugli angeli fin­ ché loro me ne daranno il permesso», dichiarò Matthew quan­ do richiusi il libro. Accantonai la mia mentalità scientifica e aprii di buon grado il mio cuore a quel fragile, piccolo messo ~\llgelico. Curiosissimo e impaziente, presi a fargli domande sulla vita e su Dio. Dal canto suo, Matthew era più che entusia­ sta di condividere le sue conoscenze sulla malattia e le sue visio­ ni angeliche. «Finalmente posso parlarne con qualcuno. Roba che scotta! Cavoli, sapeste quant'è stato difficile non poter dire mai niente a nessuno! Adesso però ho un po' di sonno. Perché non lo facciamo domani?». «Come vuoi», fu la mia pronta risposta. «Appena ti va di par­ lare, basta che dici alle infermiere di chiamarmi con il cercaperso­ ne. Non importa a che ora. Sono qui per te, Matthew. Ricorda: ti voglio bene». Sorrise, mi diede un caldo abbraccio e un bacio sulla guan­ cia. «Dormi con gli angeli, dottor Lerma. Anch'io ti voglio bene». Ricevetti una chiamata il mattino seguente. Cosa assai stra­ na, in quelle ore ci furono meno ricoveri del solito; il che mi per­ mise di rimanere con lui fino a pranzo. Il giorno dopo fu anco­ ra meno movimentato, anzi, !'intera settimana fu tra le più tran­

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quille degli ultimi anni. Fu solo una coincidenza? In ogni caso, tutta quella disponibilità di tempo extra non avrebbe potuto verificarsi in un momento migliore. Appena entrai in camera sua, Matthew, né sofferente né ansioso, volle giocare con il Lego. «Bello il Lego! Mi sarebbe piaciu:fo averlo anch'io quando ero pic­ colo!» esclamai. «Be', eccolo qui. Giochiamo, dai!» fece Matthew. A un certo punto, sollevò la testa come se potesse vedermi e disse: «OK, ades­ so ne parliamo. Fammi qualche domanda, dottor Lenna. Sento il tuo cuore, sento che trabocca di domande, quindi spara pure». «Ci sono qui degli angeli adesso?». «Oh, sì che ci sono!». Mi guardai intorno, ma non vidi nulla. «Quanti ne vedi?». «Tre». «Di che colore sono?». «Dorati e luminosi». «Quanto sono alti?». «Un po' più del mio giocatore di pallacanestro preferito, David Robinson». «Arrivano mentre dormi o li vedi comparire quando ti svegli?». «Tutte e due. Entrano nei miei sogni, e tutti insieme andiamo a nuotare con i delfini, le foche e i pinguini. Ci divertiamo un sacco. Ouando invece sono sveglio, mi insegnano cose sulla terra e sulle persone». «E cioè? Puoi dirmi che cosa ti insegnano?». «Si. Mi dicono che anche la terra è ammalata come me, e che " le persone devono imparare a farla stare meglio per poter esse­ re tutti sani e felici. Certe volte, mentre nuoto con i delfini e gioco con Gabri, sento la terra piangere perché sta male e per- .,. ché è triste. Allora diventiamo tristi anche noi. Ma poi Gabri mi fa vedere che cosa può far ridere la terra». «Ah sì? E che cosa può far ridere la terra, Matthew?». «Ride se nuoti con i delfini, le foche, i pinguini, i pesci e tanti altri animali, e se ringrazi Dio per l'acqua, le piante e tutto il resto. Capisci, dottor Lenna?». 30

«Accidenti se capisco! Grazie, Matthew! Grazie per avermi ricordato quello che spesso dimentichiamo: il rispetto del nostro pianeta e degli animali che Dio creò per la nostra sopravvivenza e tenerci compagnia. Ma tornando agli angeli, i tuoi ce l'hanno l/II nome?». «Sì. TI più grande è Gabri, poi ci sono Noe e Raffi. Ci voglio­ no tanto bene, dottor Lerma». Erano nomi assai strani per degli angeli. Eppure ... non erano forse nomignoli per Gabriele, Noel e Raffaele? Era possibile che due angeli di Matthew fossero gli arcangeli della Bibbia? Proprio /lilora una bella ragazza entro nella stanza. «Ciao signora Smith!» p,ridò Matthew tutto contento. Lei e io ci scambiammo uno sguar­ incredulo, condividendo una muta domanda sulle percezioni t~xtrasensoriali di Matthew. Fra me e me, pensai subito di sfrutta­ l'l' quell'incontro ~natteso per sapere com'era stato Matthew quan­ do non era in fase terminale. Ma ancora una volta Matthew mi precedette. Senza alcuna esortazione da parte mia, chiese alla sua Insegnante di raccontanni un aneddoto risalente ad alcuni mesi prima. Ouella breve storia mi diede un ritratto preciso di chi era Ilcmpre stato. La signora Smith raccontò: Matthew ci pregò di lasciarlo venire a scuola il giorno del «mostra e racconta». Anche se non stava già bene, la scuola diede il via libera e lo agevolò in ogni modo possibile. Thtti i bambini si presentarono con qualcosa di speciale che li distin­ gueva dagli altri. La vivace Susan portò il suo pesce rosso, il pic­ colo Jeff il camion dei pompieri e Xavier persino la sua cara mamma. Alla fine, i giocattoli, gli animali e i genitori furono le cose più esibite (almeno fino a quando Matthew non fu spinto in classe sulla sedia a rotelle). Matthew mi aveva detto che voleva far vedere il suo tumore e par­ lare degli esseri dorati. Ero un po' turbata per la sua malattia e molto protettiva nei suoi confronti, ma lui aveva insistito che era una cosa da fare. Voleva aiutare i bambini a capire che non biso­ gna avere paura o escludere una persona solo perché è malata o ha un aspetto fuori dal comune. Dopotutto, erano solo bambini, aveva

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detto. Non ce l'avevo fatta a dirgli di no. Con mia sorpresa, appe­ na entrò in aula mise di buonum ore tutta la classe. I bambin i pre­

sero a fargli doman de sulle sue sensazioni da malato, se il tumore gli faceva male, come si trovava in ospedale. Ci incantò tutti con le sue risposte dirette, la sua risata contagiosa e alcuni aneddoti divertenti sulla gente che aveva incontr ato all'ospedale. Poi raccon tò che quando sta davvero male va in un paese dei sogni

con un grande oceano, dove nuota con i delfini, reggendosi alle loro pinne, li cavalca e si diverte un mondo quando saltano fuori dall'acqua. Semma i si fossero ammalati, disse ai bambin i, non dovevano preoccuparsi, perché Dio avrebbe inviato degli angeli speciali in loro aiuto. Gli angeli sono sempre con noi per aiutarci: basta credere e chiedere. Fu un momen to particolarmente sentito per tutti. Da allora, sento di dover passare a trovarlo quando posso. In sua presen za avverto sempre pace e amore a profusione.

Al ricordo di quell'episodio la maest ra si era commossa. Mentre si asciugava le lacrime, pensai per rermesima volta che Matthew fosse un ragazzino straordinario. TI suo amore e la sua sollecitudi­

ne verso chiunq ue gli pennette~o di fare del gran bene. Tornando agli angeli, chiesi alla signor a Smith e alla madre di Matthew se conoscevano bambi ni o qualcu n altro che si chiamas­

se Gabri, Noe o Raffi. Ero ancora un tantino scettièo. Ma per quanto si sforzassero, nessun a delle due si ricordò di amici, com~ pagni di scuola, pazienti pediatrici, infenn ieri o medici con quei nomi. Erano perplesse quanto me. Matthew non dava segni di classico delirio, né di indebolimento cognitivo come effetto indesi­ derato delle cure mediche o conseguente al cancro. Le sue visioni e i suoi angeli erano solo una strategia di coping? E in tal caso, come faceva un bambi no senza occhi a indovinare il nome di chi andav a a trovarlo e a distinguere i colori? Aveva una qualche per­ cezione extrasensoriale o c'erano davvero delle entità invisibili che gli davano infonnazioni? Per me era molto difficile conciliare ciò che vedevo con ciò che avevo studia to in medicina. Ma comun que fosse, ci tenevo a dare pace e conforto al mio piccolo paziente. Un paio di giorni dopo parlam mo ancora di angeli.

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«Gli angeli vengono a trovarti spesso? E con quale frequenza?». «Da una volta all'altr a non passan o tanti giorni. Vengono quasi sempr e al venerdì, credo».

«Come fai a dirlo?».

«Perché era il giorno della chemi oterap ia e loro venivano ad

lIiutarmi a stare meglio».

«Ti parlano?». «A volte».

«Cosa dicono?».

«Mi chiedo no se sto bene».

«E tu cosa rispondi?». «La verità. Quand o succede, che sto male. Loro mi dicono di non preocc upann i, e mi fanno sentire subito meglio. Ecco per­ l'hé non ho i dolori che pensat e dovrei avere». «Come fanno a farti stare meglio?». «Mi mostra no'l'ac qua blu e mi fanno andare a cavallo dei del­ !'ini. Poi sto sempr e meglio di prima» . Matth ew stava ripete ndo quello che aveva detto ai suoi com­ pagni di classe, con la sola differe nza che stava attribu endo lutto agli angeli. Sembr ava un'esp erienz a fantas tica. Gli confes­

H~IÌ che sarebb e piaciu to farla anche a me. Mi disse che avrei potuto, se l'avessi voluto davvero. Bastav a creder e e chiedere. Avessi avuto la sua stessa fede!

«Com'è cavalcare i delfini?». «È bellisssssimo! Rido, e i delfini mi parlan o, e anche l'acqu a c la luce del sole parlan o fra loro. Gli angeli mi hanno spiega to che è così perché hanno tutti l'unico spirito di Dio». «Accidenti. Mi piacerebbe sentirli parlare». «Oh, ma puoi se vuoi! Lo farai anche tu!», «Che altro succede quand o sei lì?». «Ci sono anche tutti i miei amici». «Quali amici?)), «I bambi ni dell'ospedale amma lati come me)). «Sono già morti? ). «La maggi or parte sì, ma alcuni vengono solo duran te la che­ mioterapia)) .

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«Cosa ti dicono questi bambini?». «Che sono tanto fieri di me e che torneranno presto». «Quanto presto l}). «Prestissimo». «Ci sono bambini qui con noi!». «No, vengono solo al venerdÌ». «Ti capita di voler stare meglio?». (,Sì, a volte». (,Gli angeli non possono farti star bene!». «Potrebbero, sì. Ma mi ricordano sempre il motivo per cui ho scelto di essere malato. lo sto cercando di aiutare la mia fami­ glia. È quella la cosa più importante. Quando ci si offre di stare male per gli altri, questo cambia la loro vita. Dal mio letto, senza muovermi, posso aiutare tantissime persone». "Lo so. Adesso per esempio stai aiutando me». Matthew percepì la mia commozione. Mi mise una mano sul braccio e disse: «Non essere triste. Se potessi vedere quel che, vedo io - e lo vedrai un giorno - saresti davvero felice per me». Eccolo di nuovo: quel linguaggio enigmatico. Mi schiarii la voce, mi ricomposi, feci un respiro profondo e gli domandai: «Cosa devo dire ai miei pazienti che stanno morendo?». <cDi' loro di dire "Mi dispiace" a chi hanno ferito, e "Mi dispia­ ce" a Dio. Dio vuole che crediamo nel suo unico Figlio che morì per i nostri peccati. Vuole che siamo buoni. Vuole che quando sba­ gliamo, cerchiamo di rimettere a posto le cose. Vuole che teniamo sempre a mente che Lui ci ama tanto. Vuole che ciascuno ami se stesso come Lui ama noi. Se ci si vuole bene, si può voler bene anche agli altri, e il mondo può essere felice. Gli angeli mi hanno detto che non manca molto perché ciò diventi realtà». Quello fu un gran consiglio. Pensai a come sarebbe stato utile nella mia vita, a che differenza avrebbe fatto se l'avessi seguito. In sé, era un messaggio semplicissimo, ma spesso accade che passi inosservato. Sì, quel bambino mi stava dando una lezione che non avevo mai imparato alla facoltà di medicina. Erano circa le quattro di pomeriggio di un venerdì, quando passai da Matthew a vedere se aveva ricevuto altri messaggi i

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r'l' {i ',;

tlllgclici. Era un piacere discorrere con lui; perciò, anche se tlVCVO la giornata piena, mi sentivo sempre in obbligo di recupe­ !'lIre del tempo per ascoltare quel piccolo saggio in un corpo distrutto. Appena entrai Matthew sorrise. Ancora una volta mi IIveva riconosciuto ancor prima che lo salutassi. "Ti spiace se ti faccio altre domande sugli angeli, Matthew?». "No», «Sai che oggi è venerdì?». "Sicuro. Gli angeli sono venuti stamattina. Sono stati loro a twcgliarmi» . «Che ti hanno dettaI». "Mi hanno chiesto come stavo». "E tu cosa hai risposto?». «Che avevo sonno e che ero molto felice». "Perché eri tanto felice?», «Perché nuotavo con Gesù, gli angeli, i delfini e i miei amici. (ìcsù è venuto a giocare con tutti noi e ha detto a noi bambini nmmalati che non saremmo più stati male o tristi. Presto man­ derà i suoi angeli a prelevarci dai nostri letti d'ospedale per por­ larci a giocare con i delfini, i miei amici e con chiunque voglia­ mo per sempre». «È la prima volta che Gesù gioca con te e i tuoi amici?». «Ma no! Certo che no! Non capisci che LUI era i delfini, l'ac­ qua, il cielo e tutto il resto? È LUI che ci faceva ridere e che ci ha dato l'opportunità di aiutare me, la mia famiglia e gli altri». Non sapendo cosa rispondere, proseguii: «Cos'altro tihanno detto Gesù e gli angeli?», «Be', Gesù ha detto che il mio tempo qui sta per scadere, e che esaudirà il mio desiderio. E Raffi che mamma e le mie sorel­ le saranno felici di sapere dove andrò e che Gesù, il nostro Dio, lutti gli angeli e anch'io veglieremo su di loro per sempre». «Dunque sei davvero convinto che ti sei ammalato di cancro per aiutare la tua famiglia e le altre persone?», «Sì. Penso proprio di SÌ». "Allora, un giorno conoscerò anch'io i segreti degli angeli?», «Sì. Verranno da te quando ti ammalerai anche tu».

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«Mi verrà il cancro?». «No, ti ammalerai soltanto. E verrò a trovarti anch'io per rimanerti accanto». Allora mi venne da piangere. Abbracciai quello speciale figlio di Dio, perché dentro di me sapevo che mi aveva detto il vero. «Grazie per essere un paziente e un amico tanto sincero, gentile e meraviglioso». Matthew non sapeva che in quel periodo avevo ci problemi di salute, ma gli angeli evidentemente sì. Fu quello a­ spazzare via tutti i dubbi che mi erano rimasti. «Gli angeli ver- ' ranno a prendermi lunedì. Ti rivedrò prima?» mi sussurrò ' Matthew all'orecchio mentre ricambiava il mio abbraccio. «Naturalmente», gli assicurai. «Non mancherò per niente al I; mondo. Voglio mettere tutto in un libro per far conoscere a tutti la tua storia. TI dispiace?». «No. È proprio per quello che gli angeli volevano che ti par- I lassi». «Cos'altro ti hanno detto di riferirmi?». «Che gli angeli esistono veramente, che si prendono cura di noi e che vogliono aiutarci. Che non dobbiamo essere spaventa­ ti, ma pregare sempre Dio perché ci aiuti, proprio come è suc­ cesso a me. Questo lo devi dire a tutti». «E tu? Vuoi dire qualcosa al mondo?». «Chi crede in Dio non deve avere paura di morire. In fondo, è abbastanza divertente, con tutti gli amici, i delfini e gli angeli che ti fanno ridere. Dissi ai delfini che doveva essere bello esse­ re dei delfini. Sai cosa risposero? Che doveva essere bello anche essere un bambino. Non è strano? Tutti vogliono sempre essere,' quel che non sono». Lunedì andai da Matthew intorno alle sette del mattino, per­ ché era a quell'ora che gli angeli sarebbero arrivati. Me l'aveva detto lui. Lo trovai che giocava al karaoke con le sue sorelle. Come al solito, appena entrai Matthew esclamò: «Ri_ciao!»,i quasi potesse vedermi. «Buongiorno a tuttiiii! Come sta il nostro Matthew oggi?» intonai ostentando un piglio da DJ, per essere in tema con le loro canzoni. ì «Benone! Ho dormito bene e non sento male da nessuna :1

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I,urte». Stavo per chiedergli se gli angeli erano già arrivati, Matthew esclamò: «Dottor Lerma, lo sai che ci sono qui ulmeno venti angeli?». «Davvero? E poi chi altro?». «Tutti i miei amici della spiaggia. È come una grande festa, L'cm i cappellini e i palloncini colorati e il resto. Si ride, si scher­ i. LI , e gli angeli sono talmente luminosi e dorati da far sembrare d'oro anche noi e la stanza. Questa luce mi fa sentire come in prima elementare, quando potevo ancora correre e giocare dalla tnattina alla sera e vedere la luce del sole». Quelle parole riem­ l'lirono sua madre e le sue sorelle di immensa gioia e tristezza. Sua madre prese il microfono del karaoke e pregò: «Dio mio, ora sono pronta a restituirtelo. Non voglio più che soffra. Ti voglio bene, Gesù. Ti ringrazio per tutto l'amore che abbiamo "icevuto da mio. figlio. Ma ti prego, non farlo più soffrire per noi». «È fatta!» esclamò Matthew al settimo cielo. «Cosa "è fatta?"» chiesi. «Il mio desiderio è stato esaudito. Mamma e le mie sorelle hanno riaperto il cuore a Gesù», Poi, le sue ultime parole furo­ no per me: «Ci vediamo!». Lo disse con aria ammiccante, come per condividere un segreto speciale che soltanto io avrei potuto capire. Intendeva dire che sarebbe stato al mio fianco alla mia morte. Erano circa le quattro del pomeriggio quando Matthew si llddormentò ed entrò in coma. Morì sereno e tranquillo alle sei di sera, con sua madre e le sue sorelle al suo capezzale. Sono certo che gli angeli e i suoi amici lo portarono a casa: La sua famiglia rimase a lungo a guardare per un'ultima volta quel suo sorriso contagioso da birichino. Sentivo il suo spirito librarsi lì intorno, non più prigioniero di quel suo corpicino martoriato. Anche sua madre pareva aver finalmente ritrovato la pace. Matthew aveva reso questo mondo un posto migliore, anche se solo per pochi anni. Tutto era accaduto proprio come aveva detto lui. Lultima volta che uscii dalla sua stanza, potrei giurare di aver udito richiami di ~lliando

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delfini e risatine di bambini su un sottofondo di risacca marina; da medico però, non ci metterei mai la firma. Posso soltanto ono­ rare la memoria di un bambino che mi parlò degli angeli mentre stava morendo. Ma è anche vero che da allora faccio regolarmen­ te sogni in cui nuoto con i delfini. E qualche volta vedo anche Matthew, più felice e radioso che mai. NOTE DEL DOTTORE

E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON MATTHEW

Dopo la morte di Matthew continuai a ripensare alle nostre conversazioni. Essendo un medico, nella fattispecie uno specia­ lista in terapia del dolore, fu una sfida vera e propria capire e accettare !'idea che la sofferenza abbia uno scopo che interessa il mondo intero. Nel corso degli anni ho sentito molti pazienti dire che l'accettazione del dolore fa parte di un processo di apprendimento che coinvolge sia loro sia altre persone. Quel che faccio ora è ascoltare i miei malati terminali fino alloro ulti­ mo respiro per imparare dalle loro visioni, e raccogliere e dif­ fondere sempre più conoscenze sul processo di morte. Seguono altri stralci di dialogo con Matthew contenenti importanti infor­ mazioni in risposta ad altre mie domande sugli angeli. «Cos'è il paradiso?». «Be', è come se fosse il tuo compleanno tutto il tempo, solo

che i regali sono di gran lunga migliori. Basta che prendi la

mano di Gesù, e Lui ti porta a casa».

«Lo vedono tutti?». «Sì, ma solo quando credono nell'amore. E l'amore è Dio». «Il paradiso è come la terra?». «Sì, ma è perfetto. Lì si vive senza preoccupazioni e si può ;~ avere tutto quello che si vuole. Ma una volta che hai tutti i gio- ,;, cattoli del mondo e le altre cose materiali, capisci che non sono ! nulla, e passi oltre. Gli angeli dicono che ci muoviamo verso il !' pensiero. Ma non so dirti cosa vuoI dire». ';.' «E perché il paradiso dovrebbe essere come la t e r r a ? » . ' «Perché no? È una meravigliosa creazione di Dio e Lui vuole ,,"jl

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dw l'amiamo. Lì c'è molto di più che da noi, dottor Lerma. Quanto a me, adoro nuotare con i delfini perché ci parliamo. lo loro che è bella la vita da delfino; loro a me che è bella la da bambino. Ci scambiamo pareri. Anche gli alberi parlano, l' l'acqua. Tutto comunica e ti fa sentire tanto felice». «Perché hai tre angeli d'oro?». «Si inizia con uno solo, poi peggio stai, più ne arrivano. Gli imi tre o quattro giorni ne puoi avere trenta-quaranta, tutti tilielli che occorrono per affrancarti dalla tua famiglia e andare Dio», «Sono tutti dorati?». «No, ne esistono di tanti tipi diversi. Alcuni sono più lumino­ ,d c più grandi, altri più piccoli». «Perché?». «Hanno più O meno potere e possono fare cose diverse». IUdendo disse: «È come il nostro presidente, i senatori, e poi mia mamma». «Cosa succede quando moriamo?». «Quando lasciamo il nostro corpo e andiamo da Gesù faccia­ IIlO quell'unica grande cosa che avevamo sempre voluto fare ma lIon potevamo perché non ne eravamo capaci. Sulla terra impa­ riamo molte cose sull'amore; la lezione poi continua in paradi­ !'lO con Dio. In pratica ci spostiamo a un livello superiore e con­ linuiamo dove eravamo rimasti. Dio ha tantissimi piani per i suoi figli. Pare che lassù tutto sia meglio che quaggiù. Sulla h:rra non possiamo fare tante cose perché la maggior parte di lIoi non ci crede, non crede che si~mo in grado di farle. Basta sa perlo. È fondamentale: se credessimo abbastanza, potrern)l1o fare tutto anche qui. È come la storia di Peter Pan, mi hanno detto gli angeli. È molto semplice, dottor Lerma». «Che mi dici del male? Esiste?». «Nel mondo sì, esistono cose cattive. Ma visto che ne siamo I utti responsabili, possiamo cambiarle. È il fine di Dio, e anche il nostro: cambiare. Gesù mi ha detto che bastava credere in lui l'in noi stessi. Quando ci riusciremo tutti, la tenebra diverrà una luce gioiosa. Ho visto una parte del disegno di Dio, ed è 39


meraviglioso. Dottor Lenna, tutte le cose orribili che ci accado­ no sono colpa del nostro corpo e della nostra mente. Sta a noi, specialmente a chi conduce una vita sana, usare la mente e il cuore per insegnare l'amore di Gesù e lasciarsi guidare da Dio nella ricerca delle cure per le malattie mondiali della mente e del corpo. Sarà sempre più facile man mano che verranno gene­ rate persone sane aventi in sé le risposte ai nostri problemi e l'a­ more per Dio. Chi ferisce e uccide è molto malato. Non bisogna giudicarlo, ma aiutarlo, soprattutto con la preghiera. Dio vuole che dipendiamo da Lui e che lavoriamo insieme per realizzare il suo disegno. Per favore, dottor Lenna, dillo a tutti quelli che incontri. Parla della buona novella di Gesù che morì per tutte le nostre cattiverie passate, presenti e future, di' che è Lui ad avere la risposta ai problemi del mondo. Credendo in Lui troveremo la salute, la pace e l'amore. Dovremmo sempre pregare per la pace e l'amore e poi cercare di fare quel che ci rende felici, lavo- ( ro incluso. Solo così saremo tutti contenti, sereni e pieni di ' amore. Con la pace e l'amore, un giorno la tristezza, la malattia, la fame e le guerre non ci saranno più». «Quindi tutto sta nel pregare e credere in Gesù Cristo?». «Sì, basta credere in Gesù Cristo, ascoltarlo. Lui e i suoi ange­ li parlano sempre con noi e cercano di farci felici e di protegger­ ci. Prima ascolta ciò che dice il tuo cuore. Non la mente. Senza la guida del cuore, la mente è pericolosa. Impara ad ascoltare Dio. Lui vuole aiutarci, non controllarci!».

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2 Il sorriso

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acob era un bel bambino dai capelli neri ricci tutti arruffa­ ti e la carnagione chiara. La prima volta che lo vidi mi sem­ brò un pupazzetto di stoffa. Era incapace di muovere o di aprire gli occhi. Non riusciva più a piangere, deglutire e nemme­ no a sorridere. Òuando aveva perso il sorriso, per i suoi genito­ ri era stato come se avesse perduto l'anima. Il giorno prima ride­ va ed era bellissimo; poi, durante la notte, la malattia gli aveva preso il nervo facciale, paralizzandogli i muscoli del viso e quel­ li respiratori. Al ricordo di quel terribile risveglio, sua madre si mise a piangere. Avevano dovuto tenerlo in vita con un autore­ spiratore. Jacob si era sviluppato come tutti gli altri bambini per il primo anno di vita. I primi segni di distrofia muscolare si erano manifestati poco prima che compisse due anni. Dopodiché, era degenerato velocemente. La malattia gli aveva ridotto i muscoli in gelatina, lasciandolo flaccido e incapace di esprimere il suo dolore. Era straziante vedere i suoi familiari adoperarsi per fargli passare i suoi ultimi giorni di vita circondato da pace e amore. La madre lo cullava, cantava per lui e gli ma~saggiava il corpi­ cino. Lo baciava in fronte con estrema dolcezza ogni volta che entrava e usciva dalla stanza. Suo fratello maggiore, Michael, che aveva solo quattro anni e scoppiava di energia, sembrava non capire perché Jacob donnisse tutto il tempo e non potesse giocare con lui. Gli sedeva accanto per ore e ore a leggergli i libri (o almeno, così diceva lui). Erano quasi tutti libri illustrati; ma

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Michael raccontava storie bellissime su quelle figure, e non si ' stancava mai di parlare a Jacob, neanche mentre giocava sul pavimento vicino alletto. Dopo quattro mesi di autorespiratore, i genitori di Jacob non erano più riusciti a guardarlo gi,:\cere lì a deperire lentamente. I medici avevano detto loro che non c'era possibilità di recupero e avevano consigliato l'hospice. Davanti a ulteriori pareri nega­ tivi da parte di altri neurologi pediatri e genetisti, i genitori di Jacob alla fine avevano acconsentito all'hospice domiciliare. Volevano che il loro bambino fosse circondato da tutti i suoi animaletti di pezza e che si sentisse a casa sua. Le successive settimane furono difficili per tutta la famiglia; tuttavia, con le istruzioni e il sostegno quotidiano dell'infermiera dell'hospice pediatrico e del cappellano, la famiglia riuscì a cavarsela. Durante una delle mie visite, la madre di Jacob mi chiese se credevo nel paradiso. «Sì. Perché me lo chiede, Sarah?». «Be', riflettevo sul credo tradizionale ebraico per cui le anime vanno in un posto chiamato Sheol, una sorta di mondo sotterra­ neo in cui tutti i defunti aspettano che il loro Messia li faccia :I risorgere. Oggi gli ebrei nutrono in proposito diverse credenze. I messianisti sostengono il principio celeste cristiano. lo amo la mia religione, ma voglio che Jacob vada in.paradiso, così potrà correre, giocare e compiere tutto quello che non ha potuto fare qui sulla terra. Se lo merita. È solo un bambino piccolo e inno­ cente. Ne ho parlato con il rabbino. Mi ha detto che posso pre­ gare per Jacob. Che ne pensa, dottor Lerma?». «Comprendo il suo dolore e i suoi desideri per il suo piccolo e sono d'accordo con il rabbino che la preghiera è uno strumento potente». Ricordai cosa diceva Matthew in proposito e la sua,. raccomandazione di raccontare la sua storia. Parlai a Sarah di ';i .\. lui e di sua madre, delle loro esperienze spirituali. Strano ma vero, Sarah ne trasse un grande conforto e pregò Dio di darle un segno che il suo piccolo Jacob sarebbe stato con Lui e con gli angeli. L'indomani raccontai altri aneddoti di Matthew a tutta la

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fu miglia. Ad ascoltarmi c'erano Sarah, il piccolo Michael, J acob {;.' Michael senior. Parlai di Raffi, Noe e Gabri, e dei delfini; di IIlI0VO, quei racconti parvero dar loro pace e conforto. Anch'io /4tmtii un meraviglioso senso di tranquillità e fui grato al mio dal sorriso birichino. Non era passato che qualche minuto dalla fine della storia, ['!le Jacob aprì gli occhi, fece un enorme sorriso e alzò le brac­ l'ia, come se si protendesse verso qualcuno sopra di lui. Ero sba­ lordito. Era impossibile che riuscisse a fare uno sforzo musco­ lare del genere. Sorrise, allungò le braccia ancora un poco, poi morì. La madre, seduta sul bordo del letto, era anche lei troppo sconvolta per piangere o proferir parola. Michael stava giocando per terra e quando Jacob morì, balzò in piedi e corse dalla madre. Stava per sedersi accanto a lei, quando si fermò di botto, girò intorno alletto, e si sedette dal­ l'altro lato. Incuriosita, Sarah gli chiese perché si fosse allonta­ nato. «C'è un angelo vicino a te. Ecco perché. Non lo vedi, mamma?» disse MichaeL Sarah era allibita, ma provò conforto nelle parole del figlio. Poi Michael toccò il corpo del fratello e corse fuori urlando. Prima che potessimo andargli dietro, stava già tornando con calma da noi con le lacrime agli occhi. Si arrampicò sul letto vicino al suo fratellino e gli sollevò un brac­ cio. la madre gli chiese cosa stesse facendo. «Hanno ragione», fu la risposta. «Chi ha ragione, tesoro?» domandò sua madre. «Gli angeli. Sono nel corridoio con Jacob e mi hanno detto che il suo corpo è solo un guscio. Mi hanno detto di andare a vedere per conto mio. Hanno ragione». Sollevò di nuovo il brac­ cio di Jacob e lo lasciò cadere. «È solo un guscio. Jacob è con gli angeli». Michael ci disse che Jacob stava so~dendo, ridendo e facendo capriole in corridoio. Sarah e Michael senior mi guar­ darono, entrambi con muti sguardi di speranza. «Avete pregato per un segno e ve ne è stato dato più di uno. Jacob che ride e alza le braccia atrofizzate era di per sé un miraco­ lo. l bambini di quattro anni non hanno ancora un concetto di morte; ma Michael vi ha detto quello che gli hanno rivelato gli 43


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angeli. Credo che questo sia un grande segno». Sarah e Michael senior scoppiarono a piangere, mi ringraziarono e abbracciaro­ no il piccolo Michael. Fu un momento davvero toccante.

Un cambiamento d'animo

NOTE DEL DOTTORE

Sarah raccontò la storia al rabbino, che gliela fece ripetere davanti alla congregazione. Quell'esperienza le aveva donato tranquillità. Grazie a essa, sapeva che suo figlio era davvero con gli angeli, e non a dormire da qualche parte in attesa di essere risvegliato. Era felice di avere quella sicurezza. Il piccolo Michael continuò a raccontare storie di Jacob che veniva a gio­ care con lui per circa un anno, e diceva che gli angeli lo ({face­ vano volare dentro e fuori». Ciò fu di ulteriore incoraggiamento per la loro madre, e le consentì di manifestare il suo profondo amore anche per Michael.

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eon, un pastore battista di 78 anni affetto da un cancro al colon allo stadio terminale, arrivò al nostro centro di ricovero con un bisogno urgente di terapia del dolore e di idratazione. Più il suo stato funzionale peggiorava, più perdeva la capacità di mangiare e di bere. Eppure, nonostante gli venis­ sero meno le forze, il suo spirito acquisiva vigore, tanto da con­ sentirgli di esternare messaggi religiosi e spirituali diversi da ciò che aveva sempre predicato. A due giorni dal ricovero notai che focalizzava lo sguardo su un angolo della stanza dove in precedenza altri pazienti aveva­ no affermato di vedere degli angeli. Incuriosito, gli chiesi su cosa si stesse concentrando. Mi squadrò con diffidenza, poi disse: «Cosa vuole sapere?». Gli domandai se vedeva qualcosa di insolito. «TIpo degli angeli?» replicò. «Sì», risposi. «È così. Vuole saperne di più?». «Assolutamente sì». «Be', bisogna vedere se rimarrò nei paraggi abbastanza da raccontarle quello che vedo e che sto impar~ndo. Quanto alle visite familiari, non credo saranno un problema». ({Scusi, ma non capisco». «Sa», si spiegò Leon con le lacrime agli occhi, «i miei fami­ liari hanno molto da fare, non vengono a trovarmi di frequente, e quando vengono, sono visite lampo. Perché non torna quando ha finito il giro dei suoi pazienti? Allora le dirò di più. Suppongo

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che questa possa essere un'occasione di crescita per entrambi». Ci scambiammo un sorriso e un caldo abbraccio. In quel momento mi parve evidente che Leon mi aveva aperto il suo cuore e sapeva che non l'avrei abbandonato. Tornai più tardi nel pomeriggio come avevo promesso, e Leon iniziò a condividere con me le sue esperienze. Aveva vissu­ to una vita da fondamentalista cristiano intransigente con molti pregiudizi, sempre pronto a sputare sentenze su quelli che sole­ va definire «fuorviati» e «pagani». Era stato attivo nell'organiz­ zare proteste per tutta la nazione contro i matrimoni gay, e aveva fatto di tutto per convincere gli omosessuali che erano posseduti e che avevano bisogno di un esorcismo. Credendo di agire veramente per conto di Dio, aveva perseguito i propri fini a oltranza. Ogniqualvolta gli era capitato di dubitare, aveva messo a tacere le sue perplessità trovando nella Bibbia dei versetti ad hoc che rawivassero la fiducia nelle sue azioni. Era stato un pre­ dicatore di vecchio stampo sempre pronto a prospettare le fiam­ me dell'inferno a chicchessia. Spesso e volentieri sbottava con gli altri pastori: «Altro che le stronzate buoniste, all'acqua di rose che blaterano i giovani predicatori di oggi! La verità è la verità, e fa male». Aveva passato la maggior parte della sua vita all'in­ segna di questa convinzione. Ormai giunto alla fine, non sapeva spiegarsi cosa gli stesse accadendo, ma sentiva che stava cam­ biando profondamente. Sebbene fosse un cristiano devoto, di quelli che si rifanno alla Bibbia, e ricordasse di avere letto storie di visite angeliche, non aveva mai creduto sul serio che gli angeli apparissero alla gente, visti i tempi. Pensava si trattasse di soggetti deliranti di cui il nemico si era preso gioco inducendoli a credere nel falso. Aveva sminuito le esperienze di premorte bollandole come allu­ cinazioni indotte da Satana, e non aveva mai creduto possibile avere un'esperienza extracorporea. Durante tutto il suo ministe­ ro sacerdotale, affermò Leon, aveva scacciato il demonio da sen­ sitivi, medium e astrologi convincendoli che operavano per il maligno. Disponendo di una grande forza persuasiva, per cin­ 46

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quant'anni aveva instillato il timor di Dio in diverse generazioni di fedeli. Quando era arrivato il primo angelo, Leon aveva pensato che fosse Satana venuto a tentarlo. Ma via via che le visite angeliche erano continuate, era giunto a riconoscere e ad accettare la pre­ senza dell'amore divino in tutto ciò che gli stava accadendo. «Mi fu consentito di parlare con gli angeli e con altre persone che conoscono la vita e la vita dopo la morte, e mi fu consentito di parlare con Dio», disse Leon. Ero sbigottito. Di storie ne avevo ascoltate tante, ma non avevo udito molte persone dire che era stato permesso loro di parlare direttamente con Dio. Gli chiesi della sua conversazione con l'Altissimo. «Tutto a suo tempo», rispose. «Voglio raccontare la mia storia con ordine». Ero incan­ tato e volevo saperne di più, perciò mi cucii la bocca e lo lasciai continuare. «Una delle mie prime conversazioni con gli angeli riguardò le donne e il ruolo della Vergine Maria. Nella teologia battista il ruolo di Maria non viene enfatizzato, e le donne vengono esor­ tate a sottomettersi ai mariti. È questo che pensavo delle donne», proseguì, «ed è cosÌ che trattavo mia moglie: lei era un mio possesso. Non l'ho mai amata fino in fondo. La sposai perché era una buona cristiana e sarebbe stata una buona moglie per un pastore. In realtà mi ero innamorato di un'altra giovane, prima di sposarmi. Lei però non era della mia religione. Pensavo che non avremmo mai potuto sposarci perché non condividevamo la stessa fede». Gli angeli invece gli avevano dimostrato che Maria era stata una donna incredibile, piena d'amore, e che, come Gesù, anche lei era ascesa al cielo. L'avevano ammonito che avrebbe dovuto amare e onorare la moglie come fosse stata Maria, la madre di Gesù. Gli avevano detto: «Ogni donna e ogni ~adre è importan­ te e sacra tanto quanto Maria». «Provai rimorso per la freddezza che mia moglie aveva dovu­ to soffrire da parte mia», proseguì Leon scuotendo la testa, «e capii perché viene di rado a trovarmi. Dopodiché, gli angeli mi mostrarono come sarebbe stata la mia vita se avessi sposato la 47


donna che amavo dawero. Mi vidi insieme a lei, giocare felici con i nostri figli, andare in campeggio, a pescare e in gita a Disneyland». Poi Leon riconsiderò altre decisioni prese in passa­ to, avvilendosi sempre di più. «Non mi sono mai divertito tanto con i miei figli perché erano un c,ostante ricordo del fatto che mi ero sposato per un senso del dovere verso la mia chiesa, e non. per il vero amore che mi aveva offerto Dio. Li crebbi con disci­ plina e senza tanto affetto. Gli angeli mi mostrarono le volte in cui i miei figli avevano elemosinato un po' del mio amore; io però mi ero sempre allontanato e buttato a capofitto nella mia chiesa. Presto mi resi conto di quanto si fosse indurito il mio cuore a causa delle mie scelte sbagliate. Avevo sottovalutato il valore del­ l'amore, anche se la Bibbia dice che l'amore è il nostro più gran­ de dono di Dio. Fingevo che non fosse importante. Era troppo doloroso affrontare la realtà. Quando permisi agli angeli di gui­ darmi nella rassegna della mia vita, piansi inconsolabilmente. Seppi che avrei potuto essere felice, se solo avessi ascoltato il mio cuore e lasciato perdere le mie idee errate su quello che Dio voleva da me. La mia vita sarebbe stata molto più appagante». Si interruppe un momento per lanciarmi uno sguardo, ma siccome rimasi in silenzio continuò. «Mi mostrarono che gran ministero avrebbe potuto essere il mio, se solo avessi aperto il mio cuore e riversato sulla mia congregazione l'amore, anziché la condanna. Mi ricordarono che Dio è amore e che il suo amore trascende ogni limite. Mi sentii un fallito, ma loro mi assicura­ rono che non lo ero. I messaggeri angelici mi svelarono che era stata la mia famiglia ad inculcarmi il concetto dell'amore come dovere, specialmente mio padre, che me l'aveva trasmesso con il suo comportamento». Di nuovo, scosse la testa con tristezza. «Ricordo benissimo quanto avrei voluto che mio padre giocasse con me; ma lui era troppo indaffarato con il lavoro. Aveva sem­ pre troppo da fare per darmi retta. Quando ricordai questo mio desiderio a lungo represso, il bambino che c'è in me urlò dal dolore. Allora gli angeli mi presero fra le loro braccia, e mi lasciarono piangere finché non fui in grado di capire il messag­ gio. Fu come se mi avessero abbracciato per tutta una vita. Una 48

volta tornato lucido, mi carezzarono la testa sussurrandomi dolci melodie finché non mi calmai. L'intensità del loro amore fu soverchiante». Poi Leon passò ad altri messaggi angelici: «Tutti noi sulla terra abbiamo raggiunto la nostra ultima illuminazione intellet­ tuale più di cinquant'anni fa, il che ha avuto come esito la nostra vita attuale all'insegna della scienza e della tecnologia. Questa massa critica - come è già accaduto in passato e come succede­ rà in futuro - ci ha fornito e ci fornirà il bagaglio di conoscenze necessario per liberarci dei nostri bisogni primari ed espanderci verso la pace e l'amore. In questo momento, Dio ci sta onorando con un ulteriore periodo di illuminazione che però stavolta coin­ volgerà l'amore e la spiritualità, dal momento che l'uomo non è riuscito a capitalizzare in senso spirituale le conoscenze scienti­ fiche e tecnologi,che che ha ricevuto nel periodo precedente. Si tratterà di una lotta impari per arrestare la distruzione dell'uma­ nità e del sapere ad opera del potere brutale della scienza e della tecnologia, che l'uomo stesso irresponsabilmente ha scatenato. La capacità di superare le nostre awersità la si può ottenere in primo luogo solo invocando la grazia di Dio e credendo nel pote­ re della preghiera, poi attraverso l'azione. Solo così potremo con­ tinuare a crescere e a sopravvivere come figli di Dio». Sentendo in me un forte eco delle sue parole, gli chiesi di dirmi di più sulle preghiere e sulle azioni da intraprendere per sottrarci alla distruzione. «Di per sé è semplice», rispose, «ma non è facile arrivarci con i tempi che corrono. Possiamo sfuggi­ re ad essa tramite la gioia, la preghiera e la conoscenza. Basta gioire e amare chiunque entri nella nostra vita. E ricordare che Dio continuerà a concederci occasioni infinite di rimediare ai nostri sbagli, affinché tutte le anime abbiano·!'opportunità di apprendere gli insegnamenti di suo Figlio sull'amore incondi­ zionato e sulla pace». n pomeriggio seguente Leon era ansioso di parlarmi della differenza tra le esperienze di premorte e le sue personali visio­ ni. «Cominciamo», disse non appena mi sedetti ai piedi del suo letto. «Quel che sappiamo di Dio e della vita dopo la morte viene

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da persone (dai loro resoconti di esperienze extracorporee e di pre-morte) e dagli scritti della chiesa. In un'esperienza di pre­ morte gli angeli, Dio o i cari defunti parlano alla persona che è uscita dal suo corpo. Quel che sto facendo io adesso è legger- ­ mente diverso. Sono sveglio e sto parlando con lei, ma sono anche in grado di conversare con gli angeli. Sono in pieno con­ tatto con entrambe le parti allo stesso tempo». «Uhm», dissi, «quindi si potrebbe dire che è come un'esperien­ za di premorte o un'esperienza sul letto di morte». «Immagino di sì», disse ridacchiando. «Comunque, è un'e­ sperienza talmente reale che, a un certo punto, mi sono chiesto se stavo sognando o se avevo le allucinazioni, se deliravo». Lo rassicurai che non presentava i classici segni del delirio. Gli spiegai che i pazienti deliranti hanno allucinazioni di oggetti, dell'ambiente e di persone che sono ancora vive; inoltre non sono in grado di sostenere delle conversazioni sensate, né di ricordare le loro esperienze in un secondo momento. «Fu solo nel momento in cui si avverarono gli avvenimenti che le creatu­ :. re spirituali mi avevano mostrato che mi convinsi che stavo spe­ rimentando qualcosa di reale e che mi avevano detto la verità. l Ed ebbi la conferma definitiva quando lei; dottore, mi raccontò tutte quelle storie sulle esperienze spirituali di altri pazienti, esperienze che furono quasi esattamente come la mia. Fu a quel punto che riuscii a fidarmi ancora di me stesso. Grazie di tutto». Sorrisi e annuii mentre gli stringevo la mano. Leon non arrivò ' mai a descrivere il paradiso, né l'aldilà, e sono quasi sicuro che non fosse neanche sua intenzione parlarmene. Ci fu un'altra importante lezione che Leon volle condividere con me. Gli insegnanti angelici l'avevano inondato dell'infinita sapienza e del vero potere della Bibbia, e Leon si era reso conto per la prima volta di quante lezioni di vita e di quanto sapere ci perdiamo a causa delle nostre vedute ostinate e ristrette sulla creazione. Disse che le informazioni estrapolate dalla Bibbia fino a oggi sono solo la punta dell'iceberg. La quantità di lezio­ ni, di conoscenza e di profezie che contiene la Bibbia è simile alle informazioni latenti nel DNA. l

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«Quando la collettività umana aprirà la mente agli infiniti Insegnamenti della Bibbia, ci sarà la Seconda Venuta di Dio», l'ommentò Leon. «Questo gliel'hanno detto gli angeli?» domandai. "Certamente». Rimasi affascinato da quelle dichiarazioni. l'oteva essere vero? Se esistevano ancora tanti messaggi da trar­ re dalla Bibbia, quali potevano essere? Leon disse che non gli ('ra permesso rivelare nessuno di quegli insegnamenti perché dò avrebbe potuto ripercuotersi sulle nostre lezioni e influire sul desiderio dell'uomo di cercare l'unica verità, cioè Dio. Leon volle ricordarmi che ogni studio biblico va trasmesso t'O n cuore e mente aperti, e con qualche indulgenza riguardo Id l'interpretazione. «La mia responsabilità in quanto predicato­ re era di insegnare la Parola di Dio; ma nel corso degli anni, e a seconda del mio ':lmore, arrivai a usare il pulpito per i miei fini. Manipolai la Parola di Dio per predicare il mio sistema di credo, l'ora me ne dolgo. La società di oggi pensa che gli studiosi e i t cologi abbiano decifrato la Bibbia in tutti i suoi significati, ma non è affatto vero. Quando l'umanità sarà desta nello spirito, solo allora tutto il sapere e le implicazioni della Parola di Dio verranno rivelate. La chiave è nella spiritualità, non solamente nella religiosità». Sospirò e scosse la testa. ednvestiamo troppo sui nostri credo co troviamo vari modi di rafforzarli con la Parola. Tuttavia non possediamo un sapere e una capacità di discernimento abba­ stanza vasti da capire cosa ci dice veramente Dio. Per esempio, io ero molto prevenuto verso i gay, convintissimo che Dio li avrebbe condannati; ma gli angeli mi hanno mostrato-un modo diverso di considerare la questione. Gli angeli dissero che Dio non sbaglia mai. Ogni essere umano desidera l'amore, e non sta a noi stabilire chi amerà chi. Se un sentimento di amore viene ricambiato con pari intensità, ecco, quella è la perfezione». Leon l'aveva capito solo allora, e quella era stata una questione che gli era sempre pesata parecchio. Leon infatti aveva tenuto i suoi sermoni vicino a Montrose, un quartiere di Houston dove vive una comunità a predominanza gay. Aveva scelto di predica­

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re lì per protestare contro uno stile di vita che credeva contrario agli insegnamenti cristiani. Aveva protestato ripetutamente con.. tro i gay. «Quando seppi che stavo morendo, fui assalito da una paura terribile; ma gli angeli mi fecero stare meglio colmando- ' mi del loro amore. Ce n'erano al~uni che sembravano uomini, e io ricambiai anche il loro affetto. Fu incredibile; l'amore è per, fezione. Chi di noi lo giudica, nega l'incredibile verità di Dio. Quando gli angeli misero a nudo il mio lato oscuro e i miei timori, mi resi conto che ho sempre avuto paura di amare. Non sposai il mio vero amore, e ho sempre portato quel vuoto den7, tro di me. Dottor Lerma, fu il mio desiderio represso di amare , che mi portò a giudicare l'amore in tutte le sue forme. Incredibile quanto siano intricate le nostre mentil». Trasse un respiro profondo, rauco, poi continuò a parlare. «Glì angeli mi mostrarono che anche nelle relazioni gay ci sono, un maschio e un femmina che si mettono insieme. Una persona manterrà sempre il ruolo maschile e l'altra il femminile». Assentii e glì dissi che, dal punto di vista medico, solo adesso; iniziamo a capire la vera funzione dei cromosomi in merito agli ' attributi femminili e maschili. Il fenotipo non determina la per­ sona per intero. «È all'incirca quello che gli angeli cercavano di dirmi. Ampliando il nostro sapere scientifico, e integrando tale, " sapere con il discernimento, arriveremo a una nuova compren­ sione della Parola di Dio. La Parola è sempre stata lì, solo che noi non capivamo ogni suo significato». Parlò anche dei pericoli insiti nella mentalità del «o tutto o niente», quando si tratta di interpretare i principi insegnati nella Bibbia, nel Corano e nella Torah. «Prendiamo ad esempio la para"' boIa che dice che se hai la fede di un granellino di senape puoi ordinare a un monte di muoversi, ed esso si muoverà. Alcuni pos- , sono intendere che se non succede niente vuoI dire che non abbiamo abbastanza fede. Ecco, era questo il mio modo di agire: tramite il senso di colpa. Dicevo: "Voi potete guarire. Se non ci riuscite, state facendo qualcosa di sbagliato. Oppure Dio vi sta i punendo, o cerca di impartirvi una lezione". Gli angeli mi hanno mostrato quanto possano fare male queste parole, quanto possa, i

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essere distruttivo il senso di colpa. E mi hanno fatto capire anche quanto possa fare bene un incoraggiamento. La parabola del gra­ nellino di senape in realtà è sulla fisica, sulla matematica, sul pen­ idero profondo e sulla facoltà creatrice del granellino. Si può let­ teralmente smuovere un monte, ma bisogna capire che si può t'urlo solo con l'amore. Chi non ama non capisce i significati più reconditi dell'amore. Lo so per esperienza personale». Fece una pausa, come per ascoltare l'aldilà, poi ricominciò. "Si immagini se usassimo il dieci per cento del nostro cervello. Sarebbe tre volte l'utilizzo che ne fa la maggior parte della gente. Persino Einstein ne usava meno del dieci per cento. I) unque , noi interpretiamo la Bibbia usando circa il tre per cento del nostro cervello. Ma ci pensa?,>. Rise. «Come possiamo interpretare la Parola di Dio con un filtro tanto piccolo? Si deve mettere lo Spirito Santo nelle condizioni di aiutarci a com­ prenderel». . Il suo sentimento era così intenso da essere quasi palpabile. Per la prima volta aveva trovat,9 in sé il vero amore, e io non putevo che condividere la sua gioia. Fu così che Leon continuò Il suo ultimo e gloriosissimo sermone in totale estasi mentre io l'ascoltavo volentieri e assimilavo tutto quello che diceva. ((Andando avanti, capiamo sempre più quello che ci comunica Uio tramite la Bibbia. Guardi Joel Osteen [Noto pastore prote­ Hl.ante della Lakewood Church di Houston, Texas, di impron­ I,u aconfessionale, fondata nel 1959 dai suoi genitori John e Dodie, che la edificarono ristrutturando un vecchio magazzi­ IlO di alimentari abbandonato. l coniugi Osteen diedero poi vita a trasmissioni televisive settimanali captate in un centi­ lIaio di paesi di tutto iL mondo. La Lakewood Church, fre­ t-Iuentata settimanalmente da oltre 40.000 dev.oti, ancora nel 2007, era la chiesa più grande degli Stati Uniti. Joel successe ul padre dopo la morte di quest'ultimo nel 1999 - N.d.R.]. I l'luoi sermoni non mi sono mai piaciuti. Per i miei gusti era trop­ po ottimista, troppo incoraggiante. Immagino fosse perché vole­ VI) essere anch'io ottimista come lui. lo però conosco il suo Hl'greto. Joel è innamorato di sua moglie Victoria! Accidenti se

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lo è! Guardi cosa gli ha portato il suo vero amore: doni del cielo a non finire. Joel ha la fede di un granellino di senape e in nome di Cristo ha smosso montagne! Così come esiste la maledizione generazionale, esistono anche benedizioni generazionali stabili­ te. Dottor Lerma, non vede anche lei che il vero amore di Cristo può essere tramandato per sanare e creare? La madre di Joel fu guarita dal cancro, e Joel creò un ministero su scala mondiale». «Sì, Leon. Sì».

«Joel parla del potere creativo delle parole», continuò Leon, «e riesce ad arrivare a moltissime persone. Si rifà alla Bibbia, ma usa solo uno o due versetti per un intero sermone. È tutto ciò che gli occorre. Vede, dottore, ci stiamo muovendo tutti nella direzione tracciata da Joel Osteen. Niente più giorni del giudizio. Oggi ci sono molte più persone a questo mondo che ' vogliono perdonare e vivere in pace, purtroppo finora sono stati' coloro che giudicano a possedere il denaro, il potere e la forza d'animo per far sì che succedessero determinati fatti. Ma ora le cose stanno cambiando. Ormai è fatta. Dio non permetterà che tutto questo continui. Entro i prossimi cinquecento-mille anni: la Parola di Dio verrà interpretata in modo molto diverso». Poi' Leon disse: «Mi guardi, sono obsoleto. Ecco perché per me è giunta l'ora di andare». Improwisamente si voltò a guardare 1'0- , rologio. «Le voglio bene, dottor Lerma», mi disse con un gran sorriso, «ed è vero amore. Sarò sempre con lei, amico mio. Alla fine, gli angeli mi daranno quello che ho chiesto: il tempo per scusarmi con mia moglie e con i miei figli e per mostrare loro l'amore incondizionato che avrei dovuto nutrire nei loro con.. fronti già in passato. Gli angeli mi hanno detto che gràzie alla mia sofferenza e al mio desiderio di apprendere l'amore di Dio, ,I mia moglie e i miei figli avranno un'eredità di benedizioni gene­ razionali». Nei tre giorni seguenti la moglie e i figli di Leon passarono . . ore e ore ad ascoltare le sue storie angeliche. Dopo aver dato. prova anche il quarto giorno del suo amore immortale per loro, Leon si addormentò per l'ultima volta, lasciando questo monda sommessamente.

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NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON LEON

Trovai interessante che gli angeli avessero rivelato tante Informazioni scientifiche a un uomo che non aveva una forma­ :done scientifica. Ciononostante, molte cose di cui aveva parla­ lo Leon erano all'avanguardia. In merito ai suoi commenti sul­ l'omosessualità, attualmente i neuroscienziati stanno esaminan­ do l'epifisi e la sua funzione sull'attrazione sessuale. Esistono possibilità che tale ghiandola possa persino dirci di che sesso Hiamo al di là del livello cromosomico. li fatto che questi studi 1·lÌano in corso, e che non tutti ne siano a parte, può dare credi­ I() alle rivelazioni del pastore. Inoltre, a prescindere dalle ano­ malie genetiche riguardo alle preferenze sessuali, ha senso che ,'unico fattore intoccabile sia la fondamentale attrazione fra l'e­ Il'mento maschil~ e quello femminile. Forse è questo che inten­ ~Icva Dio quando parlò dell'uomo e della donna. Rimasi impressionato dall'idea che quando l'umanità intera avrà il desiderio di conoscere il tutto e sarà in grado di farlo, la sapienza nascosta della Bibbia verrà rivelata, e il suo dipanarsi tlon avrà mai fine perché l'uomo non arriverà mai a sapere tutto dò che sa Dio. Leon mi disse che Dio aveva previsto la nostra progressione mentale, emotiva e spirituale verso un forte desi­ derio di conoscenza della sua Parola e del suo Piano Universale; t'l:CO perché aveva messo in codice un'infinita quantità di sape­ l'C e di insegnamenti di vita, incluse le scienze complesse e le risposte tecnologiche. Fu una rivelazione dawero strabiliante, rhe però aveva perfettamente senso. Tutto è ancora cifrato, ma più andiamo avanti, più riusciamo a capire. Livelli inesauribili li i sapere si rivelano di continuo via via che apriamo le nostre Illenti alle infinite possibilità che cadono fra i parametri dell'a­ lIIore creato da Dio. Disse Leon: «li segreto è avere una mente lanto aperta da permettere alla grandezza divina di dispiegarsi. Non potremo mai mettere Dio in una scatola e dire: "Ecco, è lutto qui" ». Mi colpì anche il suo commento sulla mancanza di amore l'he genera il giudizio sugli altri. li pastore si era sentito vera­

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mente in pace solo dopo che gli angeli l'avevano portato a capi­ re la vera natura dell'amore, del perdono e dell'accettazione. Disse Leon: «I;amore è la verità fondamentale di Dio e la pace arriverà per tutti alla fine». Sono parole di grande conforto sia per i moribondi sia per i vivi. Un' altra rivelazione di Leon fu che «prima impariamo ad amare e a perdonare gli altri e noi stessi, più sarà facile passare all'altro mondo. I nostri angeli sono sempre presenti, ansiosi di guidarci in paradiso e di proteggerci lungo il cammino; tuttavia, la maggior parte dei nostri giudizi e delle nostre paure blocca la connessione fra noi e loro. Lintensità della nostra sofferenza fisica, emotiva, sociale e spirituale una volta giunti in fin di vita ci permette di liberarci dei nostri giudizi. È a quel punto che crollano le nostre paure primordiali, consentendoci di vedere cosa c'è sempre stato dall'altra parte: l'amore incondizionato». Quest'ultimo consiglio di Leon parlava dell'importanza di abbattere le mura metaforiche che ci impediscono di amare gli altri e noi stessi. Se cerchiamo di farlo «subito» anziché doma­ ni possiamo assicurarci almeno il doppio dell'amore, della pace e della felicità in questo mondo e nel prossimo. Ed è a quel punto che giungeranno a noi doni del cielo a non finire.

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4 Il sognatore

lcuni membri del mio staff avevano conosciuto l'infer­ miera Susan prima della sua disgrazia. Il suo caso ci mise un bel pc' di tempo per arrivare all'hospice. A soli 39 anni, Susan era in stato vegetativo da tre e si trovava al centro di una disputa tra la sua famiglia e suo marito. Familiari e amici sapevano che avrebbe voluto tutelarsi con un testamento biolo­ gico che vietasse di mettere in atto misure eccessive per tenerla in vita, inclusa l'alimentazione artificiale. Ma quel testamento non era mai stato firmato. Dunque, la sua procura medica spet­ tava a William, suo marito, che però - i familiari di Susan ne erano certi - aveva dato istruzioni di continuare un trattamento di sostentamento vitale invasivo solo per tenere testa ai propri sensi di colpa. Per chi lo conosceva, era ovvio che i sensi di colpa di William fossero dovuti agli eventi che avevano portato Susan a stare come stava. La decisione di William era stata estremamente difficile da accettare per i familiari e gli amici intimi di Susan, cui non era rimasto altro che farsi da parte e restare a guardare impotenti una bella donna soccombere allo stato vegetativo. Susan era sempre stata altruista, estroversa, felice di stare al mondo e comprensiva. Dopo esserci presentati, i suoi genitori mi raccontarono la sua tragica storia. Susan aveva ricevuto un'educazione cristiana, ma ancora giovanissima aveva fatto un sogno in cui un angelo bello, bianco e luminoso le aveva predet­ to che avrebbe preso parte a una missione umanitaria in TIbet.

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Da allora aveva sempre ricordato ai genitori il piano degli ange­ li, insistendo che quello sarebbe stato il percorso della sua vita. Data !'instabilità politica in Tibet, padre e madre si erano preoc­ cupati per la sua sicurezza; ma la figlia era rimasta talmente salda nella sua decisione che alla fine erano stati costretti ad appoggiarla. Susan aveva preso il diploma di infermiera alla University of Texas di Austin, dove aveva frequentato anche un corso di teo- . logia e filosofia orientale in vista della sua missione. Nel frat­ tempo aveva continuato a sognare gli angeli, anche se erano stati sogni più incentrati sul suo lavoro di infermiera. Poi final- . mente era partita per il Nepal e il Tibet con un incarico umani­ tario di cinque anni. Durante quel periodo aveva conosciuto William, un ragazzo cinese meraviglioso e spirituale che si era spinto fin lì per combattere le atrocità inflitte dal suo paese ai pacifici buddhisti. Accomunati dal desiderio di aiutare i tibeta­ ni e dal loro amore per il buddhismo, Susan e William si erand innamorati e sposati. A sei settimane dal matrimonio, i cinesi avevano intensificato i loro attacchi alla regione, arrestando e decapitando molti simpatizzanti dei tibetani. In ansia per la propria vita, William e Susan avevano deciso di lasciare il paese. William aveva seguito Susan a Houston, dove avevano messo su casa e continuato a impegnarsi a favore della pace nel Tibet. Susan aveva ripreso il suo posto da infermiera, e ancora una volta gli angeli erano stati la sua guida. Per William invece, senza un titolo di studio e senza la cittadinanza statunitense, era stato pressocché impossibile trovare un lavoro soddisfacente. Se a Susan quella situazione non era pesata affatto, William invece l'aveva sentita come un grave fardello. Avevano avuto tre figli, ma dopo la prima gravidanza a Susan era stato diagnosticato il diabete di Tipo. 2. Per stabilizzare la glicemia aveva provato con antidiabetici orali e con vari regimi di iniezione di insulina. Thtto inutile. A circa tre anni dalla dia­ gnosi, era stata la prima beneficiaria di una pompa di insulina impiantabile. Una volta impiantato il congegno, i dottori aveva­ no rilevato un notevole miglioramento dei suoi livelli glicemici.

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tllol'lunatamente William, che all'epoca era diventato molto irri­ tHbilc, si sentiva a disagio vedendo quell'affare che fuoriusciva corpo della moglie sfigurandolo; perciò le aveva intimato di togliere. Al rifiuto di Susan, si era lasciato prendere dal li IM~~usto ed era diventato assai litigioso. Finché un giorno, nel Iwl mezzo di un attacco di collera, aveva afferrato la pompa sot­ I.npclle e l'aveva rootata. TI congegno aveva rilasciato una dose 1II11ssiccia di insulina, determinando un calo della glicemia a livdlo letale. Susan era stata portata in fretta e furia all'ospeda­ ma di lì a poco era entrata in coma ipoglicemico. Le era stato somministrato destrosio a dosi concentrate ed (\t'tl stata trasferita al reparto di terapia intensiva, dove erano riusciti a stabilizzarla. Aveva gli occhi aperti e pareva guardare <;I!i le stava davanti; ma era incapace di parlare e di comunica­ l'l'in qualsiasi altro modo. L'EEG effettuato ventiquattr'ore più IUl'di aveva evidenziato un'attività cerebrale minima. Sembrava thl;! il suo cervello avesse subito un danno irreversibile. Dato che 1I0n era più in grado di mangiare, le era stata inserita una sonda PEG, avviando così una terapia medica aggressiva. Di lì a quat­ 11'0 settimane l'unico miglioramento era stato la capacità di sor­ l'idere e di battere le palpebre. Era stata trasferita in una casa di cura, dove era rimasta per tre anni. Tutto ciò era in contrasto con le sue volontà, come ben sapevano non solo i suoi genitori, Illa anche i medici e le infermiere del nostro ospedale, che l'ave­ vano sentita dire più volte: «Per me, niente misure eccessive». Eppure nessuno poteva farci niente. La procura medica spetta­ va a William, e tutti avevano dovuto seguire i suoi desideri moti­ vati dai suoi sensi di colpa. In quei tre anni però, amici e fami­ liari avevano lottato contro di lui per farla ricoverare all'hospice c consentire che morisse di morte naturale. I rapporti si erano fatti ancora più tesi quando William aveva iniziato a passare sempre meno tempo al capezzale della moglie. Alla fine, però, senza una ragione apparente, William aveva acconsentito a far rimuovere la sonda PEG e a portare Susan all'hospice. Quando gli fu chiesto cosa gli aveva fatto cambiare idea, rispose di aver avuto una rivelazione ma di non volerne parlare.

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Al nostro primo incontro, William riconobbe che era tutta colpa sua e disse che voleva fare ammenda. Ammise che era stato il suo egoismo a ridurre la moglie in fin di vita. Quando gli domandai perché aveva deciso altrimenti riguardo l'hospice, William mi rispose di avere avuto una visione. Qualche notte prima, Susan gli era apparsa insieme a molti angeli che aveva~ no circondato il suo letto. Con il suo solito, meraviglioso sorri­ so, gli aveva detto di lasciarla andare. «Ti ho già perdonato. Adesso devi perdonarti anche tu, affinché io possa passare oltre. È ora che tu lo faccia». Gli angeli non avevano mai parlato, o almeno William non aveva mai udito le loro voci; aveva però percepito che erano tutti d'accordo con Susan ed erano Il per imprimere maggior forza alle sue parole. La visione si era ripe- ~, tuta più e più volte, e a ciascuna gli angeli erano aumentati. «Susan mi disse che i cinquanta angeli intorno al mio letto non se ne sarebbero andati finché non avessi trovato pace e non mi fossi perdonato. Erano tutti cangianti, e a un certo punto diven­ tarono blu indaco, con penetranti occhi blu e lunghi capelli biondi e splendenti. Quando sollevai lo sguardo, erano davvero giganti. Mi resi conto che non poteva essere soltanto il mio senso di colpa a creare quella visione. Lo spirito di mia moglie. e gli angeli erano reali e volevano che affrontassi e comprendes­ si il mio egoismo. Erano mesi che pregavo perché mi fosse con~ cesso il perdono e per trovare la forza di lasciare andare Susan. Dio, gli angeli e Susan mi avevano udito finalmente, e riversava­ no su di me un amore incondizionato fino a darmi le vertigini». Dopo quel che era sembrato un arco di tempo di mesi, uno degli angeli più luminosi gli aveva parlato. «Con voce dolce e. gentile mi disse che Susan soffriva e aveva bisogno del mio aiuto. "Come può essere che soffra se sorride sempre?" doman- . dai. Rispose che la sua sofferenza andava ben oltre l'idea terre­ na di dolore. Disse che avrei capito tutto non appena il mio spi­ rito fosse stato libero dal mio senso di colpa». Langelo gli aveva . spiegato che, essendo sua moglie, Susan era profondamente . legata a lui e avvertiva il suo senso di colpa con pari intensità, se non di più. In quegli ultimi mesi, si era fatta carico di gran

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dei suoi tormenti, per consentirgli di darsi un po' di pace II poter così recuperare il rapporto con i loro figli e fare nuove

Inn icizie. Grazie a quei legami affettivi nuovi o rinnovati, il vin­ l~olo terreno con Susan avrebbe potuto essere spezzato. «Poi l'angelo blu scuro emanò una luce dal petto che andò a Il'lIJiggere quello di Susan e il mio nello stesso istante, creando lino straordinario triangolo di luce blu e bianca. E fu allora che l'Ivissi tutto quello che aveva passato Susan in questi ultimi tre tHlI1i. Era necessario, dissero gli angeli; quell'esperienza mi Iwrebbe finalmente dato la forza di lasciarla andare». Singhiozzando, disse che il dolore emotivo e spirituale era stato InLensissimo. Gli era sembrato di sprofondare nella tenebra più Illtale. Cadendo sempre più in basso, aveva provato un crescen­ I~' senso di perdita e di separazione dal regno celeste. Poi, di p"nto in bianco s,i era ritrovato nel suo letto ed era rimasto a l'Imuginare su quello che gli era successo. "William, come si sentì dopo quell'esperienza?» chiesi. cc Tremavo e piangevo e non sapevo se era stato un sogno o una visione. Avevo i vestiti laceri e sentivo nell'aria il profumo ellanel. Sa, mia moglie ce l'aveva indosso la sera che afferrai la pompa». Lesperienza era stata talmente vivida che William uvcva telefonato subito ai suoceri per dare il proprio consenso tll trasferimento di Susan all'hospice. A loro volta, i genitori di SlIsan avevano contattato me, ed entro un paio d'ore Susan era l'h:overata e sotto esame per valutare e trattare i suoi sintomi. Appena la vidi, l'abbracciai, le dissi dove si trovava e che fugato il suo dolore. Quasi subito mi fece un largo sorriso mentre calde lacrime le scendevano lungo le guance. Le dissi di haltere le palpebre se provava dolore. Le batté ripetutamente. l,l' chiesi se aveva fame. Non le batté per molti s~condi. C(Susan, ,'he mi dice della sonda PEG? Fa male?». Di nuovo, batté le pal­ rx:bre in modo continuo. «Accetta delle misure di conforto, ."usan?». Batté le palpebre e fece smorfie più e più volte, finché Il· assicurai che avevo capito. Anche se i risultati dei suoi esami ('videnziavano una funzione cognitiva minima, io ero sicuro del mntrario: Susan era abbastanza cosciente da capire cosa senti­ 61


va e aveva anche trovato un modo per comunicarlo. Le dissi che suo marito e la sua famiglia avevano fatto pace e volevano tutti che lei stesse bene. Ciò che vidi allora nei suoi occhi rimarrà per sempre impresso nel mio cuore e nella mia anima. Susan era davvero una donna dallo spirito ~ltamente evoluto. Da un attento esame delle sue condizioni risultò che i polmo­ ni erano sgombri da liquidi, la funzione renale nella norma e :Ì , segni vitali stabili. Stando così le cose, interrompere l'alimenta­ zione artificiale equivaleva a far morire Susan di fame. Sarebbe stata una violazione del mio codice etico. Mi occorreva un mira;, colo. Il giorno dopo vidi che l'infermiera aveva annotato sulla cartella clinica che l'emissione di urina si era ridotta a livelli molto scarsi e che la paziente aveva sviluppato un edema pol;-~, monare, ossia che i suoi polmoni si stavano riempiendo di liqui,. di. Ulteriori esami evidenziarono che Susan soffriva di grave insufficienza renale con conseguente ristagno di liquidi nell'or;­ ganismo. Era il segnale che aspettavo. Dopo aver mantenuto . una funzione renale e segni vitali normali per tre anni, Susan era peggiorata all'improvviso nel giro di ventiquattr'ore, cioè appena era stata ricoverata all'hospice. Le sue nuove condizioni rendevano utile e necessario interrompere l'alimentazione arti­ ficiale. Per me fu evidente che Dio in persona ci aveva messo lo zampino e gli rivolsi una piccola preghiera di gratitudine. Poi ~ sospesi l'alimentazione via PEG e somministrai a Susan delle' misure di conforto: morfina per la dispnea, diuretici per ridur­ re i liquidi in eccesso e sedativi contro l'ansia. Immediatamente Susan cadde in un sonno profondo e sereno. William e i familiari di Susan passarono il tempo che le resta:­ va a recuperare il loro rapporto. Quanto a me, feci un vivido sogno. La stavo visitando, quando il suo cuore si fermò e il suo spirito balzò fuori dal corpo. L'apparizione si stiracchiò allun- . gando le braccia e poi, guardandomi, esclamò con un sorriso: .' «Che viaggio!». Provai un'ondata di gioia e vidi intorno a lei angeli di luce dorata, bianca e blu. Mi dissero di riferire alla madre di Susan che sua figlia sarebbe stata bene e che presto' glielo avrebbe confermato lei stessa. Poi Susan mi prese per

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mano e mi portò in alto nel cielo. Vedevo la terra e tantissime unime che, appena lasciato il loro corpo, mi raggiungevano lassù, dicendo anche loro che la vita era stata un viaggio mera­ viglioso. Intorno alla terra c'era anche una moltitudine di ange­ li, che intercettavano le anime e le guidavano verso la volta stel­ lare, sparendo nello spazio. Forse andavano in un'altra dimen­ sione, pensai. Susan disse che doveva lasciarmi e che un giorno '.lVrei constatato anch'io che la vita sulla terra è un gioioso con­ çentrato di lezioni. Non avrei mai dovuto preoccuparmi, prose­ guì, perché c'è sempre qualcuno che si prende cura e veglia su di noi. Qualsiasi decisione prendiamo, avremo sempre la possi­ hilità di tornare sui nostri passi e di fare ammenda. Poi mi sve­ gl iai all'improvviso. Rimasi a letto a riflettere sul sogno e sui messaggi che mi erano stati dati, provando grande meraviglia per il potere della.mente. Più tardi, mentre mi recavo all'ospeda­ le, mi chiesi quale sarebbe stato il destino di Susan. Quando entrai nella sua stanza, sua madre e sua sorella mi salutarono con sorrisi praticamente identici a quello che mi lIveva rivolto lei nel mio sogno. Dopo averla visitata, fui certo che sarebbe morta nel giro di poche ore. Rassicurai entrambe che Susan era tranquilla, che non soffriva, che non le mancava l'aria e che era pronta per il suo ultimo viaggio. Le due donne l'lano visibilmente tristi, ma anche sollevate che la sua sofferen­ za fosse quasi finita. Allora pensai fosse il momento di raccon­ lare il mio sogno, ma quando arrivai a metà, la sorella di Susan disse che aveva sognato tutto anche lei, e continuò da dove mi uveva interrotto. Ero più che meravigliato. Stesso sogno e stessi messaggi per entrambi. Alla fine del racconto, la madre di Susan tirò un sospiro di sollievo. Disse che la sua preghiera era stata esaudita. Aveva chiesto la conferma che sua figlia potesse l'i trovare la pace ed essere ancora in grado di camminare e di parlare. Dopo aver ascoltato il nostro sogno, si era finalmente convinta che Susan sarebbe arrivata sana e salva nell'aldilà. Non l'rano passati che trenta minuti dal mio ingresso nella stanza, quando Susan si svegliò, aprì gli occhi, sorrise e allungò una mano verso William, che era appena arrivato. Con un grande

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$forzo disse piano a suo marito, a sua madre e sua sorella che voleva loro un gran bene. Poi la sua mano cadde gentilmente sul letto. Se n'era andata. William, la madre e la sorella quel giorno si sentirono pervasi dal perdono e da un senso di liberazione. Dal canto mio, risi fra me e me rievocando l'immagine di Susan che saltava fuori dal suo corpo, diceva: «Che viaggio!» e si leva­ va in alto nello spazio. Sì, Susan, davvero «che viaggio».

corpo. il punto estremo è la testa. «Ma allora mia sorella ha rag­ davvero l'illuminazione ed è andata in cielo! Dottor !11~I'lna, quant'è bello aver conosciuto di persona un essere illu­ minato!». «Sì, Jan. È proprio bello». Quanto a William, si impegnò a espiare l'atto furioso e insen­ mI!o che aveva provocato la morte di sua moglie. Dopo il deces­ ~H, Susan gli era apparsa ancora in sogno, ribadendo che l'ave­ Wl perdonato e ringraziandolo per averla lasciata andare. E finalmente William aveva ripreso a vivere. Al momento dedica Bl'Un parte del suo tempo all'American Diabetic Association, e si udopera affinché le compagnie di assicurazione forniscano le pompe di insulina impiantabili a tutti i diabetici che ne hanno bisogno. Una altro suo impegno è il counseling alle vittime di violenze familiari: In effetti, Susan mi aveva detto in sogno che Imo marito avrebbe espiato le sue azioni egoiste, e che lei aveva lIcgoziato per rimanere finché lui non fosse stato pronto a farlo. Oggi William ha una seconda moglie, che però ha sviluppato un t'lmcro al seno. Memore della lezione appresa, William le sta vldno e la sostiene con tutto il suo amore. È convinto che quel­ III seconda sventura sia un'altra lezione di altruismo. Parla spes­ I1U degli angeli e dei loro insegnamenti sull'amore e sul perdono. ~. un gran relatore con una storia straordinaria da raccontare. E ,~()me gli angeli dicono spesso ai miei pazienti: «Anche una per­ Imna sola può cambiare il mondo intero».

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NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON SUSAN

Ian, la sorella di Susan, mi raccontò di avere avuto una serie di visioni prima della dipartita di quest'ultima. Aveva visto angeli, che le avevano mostrato la guarigione dei rapporti mala­ ti fra la sua famiglia e William. Altre volte aveva visto sua sorel­ la seduta nella posizione del loto e attorniata da monaci tibeta­ ni raccolti in preghiera. Incredula, ogni volta Ian si era stropic­ ciata gli occhi, e quando li aveva riaperti, i monaci erano spari­ ti e sua sorella era tornata al suo stato vegetativo. Ian aveva udito i monaci parlare con Susa n, aiutandola a comprendere le sue lezioni di vita. Aveva avuto un mucchio di dubbi sulle sue visioni, in particolare per la presenza dei monaci; ma era anche vero che Susan le aveva sempre raccontato molte storie fantasti~ che su di loro. I monaci, continuò Ian, erano apparsi anche quando Susan era morta. Le era sembrato che la vegliassero. Lavevano coperta con un drappo color oro e marrone, ed erano rimasti lì a cantare e a pregare tutto il tempo. Pregavano perché la sua anima raggiungesse il nirvana. A un certo punto, un bagliore blu era fuoriuscito dalla testa di Susan, alzandosi verso il soffitto. La luce era durata solo pochi secondi, e insieme. ad essa erano scomparsi anche i monaci. «Non sono pazza, dottor Lerma. So quel che vidi. Non lo dimenticherò mai». Spiegai a Ian che, quando un monaco muore, gli altri avvolgono il suo corpo in un drappo color oro e marrone e per circa otto ore pre­ gano che la sua anima arrivi nel regno celeste. Più illuminato è . il defunto, più alto è il punto da cui la sua anima fuoriesce dal.

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5 Piume d'angelo

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i ero appena seduto e avevo ordinato il pranzo in uno dei miei ristoranti preferiti, quando mi suonò il cercaperso­ ne: la nostra nuova paziente era già arrivata. Portai via 1\ cibo e per l'ennt:;sima volta lo trangugiai strada facendo. Katarina era una donna ispano-americana di 42 anni con un ~tll1cro al collo dell'utero allo stadio terminale. Ai nostri giorni è tlllTicile vedere questo tumore in fase tanto avanzata, perché la nlllggior parte, se non tutti i casi possono essere presi in tempo e combattuti con regolari visite ginecologiche. Tuttavia, è anche 1lll) difficile capire le ragioni per cui le donne trascurano tali l'ollLrolli. Fra le più comuni ci sono la mancanza di educazione ullu prevenzione, la timidezza, lo stato socioeconomico e la l1b'urSa accessibilità alle cure mediche [negli USA, non esiste un IItH'vizio sanitario nazionale - N.d.R.]. Morire di una malattia l'olenzialmente trattabile va al di là di ogni comprensione. I casi terminali si presentano quasi sempre identici: donne Ild fiore degli anni, spesso ancora belle ma con un corpo gonfio di liquidi per via del cancro non diagnosticato e non trattato. Il b'orpo diventa cosÌ il loro peggior nemico. La progressione della illUlattia è lenta e dolorosa, e siccome di solito non interessa il ~'c'l'vello, le pazienti sono pienamente consapevoli di quel che m'cade loro. II caso di Katarina era particolarmente triste. Katarina era 111I'ex cantante di dancing con una storia di tossicodipendenza e mmportamenti ad alto rischio radicati in abusi sessuali subiti da 67


ragazza. Un paio di anni prima, con una vita senza sbocchi e le sue due figlie adolescenti che la pregavano di cambiare, aveva deciso di rimettersi al servizio di Dio. Era diventata prima vocali­ sta di un importante coro evangelico, e la sua bella voce e le sue canzoni erano state ispiratrici di più di un ritorno a Dio. Katarina vedeva molte persone colpite da tribolazioni, messe a dura prova, e passava gran parte del suo tempo ad assistere chi era ancora irretito dai propri vizi. Ma anche per lei era in arrivo la prova più terribile della sua vita: un cancro ormai incurabile. Quando la conobbi fui colpito dalla sua bellezza eterea e dal modo in cui si sforzava di mantenere la propria dignità. Indossava un grazioso vestito, era truccata e i suoi lunghi capel­ li di un nero lucido erano tirati indietro e bene intrecciati; non poteva però nascondere l'addome gonfio e le gambe altrettanto ingrossate, la cui pelle era talmente tirata da essudare liquidi in . continuazione. Ad accompagnarla erano venute sua madre e le sue due figlie, una di 14, l'altra di 16 anni. Tutte e tre erano visi­ bilmente spaventate. Sapevano che un trasferimento all'hospice significava che Katarina era prossima alla morte. Sua madre, Maria, e suo padre, Joseph, erano cattolici originari di Monterrey, in Messico, erano molto sensibili ai temi spirituali e avevano alle spalle cinquant'anni di matrimonio inossidabile. Quanto alle sue sorelle e ai suoi fratelli, nessuno di loro aveva' seguito il suo stesso cammino di sofferenza e perdizione. Al ricovero Katarina era vigile, ma rimase relegata a letto per via delle gambe gonfie. Quel giorno passammo un bel po' di tempo a parlare. Volevo metterla a suo agio il più possibile, sia fisicamente sia emotivamente. Il nostro legame crebbe in fretta, e Katarina prese a condividere tutta la sua paura di morire e i rimpianti della sua vita. Con voce tremante mi fece la domanda che più la spaventava: «Dottor Lerma, quanto mi rimane da vivere?». Considerato il gonfiore delle sue gambe in aumento e l'ostruzione intestinale che le impediva di mangiare da tre-quat­ tro giorni, la sua prognosi era pessima e il suo destino segnato: tra i sette e i dieci giorni di vita al massimo. Scoppiò in un pian­ to dirotto, mi ripeté più volte che non era ancora pronta a mori- . l

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re. Si aggrappò a me e passai la maggior parte del pomeriggio a consolare sia lei sia sua madre. Quanto alle figlie, avevo dato istruzioni perché gli assistenti sociali fornissero loro il counse­ ling opportuno. Ricordando come avevo reagito alla malattia terminale di mio padre, potevo ben immedesimarmi e capire il dolore di Katarina e della sua famiglia. Per tirarle su il morale le raccontai alcune storie degli angeli dei miei pazienti e le domandai se ne aveva già visti anche lei. Qualcosa le scattò dentro, e iniziò a raccontarmi la storia della sua vita. Dal canto mio, ascoltavo e deploravo con lei l'apparen­ le ingiustizia di tutto, specialmente dopo il suo grande cambia­ mento. Alcuni mesi prima che le venisse diagnosticato il cancro, Katarina si era trasferita ,a Houston e aveva trovato il lavoro di «cantare per DiQ», come lo definiva lei. Proprio allora erano ini­ ziati i suoi forti dolori addominali, che alla fine l'avevano costretta a farsi vedere al pronto soccorso. Con il suo inglese stentato, senza un'assicurazione e una storia di droga alle spal­ le, i medici non avevano tardato a bollarla come tossicodipen­ dente e l'avevano dimessa subito con una semplice diagnosi di sindrome premestruale. Qualche settimana dopo, Katarina aveva avuto un'emorragia vaginale. Era tornata più volte al pronto soccorso, e la diagnosi finale era stata di dismenorrea. ~avevano dimessa dicendole di usare il Tylenol per il dolore. Sentendosi disperata, abbandonata e in preda a dolori acutissi­ mi, aveva ricominciato a fare uso di morfina ed eroina, procu­ randosela per strada. Aveva pensato di non avere altra scelta, visto che al pronto soccorso non l'aveva aiutata nessuno. Aveva avuto un tremendo conflitto interiore: da un lato si era sentita risucchiare dalla sua vita precedente, dall'altro aveva lottato con tutte le sue forze perché non voleva deludere né Dio né la sua famiglia. Più il dolore si faceva insopportabile, più aumentava il suo consumo di oppiacei da strada. Quando era riuscita a tene­ re sotto controllo il dolore, Katarina aveva creduto in un miglio­ ramento. Ma nulla poteva essere più lontano dalla realtà, perché il suo cancro a quel punto non era più curabile.

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A pochi giorni dalla diagnosi definitiva, Katarina aveva sognato gli angeli. «Sei stata scelta», le aveva 'annunciato l'ar­ cangelo Gabriele. «La tua vita si sta compiendo alla perfezione e ti porterà ad aiutare molte anime a ritrovare la fede in Dio». Katarina aveva capito che quel messaggio non era dovuto alla malattia o alle droghe, e senza esitare aveva accettato la chiama­ ta. Allora l'arcangelo Michele le aveva illustrato l'intero disegno, assicurandole che Dio e gli angeli le sarebbero stati vicini. Presto il suo male sarebbe stato diagnosticato e le sarebbero stati somministrati regolarmente farmaci di conforto. Due gior­ ni dopo, il dolore e l'emorragia vaginale erano aumentati e Katarina era andata in un altro pronto soccorso. Visti i suoi referti precedenti, anche quei medici avevano pensato che fosse una tossicodipendente e si erano rifiutati di curarla. Ma lascian­ do il pronto soccorso in lacrime, Katarina si era imbattuta in un uomo gentile che si era informato sul perché piangesse. Notando il suo inglese stentato, le aveva parlato in spagnolo: «Que pasa, sefiorita?» (<<Cosa c'è che non va, signorina?»). Katarina l'aveva abbracciato e gli aveva risposto: «Ayuda me. Ayuda me, por favor!» (<<Mi aiuti, mi aiuti, per favore!»). Luomo era un medico, ancor meglio: un ostetrico e gIneco­ logo dello staff ospedaliero. Katarina gli disse che aveva un'e­ morragia vaginale e che i dottori del pronto soccorso non ave­ vano voluto fare niente per lei. Forse ispirato dagli angeli, o forse solo per pietà, il medico l'aveva riportata in ospedale, dove aveva constatato che era molto anemica. I::aveva fatta ricovera­ re nel reparto di ginecologia e l'aveva sottoposta a un esame del sangue e a una TAC dell'addome e del bacino. I risultati aveva­ no reso necessaria una biopsia del collo dell'utero. Le criosezio­ ni e i risultati dei marker tumorali avevano evidenziato un can­ cro al collo dell'utero in stadio avanzato con metastasi estesa all'addome e ai polmoni, e ostruzione del sistema linfatico degli arti inferiori. Un oncologo aveva dato istruzioni per la chemio e la radioterapia, oltre alla terapia del dolore. Era stato proprio come aveva predetto l'angelo: finalmente il dolore era stato messo sotto controllo, ma la diagnosi era terminale. 70

All'inizio della chemioterapia Katarina aveva ancora sognato l'arcangelo Michele. Questi le aveva detto che ogni notte un ange­ lo diverso sarebbe venuto a sostenerla e a ricordarle che Dio non l'aveva abbandonata. La prima sera era apparso un grande ange­ lo luminoso dalle vesti bianche, e si era messo alla destra del suo letto, l'indomani un altro e poi un altro ancora. Tutti però si erano sempre messi allo stesso posto. Katarina non aveva capito perché, ma aveva sentito che la stavano proteggendo. Incuriosito, le chiesi se poteva descrivermi quelle apparizioni angeliche. «TI loro viso risplendeva di luce, i capelli erano setosi, lunghi, biondi o castani e fluttuavano insieme alle loro lunghe vestÌ». Ogni notte, gli angeli si erano fermati per circa cinque­ dieci minuti, ma poi se n'erano andati nonostante i suoi pianti. In quei momenti si era sentita abbandonata da Dio. «Come ha potuto farmi que.sto, dopo che sto per rendergli la mia vita? Sono arrabbiata!» aveva continuato a ripetere dentro di sé. Un angelo le aveva spiegato che sentirsi e reagire in quel modo non era un male, perché voleva dire che lei amava e rispettava Dio. E Dio non chiedeva di meglio. Dio aveva compre­ so appieno il suo dolore, la sua sofferenza e la sua disperazione e sapeva che erano motivate da un difficile scopo. Questo per­ ché Egli vive con noi e prova ogni nostra emozione. Presto Katarina avrebbe avuto tutte le sue risposte a portata di mano. Sin dal primo giorno di ricovero all'hospice, il dolore di Katarina era stato posto sotto controllo. Ciò le diede la pace necessaria per poter dire addio a questo mondo. Mandò a chia­ mare la sua famiglia per discutere le sue ultime volontà. Quando andai a visitarla, trovai che erano tutti intorno al suo letto. Domandai a Katarina a chi voleva affidare le sue due figlie. Langelo le aveva consigliato sua sorella Maria, che aveva sia tempo, sia un profondo desiderio di aiutare le ragazze a compiere la loro missione di vita. Katarina sapeva in cuor suo che quella era la scelta giusta. Le sue figlie infatti avevano una predilezione per quella zia, si sentivano attratte da tutto il suo amore materno. Maria si affrettò a esprimere il proprio assenso. Anche lei aveva ricevuto in sogno lo stesso messaggio di

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Katarina, ma da sette angeli bianchi e splendenti. Felice che la sua maggiore preoccupazione fosse stata risolta, Katarina fu awolta dalla serenità più totale. Mi descrisse altre visioni. Una era stata una sorta di proiezio­ ne sul muro della camera. Aveva visto le sue figlie da grandi. Avrebbero aiutato molte persone grazie alla loro straordinarià eredità familiare: il dono della musica e la testimonianza della sua esperienza. Katarina si era anche vista parlare con Gesù e accettare il corso che avrebbe preso la sua vita. Sarebbe stato qualcosa di infinitamente più grande della sofferenza finale che doveva ancora provare. Sorrise dicendo che ricordava bene tutta la conversazione e che finalmente aveva capito il significa­ to della propria vita rispetto al piano di Dio. Come a lei, anche a tutti noi in punto di morte verranno ricordate le scelte fatte per seguire la volontà di Dio. Riguardo alla sofferenza, mi riferì cosa le avevano rivelato gli angeli: «Tutti soffriamo in un modo o nell'altro, perché la sofferenza fa parte della nostra natura. Ma c'è anche la gioia. E la gioia è inglobata nella sofferenza». Aveva come la sensazione di star facendo qualcosa non solo per la sua famiglia e per se stessa, ma anche per il mondo inte­ ro. Colti da una profonda tristezza, tutti i suoi familiari si mise­ ro a piangere. Sua madre piangeva ma era felice; aveva accetta~ to che Katarina tornasse da Dio. Anche Katarina era arrivata a patti con la morte, ed era incredibile, perché l'aveva sempre negata nonostante le visioni dei magnifici esseri spirituali. Le chiesi cosa le aveva fatto cambiare idea. Risposta: la semplice consapevolezza che sua sorella Maria si sarebbe presa cura delle sue figlie come avrebbe fatto lei. Quattro giorni prima di morire, intorno all'una del mattino, Katarina aveva svegliato sua madre e le aveva sussurrato che era comparso un nuovo angelo, grande e bellissimo, blu brillante con bianchissime ali. «Vidi mia figlia aguzzare lo sguardo verso il lato destro del letto, sorridere e alzare le mani», mi raccontò in seguito sua madre. «Poi iniziò una muta conversazione con qualcuno. La bocca si muoveva, ma senza articolare alcun suono. Anche lo sguardo andava da una parte all'altra, come se

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Ntesse seguendo qualcosa in movimento». La signora aveva con­ tinuato a osservarla e cercato di leggerle le labbra. Tutto a un tl'atto, era stato come se qualcuno avesse alzato il volume, e la voce di Katarina era tornata. «Ok, ma lasciami qualcosa come pegno, così saprò che tornerai», aveva detto Katarina in spagnoQuindi aveva annuito, allungato una mano per poi chiuderla LI pugno e portarsela al petto, sorridendo e mormorando: «Grazie, grazie». Sua madre aveva visto tutto, ma senza capirci nulla. «Mamma, vuoi vedere cosa ho qui? Cosa mi ha appena dato l'angelo?» le disse Katarina. «Certo, tesoro. Cos'hai lì?». «Ho preso una delle sue piume». Lentamente aprì il palmo della mano, ed ecco, proprio lì nel centro c'era una piuma per­ fetta, bianca e soffice lunga circa 15 centimetri. Katarina non slava in sé dalla'gioia e non vedeva l'ora di farmela vedere. Sua madre la ripose in una busta di plastica, e Katarina le disse di darmela in segno di gratitudine per tutto quello che avevo fatto per lei e per la sua famiglia. Non mi sentivo di accettare un simi­ le dono, ma non volevo neanche offenderla. In quel momento mi squillò' il cercapersone e dovetti scappare da un altro pazien­ te. Prima però dissi a sua madre che ne avremmo parlato più lardi. Un paio di giorni dopo Katarina insistette ancora che dovevo accettare la piuma come un regalo suo e di Dio. Potevo forse rifiutare? L'avrei sempre tenuta cara, le dissi, sperando che la sua storia avrebbe confortato altri miei pazienti. Era un'otti­ ma idea, commentò Katarina. Quando recuperò la busta di plastica, sua madre si meravi­ gliò che la piuma si fosse ridotta da 15 a neanche tre centime­ tri. Praticamente la piuma di un cuscino. No, ,non poteva esse­ re. Al nostro hospice vige uno stretto regolamento che vieta i cuscini di piume, onde non provocare reazioni allergiche ai pazienti. Usiamo invece cuscini di gommapiuma ricoperti di una soffice plastica. Controllai tutti i cuscini in camera di Katarina. Erano tutti di gommapiuma. Alla mia domanda, sua madre negò di averne portati di diversi da casa. Eravamo tutti

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senza parole. «Dottor Lerma, eppure due giorni fa la piuma del- ' l'angelo era di 15 centimetri, no?». «Infatti», risposi. «Mi sa che si sta riducendo. Pensa che scomparirà? Dottor Lerma, la tenga lei e mi dica che n~ sarà. A lei crederanno. Lei è un medico, dopotutto». Assentii e chiusi a chiave la busta con la piuma nel cassetto della mia scrivania. Più tardi raccontai la storia della piuma a un'infermiera del nostro hospice. A sua volta, lei me ne riferì una simile che aveva appena sentito da Jeffrey, il nostro portiere. Lo chiamai al tele­ fono e gli chiesi cos'era successo. «Dottor Lerma, si ricorda del signor Willie, l'uomo ricoverato nella stanza di fronte a quella di Katarina? Proprio l'altro ieri, mentre pulivo la sua camera, lo sentii parlare nel sonno e dire che un angelo gli aveva dato una piuma per ricordargli la sua presenza costante. Fu allora che ne notai una per terra. Ero increçlulo. Mi domandai se fosse davve­ ro quello che avevo sentito. Era bella, bianca e grande. 25 centi­ metri. So bene che all'hospice i cuscini di piume sono vietati, perciò pensai che qualcuno ne avesse portato uno da fuori per il signor Willie. Be', il signor Willie non aveva né familiari, né cuscini suoi. Allora la raccolsi e gliela misi sul comodino, con un'estremità sotto il vaso di fiori per non farla volare via. Ieri mi pareva molto più piccola. Oggi il paziente è morto e quando sono andato a pulire la camera, mi sono accorto che la piuma non c'era più. «Allora ho chiesto all'infermiera se l'aveva vista o buttata via. Dice che si ricorda di averla vista ieri, ma non oggi. Dottor Lerma, non sono sicuro di che fine abbia fatto, ma ho dei sospetti. Doveva andare così, doveva sparire». Non riuscivo a credere a quelle coincidenze. Forse aveva ragione la madre di Katarina, e anche la sua piuma sarebbe scomparsa. Andai di corsa a controllare se la piuma era ancora nel cassetto. Eccola! C'era ancora, ed era uguale a come l'avevo ricevuta. Il giorno seguente Katarina morì serena con le sue figlie, le sue sorelle e sua madre al suo capezzale. Erano tutte visibilmen­ te tristi, ma avevano fatto tesoro delle esperienze angeliche,

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I nlendone

una gran pace. Chiedendomi che fine avesse fatto la piuma, andai a controllare nel mio ufficio. Appena aprii il cas­ IK'llo e presi la busta, vidi che la piuma non c'era più. Guardai giro, ma non riuscii a trovarla. La piuma era davvero scom­ l')arsa. Ero l'unico ad avere la chiave della mia scrivania e non uvevo detto a nessuno di averla messa lì. Allora ricordai che Katarina l'aveva chiesta come pegno del ritorno dell'angelo. Ormai non ne aveva più bisogno. Aveva già spiccato il volo sulle sue ali. La piuma era servita al suo scopo, simbolo della fiducia lIegli angeli. Sorrisi chiedendomi se qualcuno avrebbe mai cre­ duto a questa fantastica storia. Ciò che importava davvero. però, era che Katarina conoscesse finalmente la verità universale. NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON KATARINA

La madre e le figlie di Katarina trassero un grande conforto dalla piuma dell'angelo. Era un simbolo che aveva dato loro conferma del cambiamento di Katarina. Anche lei aveva capito di essere cambiata, e forse proprio per quello la sua famiglia aveva accettato la sua perdita. Gli angeli dissero a Katarina che non doveva sentirsi in colpa per quelli che considerava degli errori. Gli sbagli non esistono. Era stata lei a scegliere il suo cammino di vita. Gli angeli le erano apparsi nelle sue ultime ore per confortarla e aiutarla a capire. Le avevano mostrato qual era lo scopo della sua soffe­ renza, non solo del dolore causato dalla malattia, ma anche del dolore che aveva provato prima di ammalarsi. La sua vita diffi­ cile l'aveva portata a sviluppare la capacità di comprendere chi era come lei, gente della strada con tutti i suoi, vizi e le sue debo­ lezze. Era arrivata a capire che quei vizi erano la sua lezione di vita, che l'aveva portata a perdonarsi. ad amarsi e alla pace. Quando Dio ci assegna delle grandi sfide, ci concede anche dei talenti per consolarci. A lei era stata data una voce meravi­ gliosa per cantare, che aveva dato conforto e speranza a molti altri che come lei avevano vissuto la tossicodipendenza e la 75


malattia. Come disse Katarina stessa: «Il talento di cantare è un dono di Dio e nessuno me lo porterà mai via. Scrivevo canzoni bellissime su Dio e per Dio e, proprio grazie al mio talento, in molti ritrovarono la fede. Ora so di non aver mai lasciato Dio, persino quando avevo toccato il fondo. Dovevo affrontare le mie prove per poter insegnare a me stessa e di riflesso anche agli altri che tutti possiamo farcela. Gli angeli mi dissero che io sono una delle anime più vecchie e che scelsi di venire qui come guida per gli altri. Il mio talento musicale passerà alle mie figlie, vidi. La mia vita contribuirà alla loro missione». Alla fine la sua esistenza le era apparsa completamente diversa da come l'a­ veva sempre considerata, e aveva abbracciato con gioia quella nuova prospettiva. Gli angeli le erano venuti incontro anche nella sua passione canora, cantando le sue canzoni preferite e invitandola a canta­ re con loro. Relegata a letto, ogni tanto aveva canticchiato melo­ die angeliche, irradiando pace a tutti i presenti. Katarina amava la spiaggia e l'acqua. Non appena lo capiro­ no, gli angeli le permisero di nuotare e di prendere il sole sulla sua spiaggia preferita per darle sollievo dal dolore. «Queste esperienze da sogno (ma tanto, tanto vivide) danno un gran senso di pace che mi riempie l'anima», disse Katarina. Inoltre gli angeli le garantirono che avrebbe continuato a percepire l'a­ more delle sue figlie e a vegliare sulla loro crescita emotiva e spi­ rituale. «Come facciamo a separarci dalle persone che ci sono più care?». «Grazie alle visioni paradisiache che ci inviano gli angeli. È quella la nostra vera casa.. Lì tutto è possibile, con l'amore di Cristo. Tutto è gioia, una gioia infinita, che ci attrae a sé quan­ do siamo in fin di vita. Con la gioia possiamo cambiare le nostre vite e il mondo. E amare chi ancora ci ama sulla terra». «Perché il paradiso ci è tanto familiare?». «Perché, come dice la Bibbia, quando accettiamo Dio, accet­ tiamo anche che il suo regno - il paradiso - entri in ogni singo­ la fibra del nostro essere. Dio comprende le nostre percezioni

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individuali del paradiso e le riflette su di noi. Ne risultano con­ forto, pace, gioia e amore incondizionato. Quando siamo felici, ecco, quello è il paradiso. Qui, sulla terra». Sul letto di morte a ciascuno di noi viene data la possibilità di effettuare una guarigione generazionale. Per Katarina si era trattato di sanare alcune questioni irrisolte con i suoi nonni. Erano morti prima che potessero ridiscuterle. In mancanza di tale guarigione, nessuna delle parti coinvolte potrà progredire e vivere l'esperienza dell'amore e del perdono di Dio. È importan­ te aver sistemato le cose qui sulla terra prima di venire chiama­ ti in cielo. Alla fine Katarina si era liberata dalla sofferenza e dal dub­ bio: se il suo corpo ne era ancora gravato, il suo spirito si libra­ va libero nella stanza. A circa tre-cinque giorni dalla morte, gli angeli e i cari defunti rimangono tutto il giorno vicino al mori­ bondo e aiutano' i familiari a dirgli addio. Il paziente ha già con­ duso la rassegna della sua vita e negoziato (con l'amore incon­ dizionato) di poter rimanere nel corpo finché amici e parenti non accettano la sua dipartita. Prima questi ultimi si liberano delle loro paure, di attaccamenti patologici al moribondo, della rabbia, dell'odio e così via, prima il loro caro potrà passare nel regno celeste. La maggior parte dei pazienti che indugiano per settimane sono ancorati alla terra o da motivazioni egoistiche altrui, o dalla tenebra del paziente stesso, ossia conflitti irrisolti con radici profonde. Quest'ultimo caso si presenta di rado e si trat­ La di un problema che l'anima si porta nell'altro mondo. Per i malati tormentati dal loro lato oscuro può essere molto utile la preghiera. Tutto ruota intorno al libero arbitrio. Kataripa insistette par­ Licolarmente che è meglio non aspettare a risolvere i propri pro­ blemi quando ci si ritrova sul letto di morte. È peggio. Bisogna farlo oggi, adesso. Arrivare a capire chi siamo, individuare i nostri punti di forza e di debolezza, e imparare ad amarci così, perché in questo misto di forza e di debolezza sta la nostra per­ l'ezione. Quasi tutti non riescono ad amarsi perché vorrebbero

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essere qualcun altro. Quella è la radice del male. Se non si riesce ad amare se stessi, come si può amare gli altri? Ecco perché il tasso di divorzi negli USA va oltre il sessanta per cento. Manca il vero amore per la sposa. Il fanatismo, l'intolleranza, la discri­ minazione, la segregazione razziale t le guerre sante, la paura: sono tutti risultati di una mancanza di amore per se stessi. Gli angeli dissero a Katarina che sulla terra ci sono stati santi individui nati proprio per essere un esempio di questo tipo di amore. Gandhi, papa Giovanni Paolo II, Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama e anche alcuni dei nostri genitori che sono rimasti sposati per anni sono esempi di chi sa amarsi e perdonarsi veramente. Non bisogna essere perfetti. Basta essere equilibrati. Ossia stare lontani dagli estremi opposti, perché posizionarsi sull'estremo è la ricetta per il sicuro fallimento. Essere troppo religiosi ha come (ironico) risultato la paura e il giudizio gratuito. Essere nelle tenebre, be'... è ovvio. Ognuno di noi ha un lato oscuro e uno luminoso. Bisogna cercare di rag­ giungere l'equilibrio, lo stato fluido di Cristo, rispetto al conti­ nuum dell' esperienza umana. Cristo aiuterà anche chi si pone a entrambi gli estremi dello spettro sociale, dalle prostitute ai lea­ der religiosi, inclusi i farisei. C'è molto da fare; gli angeli dissero che alla fine ci arrivere­ mo, ma solo con l'aiuto di Dio. Dunque, disse Katarina, bisogna­ va amarsi e perdonarsi, poi provare ad amare e perdonare gli altri. Una volta iniziato diventerà sempre più facile. Cristo morì per noi perché sapeva che avremmo continuato a peccare. Grazie a Lui, abbiamo infinite possibilità almeno di capire il concetto. Ma dobbiamo ricordarci, disse Katarina, che non sapremo mai il momento in cui Dio ci chiamerà a sé da questo mondo. Bisogna solo provare a essere gentili con se stessi e con gli altri e credere nel nostro Signore Gesù Cristo come nostro Salvatore. «Non saremo delusi», disse Katarina. Chiesi a Katarina se poteva definire la rassegna della vita prima di morire. «Dottor Lerma, non lo capirebbe. Ognuno ha la propria e può capire solo quella. Non esistono parole per defi­ nirla. Anche se mi sforzassi di farlo, non ce la farei. Si comuni­ 78

ca con i sentimenti». Provai a farle domande più mirate, ma si spazientì. Preferiva dirmi quel che sentiva. Ribadì che ogni paziente ha uno o più angeli, vede i propri cari estinti e prima di partire avrà capito sia le scelte sia lo scopo della sua vita. Katarina parlò di una cosa lontana anni luce dal mio sistema di credo, che però mi colpì. Per questo ritengo importante con­ dividerla. «Scegliamo I)oi le nostre vite, ma poi non ricordiamo la nostra scelta. Quando ci accompagnano nella rassegna della nostra vita, gli angeli ci ridanno il ricordo di quella scelta e allo­ ra arriviamo a comprendere la nostra verità. Nulla ci viene imposto. Lavoriamo tutti insieme. Facciamo parte della consa­ pevol~zza collettiva del mondo. Stiamo crescendo come gruppo. Se uno di noi si ammala, ogni essere Umano ne risente emotiva­ mente, anche se non se ne accorge. Per esempio, se uno di noi sceglie il lato oscuro, altri devono assumersi l'energia di quella tenebra e sconfiggerla per recuperare l'equilibrio. Tale energia può manifestrarsi in molti modi: emotivamente, spiritualmente, a volte anche con la malattia fisica. Mi fu mostrato che anche le cellule del cancro sono di Dio. Scegliendo di assumermi la tene­ bra di un'altra persona accelerai il processo di proliferazione delle mie cellule, tanto che sviluppai il cancro». «Ha potuto vedere gli effetti positivi che risultarono dal cancro e dalla sua sofferenza?». «Sì», mi rispose. Era andato quasi tutto a favore delle sue figlie. Il team per la gestione del lutto seguì la famiglia di Katarina per circa un anno, cosa che mi permise di avere dei riscontri su come stava. Le figlie abitavano con Maria e suo marito, come era stato deciso. Erano cristiane praticanti, cantavano nel coro e raccontavano l'esperienza della loro madre, ~ispensando una guarigione emotiva a chi le ascoltava. Sono sempre pronte a spiegare che, non importa fino a che punto si è arrivati, c'è sem­ pre un modo per ritrovare se stessi e Dio. Il messaggio di amore incondizionato di Katarina aveva influenzato la sua famiglia e gli altri, proprio come sperava lei. Quanto a me, ora capisco che tutto ha uno scopo. Ho smes­ 79


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6 Un profondo rimorso

so di giudicare le scelte degli altri. Siamo tutti uguali, non importa se pensiamo di essere bravi o no. Ancora una volta, le lezioni di chi aveva lasciato questo mondo erano state profonde, e io non posso che crescere davanti a nuove informazioni. Mi sento umile e grato di poter essere esposto a tale saggezza e non smetto mai di riflettere e farmi domande su ogni cosa nuova. Sono felice di avere scelto questo cammino e sono felice di capi­ re e sapere che ho fatto la mia scelta guidato da Dio.

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illiam, un paziente che veniva dall'Argentina, approdò al rinomato MD Anderson Cancer Center di Houston, in Texas, per farsi curare un cancro ai polmoni. Dopo tre mesi di trattamento intensivo fu trasferito al nostrO hospice perché neppure 'i protocolli sperimentali erano riusciti a fermare l'espansione del suo tumore maligno aggressivo. Non passò molto tempo dal ricovero che il suo livello di funzioni cognitive precipi­ tò, lasciandolo in uno stato quasi comatoso alternato a fasi di delirio. Durante la crisi William si agitò ripetutamente nel letto e parlò spesso in tedesco, invocando aiuto a gran voce e pronun­ ciando «Heil Hitler» e altri saluti nazisti. Dal canto mio, gli deter­ gevo il sudore dalla fronte e gli toccavo le braccia per calmarlo. 1tovai strano che parlasse in tedesco, ma sua moglie mi disse che entrambi erano nati e cresciuti in Germania, a Berlino, e fuggiti in Argentina poco dopo !'inizio della Seconda guerra mondiale. Una volta trattata la causa del delirio, ossia la disidratazione, il suo livello di coscienza migliorò. William riprese a comunica­ re e fece un sacco di domande, quali: «Dove sono? Sono morto? Ho parlato della guerra?». Gli dissi che era viv.o e che era stato ricoverato all'hospice perché il suo cancro era ormai incurabile. «E la Seconda guerra mondiale? E Hitler? Ne ho parlato in pre­ senza della mia famiglia?». «Sì. Ha parlato in tedesco e diceva: "Hei! Hitler". No, la sua famiglia non era presente quando è successo». In quell'istante scoppiò a piangere e mi supplicò di non rac­

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contare a nessuno cosa gli avevo sentito dire, specialmente alla sua famiglia. Lo tranquillizzai dicendo che avrei mantenuto i suoi segreti e che non avrei mai giudicato nulla di tutto ciò che avesse fatto o detto. Gli rammentai che ero lì soltanto per alle­ viare la sua sofferenza fisica, emotiva, spirituale e interpersona­ le, e che, semmai avesse voluto parlare delle sue paure, ero lì per ascoltarlo. Nel corso della settimana successiva William e io maturam­ mo un rapporto di fiducia, tanto che un mattino decise di rive­ larmi che era stato un ufficiale delle 55, la guardia personale di Hitler, durante la 5econda guerra mondiale, e che aveva assisti­ to di persona e partecipato allo sterminio della sua razza. Lo ammise piangendo, e sembrava davvero pentito. Raccontòài ~".-'­ avere rinchiuso cristiani ed ebrei, sia i giovani sia gli anziani,-­ nei locali doccia, e di avere voltato le spalle mentre altri soldati scelti immettevano gas cianuro dai soffioni. Rievocò una notte in particolare, quando una bella ebrea si era fermata prima di entrare nelle docce e l'aveva guardato dritto negli occhi. Dal suo viso non era trapelata alcuna paura, solo uno sguardo di pura compassione che gli aveva bruciato l'anima. Quella visione lo perseguitava da una vita. William era stato il comandante di quel campo di concentra­ mento solo per poco tempo perché aveva contratto all'improvvi­ so una malattia polmonare potenzialmente letale. In realtà, aveva assunto una piccola dose di cianuro sperando che il vele­ no lo facesse stare male abbastanza da tenerlo permanentemen­ te fuori dalla guerra e lontano dalle atrocità naziste. Non essen­ do mai venuti a conoscenza del suo piano, i medici di Hitler ave~ vano attribuito la sua grave malattia a esposizioni secondarie al gas cianuro. Invece di essere mandato alla corte marziale per aver tentato il suicidio, gli era stata conferita una delle più ambite medaglie al valore per il servizio reso alla patria. Con un danno polmonare permanente, William non era tornato mai più al suo comando. Quando gli domandai perché era entrato a fare parte delle 55, rispose che il suo lavoro in biochimica aveva attirato l'atten­

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zione dei pretoriani di Hitler, e gli era stato chiesto di prestare il suo aiuto affinché il suo paese si liberasse dai leader tirannici del mondo. Rispettosamente aveva rifiutato; ma nel giro di poche ore alcuni soldati delle 55 avevano arrestato sua moglie e i suoi figli. Essendo in possesso di archivi nei quali erano regi­ strati tutti gli ebrei della Germania, i nazisti avevano scoperto che William, un tedesco purosangue, era sposato con un'ebrea, e quindi che anche i suoi figli erano in parte ebrei. Gli avevano detto chiaro e tondo che tutti gli ebrei dovevano essere arresta­ ti e condannati a morte per i loro atti criminali contro il Terzo Reich hitleriano. «Dovevo salvare la mia famiglia», spiegò William, «non potevo lasciare che mia moglie e i miei figli morissero nel modo in cui, avevo sentito dire, stavano morendo a milioni. Come potevano degli esseri umani mettermi nella posizione di dover scegliere tra salvare la mia famiglia o le fami­ glie altrui? È c~sì che Hitler convinceva a eseguire i suoi ordini mostruosi. Tutti sceglievano di salvare i propri cari, mettendo a tacere il cuore e i principi morali. Nel giro di poche ore ci tra­ sformammo da padri di famiglia timorosi di Dio in assassini a sangue freddo. Riuscivo solo a pensare al male che avrei dovu­ to commettere per fare del bene». Mentre ripensava al più terri­ bile evento cui questo nostro mondo sia stato testimone, William era abbattuto più che mai. Non avendo alternative, aveva acconsentito a entrare nelle SS purché alla sua famiglia fosse permesso di lasciare la Germania. Gli ufficiali nazisti avevano assentito, e la sua fami­ glia era stata liberata in cambio del suo impegno a portare avan­ ti la ricerca sulla guerra biologica. Infatti con l'inasprirsi del conflitto andava incalzando anche il richiamo di Hitler a miglio­ rare l'efficienza nello sterminio di massa. William insieme ad altri colleghi era stato riassegnato ai campi di concentramento, dove venivano condotti molti esperimenti biologici e genetici. Era stato lì che aveva visto la vera portata del piano malvagio di Hitler, rendendosi conto di che errore aveva commesso nel deci­ dere di salvare la sua famiglia. Diversamente dall'utilizzo di gas cianuro per lo sterminio di

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ebrei e cristiani, William non volle parlare delle ricerche di cui era stato testimone. Non gli feci pressioni, ma non potei fare a meno di chiedermi se non si fosse trattato di qualcosa di peggio del genocidio. «Dottor Lerma, ho fatto un patto con il diavolo e non posso rimangiarmelo. Per me è troppo tardi. Non potrò mai vedere Dio, mai e poi mai! Adesso so cosa intendeva dire Gesù, quando disse che chi salva la propria vita la perderà, e chi perde la propria vita avrà la vita eterna». Mi chiese di perdonarlo; gli risposi che non c'era nulla da perdonare e che a me non aveva fatto alcun male. «Oh, si invece», ribatté, «gli angeli mi hanno detto che il mondo intero fu devastato da quei terribili eventi, e che tutti i nati dopo l'Olocausto ne risentono». «Dk, William. TI perdono», replicai. Mi sorrise e mi ringraziò. Poi mi chiese di non mettere a conoscenza i suoi figli di ciò che aveva fatto. «Neppure mia moglie sapeva fino a che punto ero coinvolto. Fino ad ora mi sono portato dietro la mia vergogna e il mio senso di colpa in silenzio». Ora che, finalmente, era in grado di sgravarsi l'anima, avvertivo in lui un profondo rimorso. Mi chiese per quanto tempo era stato in coma; gli risposi che erano passate circa quarantott'ore. «È impossibile», disse con aria sconvolta, «so di essere stato all'inferno per centinaia di anni. So che è cosi». Gli assicurai invece che erano trascorsi solo due giorni e gli chiesi cos'aveva vissuto. «Ero in una grotta buia, spalla a spalla con molti altri soldati nazisti e cattolici che erano stati implicati negli omicidi di massa. Potevo udire i loro pensieri e percepire la loro angoscia, che rispecchiavano entrambi il mio stesso senso di colpa e la mia stes­ sa vergogna. n dolore emotivo era acuto, indicibile. Non finiva mai, sembrava eterno. Quello era finferno, dottor Lerma». «William, come ne è uscito alla fine?». «Sa, dottor Lerma, c'era sempre un bagliore in lontananza, e io mi sentivo attratto da esso, ma avevo paura, perché non sape­ vo che tipo di giudizio mi aspettasse. Sapevo che era la luce di Dio e mi sentivo indegno persino di guardarla. Dopo quel che sembrarono anni passati a scrutare quel lume, ebbi infine abba­

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stanza energia da lanciare un grido di aiuto. Tutto a un tratto, notai un pertugio nella parte lontana di quella grotta buia. Dalla piccola apertura vedevo entrare esseri luminosi, poi uscire e rientrare, ma senza mai articolare una singola parola né un suono. Detti per certo che fossero le guardie che trattenevano lutti dall'andarsene e, assalito dalla vergogna per quello che ero stato, mi feci piccolo piccolo. Fissando intensamente gli esseri luminosi, alla fine riuscii a incrociare lo sguardo di un'entità femminile, e con mia grande sorpresa, in quei suoi limpidi occhi blu intravidi qualcosa di ramiliare. Erano simili agli occhi della bella ebrea che avevo scortato alle docce al cianuro. Le gridai: "Mi dispiace! Mi dispia­ ce davvero tanto!"». William raccontò che la visione si era fer­ mata e aveva voltato la testa per scrutare nella grotta. Ancora in preda alla vergogna, si era ritratto nell'oscurità; ma via via che lo spirito era avanzato in quell'oscurità, un'intensa luce bianca l'aveva dissipata. Lanima di William era stata messa a nudo e rivestita della pietà e dell'amore incondizionato dell'angelo. «Mi parlò con una voce che nei miei confronti irradiava solo amore», spiegò William. «"Ti perdonai ancora prima che mi uccidessi", ecco cosa disse. Poi fece per allontanarsi di nuovo, ma le gridai: "Aspetta, non andare!". Lei si fermò, si voltò a guardarmi e mi tese le braccia. "Vieni con me e ti aiuterò a libe­ rarti dai tuoi sensi di colpa". Esitai, perché sentivo di meritar­ meli tutti, i miei sensi di colpa. Eppure in lei c'era qualcosa di talmente irresistibile che, piano piano, mi mossi verso il suo abbraccio affettuoso. «Quando uscii dalla grotta fui inondato da una luce che mi riempi di gioia e vivo amore. Lenergia era così intensa che mi sentii mancare. Mentre cadevo lentamente, vidi.l'angelo volare da me e afferrarmi muovendo le sue soffici ali piumate. Una volta tornato in me, presi a parlare della mia vita. Espressi tutto il mio rammarico per ciò che avevo fatto, le dissi che avevo cer­ cato di fare ammenda, ma nulla avrebbe mai cancellato il gelo dal mio cuore. Allora parlò: "Puoi scegliere. Puoi accettare di avere vissuto la vita che hai scelto di vivere, perdonare te stesso 8S


li' e passare oltre. Oppure, puoi provare il dolore che causasti allo scopo di liberartene"». William aveva ribattuto mestamente che non era così facile farsi perdonare. «Le dissi: "Sono stato causa di grande sofferenza. Ho bisogno di conoscere quella sofferenza per potermene liberare". Lei scosse. tristemente la testa e senten­ ziò: "CosÌ sia"». Nella frazione di un secondo, continuò William, era entrato nella mente e nel corpo di ogni singolo ebreo e cristiano che aveva ucciso al campo di concentramento. Aveva provato il loro dolore, la loro paura, aveva vissuto la loro morte, tutto nello stesso istante. Si era ritrovato internato nellager, ucciso da una doccia al cianuro, e al contempo nel proprio corpo mentre vol­ tava le spalle alle docce e si allontanava. Aveva implorato aiuto e misericordia e al contempo ignorato le grida alle sue spalle. Quella gente - quella in cui si era immedesimato -l'aveva invo.:. cato a gran voce, gli aveva chiesto perché, l'aveva supplicato di non farlo. Ricordava bene che avrebbe tanto voluto aiutarli tutti; ma aveva avuto talmente paura per la sua famiglia da non riuscire a farlo. Il suo conflitto interiore era doloroso quanto la morte di tutti quelli che aveva ucciso. Provare la sofferenza di migliaia di adulti e bambini simultaneamente, ammise infine William, era stato orrore allo stato puro. A un certo punto la donna di luce era tornata e gli aveva chie­ sto se era pronto a perdonarsi. William le aveva detto che lo era. Allora tutte le persone che aveva ucciso l'avevano circondato, perdonato, e gli avevano fatto capire che erano dawero felici che fosse stato redento. Poi l'angelo l'aveva awolto nel sUo abbraccio luminoso e trasportato nella luce più intensa di Dio. William era stato immerso nell'amore incondizionato; esso aveva permeato il suo intero essere, e un messaggio aveva riem­ pito ogni sua cellula con la consapevolezza che Dio aveva per­ messo tutto ciò che era accaduto al fine di insegnare all'umani~ tà a opporsi al male. Gli era stato detto che, a causa del libero arbitrio, l'uomo era destinato a fare esperienza delle tenebre e della bontà. Il piano previsto da Dio per l'anima indipendente era di imparare a liberarsi dall'odio, dalla paura, dall'arroganza 86

c dall'orgoglio per muoverSI mvece verso il puro amore. I:Olocausto non fu creato da Dio, ma piuttosto dalla tenebra disumana che alberga nell'uomo e che l'uomo rafforza. I:umanità, nel momento in cui riconosce Dio, non deve aver l'Ulura né deve cercare di controllare tali eventi; anzi, deve impa­ rure che sarà in grado di sconfiggere quella stessa tenebra solo lIccogliendo Dio dentro di sé. Da solo non può farlo. William disse che quella era la lezione più importante: «Impara a dipen­ dere da Dio, ed Egli userà il tuo libero arbitrio per prendere le giuste decisioni e salvare l'umanità». William rivelò quindi che, se rifiutiamo il volere di Dio insito !!I.'lle nostre scelte, siamo condannati. Il mio paziente aveva infi­ Ile accettato il suo ruolo di omicida per contribuire a dare que­ !ill:l lezione all'umanità. Le lezioni di amore e di compassione erano state di en~rme portata, e si spera che l'uomo non permet­ III mai più simili atrocità. Tutta l'umanità aveva sofferto ed era cresciuta in seguito al dolore provocato da quelle scelte; tutto il dclo aveva gioito quando la lezione era stata appresa e tra Dio e l'uomo era stata stretta un'alleanza affinché tali eventi non si l'i petessero mai più. Quando un grande dramma va in scena sul pulcoscenico della terra, !'intero universo vi assiste, resta in atte­ HH, e sente e integra le lezioni. Qualcuno deve pur fare il cattivo. Ma ormai questa fase è finita; imparare attraverso la sofferenza è un paradigma vecchio. È tempo di abbracciare la nostra gioia ,+ la nostra creatività, di smetterla di giocare ai vecchi giochi e di l'l'citare i vecchi ruoli. È tempo di perdonare noi stessi e di lasciar perdere, come dovette fare William. È tempo di abbrac­ dare la nostra natura divina e di mutare il nostro obiettivo: non hasta sopravvivere, dobbiamo creare insieme un mondo miglio­ Il'. Sta a noi scegliere. È giunta l'ora, come ebbe. a dire William. Durante la sua esperienza William arrivò a capire che l'ani­ ma vive per sempre e che il corpo non è poi così importante. Non l'aveva compreso appieno finché non arrivò in punto di lIIorte. Nelle scelte che aveva fatto non si poteva distinguere fra ~ìusto e sbagliato. Qualcuno doveva morire: o la sua famiglia o Il popolo ebraico. La lezione sarebbe continuata anche se aves­

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se lasciato morire la sua famiglia e rinunciato alla propria vita. Non avrebbe potuto fermarla. Era più grande di lui. Tuttavia, ora che quella lezione è stata data, !'intero universo ha l'oppor­ tunità di scegliere l'amore e la compassione, di prestare aiuto a chi è in difficoltà. William si era r~so conto che l'umanità è un tutt'uno, che quello che faceva agli altri lo faceva a se stesso. Dopo un paio di giorni passati a raccontarmi la sua storia mera­ vigliosa, i suoi figli arrivarono dall'Argentina, e lui morì in pace, lasciandomi qui a riflettere sulla disumanità dell'uomo verso l'uomo e a dissipare i miei giudizi sulle scelte degli altri. NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON WILLlAH

Sull'Olocausto e sulla Seconda guerra mondiale appresi molto più di quanto avrei mai voluto sapere. William disse che quando era iniziata la guerra i tedeschi volevano portare via sua moglie per il suo aspetto da ebrea. I tedeschi tenevano dei registri meti­ colosi, proseguì William, registri che contenevano dei profili raz­ ziali. Durante la guerra i nazisti avevano richiesto a quasi tutti i cittadini di sottoporsi a una visita medica. La visita consisteva nella misurazione del corpo: lunghezza del naso, circonferenza cranica, distanza fra gli occhi, altezza, peso, e poi torace, vita e dimensioni dei genitali. Ai medici tedeschi erano state consegna':' te delle tabelle di misurazione in riferimento agli ebrei, ai russi; ai francesi e così via, e con quelle dovevano stabilire a che razza appartenevano le persone esaminate. Gli scienziati sotto il regime di Hitler erano arrivati a dire che la razza ariana aveva proporzio+ ni del corpo perfette e che le altre razze erano inferiori. In base a . quelle visite mediche il Terzo Reich aveva individuato gli ebrei e li aveva sterminati. L'ironia di tutto ciò è che presumibilmente anche Hitler era in parte ebreo. Gli storici credono infatti che abbia fatto distruggere i registri del suo luogo di nascita per impe­ dire che fosse rivelata la verità sulle sue origini. William raccontò di avere scelto di rifugiarsi in Argentina dopo la guerra e di essere riuscito a far fuggire anche la sua famiglia con 88

I soldi che avevano messo da parte. Disse che il governo america­ gli aveva offerto un lavoro nell'ambito della biogenetica, ma di IIvere rifiutato perché era venuto a sapere che molti ingegneri e Ilcienziati tedeschi che avevano ricevuto l'amnistia in America ('l'ano costretti a vivere in bunker nel deserto e a continuare la l'Icerca militare. Non gli era sembrato poi tanto diverso dal regime Ilazista. Allora si era accontentato di trasferirsi in Argentina, dove IIveva avviato un'azienda per la coltivazione arachidi. Nel corso degli anni William aveva goduto di prosperità ed c'l'a diventato un noto filantropo. Tuttavia aveva sempre vissuto "clla paura di essere riconosciuto e perseguito per i suoi crimi­ Aveva passato il resto della sua vita a espiare il suo passato, ma non era mai riuscito a esorcizzare il suo senso di colpa fin­ rhé la donna-angelo non l'aveva portato alla comprensione e saggezza. William mi informò che gli St~ti Uniti avevano ingaggiato Iliolti degli scienziati che avevano compiuto studi sulla clona­ ,.,ione con gli esperimenti di Hitler, scienziati tuttora liberi di l'Ontinuare il loro lavoro. Disse che in quella linea di ricerca c'è IIn potenziale pericolo, e che essa sarà la nostra prossima le zio­ tiC di vita. Con il DNA sarà possibile clonare qualsiasi entità. Nelle mani sbagliate, questa tecnologia può essere utilizzata per donare la peggiore delle creazioni, incluso Hitler. Trovai molto interessante che la donna-angelo avesse detto a William che gli angeli, così come gli altri esseri spirituali, non possono parlarci, a meno che non siamo noi a chiedere loro di l'urlo. Poi mi sovvenne che molti dei miei pazienti dicono che gli ('sseri spirituali all'inizio non parlano, ma si limitano a sorride­ l'l' e sembrano assumere un atteggiamento protettivo. William lIli spiegò che le entità spirituali rispettano il libero arbitrio del­ ,'uomo. Di solito aspettano che siamo noi a invitarli a entrare Ildia nostra vita chiedendo loro di assisterci. Possono sentire i III )stri pensieri e sono disposti a rispondere alle nostre doman­ de su chi sono e cosa vogliono. La comunicazione avviene per lo più tramite una percezione extrasensoriale. Non ci sono corde vocali nel mondo spirituale; soltanto il pensiero. 110

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Chiesi a William del paradiso e mi rispose che, per come l'a­ veva vissuto, gli ricordava un'Austria bella e perfetta. Gli domandai se aveva visto Gesù, Buddha o Maometto. Disse che si trovano tutti lì, ma non vengono chiamati con quei nomi. Sono solo esseri luminosi, manifestazioni dell'energia di Dio. In paradiso nessuno viene designato con i nomi terrestri. Ci sono gerarchie angeliche con angeli fisicamente più grandi e lumino­ si e angeli che sono l'opposto; ma nessuno è più importante rispetto agli altri. Gli domandai dell'inferno e William di riman­ do mi chiese: «Non ha sentito la mia storia?». Disse che ciò che aveva vissuto era stato un inferno sulla terra e gli era bastato. Credo proprio di essere d'accordo con lui.

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7 L'infermiera-angelo

lle sette del mattino iniziai il mio solito giro di visite didattico con tirocinanti e infermiere. Nella prima stan­ za c'era una donna di 82 anni di nome Mildred cui era stato diagnosticato un cancro ovarico con metastasi estesa alle llssa, ai polmoni e a molti visceri. La notte precedente aveva perso e ripreso conoscenza più volte e aveva patito forti dolori. In quel momento però, ora che Il dolore era sotto controllo e dopo essere stata reidratata a dovere, Mildred era sorprendentemente vigile ed esuberante. Ci l'SOrtò a entrare tutti con un caldo benvenuto e ci ringraziò per lIverla liberata dal dolore. Tutto quel male le aveva fatto avere le allucinazioni, ammise, IIn entrare e uscire dal delirio. «Non saprei dire quello che mi è successo. Ma una cosa me la ricordo bene. Un incubo. Vedevo i miei dieci fratelli e sorelle stipati in una Volkswagen che viag­ IJ;iava nello spazio. Spero proprio che sia stata solo un'allucina­ zione!» esclamò ridendo. Poi si lasciò visitare e rispose di buon grado alle domande dei tirocinanti. La sera, prima di tornare a l'asa, ripassai da lei per un altro controllo. La trovai ancora rag­ "dante. «Come sta, signora Mildred?» domandai. «Mai stata meglio, dottor Lerma. Non riesco a credere di l'ssermi ripresa. Sto aspettando la mia badante notturna; ma prima che arrivi vorrei chiederle una cosa». «Al suo servizio».

A

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Mildred disse che la mattina, quando lo staff medico era usci.

to, erano rimaste nella stanza molte persone. All'inizio aveva

pensato fossero dei tirocinanti, ma nessuna le aveva parlato, e i

loro camici erano insolitamente lunghi e di un bianco brillante.

Di lì a qualche secondo erano scomparse tutte. Mildred, che era

un tipo allegro, commentò: «Saranno stati tutti i margarita che

mi sono scolata ieri notte!».

Risi e le dissi di non preoccuparsi. «Probabilmente è colpa dei

farnzaci che le sono stati somministrati».

«Forse sì. Ma allora perché adesso vedo i miei defunti madre e padre, più altre persone bianche - propÌio lì, vicino a lei - che penso siano angeli?». In preda a un gelo improvviso, dovetti sembrarle alquanto perplesso, perché mi disse: «Tutto ok, dottor ~""" Lerma. Non sono matta, e loro sono molto tranquilli». «Ne è sicura, Mildred?». «Sicura come il cancro che ho nella pancia». Non sapendo che dire, mi limitai a chiederle come sapeva che erano angeli. «Potrei dirlo dalla luce bianca che emana il loro corpo. È una luce molto intensa che mi fa sentire amata e che andrà tutto per il meglio». «Vede ancora i suoi fratelli e sorelle nella Volkswagen?». «No, non più da ieri notte». «Si sente male come la notte scorsa, o prova ansia o dolore? Le hanno dato dei sedativi di recente?». «No a tutte le sue domande, dottor Lerma. Le ultime medici­ ne che mi diedero risalgono a più di dodici ore fa. Come le ho appena detto, non sono mai stata meglio». Interessato alla differenza fra quelle esperienze e le classiche allucinazioni della notte precedente, le chiesi di spiegarsi meglio. «Dottor Lerma, loro non sono più qui con noi, ma giuro che erano reali quanto lei». «Mi sa dire cosa volevano e com'erano?». I suoi genitori le avevano detto che il suo angelo sarebbe venuto da lei più tardi quella sera per far sì che passasse all'al­ tra vita in loro presenza. Nonostante fossero morti in tarda età, Mildred me li descrisse come due persone sui trent'anni, in salu­

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I,e e con indosso vestiti normali. Le avevano anche detto che la Hua preghiera era stata esaudita: sarebbe vissuta abbastanza a lungo da poter vedere un'ultima volta i suoi familiari, che al momento erano all'estero. Le avevano assicurato che tutte le persone e gli angeli che vedeva erano lì per sostenerla e proteg­ gerla dal dolore. Ouando la badante entrò in camera, Mildred cambiò discorso dicendo che era ora di andare a dormire. Cab bracciai e le diedi appuntamento al solito orario delle visite i I mattino seguente. Mi sorrise, mi diede un bacio in fronte e disse: «Dorma con gli angeli, dottor Lerma». Con l'approssimarsi della sua ultima ora, iniziai a visitare Mildred più volte al giorno. Mi parlava sempre di luci, di angeli c di apparizioni dei suoi familiari. Ouando entrai in camera sua la terza sera, la badante notturna era già arrivata. Toccai Mildred sulle bra,ccia e sulle mani, e constatai che era poco reat­ liva anche se era a letto tranquilla, i suoi bei capelli bianchi allungati sul cuscino. Mi accorsi che sorrideva mentre guardava in un angolo della stanza, perciò le chiesi: «Principessa, vede ancora gli angeli?». (Le piaceva quando la chiamavo «principes­ sa» o «tesoro mio». Diceva che la facevo sentire ancora giovane). «Sì. E. stasera brillano più del solito». «Le parlano?». «No, dottor Lerma. Si limitano a emanare un senso di pace verso di me. Si sta così bene». Le chiesi quanti ne vedeva. «Proprio adesso ce n'è uno solo nell'angolo, ma spesso sono da tre a dieci, tutti diversi. È difficile dire quanto sono grandi. Se guardo il soffitto, sarà alto quasi tre metri. Ma loro sembrano anche più alti». La vidi spostare lo sguardo da un angolo all'al­ tro della stanza. «Dietro agli angeli ci sono montagne magnifi­ che e vaste foreste con uccelli e altri animali, e bambini che ci giocano in mezzo. Ho fissato più e più volte la scena, e mi sono accorta che fra i bambini, una sono io, il resto amici miei già passati all'altro mondo. Giochiamo a Boulder, la città dove sono nata, in Colorado. Ho anche riconosciuto che pomeriggio è: il giorno del mio compleanno». Fu allora che l'angelo nell'angolo le parlò. «Sono sempre

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stato con te. Sono sempre stato qui», mi riferì Mildred subito dopo, e le tornò in mente che da bambina aveva visto un ange­ lo, ma nessuno le aveva creduto; poi, crescendo, se l'era dimen­ ticato. Mi domandai se vedesse davvero il suo passato e, in tal caso, se ciò facesse parte della rassegna della sua vita. Mildred aveva ricevuto un' educazione cattolica ed era sempre stata una donna molto mite e umile. Quando suo marito, era morto di infarto l'anno precedente, lei aveva trovato conforto nella convinzione che fosse andato in paradiso da Gesù e Maria. Poi, a sei mesi dalla morte, l'uomo le era apparso in un sogno ricorrente per dirle che sarebbero stati di nuovo insieme, presto e per sempre. Mildred ne era stata felice e si era dichiarata pronta a seguirlo. L'angelo le disse che quel sogno corrispondeva a realtà e non avrebbe tardato ad avverarsi. Questo perché Mildred era sempre stata buona e aveva sempre avuto fede in Dio; di conse­ guenza, nella sua vita non c'era molto da rivedere. L'angelo aggiunse che Dio era molto orgoglioso di lei per tutto l'amore incondizionato che aveva riversato su amici e familiari. Mildred si era sempre sentita in colpa per non aver frequentato la chiesa, ma il suo amore per Dio non si era mai spento, ed era ovvio che a Dio interessasse di più l'amore. Questo fatto mi ha sempre col­ pito, ossia che i malati con un forte senso di identificazione con Dio e un altrettanto forte desiderio di unirsi a Lui sembravano morire sereni e nel giro di poco tempo. Una cosa però era certa: che Mildred traeva piacere dalle sue visioni ed esperienze. Le badanti andavano e venivano e quando capitava ascolta­ vano le mie conversazioni con Mildred. Un giorno una di loro mi prese in disparte e mi domandò se nel nostro staff c'era un'infermiera che portava ancora la divisa vecchio stile, con calze e scarpe bianche e la classica cuffia. Risposi che, per quel che ne sapevo, nessuna la indossava più, e le domandai perché me lo chiedeva. «Be', nelle prime ore del mattino venne un'infer­ miera bellissima radiosa direi - con un libro luminoso», mi riferì. «Lo aprì e si mise a parlare a Mildred a bassa voce. Da quello che potei vedere, nel libro c'erano file e file di nomi. Mildred aprì gli occhi, ascoltò e parlò con lei. Bisbigliavano e

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:L: ..._ .....

sembravano seguire le liste nel libro. Dopo circa dieci minuti l'infermiera lo chiuse, baciò Mildred sulla fronte e uscì dicendo: "Dio è sempre con te"». Incuriosita, la badante si era sporta per fermarla e chiederle di cosa avevano parlato; ma la sua mano era passata attraverso il corpo dell'infermiera, che aveva tirato dritto ed era uscita dalla porta chiusa. Ormai non c'era più nulla che mi stupisse, quando si trattava di Mildred. «È per questo che mi chiede del­ l'infermiera?». «Sì. Sapevo che parlandone con lei non mi avrebbe dato della pazza. Vedo che ascolta con grande interesse le storie degli angeli di Mildred. Dottor Lerma, quando corsi alla porta e l'aprii vidi !'infermiera-angelo entrare nella stanza qui vicino. Allora andai subito alla postazione infermieristica a chiedere di un'in­ serviente con la, divisa tradizionale. La descrissi per filo e per segno, ma alle due infermiere di turno non risultava ce ne fos­ sero delle altre in giro». Per assicurarsi che i pazienti stessero bene, erano andate tutte e tre nella stanza dove la badante aveva visto entrare la misteriosa apparizione; ma a parte Joseph, che dormiva tranquillo e sereno, non avevano trovato nessun altro. Il giorno dopo chiesi a Mildred dell'infermiera. «Era un ange­ lo», mi rispose. «Parlammo di alcuni miei conoscenti già passa­ ti a miglior vita, e poi ripercorremmo la mia vita matrimoniale. Non so dirle altro, dottor Lerma. Mi spiace». Le dissi che non importava, e la ringraziai per la sua gentilezza e sincerità. Proseguendo nel mio giro quotidiano, entrai nella stanza vicina per vedere Joseph e, dopo averlo visitato, gli chiesi se si ricordava di un'infermiera con una vecchia divisa tradizionale venuta da lui la scorsa notte. Mi guardò di traverso e mi doman­ dò perché volevo saperlo. «A essere sincero», risposi, «perché la badante della signora qui accanto giura di avere visto un'infermie­ ra-angelo entrare prima di là, poi di qua. Ero solo curioso di sape­ re se ha visto qualcuno anche lei». «Sì, dottor Lerma. È venuta una bella signora vestita da infer­ miera e ha pregato con me dopo avermi chiesto in cosa credo. Ha detto che ero nel suo libro e che mi avrebbe aiutato a prepararmi

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alla mia vita nuova ed eterna con Dio». Grazie a quell'apparizione, Joseph era riuscito a perdonare se stesso e attendeva l'occasioné per farsi perdonare anche da sua moglie e dai suoi figli per aver:li abbandonati. Disse di essersi pentito in presenza di Gesù Cristo e che gli era stato concesso del tempo extra per dire loro addio. Essendosi isolato da dieci anni, i suoi familiari non sapevano nulla della sua malattia. Gli assistenti sociali si erano dati da fare per localizzarli, ma fino ad allora non ci erano ancora riusciti. Joseph aveva ripercorso la sua vita sotto la guida dell'infer­ miera-angelo, e aveva scoperto che tutto ciò che lo preoccupava era già scritto nel libro luminoso. «Dottor Lerma, lasci che le dica cosa ho appreso da quell'angelo e da Gesù. Sa, tutto gira intorno al nostro libero arbitrio; senza di esso, il disegno perfet­ to di Dio non si sarebbe mai realizzato. Dio fu persino disposto a morire perché il libero arbitrio continuasse a esistere, perché avessimo ripetute opportunità di procedere verso la sua com­ piutezza finale: il nirvana. La vita di Gesù fu il prezzo da paga­ re per darci "settantasette volte sette" la possibilità di riparare ai nostri torti. Senza la sua morte, finiremmo per autodistrugger­ ci ed entrare in un nulla eterno. Dio lo sa, che tendiamo a devia. re dal sentiero retto e angusto. Quanto a me, era a conoscenza di tutto il dolore che provai a causa delle mie scelte; ma lasciò correre perché, alla fine, un bene più grande avrebbe surclassa­ to tutto il resto. Se ai nostri occhi ogni cosa quadra solo alla fine, agli occhi di Dio quadrava sin dall'inizio». Joseph aveva dovuto imparare le lezioni dell'alcolismo, dell'i­ solamento e della depressione, che erano servite ad aiutare anche i suoi defunti madre e padre. Infatti, i suoi genitori lo avevano abbandonato proprio come lui aveva abbandonato i suoi figli. Alla fine della conversazione con Gesù e con l'infermiera-angelo, gli era stato detto: «Tua moglie e i tuoi figli verranno a trovarti. Alcuni angeli stanno organizzando l'incontro proprio adesso. n dono dell'amore incondizionato e dell'apertura dei loro cuori al perdono si è compiuto, figlio mio». Gli assistenti sociali riuscirono a contattare i familiari di Joseph appena due giorni prima che morisse; La notizia scosse

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IlItla la famiglia che, abitando in città, arrivò subito all'hospice. (;Cl'cai di aiutarli a capire cosa stava succedendo. Dissi loro del !'Imorso che provava Joseph per averli abbandonati e che ci teneva sapessero che aveva sempre pensato a loro e li aveva flcrnpre amati. Quando entrarono in camera sua, Joseph fu tal­ Illt!nte felice di riabbracciarli che pianse come una fontana e l'Ipeté loro più volte che voleva loro un bene immenso. Andò proprio come avevano detto l'infermiera-angelo e Gesù. Joseph e Mildred furono gli unici due pazienti ad avere visto !'inrermiera-angelo. Probabilmente era la loro guida per l'aldilà, lIonché una sorta di legame tra i due. Joseph e Mildred infatti morirono lo stesso giorno. Mildred se ne andò con un sorriso, 1I101to tranquillamente. C'ero anch'io quando accadde. La sua furniglia arrivò in tempo per salutarla, dichiararle il proprio affet­ t() e apprezzarla p~r la donna gentile che era sempre stata. Anche ,Ioseph mori attorniato dai suoi familiari, colmo di un amore tale essere quasi tangibile. La comparsa dell'infermiera-angelo fu un evento straordina­ rio; ma per me le guarigioni emotive e spirituali in fin di vita ­ delle vite smisuratamente diverse - di Joseph e di Mildred furo­ no un evento ancor più importante che testimoniò gli effetti del vero amore incondizionato di Dio. NOTE DEL DOTTORE

IJ ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON MILDRED

Spesso accade che i pazienti vicini di camera abbiano le stesse visioni o vivano le stesse esperienze, e che muoiano nello stesso Illomento. Altrettanto curioso è che i parenti di pazienti deceduti IIIl'hospice, malati a loro volta, vengano ricoverati nella stessa stan­ za. Non è insolito. Per esempio, ho visto mariti e mogli finire nella stessa camera a distanza di anni. Nel momento in cui viene asse­ ~nata la stanza, non si conosce ancora la storia del paziente. S(-,condo alcune infermiere, certe camere hanno un particolare tipo di energia che attrae sempre lo stesso tipo di pazienti. Può l'ssere che a ogni stanza corrisponda un campo specifico di ener­

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gia elettromagnetica? Ad alcuni membri del nostro staff capita di frequente di sentire rumori misteriosi da certe camere, anche se all'interno non ci sono né pazienti né macchinari. Da alcune pro­ viene un respiro profondo e regolare (simile al soffio di un venti­ latore), da altre echi di risate o di versi di animali. È come se a ogni stanza fosse assegnata una particolare esperienza e vi fossero por­ tali di accesso ad altre dimensioni, nonché determinate entità spi­ rituali che assistono il malato nella rassegna della sua vita. Una volta Mildred disse: «Dottor Lerma, forse non vede nulla di quello che vedo io perché Dio opera nella mia mente. È Lui che mi mette in testa le immagini. Oppure sono davvero qui fuori?». «Probabilmente entrambe le cose. Ho sentito raccontare diver­ si tipi di visioni». «O è Dio che si manifesta nella nostra mente, oppure siamo noi a creare la nostra realtà», mi fece eco Mildred. Da scienziato, sono arrivato a credere che la nostra idea di realtà dipenda dal modo in cui Dio lavora con noi. Forse è per questo che ogni malato terminale ha una propria immagine del cielo. Il cielo è quel che abbiamo creato nella nostra mente, ed è quel che cerchiamo quando stiamo morendo. Dio lo sa, e ci viene incontro nella nostra creazione per aiutarci a passare oltre. Ouando studiavo fisica, mi chiedevo sempre se mi vedes~ sero tutti, se capissero e sentissero ~iò che sono, e se sì, perché. Una teoria era che il DNA umano ci posiziona tutti sulla stessa. frequenza di realtà. Ma quando moriamo, ossia quando muore il nostro DNA, non potrebbe darsi che il nostro, diciamo, «cana­ le di frequenza» si sintonizzi su una realtà diversa dal nostro corpo? Fosse davvero così, cioè se la nostra energia cambiasse solo forma, allora esisteremmo per sempre. Mildred non rivolse agli angeli questa domanda, ma con un sorriso ammiccante mi disse: «Ha davvero importanza? Le mie visioni so che non ven­ gono né dal diavolo né da una frequenza negativa, perché mi fanno stare benissimo e mi rendono euforica», «Più che vincere al lotto?» chiesi. «Dottor Lerma, più di tutti i margarita al mondo!» rispose Mildred, sorridendo. Le volevo troppo bene!

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Ai miei pazienti capita spesso di vedere cose negli angoli

stanza. «Sempre negli angoli», mi confermò anche Mildred. A quanto pare, gli angoli sono un punto focale da cui si entra e si esce dalla nostra dimensione. Ouando le chiesi se secondo lei qualcuna delle sue visioni derivasse dal lato oscuro () da un mondo di ombre, Mildred rispose: «Come può un'om­ hra produrre dei colori tanto nitidi e brillanti? So che le ombre non c'entrano. Le mie visioni sono talmente ricche d'amore e di pace che qualsiasi tenebra verrebbe sbaragliata». Mildred fu piuttosto lucida e si espresse con chiarezza nella maggior parte delle nostre conversazioni: sapeva il suo nome, dove si trovava, cosa succedeva al momento, ed era sempre in grado di raccontare le sue visioni e di riferire i messaggi angeli­ ci nei minimi particolari. Se all'inizio metteva in dubbio le sue esperienze, alla qne le difendeva dicendo che erano vere come il suo cancro. «Oh mio Dio, è tutto così reale!» esclamava. «Se Dio non esiste e tutti hanno queste visioni», ragionò Mildred una volta, «sarebbe come dire che a consentirci di fare simili esperienze dovrebbe essere il nostro corpo, un corpo inte­ so a darci pace al momento della morte, ma senza un perché, per caso. Sarebbe incredibile. E altrettanto incredibile sarebbe se anche l'empatia con gli esseri delle visioni avesse origini del lutto casuali, pur essendo tanto specifica. È strano che nelle mie visioni non ci sia mai stata una sola persona ancora viva. Solo i morti vengono a trovarmi. Come fa a essere tutto casuale? «Sapere che Dio è orgoglioso di me solo per avere amato Lui l' la mia famiglia fu sconcertante. Pensiamo sempre che preten­ da molto di più, quando in realtà vuole solo essere amato e che amiamo anche i nostri cari e noi stessi. Il resto viene da sé. Ho vissuto una vita felice. Non c'entra l'entità o la quantità delle cose che si fanno; prendermi cura dei miei figli è stato più che sufficiente. Gli angeli mi mostrarono che i miei figli faranno grandi cose, e questo mi dà gioia e pace». Il figlio di Mildred sarebbe diventato prima avvocato, poi giu­ dice, e avrebbe aiutato le vittime delle violenze familiari. La figlia invece avrebbe avuto molti bambini, ognuno dei quali

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avrebbe passato l'eredità dell'amore ai propri figli. «È come una corsa a staffetta», mi spiegò, «dove bisogna passare il testimone al compagno di squadra, trasferendogli i propri talenti; se un membro della squadra non ha corso come avrebbe dovuto, sta al successivo recuperare il terreno .perduto. Molte corse posso­ no ancora essere vinte fintanto che esiste una persona che può recuperare il terreno perso da tutte le altre. Per l'umanità, quel­ la persona è Gesù Cristo. Per vincere la €orsa della vita, dobbia­ mo aplare e insegnare ai nostri figli l'amore totale e il perdono, perché è tramite i nostri figli che il mondo può cambiare». Chiesi a Mildred quel che tutti vogliono sapere: «Qual è il significato della vita?». «Non posso dirlo, perché ogni anima deve scoprirlo da sé. Ma ricordo un brano della Bibbia che gli angeli mi ripetevano di continuo mentre ripercorrevo la mia vita. Forse può esserle d'aiuto a trovare la risposta». Lesse i versetti 2-5 del capitolo II del Libro dei Proverbi: Ascolta quel che insegna la sapienza, cerca di capire le lezioni dei saggi. Ricerca la conoscenza, e desidera la saggezza, come si desidera l'argento o si va in cerca di tesori. Se farai così, capirai che cosa vuol dire temere il Signore e imparerai a conoscere Dio.

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bra si trova nel nostro corpo, e sta a noi invitare Dio nel nostro cuore perché possa limitare la nostra malvagità. È uno sforzo costante e quotidiano che richiede la preghiera. «Dopo aver pro­ vato l'amore incondizionato del cielo con gli angeli, sarebbe dif­ ficile ritornare alla terra», disse Mildred.

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Mildred disse che lo scopo della vita è uguale per tutti, come sanno sia Dio sia il nostro spirito, ed è arrivare a comprendere che Dio ama, perdona e ha misericordia di tutti. Dio non cono­ sce il negativo e per noi desidera solo il positivo. Mildred aveva capito che l'inferno non esiste come ce lo immaginiamo; quella è una proiezione umana derivante dalla paura. La paura ci con­ duce dove non vorremmo andare. Non bisogna arrivare a teme~ re Dio, ma ad amarlo. Inferno è essere separati da Dio. La tene­

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8 Padre Mike

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ubito dopo avere assistito alle funzioni di mezzogiorno nella cappella dell' ospedale mi avvertirono che un prete cattolico molto amato e rispettato stava per essere trasfe­ rito al nostro hqspice. Mi sentii subito onorato che fosse stato chiesto proprio a me di occuparmi di lui, di un uomo che con grande volontà e tanto amore aveva dedicato la vita a realizzare il disegno di Dio sulla terra. (Sono cresciuto in una famiglia cat­ tolica, perciò ho un grande rispetto per la chiesa e per i preti). Padre Mike era un sacerdote in pensione di 78 anni, nonché l'ex rettore di un'università cattolica. Era una persona brillante e misericordiosa e aveva la reputazione di essere molto pratican­ te. Un anno prima gli era stato diagnosticato un cancro alla testa e al collo, seguito da una seconda diagnosi primaria di can­ cro ai polmoni. Dato lo stadio avanzato della malattia, il suo organismo non aveva risposto positivamente neppure alle tera­ pie più aggressive. Alla fine non gli era rimasto che l'hospice. Al momento del ricovero, Padre Mike era emaciato e afflitto da forti dolori. Gli mancava un occhio, mentre l'altro era affetto da una grave cataratta. Eppure, considerate le sue condizioni, era di buonumore, persino loquace, anche se la sua voce era rauca per il cancro. Sin dal nostro primissimo incontro Padre Mike volle mettere in chiaro che era suo desiderio provare il dolore nella sua forma più pura. In quanto specialista in terapia del dolore, quella fu per me sia una richiesta inammissibile sia un conflitto tremen­

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do. Lasciare che soffrisse equivaleva a violare il mio giuramen­ to di lenire il dolore in fin di vita, per non parlare del dilemma etico; fortunatamente il Self Determination Act del 1990 [atto che sancisce il diritto del paziente all'autodeterminazione tera­ peutica - N.d.R.] e il principio etiço dell'autonomia davano ai pazienti capaci di intendere e di volere il diritto di poter fare le proprie scelte sui trattamenti medici e su altre questioni di salu­ te. Dunque non mi restò che seguirlo con le mani in mano men­ tre soffriva dolori atroci. Ma dopo alcuni giorni, Padre Mike volle cambiare medico. Pensava fossi troppo empatico e che prima o poi avrei ignorato le sue disposizioni, impedendogli di soffrire come voleva. Mi chiese tuttavia di continuare a passare a trovarlo per padarmi della sua esperienza. Padre Mike comprendeva il mio vivo desiderio di aiutarlo e più in generale era rimasto impressionato da quanto ci tenessi ad alleviare la sofferenza altrui. Sapendo che all'università aveva tenuto corsi sull'importanza della sofferenza per la liber­ tà spirituale, gli chiesi se non gli dispiaceva condividere il suo punto di vista con me. Ne fu deliziato, e allora cominciarono le mie due settimane di quel che potrei definire «un corso univer­ sitario sugli effetti positivi del dolore a cura di un rinomato teo­ logo». Ritengo tuttora che aver potuto cogliere l'occasione di far parte della sua ultima «classe terrena» sia stato un vero onore. Ridendo, mi disse di prendere appunti, perché ci sarebbe stato un test dall'oggi al domani. Padre Mike iniziò con l'istruirmi sui credo dell'Opus Dei riguardo al dolore fisico e non. Anche lui era convinto che gli atti di sofferenza volontari aiutassero molte anime in tutto il mondo, inclusi i nostri pazienti dell'hospice. Disse che avrebbè sofferto per me. Awertii un grande amore in quella sua offerta, ma replicai che non volevo aggiungermi al suo carico di dolore. Per tutta risposta, Padre Mike insistette che dovevo avere fidu­ cia nel processo spirituale. A quel punto, la sua prognosi era fra i cinque e i dieci giorni di vita e lui vedeva già gli angeli e altri sacerdoti deceduti. Ammise che gli erano di grande conforto. Essendo più interessato alle visioni angeliche che alla sofferen­

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za secondo l'Opus Dei, iniziai a fargli domande sulle apparizio­ ni: che aspetto avevano, chi altro c'era e qual era il loro scopo. Rispose che erano presenti anche molti arcangeli; erano accor­ si a proteggerlo mentre negoziava per assumersi il dolore fisico cd emotivo. Ancora quella parola: negoziare. «Quando si prova un dolore profondo, si diventa vulnerabili alle tenebre. Gli angeli mi proteggono, consentendomi di non abbandonare il mio scopo, ossia fare dono della mia sofferenza al mondo senza chiedere nulla in cambio». Gli angeli lo sostene­ vano, continuò Padre Mike, e discorrere con loro era edificante. A volte, per infondergli coraggio, gli rivelavano gli effetti positi­ vi della sua sofferenza sull'umanità. Era questo che gli dava la forza di continuare. Gli domandai se il suo dolore fosse insop­ portabile. Mi rispose con un sonoro: «Sì che lo è! Ma che ci creda o no, non provo altro che gioia e ammirazione per Dio. La sa una cosa? Credo proprio che il mio dolore sia stato converti­ to in gioia. Dio non è forse il migliore?!». «Certamente, Padre Mike. Dio è il migliore», acconsentii. Gli parlai del nostro caro Matthew, che tempo addietro aveva detto le sue stesse cose. «Probabilmente quel bambino era un'a­ nima dallo spirito molto temprato», commentò Padre Mike. «I hambini malati terminali che accettano di soffrire fanno del gran hene». Disse anche che i bambini non devono necessariamente stare male per vedere gli angeli. Questo perché il loro legame con i I regno degli angeli è più stretto di quello degli adulti. A un certo punto notai che dava segno di provare un intenso dolore fisico, ma neanche allora riuscii a smuoverlo dalla sua decisione. Mi ribadì che la sua sofferenza era consacrata a Dio, l' che Dio la convertiva in gioia e amore, i due ingredienti chia­ ve per fare i miracoli. «Padre Mike, dice sempre che deve sentire lutto il suo dolore per aiutare il mondo. Be', scusi, ma se poi Dio glielo porta via, a che serve?». «TI dolore non è solo dolore fisico. La vera sofferenza è il dolore spirituale. A ben vedere, però, non è neanche sofferenza. Soffrire da un punto di vista spirituale equivale in realtà a gioi­ re. TI modo più facile per spiegarglielo, dottor Lerma, è tramite 105


un'analogia con la scienza e la fisica. Se vogliamo, l'energia grezza si distingue in vera gioia o vero dolore spirituale a secon­ da della sua carica elettrica pura: il dolore ha carica negativa e la gioia, positiva. Per fugare il dolore si può scegliere o di utilizzare gli apposi­ ti farmaci, che lo mascherano, oppure di invertire la carica della molecola. In sostanza, si bombarda la particella con cariche opposte fino a ottenere la sua controparte o antimateria. Ma sic­ come è un processo troppo complicato per l'uomo, non si può fare altro che dare via libera ai propri dolori e affanni, e lascia­ re che Dio faccia il resto. È sempre e comunque una questione di libero arbitrio. Dio ci ama lo stesso, a prescindere da che decisione prendiamo. Insomma: si può capire cos'è la gioia solo se si prova il dolore. Ed entrambi i sentimenti ci portano a Dio». Davanti a quella spiegazione scientifica rimasi senza parole. In fondo, aveva un certo senso. Volendo saperne di più sulle entità che chiamava angeli, gli chiesi di descrivermi cosa facevano, cosa dicevano e così via. «Buona idea», concordò Padre Mike. «Parliamo di queste belle creature di Dio e dei loro poteri. Per quanto riguarda il loro aspetto, be', cambia. Vede, gli angeli possono apparire diversi da un momento all'altro, in primo luogo per luci e colori. Mi sem­ bra di aver capito che a determinare i loro cambiamenti siano le emozioni delle persone in loro presenza. Per esempio, quando stavo passando un brutto momento per la mia malattia, la loro luce si affievolì. Ma riuscirono subito a tirarmi su di morale irradiando amore verso il mio cuore. Pochi minuti ed ero di nuovo sereno, così come la loro luce era tornata a splendere. Da allora sono quasi sempre pieno di gioia e di entusiasmo, fiducio­ so di poter fare qualcosa di buono per il mondo intero prima di morire». Eppure, qualsiasi cosa dicesse, per me era ancora dif­ ficile starlo a guardare mentre soffriva. «Dottor Lerma, quando irradiano amore al massimo, gli angeli sono di un bianco molto luminoso». Pensai che ciò fosse conforme alla scienza dell'energia dei fotoni, dove le energie più elevate emanano più luce. «Il loro 106

spettro luminoso va dall'oro al giallo, dal blu al verde, dal rosa al viola», continuò Padre Mike. «I colori che ne fanno parte sono molto più brillanti e radiosi di quelli dello spettro terrestre. La luce fluttua tutto intorno a noi con varie intensità. Dottor Lerma, proprio adesso la sua aura è color oro ed emana pace e amore». E lì mi colse davvero alla sprovvista; infatti, è piuttosto insolito sentire un prete cattolico parlare di aura. Quando ci eravamo conosciuti, disse che mi ero sintonizzato sul suo dolore e che la mia aura era diventata opaca perché avevo permesso al suo cancro di controllarmi. Mi insegnò che nel tratta­ re il dolore devo intendere la malattia e la sofferenza (a tutti i livel­ li: fisico, spirituale, sociale ed emotivo) come necessarie affinché il malato terminale apprenda le sue lezioni. Il suo male lo aiuta ad avvicinarsi a Dio e a capire l'interconnessionè fra tutte le cose di questo mondo., «Dottor Lerma, Dio ha fatto sì che lei avesse una passione per la terapia del dolore, e vuole non solo che lei continui a lenire ogni tipo di sofferenza, ma anche che spieghi questa forma di medicina ai suoi colleghi. I medici hanno tanto bisogno di imparare a curare la mente, il corpo e lo spirito del malato e ad avere parole affettuose e comprensive per la sua famiglia, in modo tale da permettere al malato un trapasso sereno e alla famiglia di accettare prima la perdita. Dottor Lerma, questo tipo di medicina contribuirà a dare pace al mondo». «Padre Mike, gli angeli le parlarono di reincarnazione?» gli domandai. «No, ma con Dio tutto è possibile. Gli angeli parlano sempre dell'importanza di questa vita rispetto alla nostra eterna soprav­ vivenza con Dio. Quanto a me, ho un gran bisogno di finire la mia missione, quella di vivere la vita che ho predicato e ho inse­ gnato finora. Se la ragione principale per reinearnarsi è finire di apprendere le proprie lezioni e fare ammenda, credo proprio che il nostro Dio di amore ci consenta di farlo nell' altro mondo. Per noi cattolici quel posto è il purgatorio. Per altri è !'inferno». «Padre Mike, che mi dice dell'inferno? È la risposta di Dio a chi si è rifiutato di imparare le proprie lezioni o a chi ha commesso peccati imperdonabili?». 107


«Di questo invece ne hanno parlato. Gli angeli mi hanno con­ fermato l'esistenza di un lato oscuro, ma diverso da come se lo immagina l'uomo. L'inferno è la separazione volontaria dell'ani­ ma dalla luce di Dio. Dio non abbandona mai la sua creazione. Ce lo dice anche il Libro dei Salmi, nel capitolo 139, versetti 7-8:

«Bella domanda. In gran parte ho già risposto. Ci pensi su un e mi dica cosa ha capito di quel che le ho appena detto sulla sofferenza». Gli chiesi se poteva essere più preciso. «Sia nel particolare, sia in generale, saranno la pace, l'amore e la tecnologia (ossia la I.ecnologia integrata con la spiritualità) ad aiutarci ad affronta­ Dove potrei andare lontano dal tuo spirito?

n: i nostri problemi di guerre, carestie e malattie. Quando Dio ci Dove potrei fuggire lontano dalla tua presenza?

donò la tecnologia, noi abbandonammo la nostra spiritualità. E Se salgo in cielo, tu sei là;

scissa dalla spiritualità, la tecnologia ci portò al peggio. Adesso Se scendo agli inferi, tu seilà.

siamo in preda al caos, dal momento che abbiamo agito con leg­ v;erezza. Ma questi sono solo i risultati del breve periodo; nel «Avendo a disposizione un'eternità, Dio opera affinché l'anima lungo periodo tutto cambierà. Sono in arrivo alcuni individui il carica di sensi di colpa impari prima a perdonarsi, poi ad amarsi. cui unico compito sarà assumersi il peso delle tenebre scatena­ Non appena ci riesce, l'anima sceglie di muoversi verso la luce di le dai nostri leader politici, dai nostri eserciti o da chiunque Dio, ossia il cielo. Dio è puro amore! Noi no! Siamo noi a creare il altro abbia abusato della tecnologia e della scienza. Portando a nostro inferno, non Dio. Al contrario, Dio crea la nostra via d'usci­ termine il loro' incarico, agiranno sul peccato generazionale. ta dall'inferno. Gli angeli mi dissero che l'umanità non è destinata Alla fine moriranno. Accetto di soffrire per aiutare i loro spiriti ad andare all'inferno. Vi si trova già chi di noi ha voluto separarsi a riequilibrarsi». da Dio. Dobbiamo cercare di uscime. Dio e gli angeli erano preoc­ Gli chiesi come awiene tutto ciò. «Circondiamo quegli spiri­ cupati perché oggi ci vedono esposti più spesso ai peccati che alla li di amore, in modo da compensare l'amore che loro riversano bontà altrui, e questo favorisce la nostra tendenza al peccato. Ad sugli altri», spiegò Padre Mike. «Proprio perché queste persone esempio, le notizie negative dei telegiornali locali e internazionali scelgono gioiosamente e spontaneamente di soffrire per gli altri, influiscono in modo oscuro sulle nostre anime, ci metteno nella il nostro mondo non viene distrutto. Siamo sempre sul punto di posizione di sviluppare paura dell'altro e di sputare sentenze senza cadere, ma quei pochi riescono lo stesso a mantenere in cresci­ prima valutare le prove a suo carico o metterci nei suoi panni. La il livello dell'umanità». Mi fece l'esempio della Crisi dei Tutto questo aggrava la negatività nelle nostre anime e ferisce pro­ Missili di Cuba scampata per un pelo. Disse che c'erano state fondamente Dio. Gli angeli con cui ho parlato si occupavano di moltissime preghiere, e che grazie a quelle preghiere lo spirito vari progetti volti a stimolare l'ottimismo nel mondo; fra tutti, dell'umanità si era svegliato appena in tempo per impedire la quello di accrescere il numero degli addetti timorati di Dio nei pro­ devastazione. Gli atti di bontà spassionati possono dawero grammi di intrattenimento e nei telegiornali ». scongiurare le guerre, e un unico atto di amoJ;'e incondizionato Ero talmente affascinato dalle informazioni che mi stava può cambiare il mondo intero. dando da non sapere più che altro chiedere. Allora decise lui: «Dio ci dona la tecnologia, ed essa progredisce velocemente, «Parliamo della pace». soprattutto di recente». Domandai il perché della scelta di Dio e «Ottimo argomento», replicai. «Come può Dio continuare a Padre Mike rispose: «Perché la nostra vita sia più felice e pre­ manifestarsi in un 'era in cui carestie, disastri e malattie sembra­ senti sempre meno ostacoli». no proliferare senza freni?». «Cosa ci insegna tutto ciò?». 108 109 l !'Iomento


«Ad amarci l'un l'altro e che siamo connessi gli uni agli altri.

Una volta appresa questa lezione, potremo spronarci a vicenda

fino ad arrivare all'estremo livello di amore, dove tutto diventa

possibile. La tecnologia senza spiritualità può veramente

distruggerci. Anzi, per dirla tutta, è già accaduto in passato». Mi

addusse l'esempio dell'Impero Romano. Cristo era venuto sulla

terra per impedire l'annientamento totale dell'anima umana.

Eravamo stati perdonati e salvati solo perché Lui aveva scelto di

soffrire e di morire per noi. La venuta di Gesù a quel tempo era

stata cruciale. Come avevano detto gli angeli, proprio allora era­ vamo incerti se scegliere di andare avanti o ricominciare tutto da capo. Quando citai Atlantide, Padre Mike commentò: «Non fu l'u­ nica volta in cui tutto andò perduto e dovemmo ripartire da zero. Ma nel caso dell'Impero Romano, un solo uomo cambiò le sorti del mondo intero». «Come possiamo evitare future autodistruzioni?». «Seguendo l'esempio di Cristo: con la preghiera, la conoscenza, il sacrificio di se stessi e con l'amore e la gioia collettivi». Nei giorni seguenti Padre Mike si indebolì e fece sempre più fatica a parlare. In cuor suo pensava di avermi rivelato tutto quel che mi occorreva sapere sul dolore e sulla sofferenza, e su altri fattori importanti. Constatò che ero nel posto giusto a fare ciò di cui avevo bisogno. n mio sacrificio e la mia gioia sarebbe­ ro stati vegliare sulla morte di migliaia di persone e rendermi utile per farle passare all'altra vita con serenità. Tre giorni prima di morire andò in coma, senza che gli fosse mai stato somministrato un solo farmaco per il dolore. Aveva l'affanno, ma tutt'intorno a lui c'erano pace e uno strano baglio­ re. La sua frequenza cardiaca era più di centotrenta, cioè stava molto male; eppure era sempre tranquillo e il suo viso illumina­ to da un largo sorriso. n giorno in cui morì ero nella mia clinica dall'altro lato della strada. n cielo si fece buio, e quando guardai fuori dalla finestra vidi una nube scura sopra l'ospedale, proprio dove si trovava Padre Mike. A un certo punto iniziò la tempesta, da principio

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con venti impetuosi, poi grandine, infine pioggia. Al culmine del nubifragio mi squillò il cercapersone: Padre Mike era morto e c'era bisogno che andassi là immediatamente. Attraversai la strada di corsa, con vento e pioggia che mi infradiciarono dalla testa ai piedi. Quando arrivai all'hospice vidi le luci dei piani che si accendevano e si spegnevano, e nono­ stante il gran caos avvertii uno strano senso di pace. Lì ad aspet­ tarmi trovai molte infermiere e la mia segretaria. Mi avevano chiamato d'urgenza per assistere a un evento anomalo. C~m l'ac­ cendersi e lo spegnersi delle luci, piccole piume scendevano dal soffitto e si libravano nell'aria come fiocchi di neve. Una cadde sulla mano di un'infermiera e poi sparì. Anche le altre: non appena si posavano al suolo o altrove, sparivano. Sul pannello di controllo, la spia del campanello di Padre Mike iniziò ad accendersi e a spegnersi come le luci nel corridoio. La sua porta, che era stata chiusa dopo la sua morte, era di nuovo aperta. Di lì a poco, la segretaria e un'infermiera videro un bagliore spri­ gionarsi dalla stanza nel corridoio. Pensarono che fosse tornata la luce, ma quando andammo a verificare, constatammo che quel bagliore veniva irradiato dal corpo di Padre Mike, o dal suo letto. Dal bagliore si generò una piccola sfera luminosa, che flut­ tuò fuori dal corpo e fece tre giri intorno alletto prima di sfrec­ ciare fuori passando dalla finestra chiusa. Meno di un minuto dopo tornò la luce, smise di piovere e tutte le piume scomparve­ ro. Avevamo tutti una gran pelle d'oca. Erano circa le quattro quando varcai la soglia della stanza per dichiarare l'ora del decesso. Padre Mike aveva ancora il suo sorriso misterioso, i palmi delle mani aperti e l'occhio con la cataratta apparentemente limpido. Sembrava tanto sereno, quasi felice. Alcuni di noi avevano sempre messo in dubbio la sua scelta di soffrire, ma quell'esperienza alla fine ci insegnò a rispettare i desideri dei nostri pazienti. Tutti i presenti vissero quell'evento miracoloso. Le luci a intermittenza potevano anche essere dovu­ te al temporale; ma la pioggia di piume rimaneva inspiegabile. I sacerdoti e le suore vennero a rendere omaggio alla salma di

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Padre Mike nel tardo pomeriggio. Il nuovo rettore disse che durante la tempesta era successo qualcosa di simile anche all'u­ niversità. Le luci si erano accese e spente e dopo il temporale erano state trovate delle piume a terra negli uffici e nei corridoi. Quasi tutti, conoscendo la spiritualità e lo smisurato amore per Dio di Padre Mike, avevano awertito la sua morte. Il rettore ci confidò che Padre Mike aveva raccolto piume per tutta la vita. Ogni volta che ne trovava una, diceva sempre che era la piuma un angelo. Ne aveva una gran bottiglia piena nel suo studio. Dopo lo straordinario evento nei loro uffici, il rettore era andato a controllare in quello di Padre Mike, e aveva visto che dalla bot­ tiglia erano sparite tutte le piume. Padre Mike aveva sempre detto che non appena la sua missione fosse stata compiuta avrebbe dato loro un segno. Cosa c'era di meglio di una pioggia =~-~= di piume d'angelo?

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NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON PADRE MIKE

Una delle mie conversazioni più interessanti con Padre Mike riguardò t'era della saggezza. Secondo Padre Mike, la saggezza era la chiave per la sopravvivenza umana, da intendersi appunto come sopravvivenza dei più saggi, e non dei più forti. Disse che ormai eravamo arrivati ad avere la tecnologia e le abilità necessa­ a risolvere tutti i nostri problemi sociali, ma anche che «imporre i nostri credo agli altri risveglia il nostro lato oscuro. Ed è proprio questa parte della nostra anima a essere sensibile alla paura, alla collera e al risentimento, e che, una volta desta, non si ritrae facilmente». Per creare la pace nel mondo dobbiamo superare l'intolleran­ za razziale. Padre Mike si dichiarò d'accordo con Einstein, che paragonava il nazionalismo a una malattia infantile, al morbil­ lo dell'umanità. Luomo inteso come «razza umana» è a rischio di estinzione perché sono sempre i più forti dal punto di vista fisico e finanziario a imporre il loro volere agli altri. Ma anche un singolo uomo dalle idee imperanti e con un ampio potere

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persuasivo può indurre un piccolo o un grande gruppo a trasci­ nare la società verso il meglio o il peggio, come fecero rispetti­ vamente Gandhi e Hitler. «Questa fase dell'umanità finirà quan­ do decideremo di reindirizzare collettivamente la nostra energia e i nostri ego verso la soluzione di problemi quali le carestie, le malattie e il surriscaldamento globale. La tecnologia e la cono­ scenza sono accessibili. Dobbiamo solo deciderci. Allora avrà inizio l'era della saggezza, e l'amore e la pace ci assicureranno la vita eterna accanto a Dio». Quando quest'idea avrà preso piede, disse Padre Mike, potre­ mo cambiare tutti come un sol uomo grazie al nostro «sé ima­ ginale». Owero: «Come la larva possiede delle cellule quiescen­ li chiamate dischi imaginali, così l'uomo possiede un analogo "sé imaginale". Una volta attivata, tale cellula subisce una meta­ morfosi che produce un cambiamento di mente, corpo e spirito nell'uomo, allo ~tesso modo in cui i dischi imaginali permetto­ 110 alla larva di trasformarsi in farfalla. E come la monarca vola libera in cielo, così anche noi saremo liberi di vivere e diventa­ re un tutt'uno con l'universo. A quel punto, saremo cocreatori con Cristo, che da sempre alberga in ciascuno di noi ed è il nostro "sé imaginale"». La trovai un'analogia estremamente j nteressante. Non sarebbe incredibile se anche nei nostri corpi d fossero delle cellule quiescenti che, una volta stimolate, indu­ <.:essero un cambiamento? E se lo stimolo necessario fosse la Parola di Dio? La saggezza collettiva ci farà capire chi siamo e il perché nostre azioni; grazie ad essa potremo maturare la consape­ volezza che la pace è l'unico modo che abbiamo di evitare l'e­ stinzione e di assicurarci un futuro. Abbiamo già raggiunto vari punti cruciali nella nostra esistenza. Quando una cometa urtò Giove nel 1994, uno qualsiasi dei suoi frammenti avrebbe anche potuto distruggere il nostro mondo. Da allora gli scienziati ini­ l.iarono ad osservare le comete e gli asteroidi diretti verso il 1I0strO pianeta. In particolare, sta destando un certo allarme un f,!:rosso asteroide che secondo alcuni calcoli sarebbe in rotta di l'Ollisione con la terra. Ma, visto che prima dell'eventuale impat­

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to dovranno passare ancora centinaia di anni, abbiamo tempo più che a sufficienza per capire come deviarlo. No, le bombe nucleari non lo distruggerebbero; riuscirebbero solo a disper­ derne grossi frammenti. La tecnologia e il pensiero progrediran­ no verso la soluzione del problema solo se raggiungeremo lo scopo entro il tempo a nostra disposizione. Tutto sommato, sarebbe meglio ascoltare il consiglio di Padre Mike: coltivare la tecnologia di pari passo con la nostra spiritualità. Padre Mike stimolò in me questo flusso di coscien~ za e attivò le informazioni grazie alle quali sono cambiato per sempre.

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9 Il cielo nella Stanza 212

ro seduto sul bordo del letto di Joanna il suo primo gior~ no di ricovero all'hospice. A soli 28 anni aveva un cancro al seno in stadio avanzato. Alla mia domanda su cosa la inquietasse si mise a ridere, poi mi chiese a sua volta: «Oltre a . ? . monre.>l. «Sì, oltre a morire», la incoraggiai con un sorriso. «C'è qual­ cosa che posso fare per lei?». Emise un profondo sospiro e tutto a un tratto i suoi occhi ridenti si fecero molto tristi. «Ho tre bambini e in pratica nes­ sun familiare cui lasciar1i: Elizabeth di 6 anni, Camille di 8 e Daniel di lO. Ho solo una cugina, Robin, che però ha appena 18 anni e ha già perduto entrambi i genitori, uccisi durante la guer­ ra in Somalia. Probabilmente sarà lei a doversi prendere cura dei miei figli, e so che non è la cosa migliore. Ma ho forse altra scelta?». Robin era sposata, aveva anche lei un bambino e vive­ va al di sotto della soglia di povertà. Chiesi a Joanna se sapeva come rintracciare il padre dei suoi figli. «Ho avuto due uomini, il padre dei primi due bambini e il padre della terza. Sono stata sposata con il primo, ho convissu­ to con il secondo». Le chiesi che tipi erano, e se era possibile che uno dei due volesse assumere il ruolo paterno. «È difficile dirlo, dottor Lerma. Nessuno dei due ha mai fatto davvero parte della vita dei bambini. Ricordo solo che il mio ex marito era molto premuroso, ma immaturo, e che l'altro all'epoca si lasciò coin­ volgere in un traffico di droga. Sono secoli che ho perso i con­

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tatti con entrambi. Ma se potessi scegliere, vorrei tanto che fosse il mio ex marito a occuparsi di tutti e tre i bambini. Non voglio che vengano separati. Dottor Lerma, lo sa cosa può fare per me? Può pregare con me e chiedere a Dio di trovare una casa sicura e piena di affetto per i miei piccoli». Tenendoci per mano, recitammo insieme il PadÌ'e Nostro. Dopo aver detto la preghiera con tutto il cuore, le promisi che mi sarei dato da fare con i nostri assistenti sociali per rintracciare il suo ex marito. «Dio vi guiderà da lui, ne sono certa. Grazie, dottor Lerma». Passai tutti i dati al nostro staff, che iniziò subito le ricerche. Quando la terapia del dolore fece effetto, Joanna pian piano si rilassò ed ebbe un po' di pace. Ma a una settimana dall'inizio della nostra ricerca, nonostante continuassimo a rassicurarla __ _ che avremmo trovato qualcuno cui affidare i suoi figli, iniziò a:.,. perdere la speranza ed entrò in uno stato depressivo. Come suc­ cede alla maggior parte dei pazienti in una situazione del gene-' re, la depressione alimentava i suoi sensi di colpa, che a loro " volta aumentavano il suo malessere esistenziale ed emotivo. A quel punto non c'era dose di oppiaceo che potesse alleviare il t~ suo dolore, perché in gran parte era un dolore di natura spirituale. I nos.tri cappellani e pastori non cessavano mai di confor­ •,. tarla con la promessa del perdono e dell'amore di Dio, ma era .. tutto inutile. Joanna era convinta che la sua situazione fosse la ~,ì conseguenza dei peccati che aveva commesso in passato. Credeva nel perdono, ma per una strana ironia non riusciva a perdonare né Dio, né suo padre, né se stessa. Le chiesi cosa poteva essere capitato di tanto orribile da aver causato tutta quella collera. «Non riesco a perdonarmi perché non riesco a dimenticare né a perdonare gli uomini che ho amato con tutta me stessa», fu la risposta. «Com'è possibile, Joanna?» domandai, sentendomi pervadere dal suo conflitto interiore. «Come può non perdonare chi ha tanto amato?». «Succede quando si tratta di un amore mai messo in dubbio, come quello per mio padre e per Dio», rispose con le guance rigate dalle lacrime. 116

Seduto sul bordo del letto, le presi la mano per tranquilliz­ zarla. «Cos'hanno fatto per farla stare tanto male?». «Dottor Lerma, mio padre mi volle sempre un gran bene e mi Insegnò che Dio ci avrebbe sempre amati e protetti. Ricordo papà giocare insieme a me con le bambole, portarmi a scuola, cucinare per me e per le mie amiche quando le invitavo a fare i pigiama party». «E sua madre? Ha dei fratelli o delle sorelle?». La madre di Joanna era morta di cancro al seno dopo averla data alla luce. Il tumore maligno le era stato diagnosticato al terzo trimestre di gravidanza, ma la donna aveva deciso libera­ mente di rifiutare qualsiasi terapia potenzialmente pericolosa per la bambina, almeno fino al parto. «Papà diceva che mamma cra bella e timorata di Dio, e che aiutava i poveri e i bisognosi. Non era insolito che ospitassero a casa donne senzatetto. Mamma offriva loro da mangiare e un posto in cui vivere senza chiedere nulla in cambio, se non provare ad ascoltare la Parola di Dio e a migliorare le loro vite. Si era anche data molto da fare per fondare un rifugio per le senzatetto, un posto che fino ad oggi ha aiutato migliaia di loro ad awicinarsi a Dio e a ricevere un'istruzione. «Mi sarebbe piaciuto conoscerla. Ma morì quando avevo solo un anno, e dato che ero figlia unica, insieme a lei persi anche l'opportunità di avere fratelli o sorelle. Papà si adoperò in ogni modo per colmare il suo vuoto, e alla fine, per come la vedo io, fece un buon lavoro, riuscì a essere entrambi i genitori, anche se non mi permise mai di dimenticare che lui era solo un padre, e che mamma ci aiutava dal mondo degli spiriti. Diventammo p:randi amici, io e mio padre. Mi insegnò a leggere e a scrivere, andare in bicicletta, a pattinare sui rollerblade, a cambiare le gomme a terra e persino a pregare. Sì, papà e io eravamo catto­ Iid praticanti e facevamo anche parte del coro. Fu un gran divertimento. Ero la bambina più fortunata del vicinato. «Quando chiedevo di mamma, papà ne parlava sempre henissimo. Non è mai stato in collera con Dio per avergliela por­ fata via così presto. lo ero il riflesso di mio padre; come lui, ero 117


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sempre pronta a perdonare e ad amare. Da adolescente divenni più consapevole del nostro legame e sentii crescere in me la paura di perdere anche lui (un'insicurezza in parte dovuta, credo, a quel periodo di sbalzi onnonali). Spesso gli chiedevo piangendo se Dio sarebbe venuto. a prenderlo quando ero anca· ra una ragazzina. Papà mi fece una promessa: che Dio l'avrebbe portato via solo dopo che, da adulta, mi fossi sposata e fossi diventata a mia volta genitore. Riusciva sempre a tranquillizzar.­ mi e a fanni tornare al settimo cielo. «Quando compii 16 anni, mio padre organizzò una grande funzione in chiesa in onore del mio passaggio da adolescente a !!li donna. Entrambi eravamo grati a Dio per tutti gli anni meravi.­ " gliosi e i doni del cielo che ci aveva concesso fino ad allora.~ . Dopo la funzione decidemmo di tornare a casa a piedi, tanto ~""J"" erano solo sei isolati di distanza. E poi era un bella serata autun· . naIe, con le case tutte decorate per Halloween. Scendendo i gra. dini della chiesa, udimmo avvicinarsi le sirene della polizia c iL presto scorgemmo molte volanti all'inseguimento di un pick-up. Mentre ci sorpassavano a tutta velocità, udii una sparatoria. , Con il cuore in gola ci buttammo subito a terra. Quando tutto '''' finì, rimasero solo odore di gas di scarico, fumo e una larga ' pozza di sangue intorno alla testa di papà. Gli avevano sparatol «Urlai talmente forte che la gente ancora in chiesa, che nOD__ ~ aveva sentito né le sirene né gli spari, si precipitò subito fuori. .. Tenevo stretto mio padre, incurante del sangue che mi inzacche­ rava i vestiti; i paramedici dovettero quasi strappannelo a forza. Ero sconvolta. Lo portarono all'ospedale, dove un neurochirur­ go era già pronto a operarlo. Ma dopo sei ore di intervento, il dottore non poté fare altro che dinni con aria mesta che mio padre aveva lottato fino alla fine. Fu dichiarato morto alle undi­ ci e trenta di notte. La ferita d'anna da fuoco aveva provocato un trauma cerebrale. Anche se fosse sopravvissuto, sarebbe rimasto in uno stato vegetativo. Ricordo di aver pensato proprio allora che quello era stato il migliore e il peggiore giorno della mia vita. "Com'è potuto accadere un incidente tanto insensato?" continuavo a chiedenni.

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«Mi sentii pervadere da una rabbia cieca verso mio padre, colpevole di avenni lasciato, e verso Dio, altrettanto colpevole di nvennelo portato via, soprattutto dopo la promessa che mi era slata fatta. Ce l'avevo a morte con Dio perché non si era accon­ tentato di prendersi mia madre e i miei fratelli e sorelle mai nati; no, aveva dovuto prendersi anche mio padre e tutti i nostri sogni di una vita insieme. Dove sarei finita? Chi si sarebbe occu­ pato di me? Chi mi avrebbe voluto bene come lui? E se poi unche quella persona avesse fatto la stessa fine? «Allora decisi che non avrei consentito mai più a nessuno di fare breccia nel mio cuore, né a me stessa di cercare dell'affetto. Mi sembrava fosse l'unico modo di sopravvivere a questa vita, di preservare me stessa e gli altri dal dolore. A volte pensavo che Dio mi punisse, anzi, spesso e volentieri che in realtà non esi­ slesse nessun Dio di amore. Non riuscivo a pensare ad altro se non che eravamò tutti soli e che ciascuno doveva provvedere a se stesso». Ascoltando il suo sentito racconto avrei tanto voluto I rovare le parole giuste per salvarla, per rimuovere tutto il suo dolore emotivo e spirituale. Ma ci sarebbe voluto un miracolo. La verità era che non c'erano né parole né medicinali per miglio­ rare la situazione. C'erano solo il mio amore e la mia empatia. Continuai ad ascoltarla e ad accarezzarla sulla fronte. «Andai a vivere con la famiglia di Robin e continuai la scuola. Dopo aver preso il diploma delle superiori, mi innamorai alla fol­ lia di un ragazzo che andava all'università. Si chiamava Daniel e, oltre ad amare Dio, sembrava avere alcuni aspetti in comune con mio padre. Pensai che fosse un miracolo. Andammo a vivere insieme e di lì a meno di un anno rimasi incinta. Ci sposammo senza esitare ... solo per divorziare tre anni e due figli dopo. Sin dall'inizio però, la perdita dei miei genitori, che l)1i aveva lasciato IIna grande amarezza e un'altrettanto grande paura di amare, aveva influito moltissimo sul mio amore per lui. Senza rendenne­ ne conto, avevo sciupato il nostro rapporto per rispanniarmi il dolore di un'altra perdita. TI che si era rivelato un'arma a doppio laglio; ero io la peggiore nemica di me stessa. In seguito sprofon­ dai nella depressione, arrivando a meditare il suicidio. Non rea­ 119


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lizzai il mio proposito solo perché avevo due splendidi bambini che dipendevano da me. Ma fu una continua lotta interiore. «Senza soldi, senza una casa, mi prostituii a un uomo dispo­ sto a mantenere me e i miei figli in cambio dei miei favori. Ma J anche quella relazione finì sei mesi dopo, e mi ritrovai ad j affrontare il mondo con i miei due splendidi bambini, più una terza in arrivo. Quella volta non fui io a rovinare il rapporto; fu colpa dell'eroina. Il padre della mia terzogenita fu arrestato per spaccio e condannato a venti anni di carcere. A quanto pare, la giustizia e il nostro sistema penale agirono più in fretta di Dio. Comunque fosse, ero di nuovo sola. «Tornai a stare con mia cugina e decisi che avrei preso un diploma da infenniera per badare alla mia famiglia. Mi iscrissi. all'università sei mesi ~opo aver partorito Elizabeth. Destreggiandomi fra le lezioni, i miei tre figli e un lavoro (part time all'università, mi accorsi che dimagrivo e diventavo sempre più debole. Imputai tutto allo stress fra studio, casa e lavoro. Ma i sintomi peggioravano e una mattina svenni in classe. Fui por, tata di corsa all'ospedale, dove mi ricoverarono per grave disidratazione e inspiegabile perdita di peso. Dopo cinque giorni fra esami del sangue, radiografie, TAC e MRI, fu evidenziata una grande massa nel seno sinistro. Mi fecero un prelievo per la: biopsia e di lì a due giorni mi dissero che avevo un cancro al lt seno molto aggressivo e che era già in corso una metastasi alla colonna vertebrale, alla gabbia toracica, al bacino, al fegato e al cervello. Mia cugina, che nel frattempo aveva badato ai miei figli, fu visibilmente spaventata alla prospettiva di perdenni e di dover badare a loro tre, oltre che al suo bambino. Mi sentii schiacciata, distrutta, trafitta dal dolore. Chi si sarebbe preso cura di Elizabeth, Camille e Daniel? Erano la mia vita, e io la loro. «A quel punto pesavo 40 chili dopo averne persi altri 45, per un'altezza di un metro e settanta. Iniziai la chemioterapia e la radioterapia, ma dovetti sospenderle perché mi danneggiavano ancor più i reni e il fegato. Mi misero in dialisi, ma i miei orga­ ni continuavano a non funzionare. Allora l'oncologo mi consi­

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gliò di non sottoponni a ulteriori terapie invasive, perché onnai erano inutili e anzi avrebbero solo affrettato la mia morte. Mi rimanevano solo le cure palliative e l'hospice». Quando aveva deciso di ascoltare il consiglio dell'oncologo, interrompendo anche la dialisi, la sua prognosi andava da una a due settimane di vita. Singhiozzando, disse che Dio stava solo portando a tennine la sua morbosa vendetta contro di lei e i suoi figli. «Dio vuole prendersi anche le uniche tre cose che adoro in questo mondo doloroso e crudele: i miei bambini. Non mi arrenderò fino a quando non saprò che saranno al sicuro in una casa piena di affetto». Ventiquattr'ore da che aveva optato per l'hospice, Joanna era già stata ricoverata da noi e i sintomi della sua malattia tenni­ nale trattati con efficacia. Alla fine della sua storia commoven­ te, sentii che dov~vo fare di tutto per aiutarla a ritrovare la pace, la fiducia e l'amore incondizionato che un tempo nutriva per Dio e per il mondo. Una volta posto sotto controllo il dolore, Joanna aveva riacquistato un minimo di lucidità ed era stata in grado di dare allo staff dell'hospice tutte le infonnazioni che poteva per rintracciare il suo ex marito. Poi, essendo rimasta cinque giorni senza dialisi e non avendo avuto più emissione di urina, Joanna peggiorò rapidamente. Era molto più esile, più debole, più depressa e aveva l'affanno a causa di un edema pol­ monare in espansione. A quel punto avevamo scoperto che il padre della terzogeni­ la era ancora in prigione, e che sarebbero passati ancora parec­ chi anni prima che lo rimettessero in libertà. Quanto a Daniel, si era risposato e trasferito in un altro stato, ma non riuscivamo a trovare il suo indirizzo. Non rivelammo subito le novità e le relative difficoltà a Joanna per paura che aumentassero il suo ùolore interpersonale, emotivo e spirituale. Come molti pazien­ I i con una prognosi fra cinque e tre giorni di vita, anche lei ini­ ziò a parlare di visioni dei suoi defunti genitori e di altri esseri spirituali. Sapevo per esperienza che significava che la sua morte era molto vicina. Nel dubbio che le sue fossero allucina­ ,.ioni visive chimicamente indotte o delirio dovuto all'uremia,

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dovetti tuttavia constatare che aveva una coscienza lucida per la prima volta in una settimana. Ricordava perfettamente il suo nome, la data, il luogo e altre date specifiche della storia ameri­ cana; inoltre era in grado di elaborare frasi complicate. Era evidente che Joanna avesse ben chiara la situazione, altro che allucinazioni! Ci descrisse un arcobaleno di una mol­ titudine di colori luminosi e iridescenti che occupava tutta la stanza, e passava attraverso i muri, il soffitto e il pavimento, e anche dai nostri corpi, in particolare dal torace. Ci disse che tutto a un tratto, una grande sfera bianca e luminosa fu espulsa dall'arcobaleno nel bel mezzo della stanza, dove si divise in una ventina di sfere più piccole. Durante quel processo si sprigionò una luce bianca talmente intensa che Joanna disse di non riusci­ re più a distinguere i nostri corpi, ma di vedere soltanto sfuma­ ture blu scuro e dorate provenire dal mio petto e tonalità viola, auree e rosate dal petto di Robin. Ci spiegò che quella era l'ener­ gia luminosa delle nostre anime che si univano. «Perché colori diversi?» le domandai. Le fu detto che ogni colore corrisponde a una particolare fre­ quenza con Dio e che sta a noi unire i nostri spiriti e agire insie­ me affinché più colori possano formare un arcobaleno, la più sonora invocazione dell'Altissimo. «Proprio adesso, in questa stanza ci sono almeno cinque frequenze di colore umano unite e lucenti: le due infermiere, mia cugina, lei e io. Se invece più persone si riuniscono con pensieri malvagi, il colore prevalente è il nero, che assorbe il resto dei colori di amore, lasciando arida ciascuna persona. È per questo che il nero è tanto caldo d'esta­ te: perché attrae tutti gli altri colori dello spettro della luce». Ognuno di noi doveva proteggere l'energia della propria anima, continuò Joanna, da coloro che tendono a consumarce­ la, mettendo a rischio la nostra salute e creandoci problemi spi­ rituali. «È possibile aiutare i deboli con atti incondizionati di amore e di gentilezza, con forme salutari di risate, esercizio fisi. co, alimentazione e sentite preghiere. Persino Gesù ebbe biso­ gno di frequenti "ricariche" di energia per poter continuare ad aiutare i malati nella mente, nel corpo o nello spirito. Per soste­ 122

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nedo, Dio riversò più volte energia luminosa anche sulla sua tmima», Allora le piccole sfere di luce generate da quella inizia­ le si trasformarono nel padre e nella madre di Joanna e in molti altri esseri che lei definì angeli. A giudicare dalla sua descrizio­ ne, i genitori le erano apparsi con le loro fattezze umane all'età di circa 30 anni. Gli angeli erano di vari colori e dimensioni e avevano carat­ teri diversi. Due o tre erano di un bellissimo azzurro mare, alti circa due metri, gioviali e arguti. La facevano ridere solletican­ dole l'anima con le ali. Altri erano di un bianco puro e talmente grandi che inarcando le ali in avanti riuscivano ad abbracciare lutti i presenti nella stanza, sia noi umani sia gli altri angeli. «Hanno occhi iridescenti fra il blu e il verde, di tonalità che non ho mai visto prima», ci disse Joanna. «Il loro sguardo mi trapas­ sa l'anima, colm~ndomi dell'amore e della pace di Dio. In real­ là, succede a qualsiasi cosa guardino. Fanno sfavillare tutto di gioia». Vide gli angeli posare gli occhi sulle infermiere, su sua cugina e su di me, e vide un'enorme aura levarsi intorno a noi e ricongiungersi all'arcobaleno. Come se non bastasse, c'erano anche altri angeli che saltellavano e volavano su e giù per la stanza, passando attraverso i nostri corpi. «Guardi, dottor Lerma. Volano attraverso iI suo cuore e la sua anima. Non li sente? Non li vede?». «No, Joanna, ma mi piacerebbe», Stranamente, percepivo energia statica nell'aria. Non che avessi proprio la pelle d'oca, ma sentivo drizzarsi i peli delle braccia e i capelli. Guardai un'infermiera, che mi confermò di avvertirla anche lei. Era solo la nostra reazione alle parole di Joanna, o eravamo davvero nel bel mezzo di un'altra dimensione, dove l'elettricità statica circo­ lava in abbondanza? Proprio allora vidi Joanna andare in esta­ si. Era felice. Ma soprattutto, lodava ancora il Signore. Le chiesi cosa facevano e cosa dicevano i suoi genitori. «Mi accarezzano sulla testa e mi sussurrano all'orecchio. Mi spiega­ no tante cose che mi aiuteranno a lasciare il mio corpo più facil­ mente», rispose Joanna con voce carica di affetto. «Cosa serve per separarci dai nostri corpi terreni?». 123


I «È un discorso a parte per ciascuno. Posso solo dire che ognuno di noi riceverà la chiave per dissipare ogni suo dubbio. La rassegna della nostra vita serve anche per afferrare le rispo­ ste alle domande che ci siamo sempre posti nel corso della nostra esistenza sulla terra. Più Qomande ci facciamo su Dio, sulla creazione dell'universo, sulla vita, sull'amore e sulla morte, e più cerchiamo le relative risposte leggendo e discutendo con altre persone, maggiore sarà la nostra consapevolezza di Dio, grazie alla quale sarà più semplice ripercorrere la nostra vita. In pratica, prima di andare nell'aldilà bisogna passare una specie di test. Nel test della rassegna della nostra vita dobbiamo risali­ re al perché dei nostri peccati, sentire appieno il rimorso e svi­ ;l li: luppare la capacità di amare incondizionatamente e di perdona- ~ re. Chi non ci riesce si imbatte in una sorta di fallimento e deve " andare in un luogo speciale dove porre rimedio a questa sua ina, deguatezza. Sulla terra lo chiamiamo inferno; in realtà, è popo~ lato anche da anime già elevate, che aiutano le altre ad appren­ dere le loro lezioni. Dopotutto, una volta nell'aldilà si è pieni di amore, e il desiderio di aiutare le povere anime arenate scatta in automatico». Quanto alla rassegna della sua vita, Joanna disse che tutte le risposte alle sue domande le erano state date con pace e amore, e alla fine tutto aveva acquisito un senso: più si ama, più si com~ piono atti di gentilezza gratuiti sulla terra, più è facile perdonar­ si ed entrare in armonia con Dio. Le domandai perché Dio per­ w, ,. mette il dolore, la sofferenza e gli omicidi. Per spiegarmelo ci ! sarebbero voluti eoni, rispose Joanna, ma tutto si doveva al dono divino del libero arbitrio. «Il libero arbitrio sta alla base del motivo per cui furono creati l'universo, gli elementi, i piane­ ti, le stelle e gli animali. Tutto per noi. E intorno a tutto, Dio». Il legame fra il libero arbitrio e Dio è la fede, ci riferì Joanna. «Senza fede, il nostro libero arbitrio fluttua come un radicale libero che, alla perenne ricerca di sostegno, si lega a qualsiasi cosa diversa da Dio. Alcuni definiscono questo "qualsiasi cosa" il nostro lato oscuro. Lasciare che il libero arbitrio si leghi al nostro lato debole ci allontana dalla conoscenza di Dio, ci indu­

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ce a farci domande solitamente di natura negativa, e ad accetta­ re risposte date da altre persone prive di una connessione posi­ tiva con Dio. Risultati: la confusione e l'orgoglio. Ma possiamo cercare le nostre risposte anche in altri tipi di persona, nei messi di Dio che vivono e diffondono la sua Parola. A ciascuno di noi vengono date infinite possibilità di cercare la luce, che solo la fede lega a Dio, Colui che ci dà risposte all'infinito. Solo in que­ sto modo impariamo a dipendere dalle capacità soprannaturali di Gesù». Dio aveva riconosciuto che il suo dolore, generato dalla morte dei genitori, dal divorzio e dalla malattia terminale, era stato molto intenso, disse Joanna, e aveva capito tutta la sua col­ lera e il suo essersi allontanata da Lui; tuttavia era rimasto sem­ pre al suo fianco. «Fui io a separarmi da Dio, lasciandomi anda­ re alle mi~ emoz~oni. Le domande provenienti dal mio lato oscu­ ro furono talmente dominanti che, non scegliendo la fede come risposta, mi rimase solo l'antifede. La tenebra dentro di me generava sia le domande sia le risposte, il suo orgoglio cresceva e mi distruggeva. Alla fine quasi tutta l'energia della mia anima divenne negativa e sÌ manifestò nella malattia e in altri proble­ mi. Ogni nostra scelta ha delle conseguenze, dice Dio, ma Lui è sempre qui a consolarci. Dobbiamo ricordare che la vera pace è regolata dalla legge di attrazione divina. Quando negativo chia­ ma negativo (sia in un solo individuo, sia fra più individui) i risultati sono devastanti. Dobbiamo sempre lottare per impara­ re a riconoscere il nostro lato infedele (negativo) e a riparare in quello fedele (positivo), che è connesso a Dio». Joanna mi fece promettere di dire a più persone possibili che tutti una volta o l'altra proviamo rabbia e odio verso noi stessi, gli altri o Dio. «Mai smettere di chiedere risposte a Dio, e farlo sempre con più pace e amore che possiamo. Mai lasciarsi gui­ dare da persone senza Dio o dal nostro lato oscuro. Pena: la per­ dita di noi stessi. Basta guardare la storia». Joanna vide ricomparire la grande sfera luminosa originale e assumere le sembianze di Gesù. Gli angeli le annunciarono la sua presenza, gravitarono verso di Lui ed entrarono nel suo cuore.

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Subito dopo, il suo corpo emanò una luce fulgida e bianchissima e il suo cuore un fascio di colori vibranti. Gesù disse a Joanna che Daniel si sarebbe preso cura di tutti e tre i suoi bambini, così da esaudire la sua preghiera. Le mostrò il messo angelico che era stato inviato a Daniel per infonde:rgli quei sentimenti di amore e nostalgia che l'avrebbero spinto a cercare i figli e l'ex moglie. Le disse che tutto sarebbe avvenuto quello stesso giorno, perché ormai era pronta a lasciare il corpo terrestre per andare in cielo. Non appena la sentì riferire quelle parole, sua cugina corse fuori dalla stanza in lacrime, credendo che sarebbe morta in pochi minuti. Joanna si drizzò a sedere, protese le braccia semiparalizzate verso i piedi del letto - dove, stando alle sue parole, era inginoc­ chiato Gesù - e cantò l'Alleluia. Subito dopo si riappoggiò alla spalliera, guardò in alto e si addormentò con un ampio sorriso sulle labbra. Proprio in quell'istante mi squillò il cercapersone. Alla postazione infermieristica un assistente sociale mi disse di avere appena riagganciato il telefono dopo aver parlato con un uomo di nome Daniel, il quale sosteneva di essere il padre di due bambini di Joanna e di voler dare una mano. «È un miraco­ lo», dissi. «Joanna ha detto che l'avremmo trovato, e così è stato». Daniel si era trasferito nel Michigan. All'assistente sociale aveva confessato di aver sempre amato Joanna, ma con un lavoro che gli fruttava solo quattro'dollari l'ora e due figli e una moglie a carico si era sentito oberato di un peso insostenibile. Intorno ai 30 anni aveva finalmente messo la testa a posto ed era venuto a cercare Joanna. Ouando però aveva sentito che conviveva con un altro e pareva esserne innamorata, aveva desistito da ogni suo intento. «Pensando di averla persa per sempre, mi trasferii. Un anno fa conobbi Esther, una creatura affettuosa, nonché una devota cri­ stiana. Ci siamo sposati, ed è stata proprio lei a spingermi a cerca~ re Joanna. Esther è un'infermiera pediatrica responsabile di un programma non profit per gli orfani già da prima che ci conosces­ simo». Due giorni prima un angelo gli era apparso in sogno per avvertirlo che Joanna stava morendo e che aveva bisogno di lui.

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Era stato un sogno assai vivido. Daniel l'aveva raccontato a Esther, che aveva insistito perché rintracciasse Joanna e i bam­ bini. Si era messo immediatamente a cercare ed era riuscito a raggiungere un amico in comune con l'ex moglie, da cui aveva appreso della sua malattia terminale. Daniel si era poi scusato con l'assistente sociale per non esserci stato fino ad allora. Arrivò all'hospice !'indomani e si fece accompagnare subito da Joanna. In ginocchio di fianco alletto, le chiese perdono per averla abbandonata e le promise che si sarebbe preso cura insie­ me a sua moglie di tutti e tre i bambini. Le disse di non preoc­ cuparsi, perché li avrebbe sempre amati e protetti e sua moglie avrebbe fatto altrettanto. Fu una scena davvero toccante. Con grande sorpresa di tutti, Joanna aprì gli occhi e gli sorrise. «È bello, tanto bello! Sarà così anche il paradiso? Vedo montagne e pascoli di un vt::rde brillante, anzi, tutti i colori sono brillanti! Vedo tanti angeli, bellissimi, blu, bianchi e rosa, che sfrecciano per la stanza e attraverso la tua anima, quella di Robin e la mia». Ancora in estasi cercò la mia mano e mi chiese: «Non sente, dottor Lerma?». «No, ma lo vorrei tanto. Potrebbe dirmi dov'è la mia anima?». «Proprio qui», disse appoggiando il palmo della mano al mio torace. «Nel cuore e nel petto». Poi protese verso l'alto il braccio destro, come se qualcuno la prendesse per mano, e disse: «Sono pronta ad andare. Ora sono felice». Mentre chiudeva gli occhi per l'ultima volta fece un bel sorriso e sussurrò: «È più bello e luminoso che mai». Daniel abbracciò Robin e i bambini, e tutti e cinque pianse­ ro la sua morte prematura. Sapevo però che alcune erano lacri­ me di gioia, sia perché Daniel aveva fatto ammenda ed era pron­ to e in grado di occuparsi dei bambini, sia perché gli angeli li avevano riuniti giusto in tempo. NOTE DEL DOTTORE

Ouando conobbi Daniel avvertii in lui una certa somiglianza con tutti e tre i bambini così come la loro stessa bontà dalle

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radici profonde. Tutti e tre i piccoli erano molto simili fra loro, e due assomigliavano più a Daniel che a Joanna. Suggerii che facessero il test di paternità. Ne risultò che in effetti solo i primi due erano di Daniel; ma restava il fatto che anche la terza gli assomigliava in modo straordinat10' Alla notizia che sarebbero stati per sempre insieme con un papà e un'altra mamma, i bam­ bini gioirono all'unisono. «Adesso abbiamo anche noi il nostro papà e staremo sempre assieme», si dissero l'un l'altro. Allora mi resi conto che Joanna aveva negoziato con gli angeli, e ancora una volta mi stupii della misericordia e dell'amore di Dio. Un anno dopo mi misi in contatto con Daniel, Esther e i loro bambini e scoprii che erano un perfetto esempio di famiglia spi­ rituale e piena di affetto. Tornai a casa dai miei figli, li abbrac­ ciai tutti e li rassicurai che volevo loro un gran bene, proprio come Dio.

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MiMi e la conferma

ui chiamato d'urgenza nella Stanza 111. Era Leila, pensai subito, la figlia di MiMi, una donna di 81 anni che stava morendo per insufficienza renale. Mi affrettai a raggi un­ gerle, perché MiMi era ormai prossima alla fine. Ma entrando in camera non trovai nulla fuori posto, a parte una Leila impallidi­ ta, quasi avesse visto un fantasma. MiMi era una cristiana acon­ fessionale della Lakewood Church [cfr. a pago 53]. Parlando con lei (quando non era ancora ridotta così male) mi era sembrata una sorta di matriarca affettuosa. Adorava i suoi due nipotini. Voleva che andassero a trovarla tutte le volte che potevano, per­ ché si ricordassero di lei anche dopo la sua dipartita. Leila mi informò subito che c'era qualcosa di strano nella stanza. Era visibilmente spaventata. E non solo perché temeva di perdere la madre. «Non pensi che io sia matta, dottor Lerma. Sta succedendo dawero. I miei bambini sono lì a giocare sul pavimento. E tutti e due dicono di vedere qualcuno. lo però non vedo niente. Hobby Joe e Joanie si vogliono bene, litigano pochissimo e giocano sempre assieme, non come tanti altri bambini». Chiesi a Leila cosa c'era che non anqava. Mi rispose di osservare i bambini. Andai a sedermi dall'altro lato della stanza per non disturbare ìlloro gioco e rimasi a guardarli. Dopo dieci minuti si alzarono e si diressero in un angolo vicino alle finestre che danno sul giardi­ 110. La bambina, Joanie, sembrava tenere qualcuno per mano. La luce del sole entrava dalla finestra e pareva concentrarsi su di lei.

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Strano, pensai. A quell'ora il sole era già dall'altra parte dell'edifi­ cio. «Mamma, non è l'angelo più bello di tutti?» esclamò Joanie all'improwiso. «È grandissimo, ma è buono e mi piace un sacco quando mi avvolge con le ali. Le piume mi fanno il solletico», con­ tinuò guardando in su e in giù, dal soffitto al pavimento. Ridacchiò come se le stessero vèramente facendo il solletico. «TI mio angelo dice di non preoccuparmi. Ma io non mi preoccupoI Sono grande!». «Il mio angelo è blu perché è un maschio», interloquì Bobby Joe. Come la sorella, guardò anche lui su e giù per la stanza. «È vero, mamma? MiMi sta andandosene?». «Perché dici così, Bobby?» chiese Leila. «Perché me lo dice l'angelo blu. Ma mi raccomanda anche non essere triste». Bobby indicò l'angolo e disse: «Ciao MiMi! :: Come stai bene con quel vestito bianco! Hai dentro una lampa­ dina?». Corse nell'angolo e parve abbracciare il vuoto. Poi girò la testa di lato, come se si appoggiasse a qualcosa. Era tutto con~ tento. Visibilmente ansiosa, Leila mi venne incontro e mi sussurrò all'orecchio: «Sta succedendo veramente?». «Leila, sono sorpreso quanto lei. I suoi figli hanno mai parla­ to di un amico invisibile?». «Non che io sappia. Ne dubito, dottor Lerma. Giocano sem· pre insieme. A che servirebbe un amico invisibile? Mia madre~~ ha sempre detto che i bambini sono innocenti e che possono vedere gli angeli e le persone del cielo. Forse è cosÌ». Siccome non correvano alcun rischio di farsi male, le dissi di lasciarli vivere quell'esperienza. Poteva anche essere una strate· gia di coping. «Se vuole, più tardi posso mandare lo psicologo a parlare con loro. Mi accerterò che venga dato loro un counseling appropriato» . «Grazie, dottor Lerma. Sono più tranquilla». Leila e io continuammo a parlare degli angeli, e lei mi chiese delle esperienze dei miei pazienti. «Sa, Leila, per una qualche ragio­ ne, le loro visioni sono sempre negli angoli della stanza, esseri che di solito si librano rasenti al soffitto. Non è tanto insolito come si potreb­

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be pensare. Secondo Cari Gustav Jung, uno psichiatra famoso per i suoi studi sull'inconscio collettivo, i bambini hanno particolari capa­ cità sensoriali che gli adulti hanno perso». «Dottor Lerma, non ho mai vissuto niente del genere in vita mia. Non sappiamo quasi niente della morte e dell'aldilà. Se i bambini la vedono, mi piacerebbe che MiMi si svegliasse un'ul­ tima volta e mi parlasse». Dagli occhi le sgorgarono lacrime mute; l'abbracciai e dissi: «Forse l'accontenterà, Leila. Non perda la speranza». «Ok, MiMi. Glielo dirò!» fece Joanie proprio in quel momen­ lo. Andò da sua mamma e le chiese di abbracciarla. Leila si sedette a terra e prese la bambina fra le braccia. «Stavi parlan­ do con MiMi?» chiese Leila a sua figlia, con una gran voglia di crederci. «Sì, mamma..Dice che ti vuole bene e che non devi essere tri­ ste. Dice che adesso sta benissimo e che l'abbraccio è da parte sua». Voltò la testa verso l'angolo della stanza: «Va bene, MiMi? Sono stata brava?». Ascoltò un momento, poi si voltò a guarda­ re sua madre e disse: «PaPa dice che ti vuole bene e che ci aiuta sempre tutti», Leila scoppiò a piangere senza ritegno mentre teneva stretta a sé la figlioletta. «Joanie e Bobby Joe non hanno mai conosciuto PaPa, che è il nomignolo con cui tutti chiamavano mio padre. Morì prima della loro nascita». Mi guardava con gli occhi spalan­ cati, lasciando che le lacrime si asciugassero da sole. «È un mira­ mIo», disse piano. «Non solo mia madre mi ha salutato, ma è wnuto anche mio padre». I singhiozzi le scuotevano le spalle. «Mi sono persa il suo funerale perché ero bloccata all'aeroporto da IIna tempesta di neve. Non ho mai potuto dirgli addio ... fino ad ora. Mi ha salutato, dottor Lerma. Ho bisogno di credere che sia tulto vero». Le offrii una spalla su cui piangere, mormorando che !>ilIO padre le voleva bene e non avrebbe mai voluto vederla così. «Ok. Ciao MiMi! Ciao PaPa! Ciao angeli!» esclamarono i hambini qualche minuto dopo. Poi Bobby Joe e Joanie allunga­ rono le loro manine. «Baderò io a mamma e a Sissy come vuoi III», disse Bobby Joe.

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«Non lo lascerò fare la lotta con nessuno. Gli ricorderò cosa dissero gli angeli», disse invece Joanie, e diede un bacetto sulla fronte del fr~tellino, che prontamente lo pulì via con la manica della maglietta. Poi entrambi si ributtarono per terra a disegnare. «Dottor Lerma, non potrò mai ringraziarla abbastanza per tutto l'amore che lei e il suo staff avete dato a mia madre. È meraviglioso. È un miracolo. Mi ha cambiata. Non sono più preoccupata della morte». Era quello il motivo per cui amavo tanto il mio lavoro! Non smetto mai di sorprendermi di cosa accade al momento del trapasso. È un momento magico. Sentendo cambiare il ritmo del respiro di MiMi, ci disponemmo intorno al suo letto e reci­ tammo il Padre Nostro. A un certo punto, finita la preghiera; ~.. i" MiMi trasse un profondo respiro e disse: «Ti voglio bene, Leila». Dopodiché, se ne andò. In tempo perfetto. Leila si rimise a piano' gere mentre controllavo i segni vitali di sua madre. «Il suo desiderio è stato esaudito», dissi a Leila. «Voleva che sua madre le par­ lasse prima di andare via, e l'ha fatto. Glielo confermo anch'io». I bambini guardarono verso l'alto e salutarono agitando le manine. Quindi si sedettero vicino alla loro mamma. Li raggiunsi, dissi loro che MiMi era andata via. (In situazioni come questa, i fami· liari chiedono che sia io o un assistente sociale - o entrambi - ad avviare il discorso con i bambini. Gli adulti infatti sono troppo~. sconvolti e a corto di parole per farlo. Così era per Leila). Sia Joannie sia Bobby Joe ribatterono: «Lo sappiamo. I.:abbiamo ( vista entrare in quella grande luce bianca con PaPa e gli angeli».

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angeli avevano detto quacos'altro di importante. «A me che da grande sarò una maestra per i bambini speciali e che aiuterò tanti bambini che avranno tanto bisogno», disse Joanie facen­ domi vedere un disegno con una figura femminile davanti a una classe di figurine più piccole. Invece Bobby Joe, che aveva solo tre anni, mi mostrò un dise­ gno che pensai subito ritraesse me. Era una figura maschile con uno stetoscopio intorno al collo. «Sono io?» chiesi lusingato. «No, io. Farò il medico come te. Me l'hanno appena detto gli angeli. Lo dissero anche a te. Ci tengono che lo sai». Ero frastornato. A quattro anni avevo fatto un sogno (o così ho sempre pensato) in cui una bella signora mi aveva detto che da grande avrei fatto il dottore. Mi ricordo bene, era stato un sogno molto vivido, tanto che l'avevo raccontato a mia madre. E l'indomani lei mi aveva regalato uno stetoscopio per ricordarmi della mia chiamata. Le parole di Bobby Joe mi riempirono di gioia (ancora oggi, se ci ripenso). Ma le sorprese non erano fini­ te. «Eh, sì!» continuò il bambino, «dicono che quel coso che hai intorno al collo è uno stet-ta-co-pio. Anch'io dovrei averne uno per ricordarmi che sarò un dottore». Stava succedendo vera­ mente? Era una situazione davvero insolita, ma affascinante. Diedi a Bobby Joe uno stetoscopio che avevo comprato apposta per lui. Volevo essere sicuro che ricordasse che cosa gli avevano detto gli angeli: volevo dargli una conferma di quell'esperienza, così come lui aveva fatto con me.

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NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON LA FAMIGLIA DI MIMI

Mi sorprende sempre che i bambini reagiscano tanto bene alla morte. Solitamente i bambini sotto i quattro anni non hanno il concetto di morte. Non lo afferrano del tutto fino ai dieci-dodici anni, quando iniziano a pensare in astratto. Il caso dei nipoti di MiMi era alquanto insolito. Infatti, Joanie aveva quattro anni e Billy Joe tre. Li abbracciai e domandai loro se gli

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II Redenzione

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tavo prendendo il caffè con la famiglia di un paziente nel salone dei familiari dell'ospedale, quando fui chiamato d'ur­ genza nella Stanza 118. Era singolare che lì finissero sempre i casi più diffic~li, persone il cui processo di morte presentava immancabilmente delle complicazioni. Quella volta toccò a George, un condannato per omicidio plurimo che era appena stato trasferito all'hospice dal Texas Department of Corrections. George aveva 53 anni e pochi mesi prima gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni all'ultimo stadio. Lo trovai ammanettato alle sponde del letto e già agonizzante, perciò ordinai agli agenti di liberarlo. Era gravemente malato e troppo debole per essere una minaccia. Gli levarono subito le manette e i ceppi alle caviglie, poi lo lasciarono alle mie cure, augurandomi: «Buona fortuna, doc. Speriamo che riesca a comunicare con lui. A volte sa essere un tipo simpatico». Con l'agente di guardia fuori dalla stanza, mi rivolsi a George cercando di consolarlo e di rassicurarlo come avrei fatto con qualsiasi altro paziente appena ricoverato. Mi presentai e gli dissi che ero lì per alleviare il suo dolore, la sua ansia e il suo senso di soffocamento. «Non si trova più in prigione, ma in un reparto ospedaliero per la terapia del dolore. So che è spaventato, George, ma non ce n'è bisogno. Non sono qui per giudicarla o per tormentarla, ma solo per aiutarla». «Non mi merito nessun aiuto», replicò George. «Mi lasci morire nel mio squallore. Mi lasci stare». Il dolore e il rimorso

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nella sua voce mi sciolsero il cuore. In quanto medico, avevo giurato di alleviare le pene altrui e di trattare tutti allo stesso modo. Qualsiasi cosa avesse fatto George non avrebbe scalfito la mia decisione di dargli conforto. Avvertendo quanto fosse profonda la sua infelicità, gli dissi che gli volevo bene, perché anche lui era un essere umano come tutti gli altri, e che non lo avrei mai abbandonato. Anche se urlò rabbiosamente e ci minacciò, lo staff dell'hospice e io conti­ nuammo imperterriti a manifestargli tutta la nostra compren­ sione. A un certo punto si calmò un momento e sussurò: «Se solo sapesse cosa ho fatto, capirebbe perché mi comporto cosÌ». «Grazie per avermi parlato, George. Sa, ha ragione. Non ho idea di cosa abbia fatto e di cosa prova, ma mi piacerebbe saper­ lo. A volte parlare aiuta, o no?». «Sì, lo so. Ma nessuno ha mai voluto ascoltarmi quando mi andava di parlare. Neanche i cappellani del carcere». Sentendosi vulnerabile, George tornò sulle sue e ridiventò ira­ scibile. «La smetta di provare ad aiutarmi. Mi lasci soffrire, mi lasci crepare con tutti i miei mali». Lamentò forti dolori, ma quando ordinai di iniettargli idro. morfone per via parentale, lo rifiutò e ribadì che si meritava di soffrire. «George, perché pensa di meritarsi tutto quel dolore?» gli domandai. «Perché ho inflitto molto dolore ad altri. Ho ammazzato quattro ragazzi, lo sa? Ecco perché mi hanno sbattuto in prigio­ ne», rispose dandomi un'occhiata di traverso. Capii che voleva provocarmi, che era solo una tattica per indurmi a giudicare la sua immoralità, e non abboccai. Invece cambiai argomento. «Crede in Dio?» gli chiesi a bruciapelo. Mortificato, George abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. «Crede in un Dio che ama e perdona?». Ancora nessuna risposta. «So che disse al cappellano del carcere di avere ricevuto un 'educa­ zione cristiana. Se è così, saprà certamente che suo Figlio, Gesù, è morto anche per i suoi peccati e nutre nei suoi confronti un amore incondizionato». George sollevò piano la testa e nei suoi occhi lessi un forte

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desiderio di ottenere il perdono dal Dio che conosceva da bam­ bino. «È quello che continuano a dirmi, ma sto diventando pazzo con i miei sensi di colpa. Sono in agonia, e non per il dolore del cancro, ma per il dolore di aver fatto quello che ho fatto. Vorrei davvero poter credere che Dio mi ha perdonato, ma il mio dispiacere è troppo grande». Cogliendo in lui un barlume di umanità, seppi di aver stabi­ lito il contatto di cui avevamo bisogno. Nel tentativo di legitti­ mare la sua sofferenza, commentai che il senso di colpa per aver ucciso quattro ragazzi doveva essere insopportabile. George annuì e, come speravo, iniziò a sciogliersi. «George, scusi se glie­ lo chiedo, ma sparò per difendersi?». «Fu uno spaccio di droga finito male», sussurrò dopo aver tratto un profondo respiro. «lo non avrei nemmeno voluto andarci. Ero u~ artista hip-hop di Los Angeles, stavo lavorando per un nuovo contratto discografico. Dovevo un favore al mio agente per quel contratto, e lui se ne approfittò. Mi chiese di consegnare un pacchetto. Disse che era un affare sicuro e che, se ci fossi andato, mi avrebbe procurato altri contratti. Ero gio­ vane e ansioso di lasciare la periferia, perciò acconsentii. Quella sera andammo al luogo dell'incontro, vicino alla spiag­ gia, e aspettammo gli altri. La loro macchina arrivò, e dopo il segnale pattuito procedemmo allo scambio. «Il mio amico e io scendemmo dall'auto. Oltre al pacchetto, avevo con me una pistola calibro 44. Mentre ci venivamo incon­ tro, vidi gli altri estrarre le pistole. Non tardai a reagire. Mollai il pacchetto e mi misi a sparare, così come il mio amico. Tutti e due tornammo indietro di corsa a ripararci dietro la mia mac­ china. Pochi minuti e fu di nuovo silenzio, l'aria impregnata di fumo. Poi udimmo le sirene della polizia e corremmo via. Come finì? Be', il mio amico riuscì a fuggire, mentre io e il mio con­ tratto fummo lasciati a marcire in prigione. È un ricordo anco­ ra vivido che mi perseguita ogni notte. Lo so che quei ragazzi si lasciarono prendere dal loro lato oscuro, ma io mi sento male ugualmente. Erano pur sempre degli esseri umani. «Dopo che mi fu diagnosticato il cancro ai polmoni, iniziai

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ad avere visioni e a fare sogni in cui mi comparivano i quattro

ragazzi che avevo ucciso e gli angeli». George ci descrisse una

delle sue tipiche esperienze risalente a più di quattro settimane

prima, e fu in grado di farlo nei minimi dettagli. I quattro ragaz­

zi erano andati da lui per perdonarlo. Gli avevano spiegato che

la chiave per portare a termine la lezione, non solo per lui ma

anche per tutti i protagonisti di quell'incidente, era amarsi per

potersi perdonare, e credere in Gesù Cristo. Mentre George mi

metteva a parte della sua storia, non potei fare a meno di nota­ re gli effetti terapeutici delle sue visioni. Ero stupefatto. «Dottor Lerma, uno dei ragazzi mi parlò dell'amore di Dio. Disse che questo Dio di cui tutti parlano va ben oltre il senso di colpa. È più misericordioso e più affettuoso di quanto possiamo immaginare. Mi dissero: "Guardaci. Noi ce l'abbiamo fatta, a ottenere il perdono, ed eravamo peccatori quanto te. Gli spiriti ci insegnarono tutto di Gesù e così imparammo ad amarci e a perdonarci. Ora anche noi abbiamo accesso alle creazioni di Dio come tutti, senza nessun limite: qui non c'è dolore, non c'è fame, non c'è tristezza, non c'è povertà, non c'è bisogno di dena­ ro". Dottor Lerma, lo so che ho bisogno di accettare Gesù Cristo come mio Signore e Salvatore». Mi guardò e mi chiese a cosa pensassi; ma prima che potessi rispondere, disse: «Non impor­ ta. Sono solo un mucchio di fesserie. Sono io il primo a non cre­ derci». «Al contrario, George. lo credo alle sue esperienze. Molti dei miei pazienti mi dicono le stesse cose sull'amore e sul perdono di se stessi, e anche loro dicono di averlo appreso dagli angeli». «Veramente, dottor Lerma?». « Veramente, George. Non le mentirei mai. Perché non mi dice di più su quel che vede e che effetto le fa?». «Ci penserò. Ma sto ancora male per quello che ho fatto». Passammo molto tempo a parlare, ma George non riusciva a lasciarsi alle spalle il suo senso di colpa. Credeva che la sua morte e la sua crescente sofferenza fossero ben meritate. A quanto pareva, la sua malattia era dovuta a un eccessivo consu­ mo di sigarette. «Iniziai a fumare dopo aver ucciso. Mi serviva

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per contrastare la mia angoscia. Se non avessi ucciso, forse non avrei iniziato a fumare, e di conseguenza non starei morendo di cancro ai polmoni. So che non fu Dio a procurarmi la mia malattia. Lo feci io stesso. Dio cerca di metterci in guardia da questi pericoli nella Bibbia, ma la maggior parte di noi non gli dà retta. «Parlai con i cappellani del carcere, sperando che mi aiutas­ sero a capire le mie .visioni. Fu un binario morto. Li pensano solo che sei matto. Ma non li biasimo affatto per questo. Il car­ cere è pieno di psicotici». Così aveva smesso di parlare delle sue apparizioni e rivelazioni, almeno fino a quando non aveva incontrato me e alcune delle nostre infermiere. Notando che George era esausto, posi fine alla conversazio­ ne e gli raccomandai di riposare. «Tornerò domattina, e parlere­ mo ancora della sua vita». Prima di andare via, gli chiesi se voleva qualcosa per il dolo­ re o per dormire. George rifiutò per la terza volta adducendo lo stesso motivo. Rispettai la sua decisione e lo lasciai. Mentre oltrepassavo la porta, mi disse piano: «Grazie». Ouella parola detta da lui mi scaldò il cuore. Ouando entrai in camera sua l'indomani insieme allo staff dell'hospice, George mi sorrise e si affrettò a raccontarmi una visione che aveva avuto la mattina presto. Se all'inizio era stato sicuro che fosse accaduto tutto mentre era sveglio, con il passa­ re delle ore gli erano venuti dei dubbi. L'assistente sociale, l'in­ fermiera e io ci sedemmo ad ascoltarlo prestando la massima attenzione al suo enigmatico racconto. «Più o meno alle tre del mattino fui svegliato da una luce intensa che rischiarava la mia stanza. Ma al posto delle infermiere, vidi due apparizioni che fluttuavano nell'aria alla mia sinistra. Sente,ndomi un po' in ansia, chiamai l'agente qua fuori. Appena entrò, gli esseri spiri­ tuali sparirono. Ero assai spaventato. «Pochi minuti dopo ricomparvero, ma io avevo riacquistato la calma. Uno era di un bianco luminoso, alto circa due metri e mezzo e con capelli dorati che gli ondeggiavano lungo i fianchi. LaltrO, alla sua sinistra, era alto uguale, ma era solo una sago­

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ma scura. Era più scuro del buio nella stanza. Sembrava che comunicassero fra loro. Di lì a cinque minuti quello bianco si rivolse a me e disse che erano venuti per aiutarmi. Intanto l'an­ gelo nero rimaneva in silenzio. A un certo punto però, mi si avvi­ cinò, e vidi un'ombra altrettanto scura saltare fuori da me e mettersi accanto a lui, entrambi alla mia sinistra. Poi mi accor­ si che la bella apparizione bianca non c'era più. La stanza era sprofondata in uno strano buio, un nero luminoso. I due confa­ bulavano, o almeno così mi pareva, anche se non potevo udire nulla. Avevo una gran paura. Cosa facevano, ma soprattutto, cosa volevano da me? "Perché non mi lasciate in pace?" urlai alla fine. «Nessuno dei due mi diede retta, ma qualche istante dopo vidi l'ombra scura tornare da me e rientrare con un balzo nel mio corpo. Confabulando con l'angelo nero, l'ombra aveva acquisito la conoscenza di tutti i peccati generazionali della mia famiglia. Assistetti al momento in cui la nostra prima maledi­ zione era entrata nel corpo del mio bisnonno che aveva appena ucciso un uomo». Poi George aveva visto anche la propria tene­ bra aggiungersi agli altri peccati collettivi della sua famiglia. Il dolore fisico che sentiva in ogni sua singola cellula era dovuto a tutti quei vizi, sia fisici sia mentali. L'angelo nero gli aveva spie­ gato che la tenebra non è il male che ci viene insegnato; è solo energia umana allo stato puro usata con cattive intenzioni. Per esempio, aveva continuato l'angelo, l'uomo può scegliere se usare l'energia nucleare per fare una bomba atomica allo scopo di uccidere, oppure per viaggiare nello spazio o per produrre energia elettrica per i consumi quotidiani. In ogni caso, sta a noi la scelta (ossia il libero arbitrio) di come impiegare la nostra energia, a livello sia individuale sia collettivo. E ogni scelta ha delle conseguenze con le quali dobbiamo convivere, ancora una volta, individualmente e collettivamente. Come succede per natura, George e i suoi familiari avevano fatto una serie di scelte (cioè avevano deciso come utilizzare r e­ nergia loro concessa da Dio) in seguito alle quali c'erano stati dei mutamenti genetici di generazione in generazione, di modo 140

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che i figli avevano mantenuto e a loro volta erano stati portato­ ri dei risultati maturati nella vita dei genitori. Solo che la fami­ glia di George si stava evolvendo verso un tutto negativo. I com­ portamenti improntati al negativo come forma di sopravvivenza andavano manifestandosi in loro in modo sempre più esaspera­ to; di padre in figlio, i geni familiari avevano imparato a scate­ nare certe reazioni chimiche che facevano reagire !'individuo di turno sempre nello stesso modo davanti a determinati stimoli esterni. In altre parole, se trascinata in una lite, una persona risponde a seconda di come sono stati educati il suo corpo e la sua mente: quindi, un individuo estremamente negativo è por­ tato a uccidere, un individuo neutro a essere diplomatico e un individuo estremamente positivo, di quelli contrari a ogni forma di violenza, a incorrere nel rischio di essere vittima. Gli estremi opposti sono incongruenti sia con la sopravviven­ za sia con l'evoluzione perché la loro energia è fissa e pertanto li rende pericolosi per gli altri (estremo negativo) o per se stessi (estremo positivo). La pace e l'amore si apprendono più facil­ mente allo stato neutro, o fluido, dove l'energia umana non è fissa, ma libera di cambiare a suo piacimento. La fluidità è l'a­ bilità trasmessa di padre in figlio di fluttuare su e giù e in ogni altra direzione lungo il continuum della vita. Si tratta quindi di una persona molto positiva che dà un enorme aiuto al mondo, ma che al contempo sa ridurre il proprio livello di energia posi­ liva se esposta a una brutta situazione, arrivando così a combat­ tere la propria battaglia, diciamo, con il compromesso. Gli angeli gli avevano detto che era di ,vitale importanza coltivare le capacità del compromesso, del peacekeeping e dell'equilibrio, non solo in se stessi ma anche nei confronti degli altri. Per farlo erano necessarie una grande pazienza, volersi pene e saper pre­ gare. Chiesi a George se l'angelo nero gli aveva insegnato a liberarsi della sua energia fissa neganva. Mi spiegò che il peccato genera­ zionale trova il modo di imprimersi nel patrimonio genetico. Pertanto, per liberarsene, bisogna innanzitutto riconoscere quale meccanismo lo attiva, poi ricalibrare i propri pensieri una prima, 141


una seconda, una terza volta e così via fino a quando i neuroni del cervello non imparano a reagire in modo positivo spontaneamen­ te, determinando così una inversione in positivo anche a livello genetico. Applicandosi con diligenza e pregando è possibile dare una bella scossa alla curva di apprendimento esponenziale anche nel giro di qualche ora, se non di qualche secondo. Lo si può fare solo se si trae energia da Dio, ossia se si crede in Lui, l'unico Dio Onnipotente. Ecco come si può guarire e salvare il proprio spiri­ to persino nell'ultimissimo istante di vita. «Dottor Lerma, imparai che in questa vita le nostre esperien­ ze oscillano fra i due poli energetici di positivo e negativo; l'im­ portante è tenere sempre presente che scelte quali ferire, ucci­ dere, desiderare a ogni costo, rubare e giudicare hanno conse­ guenze terribili. I.:ombra che uscì e poi rientrò nel mio corpo mi diede le risposte alle mie domande di una vita, oltre alla capaci­ tà intellettiva di capirle». Quella notte, George era andato sem­ pre più indietro nel tempo fino ad abbracciare tutti i problemi suoi e della sua famiglia con le energie, e aveva trovato paura, odio e speranze perdute. Quanto a se stesso, faticava a liberarsi dell' energia fissa del suo senso di colpa. Ammise di avere biso­ gno di un aiuto dall'esterno. «Non penso di riuscire a farcela da solo, dottor Lerma». «Coraggio, George. lo non l'abbandonerò e pregherò per la gua­ rigione del suo spirito». In seguito gli angeli bianchi erano tornati e gli avevano chie­ sto cosa aveva imparato; ma George non riusciva a ricordare niente di quello che ci eravamo detti, né di quello che aveva appreso dall'angelo nero. Allora gli angeli bianchi gli avevano toccato la testa, aprendogli la mente su tutta la sua vita. «Adesso ricordo!» aveva urlato. «Vedo il diavolo! È nero e terribile!». «Non è come pensi», gli avevano assicurato. «Noi lavoriamo insieme. La tenebra è una parte di ciascuno di noi. La tua era talmente densa e pesante che riuscì a impadronirsi della mag­ gior parte del tuo corpo e della tua mente, formando quell'om­ bra. Ricorda, George: Dio ti è sempre vicino. Basta che gli parli. E noi appariamo alla fine della vita quando tutto viene chiarito.

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Siamo qui per aiutarti a ripercorrere la tua e spiegarti ciò che devi sapere». «Gli angeli conoscono tutti i nostri sentimenti», mi disse George, «tutti i nostri pensieri, tutto quello che ci porta a esse­ re quello che siamo, e rispondono alle domande cui non s~ppia­ mo rispondere da soli». Gli ricordai di nuovo la promessa di Dio e che Dio era sempre al suo fianco. Non so per quale motivo, ma in quel momento George iniziò a fidarsi di me fino in fondo e a considerarmi suo amico. Mi domandò se sarebbe morto. Gli risposi di sì. Mi chiese se sareb­ be avvenuto per soffocamento. Gli promisi che sarebbe morto nel sonno. «Qual è la cosa più difficile nel processo di morte?» fu l'ultima domanda. Gli dissi che la difficoltà maggiore era ripercorrere la propria vita. Mi resi conto che aprendomi il suo cuore aveva dato inizio alla sua guarigione emotiva. Ormai era in grado di convertire la sua energia da fissa in fluida. Fu un cambiamento miracoloso. Non rifiutò più la terapia del dolore. Gli somministrammo farmaci per via parentale e morfina nebu­ lizzata per la dispnea. Alla fine, era molto più tranquillo. Fu molto triste sapere che era solo quasi tutto il tempo. Anche se gli assistenti sociali dell'ospedale avevano cercato di contattarli e di farli venire, fino ad allora non si era fatto vivo nessuno dei suoi parenti. Suo figlio si trovava in carcere e in linea teorica avrebbe dovuto uscire presto. George continuava a ripetere che voleva rivederlo prima di andarsene, ma secondo me era improbabile che avvenisse. George stava andandosene. I suoi polmoni erano pieni di liquido, aveva perso 36 chili e svi­ luppato un'insufficienza renale completa. Eppure si ostinava a dire: «Non sono pronto», Dal canto mio, avevo visto talmente tante situazioni in sospeso simili a quella, che 'a un certo punto rimasi a guardare in attesa che accadesse qualcosa. Quando andai a trovarlo il giorno di Natale, mi sembrò che conversasse con qualcuno situato in un angolo della stanza. Non era cosa insolita; centinaia di pazienti infatti mi avevano parlato di angeli e cari defunti comparsi proprio dove si con­ giungevano due pareti. «Ma', non sono degno di venire con te.

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Va' avanti», diceva. Restai un momento in ascolto e capii che George stava parlando con sua madre. Lei cercava di aiutarlo, ma lui rifiutava il suo aiuto. «Mi sono spinto troppo oltre. Vaj senza di me». Si mise a piangere. Allora mi feci notare. «Sta bene? Cosa succede?». «È mia mamma. Mamma è venuta qui a prendermi». Gli ricordai che sua madre era ancora viva e si trovava a New Orleans. «No. Dice che è morta dopo l'uragano Katrina, ed è qui per aiutarmi a passare a miglior vita». Pensai che avesse le allu­ cinazioni, perché un sintomo' del delirio è avere visioni di perso­ ne ancora vive e vegete. Allora, anche per assecondare la richiesta di George, chiesi a un'assistente sociale di fare una telefonata per controllare dov'e~ ra sua madre. Ne risultò che era morta per davvero. Era appena successo, e George lo sapeva già! Era incredibile. Ma se non gliel'avevamo detto noi, perché non ne eravamo ancora stati informati, chi era stato? Tornai da lui e gli dissi: «Ha ragione. Sua madre è deceduta». «Non vuole abbandonarmi. Gli angeli e mia madre vogliono che perdoni me stesso. Quello nero è proprio qui, vicino a me. Sta consumando tutta la mia energia, mi fa sentire pieno di paura, triste, arrabbiato; tutti sentimenti che ho provato per una vita intera. Gli angeli luminosi dicono di ascoltarlo e di impara. re. È il lato oscuro della mia vita che cerca di comunicare con me. Ho compiuto tanti atti gentili e incondizionati per gli altri, ma non riesco a sentire quella parte di me. È stata assorbita dal mio lato oscuro». Al nostro hospice avevo sentito molti pazienti parlare di ange­ li luminosi che apparivano loro in fin di vita; ma nessuno aveva mai nominato un angelo nero, e tanto meno detto che operava all'unisono insieme a quelli luminosi e ai cari estinti per il bene del moribondo. E fra tutti i parenti venuti a scortare le anime di passaggio, sua madre mi sembrò uno degli spiriti più insistenti. Dal cuore della donna irradiava una luce intensa, mi riferl George, e aggiunse che era Dio a chiamarlo a sé tramite lei. George avrebbe voluto rispondere, ma il suo lato oscuro assor-

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biva la luce. A quanto pareva, gli angeli e sua madre stavano facendo sforzi prodigiosi per aiutarlo a seguire la luce di Dio. Poi accadde un vero miracolo: suo figlio, Jerome, telefonò all'hospice per dire che stava venendo da suo padre. Era stato rilasciato una settimana prima del previsto, ma appena fuori era ricaduto nelle maglie della tossicodipendenza. Quando arrivò, George fu felicissimo. Pianse e gli ripeté di cambiare vita, di non seguire la sua stessa strada. «Per favore, figlio mio, smettila di vendere e di fare uso di droghe! Guarda come mi hanno ridot­ to!». Gli rivelò cosa aveva imparato durante la rassegna della sua vita. «Tu rivivi quello che ho vissuto io: senti dentro di te quelli che feristi e quelli che ti ferirono, ed è una sensazione orribile che ti mette in ginocchio. Senti di essere indegno di stare al mondo e temi il giudizio che verrà», Jerome scoppiò a piangere, men1::(e nella stanza l'aria si faceva tetra e pesante. La notte precedente Jerome aveva avuto una visione in cui sua nonna aveva insistito che doveva andare da suo padre per­ ché stava male. Il sogno era stato talmente vivido che Jerome si era alzato di buonora proprio per cercare George. «Eccomi qui, papà. Sono arrivato in tempo. Ti voglio bene. Te ne ho sempre voluto, papà», ammise singhiozzando. Proprio allora, ci riferì George, la stanza si riempì di un'in­ tensa luce bianca che gli trapassò l'anima. Vide tre raggi lumi­ nosissimi, emanati rispettivamente da sua madre, suo figlio e da se stesso, unirsi in un triangolo splendente. Le apparizioni scure al suo fianco si disintegrarono, e l'ombra che aveva dentro sfrec­ ciò fuori dal suo corpo e si dissipò come le altre. Sentiva di esse­ re finalmente guarito. Allora molti angeli di un blu luminoso spiccarono il volo e passarono attraverso il soffitto. Fra tutti, uno gli disse: «Non avere paura. Sono l'arcangelo Michele. Siamo riusciti a combattere la tenebra che era in te. Ora credi?». Michele aveva poi rivelato a George che gli esseri spirituali lavo­ rano di continuo per proteggerci da noi stessi. Grazie a loro, abbiamo rinnovate possibilità di muoverci verso Dio. Sempre più debole, George parlava a stento; tuttavia riuscl a dirci di aver visto un ragazzino che amava Dio, sua madre e

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tante altre persone. «Accidenti! Quel bambino sono io! Insieme a me stanno guarendo anche mio padre, e mio nonno, e il mio bisnonno! La lezione si sta compiendo su tutta la nostra linea di sangue!». Sembrò ascoltare alcune voci, poi chiese di suo padre. «Sapete cosa dicono? "Tuo padre è qui, ma sta ancora mettendo a posto le cose. Grazie a te, sia lui sia i ragazzi che hai ucciso sono stati elevati al livello di amore successivo". Capite perché ogni anima è importante anche per le altre?». Poi ci disse: «Se solo aveste potuto vedere quanti angeli, e quanto erano grandi, e con che fatica cercavano di indurmi a volermi bene! Se tutti potessero avere queste visioni, l'umanità intera ne trarrebbe un grande e duraturo beneficio. Non solo qui, ma anche nell'aldi­ là». Assistendo al prodigio in corso, Jerome ebbe l'impressione di venire abbracciato da un angelo, che gli aveva anche sussurra­ to: «Mai dubitare degli angeli di Dio. Qualsiasi cosa tu faccia, non sarà mai tanto malvagia da non poter essere perdonata. Le persone ci fanno del male quando sputano sentenze e ci ferisco­ no, verbalmente o nei sentimenti, andando a minare la nostra identità e la nostra autostima. Spargi questa voce. Ognuno di noi è responsabile anche per gli altri. Spetta a tutti cambiare il mondo. Ancor più importante è pregare, perdonarsi e amarsi. Impara a volerti bene; e la luce distruggerà la tua tenebra. Impara dal tuo passato per poter andare avanti». «Ora capisco cos'è quel che tutti vedono come il diavolo. Nonostante Dio viva in noi, abbiamo comunque un lato oscuro, ed è il nostro libero arbitrio portato agli estremi. Non va odiato, ma abbracciato e capito. Mi sono sempre identificato solo con il mio lato oscuro, almeno finora. Era tanto familiare che mi riusciva difficile vedere altre parti di me. È così che si perpetua la tenebra». Poi, tenendo la mano di suo padre, recitò una pre­ ghiera ad alta voce: «Gesù, non sono degno di riceverti. Mi di­ spiace e voglio cambiare vita. Per favore, aiutami». «Signore, ti voglio bene e ti accetto come mio Salvatore», disse George con un filo di voce, tanto era debole. «Ora sono pronto a renderti la mia vita». Poi con un largo sorriso disse:

«Una luce immensa, la luce di Dio disintegra l'oscurità». Con aria confusa, spostò lo sguardo e lo fissò su un punto. «Non è bella la mia mamma? Indossa vesti bianche su sottovesti blu. Ha i capelli sciolt~. È luce pura». Contò gli angeli nella stanza e ci disse che erano più di quattordici. «Ogni molecola luminosa è un angelo. Ce ne sono di grandi e di piccoli». «Eccomi. Mamma mi tiene per mano». George sorrise e ricadde nel letto. Se n'era andato. NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DI DIALOGO CON JEROME, IL FIGLIO DI GEORGE

Rimasi in contatto con Jerome, il figlio di George, che era in libertà vigilata per aver spacciato droga. La sua vita è incredibil­ mente migliorata. Ha un lavoro fisso e un matrimonio sano. Ama sua moglie' e ama Dio. Passa quasi tutto il suo tempo libe­ ro andando nelle scuole superiori a parlare delle sue esperienze, della morte di suo padre e degli insegnamenti degli angeli. È un cristiano praticante e collabora con un programma cittadino di counseling ai tossicodipendenti. Ogni tanto deve ancora lottare con la sua dipendenza dalla droga, ma trae energia per resiste­ re dai suoi frequenti sogni di suo padre e degli angeli. «Ognuno deve lottare per qualcosa in vita sua», mi disse un giorno. «È un continuo amare e perdonare, se stessi e gli altri. A volte ti incasini, ma fa parte del processo di apprendimento. Mio padre era incasinato. Suo padre era incasinato e io ero incasinato. Ora è diverso. Stiamo cambiando il significato di appartenere alla nostra famiglia. Per mio figlio sarà tutto diver­ so. Se non avessi vissuto quello che accadde alla morte di mio padre, non sarei in grado di aiutare gli altri, n~ la mia famiglia, né me stesso». Grazie alla testimonianza e al counseling di Jerome, dieci-venti ragazzi lasciarono le loro bande di strada per andare a scuola e frequentare la chiesa del loro quartiere, dove non smettono di raccontare che Dio ha cambiato la loro esistenza in meglio. Jerome dice che si aiutano l'un l'altro a rimanere lontani dalla droga.

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Jerome sta facendo la differenza in questo nostro mondo e veglia sulla nuova eredità di suo padre: un'eredità di cambia­ menti positivi resi possibili dal perdonarsi, dall'amarsi, dalla speranza e dalla redenzione.

La telefonata

ro seduto nella Stanza 236 con una mia paziente. A 88 anni. Mary Esther era ancora la personificazione del calore, della gentilezza e dell'amore incondizionato. Parlava spesso di Gesù, della sua fede e delle sue attività alla Lakewood Churéh. Era una cristiana devota e aveva accettato senza riserve l'approssimarsi della morte. Quel giorno ascoltavo i suoi piacevoli aneddoti di vita tenendole la mano, quando all'improvviso peggiorò. «So che non mi è rimasto molto tempo», sussurrò con la fronte solcata da rughe profonde, «e non ho paura. Ho pochi rimpianti, e sono felice di incontrare il mio Creatore. Ma sono preoccupata per mio figlio, Isaac. Sta passando un momento difficile per colpa della mia malattia ter­ minale. La sua fede in Dio vacilla. Lo vedo distrutto. Dottor Lerma, non pòsso lasciarlo cosÌ». «Mary, suo figlio starà bene. Il nostro staff per la gestione del lutto lo sosterrà e gli fornirà il couns~ling di cui ha bisogno. È comprensibile che Isaac si senta triste, e in effetti necessario per­ ché possa riprendersi. Mary, sa bene che suo figlio le è molto affe­ zionato». «Lo so che mi vuole bene, e so che Dio troverà il modo di aiu­ tarlo a tirare avanti. Ma io sono tutta la sua famiglia. L'ho avuto lardi, dopo che mi era stato detto che non potevo avere figli. Fu ,ma grande sorpresa, sia per me sia per mio marito. Un dono direttamente da Dio. Isaac nacque che avevo 44 anni, e adesso l'he me ne vado ne ha anche lui 44. Suo padre e io stravedeva­

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mo per lui. Ma il mio caro marito morì qualche anno fa, e a nes­ suno dei due sono rimasti altri parenti. Isaac ha dedicato a me la sua vita, sempre pronto ad assicurarsi che avessi tutto quello che mi serviva. Non si è mai sposato. Vorrei tanto che avesse qualcuno che gli stesse vicino». «Mary, Isaac non è impegnato a'lla Lakewood Church?». «Sì, ma ultimamente sembra non volerci più andare. Insiste che vuole rimanere con me quando non deve lavorare. Ho paura che sia arrabbiato perché Dio mi porta via; ma per me è tempo di andare. Sono stanca». «Mary, stasera andrò io a vedere cos'ha. 1.0 ascolterò e preghe­ rò con lui. Gli dirò che farò del mio meglio perché il trapasso di sua madre sia sereno e indolore». Con il viso rigato dalle lacrime, Mary implorò a voce alta: «Mio buon Dio, grazie per avermi portato in questo luogo pieno di affet­ to, e per questo giovane medico che educhi e guidi alla preghiera insieme ai suoi pazienti e alle loro famiglie. Le tue opere, Dio Onnipotente, sono evidenti. Ti prego, continua a elargire le tue benedizioni su questa casa ricca di amore». Fui commosso dalle sue parole, e proprio allora mi resi conto che quella donna era un'unta del Signore. Parlava con una tal passione e un tal fervore che le sue preghiere arrivavano dritte al cuore di chi la udiva, simi­ li a dardi di puro amore. Mi strinse la mano, mi ringraziò, mi disse che ero un brav'uomo, poi se ne andò a dormire tranquilla. Prima di uscire le diedi un bacio sulla fronte, pensando che mi ricordava tanto «Zia Lala», la mia prozia, una donna forte, devota e premu­ rosa. Quando arrivò, quella sera stessa, invitai Isaac a sedersi con me nel salone dei familiari e gli chiesi come andava. Non essen­ do di natura espansiva, all'inizio fece finta di niente; ma quan­ do andai più a fondo, dicendogli che sua madre era preoccupata per lui, crollò e si mise a piangere. «Non ce la faccio», singhiozzò, «mia madre è tutto per me. Abbiamo fatto ogni cosa insieme. Non ho mai sentito neanche il bisogno di cercare un'al· tra donna. Abbiamo moltissimo in comune, e ci piace farci com­ pagnia. Lei è brillante, incline alla spiritualità, divertente ... una

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persona semplicemente meravigliosa. Sono fortunato ad averla come madre. Da che sta morendo, mi sembra di non avere più una vita. Lo so che è preoccupata per il mio rapporto con Dio, e per me è lo stesso. lo cerco di amare Dio come mi ha insegnato lei; ma a quanto pare, senza averla accanto, non riesco a sentir­ lo. È mia madre il canale che utilizzo per comunicare con Lui. Come farò senza di lei?». Lasciai vagare la mente per un istante, pensando a come mi sarei sentito se fossi stato anch'io sul punto di perdere mia madre. Presto arrivai a comprendere il suo stato d'animo e gli offrii una spalla su cui piangere. Ad ascoltarlo, a sentire il suo dolore così profondo, mi si stringeva il cuore; ma in quel momento tutte le parole mi vennero meno. «Preghiamo, Isaac», dissi infine, ricordando la promessa fatta a Mary Esther. Con la testa china in segno di rispetto, pregammo che l'amore di Dio portasse conforto a sua madre, lenisse il dolore del figlio e riac­ cendesse la scintilla del suo rapporto con Dio. Sentendo l'amo­ re divino materializzarsi in ogni fibra del proprio essere, Isaac pregò Dio con convinzione di dargli un segno che sua madre sarebbe giunta in cielo. Gli chiese anche di aiutarlo a diventare un vaso depositario e un divulgatore della sua Parola. Isaac si stava riprendendo proprio davanti ai miei occhi, e la sua guari­ gione aveva per me un che di ovvio: Isaac amava Dio ed era afflitto per la sua perdita. «Dottor Lerma, sa cosa ho appena capito?» mi chiese dopo essersi calmato. «No, Isaac. Per favore, me lo dica lei». «Ho capito cosa cercava di insegnarmi mia madre sull'infini­ LO amore di Dio per l'uomo. Se Dio lasciò che il suo unico Figlio morisse per noi, questo cosa ci dice sul suo amore nei nostri confronti? Amo Dio e lo ringrazio per tutti i doni che mi ha elar­ gito e per avere una madre tanto affettuosa. Le dirò addio, la lascerò libera di incontrare l'Uomo che inviò suo Figlio a mori­ re per i miei peccati». Isaac aveva avuto una rivelazione: più le si attaccava, più sua madre avrebbe continuato a soffrire affinché lui riuscisse a dirle addio e a trovare pace. «Non è il mio amore a tenerla qui», spiegò.

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«Al contrario. È la mia paura di restare solo. Si tratta solo di supe­ rare questa paura. Gesù sapeva che quasi tutti ci sentiamo così al momento di una perdita, e ci insegnò come affrontarla. "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro". Ora capisco». La sua ripresa era imp~ssionante. Alcune parti della mia anima stavano guarendo insieme alla sua. Trovo sempre straordinario il modo in cui Dio riesce a influenzare più vite con una sola. «Adesso voglio soltanto avere la certezza che mia mamma arriverà in cielo. Secondo lei, è chiedere troppo a Dio?». «Certo che no, Isaac». Gli raccontai alcune storie di altri fami­ liari che avevano ricevuto la conferma che i loro cari defunti erano felici e con Dio. «Dottor Lerma, immagino che Dio comprenda il nostro dolo­ re, e ci dia quello di cui abbiamo bisogno per essere felici e tro­ vare pace riguardo alla morte». «Si. La morte fa parte della vita, e ciascuno di noi prima o poi deve farne esperienza». Ma Isaac continuava a vacillare con i suoi sentimenti doloro­ si. Si immaginò che, se se ne fosse andato lui per primo, non avrebbe dovuto provare il dolore terribile che invece stava affrontando. «Perché non ho potuto andarmene prima io?» sbottò di punto in bianco. Gli domandai se voleva davvero mori­ re per primo, lasciando che sua madre provasse il dolore di per­ dere il suo unico figlio. Ci pensò su un attimo, poi ammise di essere egoista. «Non è facile trovare una via d'uscita, me ne rendo conto. Ci sono vari livelli di dolore. Se proprio dobbiamo morire, allora prima dovrebbero andarsene i più vecchi, poi i più giovani. Perdere un figlio deve essere la cosa peggiore. Ma Dio l'ha scelto, il dolore peggiore! Di perdere il suo unico Figlio. Accidenti! Che Dio affettuoso abbiamo!». Fu sorprendente vede­ re Isaac passare da un'intuizione all'altra, arrivando a compren­ dere e ad accettare la morte imminente di sua madre. Sicuramente era Dio che gli stava impartendo una lezione, e lo faceva alla grande. Infatti, quella consapevolezza parve calmare Isaac. Quando andò a trovare sua madre, riuscì a rassicurarla che aveva ritro­ 152

vato Dio: «Non preoccuparti, mamma. Amo Dio. Mi hai inse­ gnato bene. Voglio che tu vada con Dio appena ti sentirai pron­ ta. Veglia su di me quando sarai dall'altra parte». Ormai incapa­ ce di parlare e poco reattiva, Mary Esther si limitò a sorridere, dando ad Isaac la conferma di cui aveva bisogno e ricevendo la propria, grazie alla quale riuscì a dormire profondamente per i due giorni successivi. Un mattino Isaac chiamò per dire che aveva un guasto alla macchina e che non sarebbe riuscito a passare prima del pome­ riggio. Era preoccupato di non poter venire e ci fece promettere di dire a sua madre che sarebbe stato n non appena la macchi­ na fosse stata riparata. Andai da Mary Esther e le sussurrai il messaggio del figlio. Lei apri subito gli occhi e cercò di parlare. «Meglio cosh, riuscì a dire lentamente. «Per me è giunta l'ora di andare, e non p<?sso partire se lui è qui. Gli angeli mi porteran­ no a casa prima che arrivi». Controllai i suoi segni vitali. Sembrava avere un impeto di energia, un fatto piuttosto comu­ ne a pochi minuti o a poche ore dalla morte. Mi sorrise e disse che voleva dormire. Mi accomiatai dandole un bacio sulla fron­ te mentre lei chiudeva gli occhi tranquilla. Ma ancor prima di arrivare alla porta udii un sospiro rauco che riconobbi subito per quello che era: il suo ultimo respiro. Mi vol­ tai e vidi ciò che pensai fosse un alito di fumo bianco levarsi dalla sua bocca aperta. Mi resi conto che se n'era andata. Tornai di fian­ co alletto e le controllai il polso. Non c'era segno di vita. Chiamai un'infermiera nella Stanza 236 a farmi da testimone mentre dichiaravo l'ora del decesso. Le infermiere provarono più volte a raggiungere Isaac per avvi­ sarlo che Mary Esther era passata a miglior vita, ma la linea tele­ fonica era continuamente occupata. A un paio d'ore dal decesso, ero alla postazione infermieristica a chiedere se erano riuscite ad avvertire il figlio di Mary, quando il telefono squillò. r:identificativo del chiamante mostrava la Stanza 236. I:infermiera tirò su la cornetta, chiedendosi chi fosse a chiamare proprio da n. «Sì? Pronto?» rispose, convinta che Isaac fosse entrato nella stanza senza che lei l'avesse visto. Rimase in ascolto 153


per un momento, assumendo dapprima un'aria confusa, poi spa­ ventata. Con un tremito mi passò il telefono e mi fece cenno di ascoltare. Quando accostai il ricevitore all'orecchio, udii una voce molto disturbata e distante dire: «Dica a mio figlio che sto bene. Dica a mio figlio che sto bene». La ~e fu ripetuta diverse volte . poi il telefono tacque. «L'ha sentita? Era Mary Esther? Sembrava proprio Mary Esther», commentò l'infermiera. Entrambi ci fissammo per un attimo, poi ci incamminammo verso la Stanza 236. Mary Esther era ancora nel letto come l'ave­ vamo lasciata. La controllai e constatai che era fredda e morta. Impossibile che avesse fatto lei quella telefonata; eppure in came­ ra non c'era nessun altro. Se qualcuno fosse uscito dopo aver tele­ fonato, l'avremmo visto dalla postazione infermieristica. Circa una mezz'oretta più tardi arrivò Isaac. A giudicare dalla sua faccia, aveva appena smesso di piangere. Gli cinsi le spalle con un braccio e gli dissi che sua madre se n'era andata mentre lui era ancora per strada. Gli riferii le sue ultime parole, e lui mi chiese se le avevo accostato la cornetta alla bocca perché lei potesse parlargli. Gli risposi di no e gli domandai perché me lo chiedeva. «Non pensi che sia impazzito, dottore, ma ho ricevuto una telefonata di mamma che mi diceva che stava bene. Però non rispondeva alle mie domande. Poi è caduta la linea. Ho provato a chiamare la postazione infermieristica, ma non rispondeva nes­ suno». Anche noi avevamo cercato di chiamare lui, ribattei, ma avevamo avuto lo stesso problema. «Sono corso qui più in fretta che ho potutO», affermò. Gli dissi che sua madre era morta più di un'ora prima, e che avevamo ricevuto una telefonata simile con lo stesso messaggio: di dire ad Isaac che lei stava bene. «Quando mi ha chiamato un'ora fa, pensavo fosse viva e che fosse solo la linea disturbata», interloqul Isaac. «C'erano un sacco di interferenze, ma lei continuava a ripetere: "Isaac, sto bene. Ti voglio bene. Non preoccuparti per me. Sto bene". Pensavo chiamasse dall'ospeda­ le, per questo ho cercato di telefonarvi più volte per vedere come stava. È mai successo prima?». Era la prima volta che ci accade­ va una cosa del genere, gli assicurai. «Secondo lei, perché proprio con mia madre?» chiese Isaac.

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«In realtà, non mi sorprende affatto, dopo aver visto la devozio­ ne di sua madre per Dio. L'amore è la forza più potente dell'uni­ verso, ne sono convinto. Mary Esther ci teneva così tanto a dirle che era lieta di riuscire a penetrare i veli che separano la vita dalla morte e a trovare un modo di comunicare con lei. Sua madre aveva uno spirito molto forte; se qualcuno ce l'ha fatta ad arriva­ re in cielo, è proprio lei». NOTE DEL DOTTORE

In tutti i miei anni di servizio all'hospice, quella fu l'unica

volta in cui vissi di persona un evento del genere. Era possibile che Mary Esther avesse comunicato con noi da un'altra dimen­ sione? Avevo già sentito parlare del fenomeno delle voci elettro­ niche (EVP, Electronic Voice Phenomenon), ma ero scettico al riguardo. Ma visto che la comunicazione era awenuta tramite il circuito elettrico del telefono, il messaggio di Mary Esther non era stato forse un EVP? In parte sì, per lo meno nell'ipotesi che l'uomo continui a esistere come un'entità intelligente sotto forma di energia elettromagnetica. Se così fosse, lo credo plau­ sibile. Be', se si crede in Dio tutto è possibile. In fin dei conti, Isaac aveva pregato Dio di dargli un segno che sua madre fosse arrivata in cielo. Dio a volte riesce veramente a impressionarci. Ai primi tempi del suo ricovero, ebbi modo di tenere con Mary Esther conversazioni di profondo interesse. Mi parlò del dono che Dio concede a tutte le anime dei defunti: la possibilità di far sapere ad alcuni familiari di essere arrivate sane e salve in cielo. Mary Esther credeva che a ognuno di noi fosse concesso di dire addio nel modo che meglio si confaceva sia a noi sia ai nostri cari. Sono poche le anime dei moribondi che aspettano l'arrivo dei propri cari per andarsene; nella maggior parte dei casi, mi spiegò Mary Esther, i moribondi decidono di partire quando i familiari non sono presenti. È l'unico modo per rispar­ miare loro l'esperienza dolorosa di vederli morire. Mary Esther sapeva che per suo figlio sarebbe stata troppo dura vederla esalare il suo ultimo respiro. Così, come molte

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13 Il cerchio si chiude

altre anime, aveva atteso il momento in cui Isaac non ci sareb­ be 'stato. Magari erano stati gli angeli stessi a provocare il gua­ sto alla macchina, rendendogli meno traumatica la dipartita di sua madre. Di certo ci misero lo zampino nello stabilire un ponte fra cielo e terra con quella telefonata miracolosa, Dopo che sua madre morì, Isaac conobbe una donna simpa­ tica nel suo gruppo di studio della Bibbia. Iniziarono a parlare un giorno che Isaac rese testimonianza della devozione di sua madre. La donna rimase talmente colpita dall'indole affettuosa di Isaac che se ne innamorò. L'anno successivo si sposarono, e adesso hanno una bella bambina che hanno chiamato Mary Esther. La bimba ha molto in comune con sua nonna, prima fra tutte un'inclinazione per l'amore e la preghiera. Isaac dice che quando squilla il telefono gli vengono ancora i crampi allo stomaco. Pensa spesso che possa essere ancora sua madre; ma finora non c'è stato nessun messaggio nuovo.

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ilton Lowe fu un paziente meraviglioso la cui preghie­ ra più sentita, formulata tempo addietro, fu esaudita soltanto a pochi giorni dalla sua morte, nel 2006. In realtà tutto era iniziato dieci anni prima, nel 1996. L'ex presi­ dente George H.W. Bush e l'ex first lady Barbara Bush sostengo­ no da anni il movimento degli hospice. Nel 1996 svolsero un ruolo fondamentale nel dare vita al primo centro residenziale di cure palliative non profit all'interno dell'istituto medico più grande del mondo: il Medical Center Hospice nel M.D. Cancer Center di Houston, in Texas. Barbara Bush fu la reI atri ce chia­ ve all'inaugurazione della nuova struttura, e parlando dei servi­ zi che l'hospice avrebbe fornito, ricordò commossa una bella bambina' morta di leucemia a soli tre anni: sua figlia. Comprendendo appieno il profondo dolore legato alla perdita di un figlio, George e Barbara Bush speravano che le case di cure palliative avrebbero contribuito in qualche modo a fare sÌ che il viaggio più difficile della vita fosse anche il meglio riuscito. A dieci anni dall'inaugurazione, e dopo altrettanti anni di ser­ vizio come direttore sanitario dell'hospice, fui testimone dell'utili­ tà di questa struttura per un uomo che stava morendo di cancro ai polmoni all'ultimo stadio. Sin dal giorno in cui l'avevo cono­ sciuto, Milton era sempre stato pieno di energia e di ottimismo. Mi sedetti al suo fianco e prendendogli la mano gli domandai se aveva qualcosa da chiedermi. «Nessuna domanda», rispose, «ma ho un messaggio da parte della gente qui intorno al mio letto». 157


«Un messaggio per chi e di chi?» chiesi. «Per lei e per tutti i suoi pazienti, da questi sei esseri belli e luminosi che penso siano angeli». «Sono qui adesso?». «Sì, e ci abbracciano e ci amano entrambi», affermò Milton. «TI messaggio è semplice. Riguarda il puro amore. Gli angeli vogliono che lei dica ai suoi pazienti e ai loro familiari addolo­ rati che Dio è Il a soffrire con loro e a preparare le loro menti, i loro corpi e i loro spiriti a provare il suo amore infinito, incon­ dizionato e risanatore. Infatti, per sentire tutto il suo amore, bisogna essere preparati fisicamente, emotivamente, interperso­ nalmente e spiritualmente. L'energia evocata tramite la malattia e il desiderio di vivere ci focalizza sul nostro Creatore. Ed:è attraverso il suo desiderio di vivere che impariamo a rispettare il nostro ambiente e la vita per cui esso è stato creato: la vita umana. A noi tutti viene data ropportunità di apprendere que­ sta lezione finale e preziosissima prima di esalare il nostro ulti­ mo respiro». «Significa forse che ogni essere umano sulla terra deve soffrire per poter capire il dono della vita?» chiesi a Milton. «Dottor Lerma, il solo trovarsi in questo corpo, lontano da Dio, è sofferenza. Lei più di tutti dovrebbe saperlo», replicò. «Cerco solo di capire, Mi/ton». «Gli angeli verranno da lei fra poco e risponderanno a tutte le sue domande. Per adesso, continui ad amare, a consolare e a ridere con i suoi pazienti». Gli chiesi in che modo Dio rivelava il suo amore infinito. «Be', dottor Lerma, gli angeli mi hanno appena detto che ieri notte Dio udì la mia preghiera e la esaudì alla perfezione». «Quale preghiera?» domandai. «Le piacerà», rispose e prese a raccontaI'Il1i una storia mera­ vigliosa sull'amore di Dio. Poco dopo la sua inaugurazione, il Medical Center Hospice aveva commissionato a Milton un'ope­ ra d'arte di vetro colorato da donare ai Bush come riconosci­ mento per il loro sostegno agli hospice. TI tema dell'opera era «TI caleidoscopio della cura».

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TI manufatto avrebbe dovuto essere consegnato in occasione del Convegno annuale degli hospice del Texas e del New Mexico; ma all'ultimo momento il presidente e la signora Bush non ave­ vano potuto partecipare. Così r opera era rimasta all'hospice per molti anni, e Milton con immensa tristezza aveva iniziato a dubitare che sarebbe mai giunta al presidente Bush e alla sua famiglia. Un giorno sua figlia Jan, un'assistente sociale all'hospi­ ce, aveva rimosso il manufatto dal suo triste piedistallo in cima a uno schedario, e l'aveva portato a casa per ripulirlo e custodir­ lo in un luogo più sicuro. Su richiesta del padre, Jan aveva cercato più volte (ma senza riuscirci) di far recapitare l'opera alla famiglia Bush. Aveva per­ sino telefonato alla George Bush Presidential Library, ma anche lì le era stato detto che non potevano garantirle che i Bush l'a­ vrebbero vista. Nel corso degli anni Jan aveva fatto molti altri tentativi di contattare la famiglia presidenziale, ma per i motivi più svariati l'opera non era mai giunta a destinazione. (Era stato persino discusso di inaugurare nuovamente l'hospice del Texas Medical Center e di donare allora il manufatto ai Bush; ma il progetto non era mai stato realizzato). «Sono sicuro che prima o poi ci penserà Dio a farla recapita­ re», aveva detto Milton alla fine. «Non preoccupiamoci più. Parliamo invece della diagnosi che mi hanno appena fatto. Non ci sono altre terapie?». Mi raccontò che nel maggio del 2005 gli era stato diagnosticato un cancro ai polmoni e che soltanto una settimana dopo sua moglie aveva avuto un forte ictus cerebrale mentre erano ad Austin, in Texas, a un ritrovo dei reduci della Seconda guerra mondiale. Seduta a cena insieme a tutta la famiglia, la donna aveva perduto all'improvviso la capacità di parlare e il suo livello di coscienza era precipitato. All'ospedale una TAC aveva evidenziato che a ridurla in fin di vita era stata una forte emorragia intracranica. Avendo perso la speranza che si riprendesse, Milton aveva acconsentito a sospendere la venti­ lazione artificiale; ma con sua grande sorpresa, sua moglie aveva ripreso a respirare normalmente dopo essere stata estuba­ ta. Ciononostante, non aveva più reagito a nessuno stimolo.

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A quel punto Jan mi aveva contattato per chiedermi di occu­ parmi di sua madre e di farla riportare a Houston, in Texas, dove la donna aveva sempre voluto morire. Avevo accettato, facendola ricoverare il giorno seguente in presenza di tutta la sua famiglia, ivi incluso Rickey, il loro Boston Terrier. La pazien­ te era stata immediatamente messa a suo agio, e solo ventiquat­ tr'ore dopo, il giorno della festa della mamma, aveva fatto il suo ultimo viaggio tornando fra le braccia di Gesù. Inutile dire che !'intera famiglia era stata incapace di manife­ stare apertamente il proprio dolore, perché anche il padre, con il suo cancro, era malmesso. Nelle settimane successive Milton aveva continuato la chemio e la radioterapia in contemporanea. Per consolarsi era andato più volte a rimestare fra gli oggetti di sua moglie, in particolare fra le centinaia di sue lettere e fotografie. Gli avevano dato la forza di sopportare il dolore indotto dalla sua aggressiva chemioterapia. Per tenersi occupato aveva anche ini­ ziato a lavorare a nuovi progetti in vetro colorato. Un giorno, men­ tre preparava il suo angolo di lavoro, si era imbattuto nell'opera d'arte che aveva fatto per la famiglia Bush quasi dieci anni prima. Parlando fra sé ad alta voce, si era domandato cosa ne sarebbe stato, se sarebbe mai giunta alla sua legittima dimora. Ma quella non era forse una metafora? Non stava forse parlando del suo viaggio di ritorno al Creatore, con il quale avrebbe ritrovato anche sua moglie? Con una muta preghiera, sapendo che ben presto Dio sarebbe venuto a prenderlo, Milton mi disse di avere chiesto al Signore di fare sì che l'opera d'arte dei Bush avesse l'onore che ad essa spettava prima che lui morisse. Non faticai a intuire che que­ sto significava molto per lui. Disse che sarebbe stata «un raggio di speranza per chi fosse arrivato a comprenderne il significato». Alcuni mesi dopo, Jan e suo marito erano stati invitati a una proiezione privata di un nuovo film su Pocahontas. Si trattava di un evento benefico in favore del Bo's PIace, un hospice per bambini di Houston, in Texas, istituito dopo la morte di Bo Neuhaus [Laurence Bosworth «Bo» Neuhaus, è un bambino morto di cancro al fegato all'età di 12 anni nel 1985, lasciando dietro di sé una grande eredità d'amore e di affetti - N.d.R.]. Si 160

poteva partecipare solo su invito, e Barbara Bush ci sarebbe stata. «Che sia la risposta alla mia preghiera?» si era chiesto Milton non appena ne era stato informato. Una volta arrivata a teatro, sua figlia si era resa conto che gli invitati costituivano un gruppo particolarmente ristretto, e si era sentita onorata di partecipare all'evento. Era in piedi nell'a­ trio, quando, voltandosi, si era ritrovata accanto niente meno che Barbara Bush. Jan era stata a dir poco sorpresa, disse Milton, una delle poche volte che era rimasta senza parole. Poi, cogliendo al volo quella rara opportunità, aveva preso coraggio e aveva rivolto la parola alla signora Bush. Si era presentata come una «tal dei tali che lei non conosce». Lex first lady aveva sorriso e replicato che in realtà lì dentro non conosceva nessu­ no. Jan le aveva detto di avere qualcosa di suo, ma non sapeva come farglielo avere. La signora Bush aveva assunto un'aria sor­ presa e aveva ràccomandato a Jan, qualsiasi cosa fosse, di non cercare di portarglielo a casa, perché avrebbero potuto anche spararle. Di rimando, Jan le aveva assicurato che non aveva nes­ suna intenzione di farsi sparare, poi le aveva raccontato breve­ mente la storia del manufatto. A sentirla parlare del padre che, malato terminale di cancro, sarebbe stato immensamente felice se la sua opera fosse giunta a destinazione prima della sua morte, la signora Bush si era commossa e aveva suggerito a Jan di contattare la sua segretaria per organizzarne il recapito. «Fu molto più di una coincidenza. Fu una manna dal cielo», com­ mentò Milton. TI giorno dopo Jan aveva telefonato all'ufficio di Barbara Bush. La segretaria, già al corrente della loro conversazione, le aveva chiesto quando avrebbe consegnato il pacco per avere il nulla osta dei servizi segreti. Jan aveva suggerito un giorno e la segretaria era stata d'accordo. Non appena aveva appreso della conversazione e del piano, Milton si era riempito di gioia. Tutto entusiasta, nonostante gli venissero meno le forze, aveva trova­ to l'energia sufficiente per fare da supervisore alla pulitura del­ l'opera, con Jan lì ad assisterlo e ad assicurarsi che il tutto incontrasse la sua approvazione. 161


Milton era stato davvero felice, anche se era molto malato. Come da programma, Jan era andata a consegnare il manufatto all'ufficio della signora Bush e aveva parlato con gli agenti dei servizi segreti, che le avevano chiamato la segretaria .. La donna aveva molto apprezzato l'opera ~ assicurato a Jan che il presi­ dente e la signora Bush l'avrebbero vista. Quando aveva sentito che il suo lavoro era stato consegnato, Milton aveva tirato un sospiro di sollievo e detto: «Finalmente». Sia Jan sia lui aveva­ no provato un profondo senso di compimento, mi confidò Milton, aggiungendo che gli angeli gli avevano detto che era così che doveva andare secondo i disegni di Dio. Alcuni giorni dopo, Jan ricevette una bel biglietto dalla signo­ ra e dal signor Bush. 26 gennaio 2006 Cara Jan Taylor, TI bellissimo manufatto di vetro a forma di cerchio che suo padre fece per George e per me dieci anni fa è arrivato qui (a casa nostra) ieri. Sono commossa e spero voglia riferire a suo padre che siamo molto felici di averlo ricevuto. È magnifico, e dopo averne parlato a lungo, abbiamo deciso di metterlo nella George Bush Presidential Library a College Station, dove potranno ammirarlo per sempre migliaia di persone. Siamo molto orgogliosi degli hospice, specialmente del MedicaI Center Hospice. È diventato una parte importante del nostro centro medico e una realtà in crescita nel nostro paese. La serata di beneficenza per il Bo's PIace fu meravigliosa, anche se le confesso di aver preferito Bo's PIace al film. Era una pellicola giusto carina. Vada a vedere Glory Road - Vincere cam­ bia tutto. Quello è un gran film. Abbracci suo padre. Con affetto, Barbara Bush

suoi defunti parenti e sua moglie, la sua bella amica e compa­ gna. Gli angeli gli avevano raccontato che, avendo udito la sua preghiera, Dio aveva avviato una serie di eventi perché lui potes­ se congedarsi dalla vita terrena senza rimpianti. Dio esaudisce le preghiere che non sono egoiste e che da ultimo glorificano il suo nome. È attraverso l'amore incondizionato, l'altruismo e la gioiosa sofferenza che avvengono i miracoli. Gli eventi si di­ spongono in modo tale da arrivare a toccare e confortare chi ha un cuore aperto (così gli aveva detto sua moglie). Milton spirò quasi lo stesso giorno in cui era morta la sua compagna, in presenza di Jan e del cappellano. Entrambi lo videro sorridere e allungare le braccia verso l'alto prima di esa­ lare il suo ultimo respiro, e affermarono che proprio allora un lampo bianco era uscito dal suo petto ed era volato fuori dalla finestra. Diverse ore dopo, chi entrava nella stanza percepiva ancora ciò che era rimasto di quella scarica di energia statica. Quando morì, Milton era davvero felice: il lungo e difficile viaggio della sua vita era andato a buon fine. Dal canto mio, non potei fare a meno di chiedermi se Bo Neuhaus, per cui era stato realizzato lo spettacolo di beneficenza dove Jan e la signora Bush finalmente si erano incontrate, non avesse qualcosa a che fare con il chiudersi del cerchio. In ogni caso, fu esaudita una preghiera e completato un cerchio di vita.

Qualche giorno dopo avevo fatto ricoverare Milton nel nostro hospice, la struttura che avevano contribuito a fondare i Bush. Nei suoi ultimi giorni di vita, come succede alla maggior parte dei malati terminali, Milton aveva iniziato a vedere gli angeli, i

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14 Il vero credente

l dottor Johnson fu un uomo di grande fascino. Dotato di un'intelligenza sopraffina, era medico, avvocato e giudice impegnato nel sociale. Era anche noto per essere un ateo con­ vinto. La sua reputazione lo precedeva ovunque andasse, perciò anch'io venni a sapere molto di lui prima ancora che arrivasse al­ l'hospice. Aveva 68 anni e stava morendo di linfoma. Era una per­ sona gentile e altruista, un figlio unico rimasto orfano a soli otto anni, quando i suoi genitori erano morti in un incidente d'auto. Ritengo sia stato un onore rimanergli accanto nella sua ultima settimana di vita. Imparai a conoscerlo, scoprii da quali convin­ zioni erano state dettate le sue scelte di vita, e lo ascoltai parlare delle sue esperienze di premorte. La sua carriera era iniziata al pronto soccorso di un ospeda­ le luterano. Da giovane era stato un luterano praticante e aveva intrapreso la professione medica perché voleva rendersi utile agli altri. Lavorare al pronto soccorso gli era piaciuto anche per l'alto livello di adrenalina nella sala emergenze, una continua sfida non solo alle sue capacità mediche, ma anche alla sua mente sveglia. Eppure, trascorsi appena un pàio di anni, aveva iniziato a dubitare della sua scelta. Aveva visto troppi orrori, tra i quali due bambini sottoposti a tali violenze dai genitori da non sopravvivere alle ferite, diversi bambini uccisi inavvertitamente da spari esplosi da auto in corsa, e un altro bambino la cui mano era stata mozzata dal padre per avergli rovesciato la birra. n dottor Johnson non riusciva a capacitarsi delle cose terribili

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che talvolta le persone arrivano a farsi l'un l'altra, in particolar modo ai loro figli. I suoi stessi genitori erano stati uccisi da un auti­ sta ubriaco, una perdita che l'aveva ferito profondamente, tanto che spesso non aveva pensato ad altro se non a leggi più severe e a iniziative volte a incrementare la consapevolezza sociale, per fer­ mare almeno gli atti di violenza più gratuiti e insensati. Dopo tutta la sofferenza, il dolore e la violenza cui aveva assistito, il dottor Johnson aveva dichiarato che Dio non esisteva, perché un Dio benevolo non avrebbe mai permesso tali atrocità. Aveva deciso che, se non esisteva un Dio che intervenisse in quel caos, ci avrebbe pen­ sato lui. Primo, in considerazione di come erano morti i suoi geni­ tori, si era impegnato nel Mothers Against Drunk: Driving (MADD; Madri contro l'alcol alla guida), e, secondo, era stato uno dei fon­ datori del Teens Against Drinkingand Driving (TADD; Adolescenti contro l'alcol alla guida). Ma non era stato abbastanza. Dopo aver vagliato gli animi alla ricerca di provvedimenti effi­ caci per prevenire e impedire le violenze familiari (anziché limi­ tarsi a cercare di rimediare al male già fatto), il dottor Johnson aveva deciso di mettersi in lizza per il consiglio comunale. Non aveva vinto, ma si era fatto molti amici potenti, e la sua intima esigenza di impegnarsi contro la violenza era diventata ancora più forte. Era tornato sui banchi dell'università, aveva preso una laurea in giurisprudenza ed era diventato un avvocato specializ­ zato in diritto di famiglia. Guidato dalla rabbia e dal dolore per­ sonali, aveva lottato con tutte le sue forze per fare la differenza. Durante la sua carriera aveva introdotto svariati provvedimenti legislativi in seguito ai quali i carnefici vennero posti sotto più stretta sorveglianza, le punizioni si fecero più severe e fu messo a disposizione e impartito più counseling familiare alle vittime. Da quando aveva deciso che Dio non esisteva, mi disse il dottor Johnson, si era sentito investito di una maggiore responsabilità. Fare la differenza in questo mondo dipendeva da lui, così come da tutti noi. Nessun altro si sarebbe adoperato al nostro posto. Gli domandai se davvero non credeva più in Dio. Rispose che da quando era sul letto di morte se lo chiedeva spesso anche lui. «Tutti quanti stipuliamo la nostre polizze assicurative, e da

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bambino ne avevo anch'io una in regola per l'aldilà. Poi la di­ sdissi per tutti gli orrori che avevo visto, per la disumanità del­ l'uomo verso l'uomo. Eppure», continuò, «in questi ultimi gior­ ni vedo cose e vivo esperienze che sembrano essere fuori dal mio controllo e lontane dalle mie convinzioni. Vedo la vita da una nuova prospettiva». Mi chiese se aveva le allucinazioni e se è vero che in agonia si hanno delle visioni. «Molti miei pazienti videro cose simili a quelle che dice lei. Succede a tutti i tipi di pazienti, anche agli assassini, ai molestatori di bambini, e probabilmente anche all'uomo che mozzò la mano a suo figlio; tutti affermano di vede­ re apparizioni consolatrici. E le sue, come sono?». «Sono di un bianco brillante e mi danno molto conforto. Mi incoraggiano a vedermi per quello che sono veramente. Ma non mi merito le loro attenzioni, perché abbandonai la fede e negai Dio». Nel tentativo di consolarlo, gli narrai storie di altri pazienti che all'inizio si sentivano come lui, ma che alla fine avevano tro­ vato pace. «Penso che gli angeli vengano per tutti, a prescindere da come abbiamo vissuto la nostra vita. Il loro amore ci rinvigo­ risce, non importa in chi o in cosa crediamo». «Come succede?» mi domandò. Gli consigliai di chiederlo agli angeli, ma lui replicò: «Loro non mi parlano». Bastava che pensasse le domande, gli dissi, e le risposte gli sarebbero arriva­ te sotto forma di percezione extrasensoriale (ESP). Ridendo mi assicurò che avrebbe fatto un esperimento, anche se non crede­ va che le ESP esistessero veramente. Pensai che il dottor Johnson fosse un uomo davvero meraviglioso, anche se, essen­ do ateo, molti avevano sentenziato che sarebbe andato all'infer­ no. Odiava l'ipocrisia, non sopportava chi andava in chiesa e dichiarava di avere fede in Dio per poi rimanere del tutto indif­ ferente alle cose terribili della vita quotidiana. Gli chiesi se si sentiva un individuo spirituale. «Sì. Credo di s1», rispose. «È il mio spirito che detesta quello che vedo intorno a me. È il mio spirito che mi spinse a cercare di fare la differenza». «Dio le vuole bene e lei ha fatto un grande lavoro. Non c'è nulla

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per cui debba rimproverarsÌ». Mi ero già occup ato di altri atei, contin uai, e di solito si era trattat o di person e molto intelligeu.. ti e premu rose, e anche loro in fin di vita avevan o visto gli ange. li. Presum evo che, per la vita che avevan o vissuto, la fede non fosse davvero necess aria. Tuttavia, quand o avevan o visto angeli, in genere le loro convin zioni avevan o lasciat o il posto all'acc ettazio ne di un potere superi ore. Al dottor Johns on riusciv a ancora difficile creder e che le StiO esperi enze mistic he fosser o reali. Quest o perché ragion ava in termin i stretta mente logici. Allora decisi di fare riferim ento al mondo della fisica per metter mi sul suo-ste sso piano. «Andrò do qualch e parte dopo essere morto , o sempl iceme nte smette rò di esistere?» mi doman dò. «So solo cosa dice la fisica: l'energia non può essere creata nf!, distrutta, ma cambia solo forma». Gli uomin i sono esseri molto elettromagnetici, contin uai, una delle forme di energi a intelligenU e autono me più forti del pianeta. In noi c'è abbast anza elettricità da poter accend ere alcuni elettrodomestici. «Lei e il suo spirito non morirete mai. Solo il suo corpo cambierà forma». Afferrò quel con­ cetto e, pensan doci su, iniziò ad allarga re la sua visuale man mano che proseguiva la nostra conversazione. «Lei ha mai visto niente?» mi doman dò chinan do la testa da un lato. «No, ma sento spesso parlare di sfere di luce emanate dal ples­ so solare dei pazienti». «Sono sempr e sfere?». «A volte è un globo dai contorni ondula ti o leggermente distor­ ti; ma in genere sono sfere tonde e perfette». «Stran o. Secon do lei, perché emana no luce?». Riflettei un mome nto e ricord ai: «Se si lascia che l'energia segua il suo corso naturale, formerà quasi sempre una sfera per via delle forze gravitazionali. Assum e forma sferica per natura, come i pianeti». «È vero. Perché dovreb be essere divers a? Perché dovrem mo farla divent are diversa? Proba bilmen te è tutto perfet to così com'è, e non tanto strano come pensia mo». 168

Gli dissi che alcuni pazien ti mi avevano riferito che, nelle loro esperi enze di premo rte, il cielo è uguale alla terra, tranne che è perfett o. Nei giorni seguen ti il dottor Johns on parve rasse­ renars i e arriva re a capire in cosa credeva. Riuscì persin o ad accett are la realtà delle sue esperi enze. Una sera aveva visto entrar e nella stanza sua madre e suo padre. Incred ulo, aveva esami nato la dose di morfin a che gli era stata somm inistra ta (che però non era tale da causar e allucin a­ zioni). Mi descri sse !'imm agine che era passat a dai suoi occhi al suo cervello: «I miei genito ri non erano soli. Erano venuti con un estran eo. Me lo presen tarono . Era l'autis ta ubriac o che li aveva uccisi. Volevano che sapess i che tutto era andato nel modo in cui doveva andare . Chiesi loro: "Ma se tutto è accadu ­ to second o piani perfett i, perché mi sono allont anato da Dio?". Rispos ero che era necess ario affinch é seguis si il mio camm ino. «"Non credet e che l'avrei fatto comun que?" doman dai. "No. Ti saresti scorag giato, avresti perso tutte le tue forze e abban do­ nato la missio ne prima ancora di intrap render la"». Anche se era convin to che tutto sarebb e potuto accade re lo stesso ma in modo più semplice, il dottor Johns on afferrò il senso del discor so dei genito ri e ammis e che poteva anche esser­ ci del vero. A quel punto aveva capito tutto, ma non sapeva come spiega rmelo. «Dovrebbe vedere quel che ho in testa, le cose che mi mostr arono gli angeli. Anni luce avanti , eventi pre­ parato ri, passat o, presen te e futuro : tutto insiem e, tutto di enor­ me portat a. Impos sibile capire senza poter vedere». Ne aveva ancora un'imm agine nitida impre ssa in ogni singo­ la cellùla del suo corpo. La consap evolez za che Dio ci è sempr e accant o e la compr ension e del suo ruolo nel dramm a umano cresce vano in lui a dismis ura. «Non abbia pallra» , mi disse, «e non si lasci mai sviare da nessun o dalla sua passio ne. Ogni anima può aiutar e il mondo se lo fa con passio ne e amore incond iziona to. Quello che faccia mo per gli altri sfocia in una mutua ricomp ensa, perché fa bene anche al nostro cuore». Le sue parole mi toccar ono nel profon do e non le ho mai dimen ti­ cate' tanto meno il sentim ento che le aveva genera te. 169


«È arrivata la mia ora. Sono pronto», affermò il dottor Johnson !'indomani. E poche ore dopo morì serenamente, tenendomi la mano e dicendo: «Grazie». NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DI DIALOGO CON IL DOTTOR JOHNSON

Spesso mi chiedono se gli atei muoiono di una morte orribi­ le. Rispondo sempre che, stando alla mia esperienza, hanno un trapasso più facile di molti credenti. San Paolo era andato a tro­ varIo, mi raccontò un giorno il dottor Johnson, e dopo essersi presentato gli aveva parlato della sua passione per ciò in cui cre­ deva. Con quella stessa passione aveva scritto molta parte del Nuovo Testamento. E gli aveva detto: «Guarda chi sono, cosa ho fatto e come sono diventato un recipiente per il glorioso piano di Dio. Anche di te Dio si servì allo stesso modo. Agì tramite la tua rabbia e la tua passione». Sempre interessato alle esperienze spirituali, chiesi al dottor Johnson se poteva dirmi di più sulla felicità, sulla sofferenza e sulle malattie. Disse che, in termini di gioia, quando moriamo e finalmente oltrepassiamo gli angeli, ci ritroviamo faccia a faccia con il nostro Creatore. Per allora avremo già rivisto la nostra vita insieme agli angeli e ai nostri cari defunti. Quando arriva il Creatore, tutti gli angeli ci aiutano a concentrarci su di Lui. «Con Dio non si parla molto dei nostri pensieri e dei nostri torti; di quello se ne occupa la nostra coscienza. Tuttavia, durante la rassegna della nostra vita non ci chiediamo mai cosa abbiamo fatto per essere felici sulla terra. Ed è proprio questo che ci chie­ de Dio, perché tramite la vera gioia nutrita con la verità e l'amo­ re possiamo cambiare il mondo più che con qualsiasi altro mezzo».

«Se la felicità è tanto importante per Dio, come possiamo gioi­ re se chi soffre e chi fa del male, inclusi noi stessi?». «Per capirlo, bisogna capire la creazione del libero arbitrio, il dono più importante che Dio ci ha fatto. Esercitando il nostro libero arbitrio, possiamo scegliere la felicità invece della soffe­

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renza. La gioia è al centro di tutto. È il risultato finale di tutte le nostre azioni. Per me si è trattato di lavorare con gli orfani o con i bambini maltrattati. Per lei, dottor Lerma, di lavorare con i malati terminali. In ciascun lavoro c'è una parte difficile, ma l'e­ lemento chiave è portarlo avanti con gioia e passione. Tutta la nostra passione viene convertita in gioia. La gioia è la moneta di Dio». Il dottor Johnson capì di aver sempre seguito la sua pas­ sione, anche se era stata suscitata dalla rabbia. Riconobbe di essere stato felice nel realizzare la sua passione aiutando gli altri. Alcuni di noi negano la loro passione anche se l'avvertono chiaramente sin da giovani. Fu il mio caso. Ero tormentato da un grande conflitto interiore. Guarii non appena imparai ad accettarmi e ad amarmi così com'ero: un uomo con i suoi punti forti e i suoi p':lnti deboli. «Aiutare gli altri è la nostra motiva­ zione fondamentale, la molla che spinse noi due a intraprende­ re la nostra professione», rifletté il dottor Johnson. «Non i soldi o la prospettiva di una bella casa, ma ciò che si trova immagaz­ zinato nel nostro cuore e nella nostra anima. Ecco cosa ci porta nell'aldilà». Mi disse di aver rivisto durante la rassegna della sua vita tutti i bambini che aveva aiutato al pronto soccorso, anche quelli che erano morti, e che tutti gli erano grati per essersi sfor­ zato di curarli e di capirli. «Con la gioia e la felicità le cose si possono cambiare. È arrivato il momento di allontanarsi dalla sofferenza e di abbracciare la nostra gioia e la nostra passione». «Chi sceglie di seguire la passione della propria vita mette i propri talenti a disposizione degli altri. Ma attenzione: non biso­ gna caricarsi della loro sofferenza al punto da privarli dell'op­ portunità di crescere». Il dottor Johnson aveva inoltre capito che a un certo punto del processo di apprendimento non è più necessario ricevere lezioni di vita in prima persona. «Basta che qualcuno ci parli della sua esperienza o delle conseguenze di una particolare azione perché anche noi possiamo afferrarne il senso e fare scelte che non ci portino al dolore. Ma questo avvie­ ne solo quando siamo abbastanza evoluti. «Deve stare molto attento alle persone cui allevia il dolore,

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attento a chi e a cosa fa entrare nella sua vita. Non tutti cerca­ no la verità finale di Dio», mi ammonì il dottor Johnson. «Indubbiamente la tenebra esiste. Non ceda alle sue lusinghe. Lasci che gli altri imparino le loro lezioni e lei impari le sue. Se le capita di cadere, si rialzi e prosegua. La sofferenza insegna di chi fidarsi, quali lezioni altrui si possono prendere per buone. Sviluppa la nostra capacità di discernimento». C'era molto da imparare, ma i messaggi angelici del dottor Johnson, un ateo, furono molto simili a quelli che mi erano arri­ vati da buddhisti, cristiani e indù. In fin dei conti, il dottor Johnson fu uno dei credenti più veri che io abbia mai conosciu­ to. La sua accettazione finale dell'esistenza di Dio e degli angeli fu veramente profonda. L'amore è la verità di Dio per tutti, non ha importanza in cosa si crede, né come si vive la propria vita.

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15 Una prova di fede

ra metà primavera ed ero seduto su una vecchia panca di legno fra gli alberi dei giardini dell'hospice. Di fianco a me c'era il rabbino Levine. Parlavamo di una paziente che sarebbe stata ricoverata quel giorno. Si chiamava Rachel, aveva 48 anni e Ìa sua prognosi era di quattro settimane di vita. Rachel ispirava un gran rispetto ed era una persona illuminan­ te. Quando morì, sia il rabbino sia io concordammo senza alcun dubbio che fosse uno spirito altamente evoluto. Rachel era venuta dall'Argentina al M.D. Anderson Cancer Center di Houston con la speranza di trovare un farmaco speri­ mentale che fermasse la progressione della sua malattia. I suoi familiari avevano pensato soffrisse di un morbo simile al Parkinson; ma Rachel era vittima della corea di Huntington, un disturbo autosomico dominante. Gliel'avevano diagnosticata a 36 anni, nel fiore della sua giovinezza. Rachel e suo marito, Benjamin, avevano avuto due figli molto prima della diagnosi. E proprio questo era l'altro aspetto tragico della situazione, perché la corea di Huntington colpisce il cinquanta per cento dei discenden­ ti diretti. Quindi uno dei loro due figli non avre"Qbe potuto sfuggi­ re a quel terribile destino. Scoprimmo che anche la madre di Rachel ne era stata affetta, ma non le era mai stata diagnosticata. La corea di Huntington colpisce i gangli della base del cervel­ lo, che rilascia più dopamina, un neurotrasmettitore eccitante che provoca movimenti muscolari involontari per i quali il paziente non è più autonomo. Le funzioni cognitive vengono

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mantenute per anni e soccombono solo agli effetti devastanti della demenza poco prima della morte. Alcuni confondono la corea di Huntington con la paralisi cerebrale o il morbo di Parkinson. (In realtà, il Parkinson è il suo esatto opposto: una malattia dove scarseggia la dopamina). Il fatto che la demenza non si presenti se non a pochi annI dalla morte rende anche più crudele e difficile per i pazienti affrontare il loro decadimento fisico. Con l'avanzare della malattia i pazienti perdono la capa cità di camminare, di parlare, di ingoiare e, meno spesso, di respirare. Quanto a Rachel, aveva sviluppato una disfunzione respiratoria a seguito di un grave enfisema per uso di tabacco. La corea di Huntington di solito si conclude con una polmonite da aspirazione, problemi cardiaci e il più delle volte il suicidio. È una malattia crudele, tragica, straziante. Oggi esistono dei test genetici grazie ai quali un soggetto a rischio può scoprire se svilupperà o meno la malattia. La spe­ ranza è che in un futuro si arrivi anche a impedirne l'insorgere. I figli di Rachel sapevano del test, e ci stavano molto male. Erano indecisi. Da un lato avrebbero voluto sapere, dall'altro temevano il risultato. Già erano rimasti traumatizzati dalla dia­ gnosi della madre; figurarsi quando avevano appreso che cia­ scuno aveva un cinquanta per cento di probabilità di fare la sua stessa fine. Quando conobbi Rachel, i suoi figli erano talmente ansiosi che avevano deciso di starle lontani per non dover guar* dare la fase terminale della malattia. Rachel ne soffriva terribi]. mente, anche se cercava di essere forte e diceva di capire. Benjamin invece, il suo caro e fedele marito, non la lasciav~, quasi mai sola. Rachel non poteva parlare per la tracheotomia. Soffriva di spasmi del corpo incontrollati e veniva nutrita per via endove~ nosa. Il suo desiderio più impellente era di parlare; esaudirlo significava staccarla dalla ventilazione meccanica e rimuovere H tubo endotracheale. Ritenendo che la morte fosse vicina, che altri trattamenti aggressivi fossero inutili, e che non ci fosse spe.. ranza di recupero, alla fine decisi di accontentarla. Passammo (I un ventilatore non invasivo ad alta potenza. Il tubicino di respl. w

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razione aderente alle sue narici fu collegato a un computer all'a­ vanguardia che le insufflava con forza l'ossigeno nel naso. Dopodiché rimuovemmo il tubo endotracheale. Finalmente poteva parlare. Non lo faceva da sei mesi. Era davvero conten­ ta. E anche Benjamin, ansioso di sentire la sua voce un'ultima volta prima che spirasse. Cosa stranissima, però, una volta sospesi i precedenti trattamenti, Rachel iniziò a migliorare. Lindomani dalla rimozione del tubo endotracheale, Rachel si svegliò e si mise a parlare con amici e familiari. Aveva una voce rauca e stridente, ma si capiva cosa diceva. Per Rachel era un miracolo. Alla fine del terzo giorno andai da lei con una collega e un'infermiera per visitarla e prelevarle del sangue arterioso. Ma nella stanza c'erano più di sette visitatori, Benjamin incluso. «Cominciate voi. Torno tra poco», dissi dopo aver dato una scor­ sa alla cartella clinica. «NO! Ho un 'messaggio per lei!» gridò una voce quando stavo per andare via. Mi voltai per vedere chi aveva parlato, e tutti sta­ vano fissando Rachel ammutoliti. La sua voce era stata più forte di quanto avrebbe potuto essere. Sono sicuro di avere avuto gli occhi che mi schizzavano fuori dalle orbite. «Un messaggio per chi?» chiese uno dei suoi amici. «Per lui!» rispose RacheL «Per me?» le domandai perplesso indicandomi. «Si! Per lei! Ho un messaggio per lei», insistette Rachel. «Da parte di chi?» chiesi. Avendo assistito a centinaia, se non migliaia, di visite angeliche e spirituali durante il processo di morte dei miei pazienti, ero abituato a scene del genere; ma di rado gli esseri spirituali erano venuti per dare un messaggio a me. Francamente, ero più che sorpreso. «Il messaggio è di Gesù». Ecco, quello invece mi sconvolse. «Gesù? Pensavo che fosse ebrea, Rachel». «Lo sono». «È davvero di Gesù?». «Assolutamente sÌ», insistette.

Benjamin, sbalordito anche lui, le domandò cosa farfuglias­ 175


se. Rachel gli spiegò che non era stata un'allucinazione, né un effetto indesiderato dei fannaci. Vedeva Gesù come vedeva suo marito. «Allora, dov'è?» chiese Benjàmin. «Ai piedi del mio letto», indicò, come se anche noi fossimo in grado di vederlo. Centinaia di altri miei pazienti avevano visto gli angeli di fianco al letto o negÌi angoli della stanza. Ma di pazienti che avevano visto Gesù, ne ricordo proprio pochi, ed era sempre rimasto ai piedi del letto, come diceva Rachel. Chissà con quale criterio decidevano dove comparire. Era una questione che mi intrigava molto. Rachellasciò perdere il marito e mi chiese se avevo pregato per qualcosa in particolare la sera precedente. «SÌ», risposi, esitando a condividere infonnazioni personali con una paziente. «È per suo figlio Mark, vero?». Incredibile. Non avevo mai fatto il nome dei miei figli. Sono divorziato, e giusto il giorno prima avevo scoperto che i miei bambini erano in una brutta situazione. La cosa mi turbava non poco. Avevo le mani legate e i miei bambini non erano protetti a dovere. Avevo pregato con tutto il mio cuore per la loro sicu­ rezza e una soluzione a quel problema. «Gesù ha udito la sua preghiera e dice di dirle che andrà tutto bene. Veglia su di lei e sui suoi figli. Vuole che lei rimanga dove sta e continui a diffondere infonnazioni su quello che fa nell'ho­ spice. Non vuole che lei torni a casa». Ero attonito. Rachel ripe­ té con enfasi: «Vuole che lei rimanga qui e che condivida quello che sta imparando». A quel punto, i presenti fissavano me. «Conoscevi già il dottore, prima di venire all'hospice?» chiese uno dei suoi amici. «No», rispose Rachel e tornò a guardanni. «Cose orribili, inquietanti possono accadere nella sua vita. Ma bisogna sempre capire che Lui è l'unico che la guida e la protegge. È tutto sotto il suo controllo». «Capisco», risposi, anche se non mi piaceva il suo tono minaccioso. A chi piace sentirsi dire che in vita sua avverranno cose orribili? 176

«Lui vuole darle prova della verità di questa infonnazione», disse girandosi verso l'infenniera. «Lei ha un figlio di nome John, vero?». «Sh, rispose sommessamente l'infenniera. Abbassò lo sguar­ do, non troppo contenta di essere il soggetto di quello scrutinio pubblico. «Lha avuto con un cesareo, vero?» continuò Rachel. «Poi fu molestato e morì». «Oh, mio Dio», disse l'infenniera scoppiando in lacrime. Thtti erano piombati in un silenzio affascinato e timoroso. Rachel ci ignorò tutti. «È vero, sì o no?» chiese all'infenniera. «Sì, è tutto vero». «Be', Gesù vuole dirle che suo figlio è qui con Lui, adesso. Gesù è ai piedi del mio letto e vuole che non si preoccupi. Suo figlio adesso st~ bene». Linfenniera non riuscì a parlare, ma fece cenno con la testa di avere capito. La mia collega era anco­ ra una studentessa ed era del tutto impreparata a quello che stava succedendo. Non aveva mai visto niente del genere in vita sua. In effetti nemmeno noi. Rachel aveva scosso dalle fonda­ menta le sue convinzioni in fatto di medicina. Guardando gli amici della sinagoga di Rachel, vidi che anche loro erano profondamente turbati. Non volevano crederci, eppure la verità filtrava nei loro cuori. Alcuni erano visibilmente incolleri­ ti, una reazione atavica alla paura. Rachel vide la loro rabbia, ne guardò uno negli occhi e disse: «Gesù vuole dirti di rivalutare la tua fede. Mi ha pregato di dirti che mi appare onnai da molto tempo. Raccomanda di non dimenticare che Lui è nato ebreo». «Cosa dici?» chiese Benjamin. «Gesù mi ha chiesto la stessa cosa e io ho scelto di seguirlo come il Figlio di Dio», rispose Rachel. «Perché non me l'hai detto?» chiese. «Perché non potevo parlare con un tubo in gola. Per questo ho chiesto e ottenuto di fannelo togliere. Gesù mi ha fatto capi­ re che dovevo parlare». Benjamin abbassò lo sguardo. Il quel momento non riusciva più a guardare la moglie. Sembrava sconvolto. «Gesù mi è apparso spesso. Mi ha detto esattamente 177


perché siamo ebrei e anche perché siamo il popolo eletto. È qualcosa che ha molto a che vedere con la politica. Il male ama la politica. Ricordi i farisei, Benjamin? Be', il movimento contro Gesù duemila anni fa era di carattere politico. Non c'era nulla di spirituale. È sempre una questione di politica. Non si tratta di religione». Benjamin era veramente irritato. Era sicuro che Rachel aves­ se le allucinazioni e diede la colpa a me. «Cosa le state dando? Quale medicina la fa delirare così?». «Be', è la prima volta che parla e non è sotto effetto di {amaci sedativi», dissi gentilmente, avvertendo il suo malumore. «Gesù vuole che ascoltiate le sue parole e saprete la verità. Venne apposta per insegnarci. È tutto reale, Benjamin», disse Rachel. «Posso {are una domanda a Gesù?» chiesi a Rachel dopo aver­ ci pensato un attimo. «Chieda». «Alcuni miei pazienti videro Gesù, anche i non cristiani, ma nessuno ha mai visto Buddha o Maometto. Perché?». «Non è importante», mi rimbrottò Rachel gentilmente. «Ok. Un'altra domanda. Perché compare sempre ai piedi del letto?». Sorrise. «Dunque non lo sa? È in ginocchio a lavarmi i piedi con amore e umiltà. Vede, dottor Lerma, lo fa per molte ragio­ ni, ma quella che mi è consentito rivelare è la più importante». Ansioso di saperlo, le chiesi qual era. Rachel rispose che riguardava l'amore incondizionato e l'umiltà. «Dio sa che il nostro mondo è triste e duro, ma è anche vero che un giorno ogni difficoltà acquisirà un senso per tutti nOÌ». «Triste e duro davvero!». «Chiesi a Gesù della mia malattia». «Ah sì? Cosa le rispose?». Ero sempre interessato a saperne di più sulle malattie dei miei pazienti. «Che a livello subconscio si svolge un'altra vita parallela alla nostra. Con la malattia arriviamo molto vicini a quella vita, a quella connessione spirituale. La malattia ci avvicina a Dio. 178

Prima ci arrabbiamo, poi la neghiamo e alla fine cerchiamo di accettarla. Accettiamo Dio e la sua volontà. Nella nostra vita c'è sempre un'entità superiore in azione. Ciascuno di noi comunica sempre con Dio, ma a livello subconscio. Ecco perché dobbia­ mo allontanarci dalla nostra mente umana». Rachel fece una pausa, poi si illuminò. «Oh, sì! Adesso ricordo! Lavevo dimenti­ cato. Ricordo di avere accettato questa malattia per una ragio­ ne, e lo rifarei». Rachel esclamò ancora: «Sì! Lo rifarei, e lo rifarei perché mi portò a essere vicinissima a Gesù. Conosco il mio lato oscuro e il mio lato buono. Ogni nostra azione può aiutare il mondo. Tutto il mio dolore e la mia sofferenza sono destinate a solleva­ re il livello dell'umanità. Tutti i miei sacrifici hanno lo scopo di rendere la creazione di Dio un posto migliore per i nostri figli e nipoti e tutte le generazioni a venire». «Incredibile»; disse Benjamin. Fra me e me pensai che quelli fossero precisamente gli inse­ gnamenti della mia religione cattolica. «Dio ci lascia scegliere se morire, oppure soffrire e provare il dolore. Dipende da noi. Dio non ci prende in giro. Agiamo secondo la fede per un fine. Cerchiamo di muoverci verso Dio, di capire la follia nel mondo (come gli omicidi, la malattia e la guerra). Sono creazioni umane, e nascono tutte dalle paure, dai giuaizi e dalle colpe. Cerchiamo di allontanarci da tutto ciò per approdare a una vita più semplice», Quel giorno lasciai Rachel con la mente affollata di pensieri. Ogni volta che incontro un malato terminale penso di aver sen­ tito tutto; e poi, ecco arrivarne un altro che getta ancora più luce su questa nostra esperienza umana, come Rachel. Ricordo un'intervista con papa Giovanni Paolo II. A una domanda sulle sue malattie, fra cui anche il Parkinson, disse che, se avesse dovuto rifare tutto da capo, avrebbe scelto ancora di patirle tutte, perché nella loro gravità ci conducono all'eterna salvezza avvicinandoci a Dio. Aveva detto le stesse cose di Rachel. Pochi giorni dopo, andai da lei una seconda volta per parla­ re. Rachel era ancora lucida e molto loquace. Da un punto di 179


vista clinico sembrava impossibile; eppure stava succedendo. Ascoltavo e imparavo. «So che sta affrontando una malattia e che sta meglio da quando si è affidato nelle sue mani. A un certo punto si arriva a vedere la malattia come un vantaggio e ci si sente sgravati dai suoi effetti deprimenti. Ci vuole un po' per arrivarci». «Sì, Rachel. Mi lasciò una gran comprensione per i miei pazienti» . «Lei è arrivato dove sono io», commentò Rachel. «Ecco per­ ché fa quel che fa. Capisce cosa dico?». «Penso di sì», replicai. «Prima bisogna aiutare se stessi, poi gli altri». Continuò: «La mia malattia mi ha indotto ad amanni di più. Chi è sempre arrabbiato non può essere aiutato. È il suo libero arbitrio. Sceglie la familiarità con la collera e il controllo. Chi è colpito dalla povertà o vittima della guerra invece non può trovare amore in sé. Ecco chi aiutiamo». «Buono a sapersi». «Ma non bisogna essere malati per aiutare gli altri. TI solo fatto di vivere in questo corpo e di svegliarci tutte le mattine può basta­ re, finché lo facciamo con gioia e dispensiamo atti gratuiti di gen­ tilezza. Ha presente quegli adesivi, di quelli di propaganda religio­ sa che si applicano ai paraurti? Be', fanno miracoli. Gli angeli mi hanno esortato a leggere dalla TI Lettera ai Corinzi, 5-6: "Mentre siamo nel corpo, siamo separati dal Signore". «Dunque il solo trovarci nel corpo è doloroso perché il nostro desiderio più vero è essere vicino a Dio. Essere separati da Dio è la fonna di sofferenza più pura. Ogni giorno apriamo gli occhi sulla negatività. Dobbiamo sempre lottare con tutte le nostre forze per trovare il positivo nella vita». «I buddhisti cercano di sviscerare i loro processi di pensiero. Cercano di diventare positivi. È essendo positivi che avviene la guarigione» . «Sta parlando della guarigione del corpo?» chiese Rachel. «Sì», risposi. «Ma è anche un problema di persone. Vogliono sanare il 180

corpo quando hanno bisogno di sanare la loro relazione con Dio». «Come possiamo adoperarci per aiutare gli altri?». Rachel parve ascoltare un momento un essere invisibile prima di rispondere: «Quando si raggiunge la conoscenza che mi è stata data, Dio può guarirci. Ma la scelta sta a noi. Quasi tutti coloro che raggiungono questo livello di sapere decidono che non vogliono essere guariti. Vogliono aiutare gli altri. È un atto di amore incondizionato». Ci pensai su un attimo. «Ho sempre sentito che la Bibbia dice: "Quando il tuo tempo finisce, finisce!"». «Dio può concedere dell'altro tempo a chi sceglie di guarire. La sola ragione per cui Dio lo fa è che la persona utilizzi il suo tempo in più per compiere atti incondizionati a favore degli altri, conseguendo un risultato positivo per l'intera umanità». Sorrise e disse: «'Dobbiamo prima aiutarci per potere aiutare gli altri. Dobbiamo essere indulgenti e comprensivi innanzitutto con noi stessi. Volersi bene fa bene. «Fare qualcosa per se stessi aiuta anche gli altri. Bisogna prendersi del tempo per stare per conto proprio. Tutti dovrem­ mo cercare la gioia nel mondo e la gioia in Dio. Ci sono così tante cose da vedere! Guardi. Osservando il mondo si arriva a conoscere tutto il suo popolo». Pensavo a come le sue parole avrebbero potuto applicarsi alla mia vita, quando Rachel domandò: «Sa quale fu una delle più grandi lezioni del XX secolo?». «Non ne ho idea», risposi, ansioso di sentire la sua successi­ va rivelazione. «Perdonare Hitler». «Cosa? Davvero?». Fui alquanto sorpreso da quella sua rispo­ sta. Era una bella prova di fede per un'ebrea. «Sì. Hitler, che Dio amava, fu il prodotto di un atto malvagio colossale. Nacque da una tedesca che lo amò con tutto il cuore. TI suo padre biologico? Un ebreo per cui lavorava la tedesca e che la stuprava di continuo. TI lato oscuro di. Hitler si nutrl e visse tra i maltrattamenti fisici ed emotivi che subì da bambino. 181


A un certo punto fu colpito tanto forte che andò in coma per molti giorni. Fu un'enorme maledizione generazionale. Se si arriva a capire che Hider fu la conferma del potenziale umano di tenebra e crudeltà, allora la consapevolezza che non siamo tanto diversi ci consente di scegliere il perdono interiore ed este~ riore. Così percorrerremo il sentiero che ci porta a un Dio che tutti ama e perdona. Chi sceglie di rimanere qui a prendersi cura degli altri, sof­ frendo la separazione da Dio (che è molto dolorosa) è fra i pre­ feriti di Dio. Dio però ci consente di soffrire per un limitato penodo di tempo». «Dawero?». Ero meravigliato dalle sue rivelazioni; erano questioni sulle quali avevo riflettuto più volte. «È importante ricordarlo», disse RacheL Finimmo la nostra conversazione, poiché Rachel diventava sempre più debole. Nei giorni seguenti a Benjamin accaddero molte cose strane. Ero in camera di Rachel quando mi disse: «Dottor Lerma, sento di doverle dire che anch'io, forse, faccio sogni e ho visioni di Gesù». A quel punto fui io a rimanere stu­ pito. Benjamin era tanto arrabbiato la prima volta che Rachel gli aveva parlato di Gesù che non avrei mai creduto possibile ascoltare quel che stava per dirmi. «Ho fatto degli strani sogni. Gesù mi parlava. Rachel è venu­ ta in camera mia e ha iniziato a parlarmi anche lei. Mi libravo insieme agli angeli; e pensare che non ci ho mai creduto, alla loro esistenza! Tutti cercavano di farmi capire cosa diceva Rachel. Diceva che dovevo perdonare Hitler. Mi esortarono ad amare tutti: non solo la mia famiglia e i miei amici, ma tutti quanti nel mondo, soprattutto i miei nemici e me stesso». «Straordinario», mi sfuggì. Benjamin proseguì prima che parole gli venissero meno. «Mi fu detto che a volte dobbiamo morire prima del previsto. Vittime di omicidi, della guerra, della violenza tra le mura domestiche, dei veleni che noi stessi mettiamo in circolo nel nostro corpo (come il fumo delle sigarette), e persino della pena capitale. Tutto ciò non fa parte del disegno di Dio. Con ogni 182

assassinio seminiamo altro odio. Dio ci chiede di smettere di uccidere. Mi fu suggerito che dovremmo fare un passo indietro come fece Gandhi. È tempo di pace». «Davvero?» .

«Sì, nel mio sogno», rispose Benjamin. «Non era un sogno», interloquì Rachel. «È successo vera­ mente. Qui». «Be', in effetti era fin troppo reale, per essere un sogno», ammise Benjamin. «Se facessimo un passo indietro come Gandhi, Dio ci proteggerebbe. Dio ci ama tutti», Benjamin tac­ que all'improvviso. Mi lanciò uno sguardo intenso. «Nel mio sogno Rachel mi disse: "Non preoccuparti, anche se non credi, cavalchi l'onda della mia fede"». Era qualcosa che avevo già sen­ tito. Una delle ulti.missime cose che mi disse Rachel riguardava i musulmani. «Voglio farle sapere quello che· mi è stato detto affinché lei possa diffonderlo. Esiste una cosa chiamata pecca­ to generazionale. Risale ad Abramo, Ismaele e Isacco. Orgoglio e mancanza di fede, ecco da cosa iniziò. Abramo era ebreo. Se si fosse preso le sue responsabilità per il bambino generato con la sua serva, Dio non avrebbe mai diviso la terra. Siamo il popo­ lo eletto per riportare quella pace. Chiunque creda nell'ebreo di Nazareth come il Figlio di Dio è ebreo ed eletto. Siamo stati scelti per riparare agli errori dei nostri progenitori. È una nostra responsabilità. Insieme, dobbiamo operare per la pace». Quella sera, Rachel spirò serenamente. NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON BENJAMIN, IL MARITO DI RACHEL

Rachel sopravvisse per ben quattro settimane senza ventila­ zione meccanica. Andò ben oltre le nostre aspettative, che erano di soli due giorni. Benjamin rimase in camera con lei anche la notte nelle sue ultime due settimane di vita. Ma fu solo nell'ulti­ missima settimana che Rachel parlò di Gesù. Poi la malattia si aggravò fino a mandarla in coma, cui seguì la morte. 183


Verso la fine ebbi modo di conoscere Benjamin a fondo. Da quando Rachel era sprofondata nel coma, gli erano rimasti solo i suoi .sogni e Dio. Dovette appoggiarsi a quei sogni, in cui rive­ deva sua moglie, e alla fede. Sapere e credere che lo spirito di Rachel era ancora vivo gli fu di gr:ande conforto. Per aiutarlo a superare la sua incertezza e il suo dolore gli raccontai storie di altri miei pazienti. «Sentivo qualcosa nelle viscere e nell'anima, come se la mia fede ebraica non fosse a posto. Non era colpa di nessuno. Ma non riuscivo a capire perché. Amo molto mia moglie e grazie a lei sta crescendo il mio amore per Cristo. È lui il mio vero rab. bino». Una delle ultime cose che ho sentito dire da Benjamin a sua moglie fu: «Tesoro, grazie per avermi insegnato a capire la veri­ tà su Gesù. Mi ha ridato la fede e la voglia di vivere. Diventerò un ebreo messianico. Non è un cammino facile. Mi trasferirò in Israele, e con l'aiuto di Dio farò quel che posso per diffondere la verità su Gesù. Sarò da solo, ma tu insegni che tutta la tua sof­ ferenza fa la differenza. Forse posso farla anch'io». Quando Rachel morì, la sua famiglia tornò unita. L'amarezza che aveva tenuto lontani i suoi figli si era dileguata. I messaggi di Rachel sulla mia vita corrispondevano a verità, perciò sono convinto che provenissero da Gesù e dalle altre entità dell'altro mondo che Rachel riusciva a percepire. Sento la responsabilità di dover diffondere i suoi messaggi, anche tramite questo libro. Il tempo che passo con i miei malati terminali è per me molto prezioso. Ascoltarli e riferire quanto mi dicono è di vitale impor­ tanza per la terra in questo momento della storia umana. Ne sono convinto. Sono solo un uomo, un medico, ma, come disse Benjamin, non farò finta di non sentire o di non vedere cosa accade in mia presenza. La divina profezia di Rachel permise a molti membri dello staff dell'hospice, me incluso, di rafforzare la propria fede. Da un punto di vista clinico, Rachel avrebbe dovuto morire quasi immediatamente dopo essere stata staccata dal ventilatore mec­ canico. Invece era rimasta in vita per altre quattro settimane.

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Doveva esserci un motivo importante. Rachel pareva guidata da un'energia speciale, un'intenzione, uno scopo. Soffriva per accrescere il livello di consapevolezza dell'umanità. Voleva disperatamente condividere i suoi messaggi spirituali con suo marito, la sua famiglia e con me. Sono felice di poter riferire che alla fine ottenne tutto ciò che voleva, e io mi sento in dovere di raccontare la sua storia ai miei pazienti, alle loro famiglie e a tutto il mondo. Non potrò mai dimenticarla. Di sicuro Rachel prova un grande conforto, persino nell'aldi­ là, nel sapere che grazie alla vita che scelse di vivere il mondo è un posto migliore. Continuando il mio lavoro negli hospice pro­ metto a chi legge queste storie che ascolterò, prenderò appunti e ricorderò tutto ciò che mi viene detto, e lo farò nel miglior modo possibile. Ho cercato di illustrare chiaramente i messag­ gi di Rachel, cos~ come l'intento degli altri esseri che si rivolgo­ no a tutti noi. Cerco anche di ascoltare il mio cuore e di carpire i messaggi che mi arrivano per poterli condividere insieme al resto. Nessuno deve morire per vedere gli angeli. Loro sono qui per noi se noi siamo qui per loro.

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16 Il fattore S: il supremo atto d'amore

ercorrendo la vasta rete di corridoi dell' ospedale in dire­ zione del mio prossimo paziente passai dal reparto neo­ natale e udii il pianto di un neonato. La mia mente diva­ gò per un momepto e si affollò di interrogativi sulle origini e sul piano della vita. Per ogni domanda sembrava non esserci rispo­ sta; almeno fino a quando non conobbi quel paziente. n dottor Jean Pierre era un patologo, antropologo e agnosti­ co di 67 anni che stava morendo di mieloma multiplo, un tumo­ re maligno che colpisce le ossa, il sistema immunitario e i reni e i cui effetti finali sono insufficienza renale e lesioni ossee dif­ fuse. Un quadro clinico comunemente osservato nei pazienti con questa malattia include l'interessamento del midollo spina­ le, che provoca paralisi e dolori atroci alle ossa. n dottor Jean Pierre era uno fra i peggiori casi che avessi mai visto. Questo signore stoico e molto intelligente passò le sue due ultime settimane prima della morte a parlarmi della rassegna della sua vita e dell'essere spirituale che lo assisteva. Nonostante il dolore insopportabile, quando raccontava le sue visioni spiri­ tuali il dottor Jean Pierre si riempiva di intima gioia. Descrisse l'entità spirituale che chiamava «Michele» come un essere cosmico, benevolo e radioso: «Sembrava che il primo, per così dire, "ordine del giorno" di Michele fosse darmi tutte le informa­ zioni di cui avevo bisogno affinché traessi dalla mia vita le lezio­ ni necessarie per poter transitare nell'aldilà. Per plasmare il nostro concetto di cielo, Dio si serve di immagini di cose terre­

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ne a noi familiari, in modo che il valore che attribuiamo alla nostra vita impallidisca davanti alla travolgente esperienza di pace e amore dell'aldilà. È grazie a questo metodo che le anime scelgono l'altra vita. «Quanto a me, ho sempre avuto una passione per lo studio dell'umanità e della creazione. Michele decise di servirsene per illustrarmi l'amore di Dio, che poi è la chiave per capire le nostre lezioni di vita. Era l'unico modo perché riuscissi a seguir­ lo. L'insieme degli elementi familiari che Dio attribuisce a ogni singola anima consente il formarsi di un'atmosfera non minac­ ciosa entro la quale ognuno può riconsiderare la propria vita e trame i dovuti insegnamenti. La chiave per arrivare a una ras­ segna gioiosa e lineare è prendere in esame le proprie azioni giorno per giorno e chiedere a Dio di assisterci nell'operare i cambiamenti necessari per arrivare alla pace e all'amore finali. Così facendo, si vedrà la morte come il simbolo di una vita più bella e serena. Tutto ciò che si deve fare è credere in Dio. Nient'altro! Sarà Lui a fare il resto. Ma anche se è facile, la mag­ gior parte degli uomini tarda ad abbracciare la fede fino alletto di morte. «Dottor Lerma, siccome non ero certo che Dio esistesse, non percepivo la morte in positivo. Ecco perché mi fu inviato Michele ad aiutarmi a sviluppare una spinta verso Dio. Gli ange­ li avevano fatto anche gli "straordinari" per fare breccia nella mia apatia, ma era stato tutto inutile». n dottor Jean Pierre disse che Michele aveva teso la mano, l'a­ veva immersa nel suo torace e con un movimento gentile aveva prelevato il suo spirito. «La mia anima si ritrovò ad attraversare l'universo in un tunnel luminoso, inoltrandosi dritta nel cuore di Dio. Chiesi a Michele se quello era un tunnel spazio-temporale, una "galleria di tarlo", come l'aveva definita Einstein, e lui rispo­ se di sì. «Immerso nella luce bianca, Michele prese a parlare dell'im­ portanza della spiritualità e della scienza rispetto al viaggio nello spazio. Disse che gli scienziati potrebbero metterlo a punto in un vicino futuro e che, grazie all'utilizzo di propulsori

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avanzati, di amplificatori di gravità, dell'antimateria e persino dei buchi neri, ne risulterebbero spostamenti sia interstellari sia intergalattici. Mi descrisse nei particolari alcuni incontri fra uomini e altre anime pacifiche, non solo nella nostra galassia ma anche nei lontani recessi dell'universo. E ci tenne a sottoli­ neare che !'impresa spaziale potrà essere realizzata solo a con­ dizione che gli scienziati perseverino nella ricerca personale di Dio in egual misura della ricerca scientifico-tecnologica. Questo è essenziale, perché solo con la spiritualità vengono la pace e l'a­ more. Senza tali qualità, l'umanità potrebbe infettare il resto della creazione di Dio con l'odio, l'orgoglio e l'arroganza tipici della sua razza». n dottor Jean Pierre aveva poi chiesto a Michele un chiarimen­ to sul libero arbitrio e quali erano i disegni di Dio per l'uomo. Michele gli aveVfl spiegato che per comprendere l'enormità di quel dono divino sarebbe stato necessario viaggiare a ritroso nel tempo fino a osservare la creazione del cosmo e della vita, o meglio, la comparsa della vita sulla terra con il primo essere uni­ cellulare, quasi quattro miliardi di anni fa, in seguito alla più vasta creazione di Dio, oltre tredici miliardi di anni fa: l'universo. Michele aveva mostrato al dottor Jean Pierre lo spettacolo pirotecnico al quale Dio aveva dato vita in tutta la sua magnifi­ cenza. Quest'ultimo aveva visto la mano di Dio accendere la fiamma che diede inizio al tutto: il Big Bang. Michele gli aveva spiegato che quel supremo atto di violenza era stato amore nella sua forma più pura e che quell'immensa energia aveva assicura­ to l'esistenza dell'uomo, dandogli così la possibilità di essere cocreatore con Dio. «Tutto questo per noi?» aveva domandato il dottor Jean Pierre. «Tutto questo e infinitamente di più», era stata la risposta di Michele. n dottor Jean Pierre aveva chiesto un'altra volta se un giorno l'uomo sarebbe stato in grado di viaggiare nell'universo e, rife­ rendo quanto gli aveva detto Michele, mi rivelò: «Si, ma solo quando non saremo più condizionati da giudizi e obiezioni. Tutto ciò che deve fare l'uomo è essere ben disposto verso la creazione, non verso la distruzione. Einstein ci andò molto vici­

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no; ma Dio non gli diede la capacità di arrivare fino in fondo perché il mondo non era ancora pronto. Dopotutto, guardi cosa fecero i politici quando fu scoperto il potere dell'atomo! Non era inteso per uccidere. Se non avessimo imboccato quella strada nella Seconda guerra mondiale, ,se non avessimo ucciso tutti quegli innocenti, tutte quelle anime spirituali (fra cui anche scienziati spirituali), l'uomo attraverserebbe già la galassia. «All'umanità viene continuamente data la possibilità di svi­ luppare cure per le malattie letali, ma non ci sono abbastanza scienziati né laici che pregano con fervore e che compiono atti d'amore gratuiti perché si possa arrivare alle terapie in tempi brevi. La realtà è che stiamo cadendo in preda alle nostre stesse leggi. Basti pensare a quel gruppetto di persone che è riuscito a far abolire la preghiera in ambito scolastico [non è più obbliga­ toria nelle scuole americane fin dal 1963 - N.d.T.]. Non reagiamo perché siamo troppo presi a fare soldi, dalla vanità, dal mero autocompiacimento. Anche se milioni di persone fanno parte di comunità fondate sulla fede, solo alcuni pregano sul serio e di· spensano atti d'amore e di gentilezza incondizionati per compell.­ sare le forze opposte. Basta che una sola persona preghi senz~\ riserve e accetti di soffrire, per innalzare il livello dell'umanit~ per sempre, infondendoci il coraggio di riguadagnare quello che abbiamo perso. Tutto ciò che si deve fare è credere in Dio». Avvertendo la sua profonda tristezza, Michele aveva deciso di passare alla lezione successiva, sei miliardi di anni dopo. «MI ritrovai di nuovo sulla terra vicino a una struttura cellulare cho avevo visto una volta al microscopio, nei primi anni al college»; disse il dottor Jean Pierre. La cellula era circondata dalle acque vergini e azzurrine del pianeta, ciò che rimaneva del ghiaccio sciolto di milioni di aste· roidi e comete. «Gli angeli volavano intorno al pianeta, sorv(;1· gliando il piano di Dio». Poi il dottor Jean Pierre aveva assistite> all'esplosione della vita nel corso di milioni di anni. Aveva visto .I primi organismi pluricellulari della natura moltiplicarsi e p<?1 morire. Spostandosi più veloce della luce, aveva colto le impreSn sionanti immagini di più estinzioni di massa che avevano decimO e 190

to quasi tutte le specie sul pianeta. Da limpidi, gli oceani erano diventati scuri e vuoti. Disse che Michele l'aveva consolato spie­ gandogli che il disegno di Dio, anche se a volte sembra violento, era perfetto e si poteva chiarire con la teoria della relatività. Einstein, quasi quattro miliardi di anni dopo, aveva enunciato che l'energia non viene né creata né distrutta, ma cambia soltan­ to di forma. In altre parole, il dottor Jean Pierre mi disse che, dato che il suo disegno includeva l'amore e il libero arbitrio, Dio pensò di introdurli subito immettendoli nelle prime particelle: nell'ato­ mo e nelle sue componenti. «Sin dal principio, l'atomo ebbe in sé !'immenso amore e !'immensa energia di Dio necessari per esplo­ rare e per amare la sua creazione. Quindi le estinzioni di massa indotte dall'atomo furono in realtà energie che cambiavano forma per sviluppare un ambiente vivibile per l'uomo», continuò il dottor Jean Pierre. «Vidi le piante evolversi pian piano, poi gli insetti, solo per 'scomparire nella seconda grande estinzione di massa sulla terra. Dopodiché si formarono i rettili indipendenti dal mare, e si estinsero anche loro. Quindi fu la volta dei dinosau­ ri, delle piante con i fiori, dei primi pesci e uccelli. Di nuovo, la loro scomparsa fu necessaria per realizzare il piano divino. «A quel punto eravamo arrivati a cento-duecentomila anni a.C. Mi fu detto che proprio allora era comparso il primo homo sapiens. li nostro palcoscenico era ormai pronto. li clima, l'acqua, la terra, le piante, gli alberi e i minerali necessari erano al loro posto affinché l'uomo potesse vivere e creare. I dipinti rupestri, le piramidi di Giza, Gesù Cristo, Maometto, Buddha, Leonardo, Galileo, Colombo, l'Apollo Il e ora una stazione spaziale: avevo assistito all'evoluzione del mondo naturale fino a oggi. «Quando Michele mi mostrò la terra attuale, ripensai agli oltre quattro miliardi di anni che c'erano voluti per creare sei miliardi di anime da un singolo organismo unicellulare». Gli era stato detto che anche l'uomo poteva cadere nell'oblio come gli altri esseri viventi che l'avevano preceduto, passando da una sesta estinzione, che lui, da scienziato, credeva fosse già in atto. «Dottor Lerma, Michele mi tranquillizzò dicendo che il disegno di Dio si stava realizzando alla perfezione perch~ era stato creato con il più 191


grande ingrediente: l'amore incondizionato. Rimasi confuso di:\ quella rivelazione, perciò chiesi a Michele come poteva essere, visto che l'uomo sta distruggendo l'ambiente e i suoi simili. risposta fu che Dio sapeva che tutto ciò sarebbe accaduto e ne e.ru profondamente rattristato; tuttavia, sapeva anche che questo face .. va parte dell'evoluzione del libero àrbitrio. Quando aveva proget­ tato il pianeta, Dio ne aveva assicurato l'esistenza con un mecca· nismo autoprotettivo comprendente gli tsunami, gli uragani, i vul­ cani e i cambiamenti climatici». TI dottor J ean Pierre mi spiegÒ che Dio vuole che l'uomo rimanga sempre a stretto contatto con il pianeta per imparare lezioni importanti tramite il corpo umano. Disse che il corpo era stato progettato per ospitare l'anima, pe:r dare all'uomo le esperienze, le conoscenze e il discernimento necessari per cercare Dio e tornare da Lui nell'aldilà. Ecco perché è un fatto cruciale assicurare l'esistenza del pianeta. TI dottor Jean Pierre mi disse che aveva potuto conciliare quel. lo che aveva visto con quello che aveva imparato sulla tem:l. Essendo uno scienziato, molto di ciò che gli aveva mostrato Michele gli era familiare e non l'aveva sorpreso. Tuttavia, nono­ stante le sue conoscenze, non era stato in grado di sviluppare nuove teorie perché gli era mancato il fattore (o reagente) spir.i~ tuale. Aveva capito solo allora che la scienza senza Dio era virtual· mente limitata, e la scienza con Dio virtualmente illimitata. «11 fattore S», lo definì, «è l'anello mancante e d'obbligo affinché la nostra anima sopravviva». A quel punto il dottor Jean Pierre stava rapidamente peggioran­ do e mi chiese di pregare con lui per aiutarlo a passare da questo all'altro mondo. Fui onorato della richiesta e acconsentii. Ventiquattro ore dopo la nostra preghiera, mi guardò e sussurrò che Michele e altri angeli si libravano su di lui invitandolo a seguir­ li. «Dottor Lerma, il sentiero che mi invitano a percorrere è molto bello e luminoso. Ogni singola particella di luce emana un senso di pace e di amore che mi penetra anche nell'anima», All'improvviso parve focalizzare lo sguardo ai piedi del letto; poi, con il sorriso più meraviglioso e radioso che avessi mai visto, esalò il suo ultimo respiro. Immaginai che in fondo al suo letto ci fosse 192

Gesù (come avevano detto molti altri miei pazienti), intento a lava­ re con umiltà e puro amore i suoi piedi mentre lo ammetteva nel regno celeste di Dio. NOTE DEL DOTTORE E ALTRI STRALCI DEL DIALOGO CON IL DOTTOR

JEAN

PIERRE

Quasi tutto ciò che disse il dottor Jean Pierre riguardava la creazione del mondo e la questione del libero arbitrio. Tuttavia mi parlò anche di altri argomenti, quali la Seconda Venuta di Dio, la pace nel mondo, !'inferno e l'amore incondizionato di Dio per tutti. TI dottor Jean Pierre mi rivelò che l'uomo avrebbe continua­ to a fare progressi nella tecnologia, nella medicina e nella spiri­ tualità perché la maggior parte delle persone sulla terra ama e crede in Dio. Qùanto alla pace nel mondo, sarà raggiunta solo quando l'uomo avrà imparato ad amare incondizionatamente la sua intera psiche, vale a dire anche il proprio lato oscuro. Allora l'umanità potrà fare un enorme passo avanti verso il regno cele­ ste sulla terra. Questo evento sarà preceduto dalla Seconda Venuta di Dio. Durante la sua permanenza sulla terra, le perso­ ne svilupperanno una fede tale da poter guarire il prossimo sia nel corpo sia nello spirito. Grazie alla tecnologia potremo spo­ starci con il teletrasporto, viaggiare per il vasto universo di Dio utilizzando gli amplificatori di gravità che distorcono lo spazio­ tempo. Le relazioni affettive e le famiglie saranno permanenti e avranno le loro radici qui sulla terra. «Tutto questo awerrà. I:ho visto nel vicino futuro», disse il dottor Jean Pierre. In quanto anime, qualsiasi cosa facciamo siamo destinati a fallire se non crediamo e non seguiamo la via. di Gesù Cristo. Michele aveva detto al dottor Jean Pierre che Dio non voleva che i robot entrassero nel suo regno; voleva essere amato dagli esse­ ri umani per ciò che era, così come ci aveva amati per ciò che eravamo. In altre parole, dobbiamo desiderare fino. in fondo quello che anche Dio vuole: amare ed essere amati. Questo era stato lo stimolo per la nostra creazione. 193


Il dottor Jean Pierre parlò della legge universale divina dell'o­ meostasi: per ogni azione deve esserci una reazione uguale e contraria. Gli era stato detto che, per raggiungere il nirvana qui sulla terra, bisogna iniziare a bilanciare ogni azione negativa con una positiva. Si può farlo solo se si è geneticamente sani e capaci (in altre parole, con mente' sana in corpo sano). Per ogni ferita fisica, emotiva o spirituale inflitta a se stessi o ad altri dovrà esserci un atto di compensazione da parte di chi ha cau­ sato l'offesa (o da un'altra anima premurosa). Ciò richiede cono­ scenza e discernimento spirituali. Il dottor Jean Pierre si soffermò brevemente sui peccati e sul potere del perdono. Mi ricordò che Cristo morì per i nostri pec­ cati e che chiunque credesse in Lui sarebbe stato perdonato e avrebbe avuto la vita eterna. Tuttavia ciò non significa che pos­ siamo continuare a fare quello che vogliamo. Appunto per que­ sto esistono le conseguenze, che per quasi tutti sono un buon deterrente a non ripetere un'azione negativa. Azioni positive portano a reazioni positive e azioni negative portano a reazioni negative. Dio non promise di annullare le conseguenze delle nostre azioni. Promise solo di perdonarci. Le conseguenze fun­ gono da lezioni di vita rendendoci esseri più forti e flessibili. Dio fece sÌ che ogni azione portasse infine a una reazione positiva, e questo a prescindere dalla gravità di un'azione iniziale negativa. Quando ciascuno riuscirà a perdonare se stesso e gli altri, anche il mondo sarà in grado di guarire se stesso. Ciascuno di noi porterà con sé nell'aldilà anche i propri ricor­ di, sia positivi sia negativi: infatti, chi non si perdona verrà seguito dal proprio dolore. Michele aveva detto al dottor Jean Pierre che, dopo aver sacrificato il suo unico Figlio per il mondo, a Dio fa male pensare che alcuni di noi non riescano a trovare il perdono. Tutto ciò che dobbiamo fare è credere con tutto il nostro cuore che suo Figlio morì per i nostri peccati pas­ sati, presenti e futuri. Ciononostante, sono ancora in molti a non conoscere la semplice verità che porta alla vita e all'amore eterni. La superbia li spinge in seno a forze oscure, brutali e potenti, fra cui le peggiori sono l'orgoglio e il senso di colpa.

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La buona novella è che Dio non ci abbandonerà mai. Aspetterà il tempo necessario perché ciascuna anima lo scopra (dopotutto, Egli dispone dell'eternità). Il dottor Jean Pierre mi disse di non dimenticare mai che l'energia cambia forma ma non muore mai. Lo stesso vale per la nostra anima: esiste per l'e­ ternità, sperando che non rimanga separata dal nostro benevo­ lo Creatore. Dio lasciò che questo dipendesse da noi. È una que­ stione di libero arbitrio. Il dottor Jean Pierre disse che l'inferno è certamente la nostra separazione volontaria da Dio perché, dal canto suo, Dio non si separa mai da noi. Il senso di colpa è l'emozione più buia, più profonda e più potente. Possono volerci eoni per staccare tutti gli strati che imprigionano l'anima impedendole di arrivare a Dio. «Vidi persone in quello stato e avvertii la loro smisurata solitudine, 1'0diQ per se stesse, la paura e un immenso gelo. Fu terribile», concluse il dottor Jean Pierre. Michele aveva ricordato a Jean Pierre che l'amore di Dio è infinito e che Dio è sempre all'opera per liberarci dalle nostre autoaccuse. Il dottor Jean Pierre raccontò di aver parlato con molte persone che erano state salvate da Dio. Gli avevano detto che doveva perdonarsi senza indugio credendo che Cristo è morto per i nostri peccati. Gli avevano detto di pregare per le milioni di anime che scelgono di restare nella tenebra più buia. «Dottor Lerma, la imploro di pregare per quelle anime bloccate e di dire agli altri di fare altrettanto. Agisca sempre con amore e gentilezza in tutto e per tutto, ogni secondo di ogni giorno. Se sbaglia si perdoni. Preghi continuamente per il suo perdono, per il perdono degli altri e perché l'amore di Dio viva in lei, la guidi in tutto ciò che fa e liberi i prigionieri. Ricordi soltanto che tutto è possibile con Dio. Tutto ciò che dobbiamo fare è credere».

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Conclusione

a storia del dottor Jean Pierre insieme alle altre che ho riportato in questo libro mi cambiarono nel profondo, lasciandomi con più domande che risposte. Quando chiu­ si gli occhi per riflettere sulle vicende cui avevo assistito, fui colto da un timore reverenziale, con interrogativi che mi sorge­ vano di continuo sul nostro mondo, sulle sue origini e sulla sua . possibile fine. Il nostro universo tangibile e intangibile era nato da un atto di suprema violenza, un Big Bang in continua espan­ sione verso l'esterno, un cosmo nato da materia e gas 13,7 miliardi di anni fa? Chi fu tanto audace da avere un'idea simile? Facevamo già parte di quel piano miliardi di anni fa? Eravamo comparsi per procreare, riempire la terra e infine cedere il posto ai nostri discendenti? Se c'è un inizio, dovrà anche esserci una fine? Bruciamo come un fuoco nella nostra epoca, un fuoco che prima o poi si estinguerà? Per soccombere all'essenza dell'uni­ verso? Un giorno tutto finirà? La vita non genererà più vita? Ricordando le parole del dottor Jean Pierre, immaginai la mano di Dio che accendeva la fiamma della creazione. Ma dopo averla accesa, Dio intendeva lasciare che si consumasse, fino a spegnersi? Ciò comporterebbe la nostra estinzione? Altrimenti, se questa fiamma vitale che arde in noi deve durare, chi decide? Chi baderà al fuoco? Il nostro Creatore potrà ravvivare la scin­ tilla, anche se la fiamma diventa debole e fredda? Avremo forse una risposta alla nostra morte, quando stiamo per lasciare que­ sto mondo? Esiste un piano, uno scopo o una ragione per la

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nostra esistenza sulla terra... e oltre la morte? Ci trasformere­ mo, come quelli prima di noi, in materia oscura, o la sesta estin­ zione che paventano gli scienziati è già in corso? Oppure il mistero si svelerà con la morte? Con un segno? Con un simbo­ lo? Con una rivelazione? O con la manifestazione fisica di Dio? Dopo tutto ciò che avevo visto e udito, come potevo credere che questo vasto universo e i miliardi di anime create con amore non avessero una logica o una ragione di esistere eterna? Tutte queste esperienze contribuirono a cambiare la mia vita, gettan- • domi letteralmente in ginocchio dalla gratitudine e dall'amore incondizionato per il nostro Creatore. Credo con tutta la mia anima che la nostra energia spirituale non fu intesa per essere distrutta o ricreata, ma solo per cambiare forma. Tale energia imaginale si manifesta nell'esperienza delle creazioni monu­ mentali di Dio. È piuttosto evidente che, via via che si dipana il disegno di Dio, le nostre lacrime, la nostra tristezza e il nostro dolore rimangono indietro con il corpo fisico, solo per diventa­ re polvere ed essere purificate dalle loro iniquità. Gli spiriti che alla fine entrano in contatto con Dio acquisisco­ no conoscenze e discernimento grazie ai quali possono provare la pace totale e l'amore incondizionato. Chi sceglie la separazione non sarà dimenticato, poiché il nostro Creatore ci ama tutti. Vedremo le cose con occhi diversi: con gioia e con amore, nella piena comprensione dello stupefacente disegno di Dio. TI piccolo Matthew (capitolo 1) disse bene: «Per ora è molto difficile capire il disegno di Dio; ma presto anche lei, e anche tutte le anime di Dio, giocherete tutti con i delfini».

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Evidenza delle visioni premorte dell'aldilà

a ricerca di fatti a sostegno del concetto di sopravvivenza post mortem e delle visioni premorte non ha fatto la sua comparsa all'improvviso ai giorni nostri. Essa risale a duemila anni fa, precisamente quando Gesù ebbe la visione pre­ morte in cui vide che sarebbe morto, sepolto e risorto il terzo giorno. Nella Repubblica Platone descrive le visioni di Er, un guerriero che si diceva fosse morto in battaglia, mentre Plinio il Giovane riferisce il caso di un fantasma ad Atene le cui informa­ zioni portarono alla scoperta delle ossa di un uomo assassinato. Anche il rabbino palestinese Shimon bar Yochai (II secolo d.C.) scrive di visioni premorte nello Sefer Ha-Zohar (Il Libro dello Splendore, spesso citato semplicemente come Lo Zohar, una esegesi mistica in aramaico di cinque volumi sui cinque libri della Torah). La seguente è una citazione sulle visioni pre­ morte tratta appunto dallo Zohar:

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Al momento della morte, al moribondo è consentito vedere i suoi parenti e compagni già nell'altro mondo [ ... ] Abbiamo appreso che quando l'anima lascia il moribondo tutti i suoi parenti e compagni nell'altro mondo si riuniscono per mostrare ad essa il luogo della delizia [ ... ] (I, 219a) Segue un sogno (o visione premorte) di Abramo Lincoln, spes­ so citato, e che, a quel che si dice, il primo presidente riferl all'a­ mico Will Hill Lamon qualche giorno prima di venire assassinato. 198

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Tutt'intorno a me sembrava esserci una quiete simile alla morte. Poi udii dei singhiozzi soffocati, come se diverse per­ sone stessero piangendo. Mi alzai dal letto e bighellonai al piano di sotto. Andai di stanza in stanza ... Gli stessi suoni lugubri e ango­ sciati mi sfioravano mentre passavo ... Proseguii fino ad arri­ vare alla East Room, dove entrai. All'interno trovai una sor­ presa nauseabonda. Davanti a me c'era un catafalco con steso sopra un cadavere ... «Chi è morto nella Casa Bianca?» domandai a uno dei soldati. «Il Presidente» fu la risposta. «Ucciso da un assassino». Proprio allora fui raggiunto da un forte scoppio di dolore della folla che mi svegliò dal sogno. Quella notte non riuscii più a dormire; e anche se è stato solo un sogno, ne sono ancora stranamente turbato. All'inizio del XX secolo Sir William Barrett, professore di fisica al Royal College of Science di Dublino e assistente del famoso fisi­ co John Tydall, presentò una ricerca sulle esperienze di premorte in un libro intitolato Death-bed VlSions (pubblicato nel 1926). Nel 1924 la moglie (un'ostetrica) gli aveva riferito il racconto dell'espe­ rienza di premorte di una giovane poi morta di parto. Come la maggior parte dei miei pazienti, anche la sua aveva guardato in un angolo della stanza con un sorriso euforico e commentato che gli esseri spirituali e il loro mondo erano belli ed esaltanti. Allo stesso modo, i dialoghi della moribonda con i suoi cari estinti e le entità celesti riguardo alle preoccupazioni di lasciare i parenti vivi e il forte desiderio di passare a miglior vita con quelli defunti erano stati stranamente simili alle conversazioni riferite dai miei pazienti. Questa specie di negoziazione dura finché il moribondo non si sente abbastanza tranquillo da poter compiere il trapasso. La giovane aveva deciso di lasciare questo mondo solo dopo aver saputo che qualcuno si sarebbe preso cura del suo neonato. Circa cinquant'anni dopo il dottor Karlis Osis, libero docen­ te e presidente dell'American Society for Psychical Research di New York, portò avanti lo studio sistematico delle esperienze di 200

premorte pubblicando infine i suoi dati nel libro Quello che vide­ ro nell'ora della morte (Gruppo Editoriale Armenia, 1979). I..:indagine riguardò migliaia di dottori e infermiere presenti durante le ultime ore di vita di oltre mille pazienti ricoverati in ospedale. Segue un confronto fra lo studio pilota del dottor Osis, Deathbed Observations by Physicians and Nurses, su pazienti ospedalizzati nel 1961 e l'indagine che condussi nel 2005 inter­ vistando più di cinquecento pazienti dell'hospice e chi si prese cura di loro a poche ore o giorni dalla morte: • Nello studio del 1961 quattro moribondi su cinque ebbero visioni «relative alla sopravvivenza» (visioni in cui compari­ vano persone religiose ormai defunte, dove il novanta per cento dei defunti era costituito da familiari .stretti quali geni­ tori, fratelli, ,sorelle o bambini). Nello studio del 2005 la per­ centuale fu dell'ottantacinque per cento. • Nello studio del 1961 tre individui su quattro riportarono che delle persone erano venute e prenderli per scortarli nell'aldilà. Nello studio del 2005 la percentuale fu dell' ottanta per cento. • Nello studio del 1961 il quarantuno per cento dei moribondi provò euforia e altre emozioni positive al momento della morte. Nello studio del 2005 la percentuale fu del novanta per cento. Questo ampio divario è forse dovuto al gran nume­ ro di medici e infermiere con diversi punti di vista dello studio pilota contro un solo medico che aveva condotto le interviste nell'indagine del 2005? È possibile che lo staff dell'hospice avesse risolto i problemi dei pazienti più tempestivamente, determinando così una maggiore euforia? , • Nello studio del 1961 il ventinove per cento dei moribondi provò emozioni negative al momento della morte versus il dieci per cento nell'indagine del 2005. Di nuovo: è possibile che ciò sia dovuto alla maggior vicinanza al paziente dello stalt' dell'hospice? 201


• Da ent ram bi gli stu di risu ltò che le cur e me dic he e la febbre non avevano atti nen za con le visioni pre mo rte. • Da ent ram bi gli stu di risu ltò che il sesso, l'età, la religione,!'i­ stru zio ne e i fatt ori socioeconom ici del paz ien te avevano poc a o nes sun a atti nen za con le'v isioni pre mo rte. • Da ent ram bi gli stu di risultò che nella pop ola zio ne generale le allu cin azi oni era no prin cip alm ent e di oggetti, di am bie nti e di cose, ma rar am ent e di person e; qua nto ai ma lati termi­ nali, le visioni era no sop ratt utto di ess eri spir itua li, dei cari def unt i e di un am bie nte celeste. • Da ent ram bi gli stu di risu ltò che per più del l'ot tan ta per cen to dei mo ribo ndi la dur ata del le visioni oscillava fra un sec ond o e cin que min uti. Tuttavia i paz ien ti dello stu dio del 2005 avevano det to a tre gio rni dal la mo rte che alm eno un angelo o ess ere spi ritu ale era pre sen te nella stan za tutt o il tem po, e a qua lch e ora dalla mo rte che il num ero di ess eri era par ecc hio aum ent ato , tra i qui ndi ci e i venti. • Secondo lo stu dio del 1961 lo sco po degli esseri spirituali era aiu tare i pazienti nel trapasso. Sec ondo lo studio del 2005 gli esseri spirituali o i cari defunti ven ivano per aiu tare il pazien­

te a compiere la rassegna della pro pria vita; solo dopo aver

com pre so il senso della pro pria esis tenza il mo ribo ndo veniva con dot to nel regno celeste. I pazien ti con gra ndi que stio niir ri­

solte o con uno o più familiari non disposti ad accettare la loro

mo rte impiegavano da due a qua ttro volte di più ad andarse­

ne. Tre su qua ttro di questi ultimi paz ienti era no mo rti in pace. • In me rito al ses so delle cre atu re ma nife stat esi nel corso delle app ariz ion i, da ent ram bi gli stu di risu ltò che più del cin­ qua nta per cen to dei paz ien ti ave va visto esseri maschili,

into rno al qua ran ta per cen to fem minili e me no del cin que

per cen to and rog ini.

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• TIpologie di visioni e percentuali dei pazienti che le ebbero: _ Dio o Gesù: tren ta per cen to dei paz ien ti in ent ram bi gli stu di; Angeli: ven tiqu attr o per cen to nel 1961; nov ant a per cen to nel 2005; Genitori, fratelli e/o sorelle: ven ti per cen to nel 1961; nov ant a per cen to nel 2005; Ess eri malvagi: tre per cen to nel 1961; cin que per cen to nel 2005. • Da ent ram bi gli stu di risu ltò che più dell'ott ant a per cento dei paz ien ti riac qui stav a luc idit à me nta le ass iste ndo alle app ariz ion i, di solito dai tre ai cin que pri ma della mo rte. Si pot reb be con clu der e che que sti dati, ins iem e ad altr i risc ont rati in ent ram bi gli stu di, sian o a sos teg no dell'ipotesi della vita dop o la mo rte. Tali risu ltat i son o stat i verificati anc he altrove, ma occ orr ono nuove rice rch e per otte ner e ulte rior i con­ ferme con par am etri radiologici e bio chi mic i più obiettivi. TI dot tor Bro ce Greyson, dire ttor e della Division of Per cen tua l Stu die s alla University of Virginia MedicaI School, è in pro cin to di iniz iare uno stu dio del genere con paz ien ti ricoverati in hospice.

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m.,

Charles C.

Huxley, A., Heaven and Hell, New York, Harper & Row, 1955 (trad. it., Le porte della percezione - Paradiso e inferno, Milano, Mondadori, 2004). 205


?.~~ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .~.?~~. .~.~?~~.~~.~.~.:. .~.~~.~.~.~~~

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gi com e con sul ent e per l dot tor Joh n Ler ma lav ora tutt 'og pal liat iva del le s!ru ttur e var i hos pic e e rep arti di me dic ina onio, in Texas. E mo lto me dic he di Ho ust on e di San Ant ent o pre mu ros o e affe ttuo so con osc iuto per. il suo atte ggi am inc aric o di dire ttor e san ita­ ver so i ma lati term ina li e per il suo Ho ust on, un cen tro resi den ­ rio del Medical Cen ter Ho spi ce di ma to a livello inte rna zio nal e. ziale di cur e palliative tex ano rino vas tiss imo M.D. An der son I.:hospice si trov a nel cuo re del lo stu dio e la cur a dei tum o­ Can cer Center, uno degli isti tuti per tor Ler ma col lab ora per la ri lea der nel mo ndo , con cui il dot rice rca e la form azio ne. prim o livello in farmacia alla Dopo aver conseguito una laurea di tor Lerma ent rò alla University University of Texas di Austin, il dot San Antonio, dove si specializzò - of Texas Health Science Center di i anni ha incentrato la sua car­ in medicina interna. Negli ultimi diec medicina palliativa. rier a nel cam po dell'hospice e della me dic ina palliativa, il dot tor Abilitato in me dic ina inte rna e in pice e sulle cur e palliative a Ler ma tiene cor si sul ricovero in hos colleghi di geriatria, oncologia stu den ti di medicina, tiro cin ant i e altri isti tuti medici. È famo­ e me dic ina palliativa provenienti da erienze di pre mo rte, per i qua li so anc he per i suo i stu di sulle esp nazionali e internazionali; fra è spesso osp ite dei me dia locali, nza più rappresentativa, Pre­ tutte, rico rdia mo la sua con fere an's Perspective in Spirituality Death Esperiences: A Hospice Physici and the Tenninally Ili. 207

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Il dottor Lenna fondò Hearts without Borders, una società non profit la cui missione è portare aiuto alle zone più disagia­ te del Sudamerica. Uno dei progetti in preparazione è costituire uno staff di specialisti in medicina palliativa che intraprenda un viaggio a tappe nelle città del Messico e del Sudamerica pero­ rando la causa dell'hospice presso medici e governi locali.

Indice

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Introduzione - Gli ultimi giorni di vita . ........ .

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VISIONI DELL'ALDILÀ

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1. Negoziare con gli angeli ................. . Note del dottore e altri stralci del dialogo con Matthew .......................... . 2. il sorriso .............................. .

Note del dottore ........................ .

3. Un cambiamento d'animo................ . Note del dottore e altri stralci del dialogo con Leon.............................. . 4. Il sognatore .............. '. ............ . Note del dottore e altri stralci del dialogo con Susan............................. . 5. Piume d'angelo......................... . Note del dottore e altri stralci del dialogo con Katarina ........................... . 6. Un profondo rimorso ................... . Note del dottore e altri stralci del dialogo con William ........................... . 7. I.:infenniera-angelo ..................... . Note del dottore e altri stralci del dialogo con Mildred ........................... .

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8. Padre Mike ............................ . Note del dottore e altri stralci del dialogo

con Padre Mike ............ : ........... . 9. TI cielo nella Stanza 212 ................. . Note del dottore ........................ . lO. MiMi e la confenna ..................... . Note del dottore e altri stralci del dialogo

con la famiglia di MiMi. ................. . 11. Redenzione............................ . Note del dottore e altri stralci del dialogo

con Jerome, il figlio di George ............ . 12. La telefonata .......................... . Note del dottore ........................ . 13. Il cerchio si chiude ..................... . 14. Il vero credente ........................ . Note del dottore e altri stralci del dialogo

con il dottor Johnson ................... . 15. Una prova di fede ...................... . Note del dottoree altri stralci del dialogo con Benjamin, il marito di Rachel ......... . 16. TI fattore S: il supremo atto d'amore ....... . Note del dottore e altri stralci del dialogo con il dottor Jean Pierre ................. . Conclusione .............................. . Appendice - Evidenza delle visioni premorte dell'aldilà . ............................. . Bibliografza ............................... . Note biografìche sull'autore . ................. .

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LA MORTE È DI VITALE

IMPORTANZA

di Elisabeth KUbler-Ross

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La morte è un momento di passaggio che

ciascuno di noi può sperimentare con serenità,

lasciandosi alle spalle i rimpianti terreni e la

paura del distacco dalle persone amate.

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degli spiriti dei defunti sull'ingresso

nella dimensione spirituale

che ci attende oltre la vita.

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Grazie alle testimonianze delle entità che si manifestano attraverso i fenomeni medianici, l'autore traccia un affresco dell'aldilà. Pagg. 256 - €

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Dopo

LA MORTE

di Reynald Roussel Lautore propone ai lettori il percorso spirituale che l'ha condotto a usare le sue qualitĂ medianiche per trasmettere ai viventi i messaggi affidatigli dai defunti. Pagg. 160 - â‚Ź 13,50


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