LIBEROACCESSO

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IL DIRITTO D’AUTORE, LA SIAE, LA PRODUZIONE INDIPENDENTE


Introduzione di Giorgio De Ambrogio

Ogni volta che qualcuno produce un’opera in cui manifesta la sua creatività; sia essa libro, fotografia, canzone o spettacolo teatrale, sta donando alla collettività il frutto del suo ingegno, e poiché non è sempre detto che l’ingegno porti a casa il pane, egli gode pienamente dei diritti d’autore, che garantiscono la proprietà sul frutto del suo lavoro. Il problema della proprietà intellettuale ha vissuto negli ultimi anni un’importante evoluzione: l’avvento del digitale ha imposto ad autori e editori un ragionamento obbligatorio sulle nuove modalità di accesso, fruizione e condivisione di opere dell’ingegno. Internet urla a gran voce che il futuro è il libero accesso e la libera condivisione, che vi sono metodi alternativi al Copyright – All rights reserved per permettere la tutela dell’autore e la massima diffusione dell’opera. In questo opuscolo abbiamo riunito alcuni interventi sul diritto d’autore, cercando di tracciare un quadro chiaro e comprensibile della realtà italiana, universo poco conosciuto ai non addetti ai lavori e incredibilmente intricato. Ai contributi teorici abbiamo affiancato due esperienze nel mondo editoriale e in quello discografico: da un lato un estratto di No Copy – di Ralph Valvola Scelsi, edito nel 1994 da ShaKe Edizioni Underground, dall’altro un’intervista a Corrado Gemini, fondatore del progetto CTRL per la libera diffusione musicale. Ogni ragionamento sull’industria culturale ha il diritto d’autore come punto di partenza o punto d’arrivo. E’ necessario mettersi nei panni degli artisti, domandarsi se la tutela della propria opera avviene realmente, se esiste una libertà di scelta per chi crea cultura. Per farlo bisogna conoscere il sistema vigente, comprendere


i suoi punti deboli ed esplorare le alternative. Un tentativo in questa direzione è stato organizzato a Roma il 7 Aprile 2016 in un incontro dal nome “Tutta un’altra Musica” a cui hanno partecipato le più importanti associazioni nel mondo del mercato musicale. Dall’assemblea di Roma è nata la necessità di costruire un secondo momento, che si terrà all’ex Asilo Filangeri di Napoli il 28 e 29 Maggio, in cui artisti, produttore e lavoratori del mercato musicale si incontreranno per continuare il percorso di sensibilizzazione iniziato a Roma. Questo opuscolo vuole essere un punto di partenza per un ragionamento critico sulla condizione dell’industria culturale italiana, su cui oggi più che mai è necessario riflettere. Milano, 24 Aprile 2016



SIAE: Storia di una direttiva e di un monopolio che le insegnò a tacere. di Giorgio De Ambrogio

Il 20 Marzo 2014 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Direttiva Barnier, (26/2014) norma europea volta a razionalizzare il mercato della proprietà intellettuale nell’unione. Il senso è piuttosto semplice: internazionalizzare il mercato del diritto d’autore lasciando che autori ed editori scelgano autonomamente a quale collecting society affidarsi per la tutela del propri diritti. Nella maggior parte dei paesi dell’unione il recepimento di questa direttiva non comporta grandi problemi, poiché l’intermediazione tra autori e pubblico avviene già quasi ovunque mediante imprese private. L’Italia è però un’eccezione poiché insieme all’Austria e alla Repubblica Ceca è il solo paese in cui la tutela dei diritti è affidata ad un monopolio, la Società Italiana Autori ed Editori. Ciò significa che un autore che intende tutelare una canzone, un libro, uno spettacolo teatrale o qualsiasi altra opera dell’ingegno è obbligato ad affidarsi a SIAE, il che non sarebbe affatto male se il servizio fornito dalla società fosse competitivo con quelli dei suoi colleghi europei. Il problema è che in più di 100 anni SIAE ha costruito un’immensa architettura che non ha saputo tenere testa alla rivoluzione del mercato digitale degli ultimi vent’anni, e oggi sopravvive su un sistema iniquo e verticista. La direttiva andava recepita dall’ordinamento italiano entro il 10 Aprile 2016, e ad oggi, ancora nulla è stato fatto. Il Ministro Franceschini ha dichiarato davanti alle commissioni cultura e affari europei che “in Europa si guarda con invidia al fatto che l’Italia abbia una società che si occupa del diritto d’autore in tutte le sue forme”. Quella che secondo il ministro è una misura di sostegno


alla produzione di contenuti creativi è invece un’ altissima manifestazione di inefficienza italiana, dove chi perde sono gli autori ed editori più piccoli. Quattro salti nella SIAE Circa dalla metà dell’800 ci si è posti il problema di come tutelare il diritto d’autore nel nostro paese. La Società Italiana Autori ed Editori è stata fondata nel 1882, con una precisa funzione: poiché è impossibile per un singolo autore sorvegliare la propria opera è necessario che qualcuno si occupi dell’intermediazione tra pubblico e artisti, autorizzando l’utilizzo della proprietà intellettuale e recependo il pagamento da ridistribuire tra gli autori. Dal 1921 la SIAE può riscuotere imposte sugli spettacoli pubblici e attraverso i suoi ispettori svolge una funzione di controllo sui lavoratori dello spettacolo. Dal 1941 ogni opera dell’ingegno deve avere il bollettino argentato SIAE per essere messa in commercio a garanzia di lecita provenienza. Dal 1942 SIAE è ente pubblico, ribattezzato nel 2008 “Ente pubblico economico a base associativa” una commistione tra partecipazione pubblica e privata del tutto particolare nell’ordinamento italiano, i cui confini non sono molto precisi. Questo status pone le fondamenta di una società gigantesca, regolata, oltre che dalle norme statali, da un complesso di norme interne (lo statuto e i regolamenti) che vengono approvati dall’assemblea dei soci e che hanno un fortissimo impatto sulla totalità degli autori e degli editori. Su questo si basa una ripartizione del potere e dei proventi tra i soci decisamente ambigua. Ciascun autore infatti riceve a fine anno una certa cifra e non può che accontentarsi. Non c’è modo di verificare che i proventi che riceve corrispondano effettivamente all’utilizzo della propria proprietà intellettuale: se scri-


vo una canzone e ricevo una somma di denaro posso solo ipotizzare a quante riproduzioni essa corrisponda, non posso sapere né dove né quando è stata proposta. Questa è una delle più importanti differenze tra SIAE e società di collecting straniere, che offrono la possibilità di monitorare la propria opera quasi costantemente. Secondo Davide D’Atri, amministratore delegato di SoundReef – società di collecting italiana con sede a Londra che ha un ruolo cruciale nelle vicende di questi mesi – il problema endemico di SIAE è la sua immobilità e la mancanza assoluta di investimenti in tecnologia, il che limita profondamente la qualità del servizio offerto ai soci. Tempestività e trasparenza sono due punti fondamentali nella gestione del diritto d’autore e il fatto che SIAE sia completamente negligente è un chiaro segnale del suo malfunzionamento. Inoltre SIAE riscuote tasse sui diritti d’autore anche per coloro che non vi sono iscritti. Se per esempio un autore decide di pubblicare un libro in licenza Creative Commons, lasciando quindi libera la circolazione della sua opera, SIAE riscuote comunque una certa cifra ad esempio sulle fotocopie o sull’utilizzo pubblico dell’opera. In alcuni casi l’autore ne è a conoscenza, ma per riscuotere il denaro non può che associarsi, e se non vuole, deve lasciare alla società i guadagni sulla sua opera. Un autore può entrare in SIAE in due modi, da associato o da mandante. La differenza consiste fondamentalmente nello status che si va a ricoprire all’interno della società. Da mandante si viene tutelati senza avere diritto di deliberazione, mentre per diventare socio si paga di più (130€ euro di iscrizione + 150 annuali)1, ma si può partecipare attivamente alla vita della associazione. Ciò significa che si possiede diritto di voto nell’organo 1 - Per gli autori under 30 l’associamento è gratuito dal 2015


decisionale, l’Assemblea della Società, dove però il potere è distribuito in maniera quantomeno bizzarra per un ente pubblico. Il voto di ogni socio infatti ha un peso pari alla quantità di quote di partecipazione che egli possiede. Queste dipendono dalla quantità di share e di vendita della proprietà intellettuale (motivo per cui i pezzi grossi della musica italiana, tipo Vasco o Ligabue, hanno una grande importanza in SIAE), e alla possibilità di acquistare i diritti di una canzone o di una parte di essa. Si può ad esempio acquistare 1/24 della sigla del TG1, e recepire proventi, e conseguentemente aumentare il proprio peso nella società, ogni volta che questo va in onda. Inoltre dal 2012 ogni socio ha diritto ad un voto in più per ogni euro che egli riceve da SIAE. Questo crea un sistema di potere decisamente sbilanciato verso un élite (la cui età media supera i sessant’anni) che di fatto possiede l’intera società, e la gestisce, secondo quanto dichiarato dall’ex presidente Gino Paoli, nell’interesse di tutti, “combattendo chi tenta di eludere il riconoscimento del diritto d’autore”. Ciò sarebbe perfettamente normale in una Società per Azioni, mentre la SIAE è, come già detto, un ente pubblico. Inoltre se il bilancio di SIAE è in positivo ciò non dipende dalla gestione dei proventi del diritto d’autore. Questa voce è in rosso nel bilancio di SIAE. La voce Saldo di gestione finanziaria e straordinaria infatti riesce a riportare in positivo un bilancio che, per quanto riguarda la sola gestione del diritto d’autore, sarebbe abbondantemente sotto lo zero. L’associazione non riuscirebbe a restituire a gran parte dei soci nemmeno la loro quota associativa. Perché SIAE non vuole la Direttiva Barnier Benché la Direttiva Barnier non ponga alcun limite all’esistenza di monopoli di diritto come quello di SIAE in


Italia, il suo recepimento andrebbe a creare una situazione surreale nel mercato italiano. La SIAE manterrebbe infatti il monopolio territoriale in Italia, dove sarebbe vietata l’apertura di nuove società di collecting, ma ogni autore potrebbe decidere a propria discrezione a quale società (SIAE oppure all’estero) affidarsi. E’ il caso di SoundReef, società legalmente inglese ma gestita da italiani che nel 2014 ha ricevuto una storica sentenza favorevole. Non c’è motivo, in un’ottica di comunitarizzazione del diritto d’autore, di impedire ad una società non residente in Italia di tutelare il diritto d’autore di artisti che decidano di affidarsi a lei sul territorio italiano. Questo apre le porte ad un meccanismo concorrenziale in cui coloro che perdono non sono che gli autori, costretti a fare salti mortali tra società straniere e monopolio SIAE, e con loro l’intera produzione intellettuale del nostro paese. La SIAE è un gigante coi piedi d’argilla, ancorato da troppo tempo nelle istituzioni del nostro paese e incapace di adattarsi all’evoluzione di un mercato che mai come oggi ha bisogno di essere sostenuto da istituzioni al passo con i tempi. La Direttiva Barnier oltre a segnalarci che il tempo stringe mettendo ulteriormente l’accento sul malfunzionamento del nostro sistema, impone una riflessione sul mercato culturale. Occorre rendersi conto che la libera circolazione dei saperi e delle opere dell’ingegno è possibile, che la condivisione e il libero accesso nell’era di internet non possono essere imbavagliati ma devono essere favoriti in un sistema che riesca allo stesso tempo a tutelare gli autori. Le fonti utilizzate per la stesura di questo articolo sono per la maggior parte tratte dal dibattito “Tutta un’altra musica” del 7 Aprile 2015 al Teatro Angelo Mai di Roma, in cui sono intervenuti Davide D’Atri (A.D SoundReef), Avv. Simone Aliprandi (CopyLeft italia), Claudio Trotta (Barley Arts) Avv. Giuliana Aliberti, Adriano Bonforti (Patamu), Avv. Gianluca Cannavale, Roberto Corsi (Goodfellas distribuzioni) Giuditta Nelli (ARCI) Daniel Plentz (MusicRaiser), Avv. Giovanni Maria Riccio, Matteo Romagnoli (Garrincha Dischi).



Alternative possibili - CopyLeft e Creative Commons di Stefano Santangelo

Il Copyright nasce tre secoli fa nell’editoria inglese come diritto specifico dell’editore, un’arma di un imprenditore contro un altro, dato che solo gli editori potevano avere accesso ai macchinari tipografici. Non vi era modo per il pubblico di copiare libri gratuitamente, e chi non aveva la possibilità di acquistare l’opera era costretto a rinunciarvi. Passano i secoli, e a partire dagli ultimi decenni del Novecento, con la diffusione di macchinari che consentono la riproduzione delle opere (computer, registratori e fotocopiatrici) l’insofferenza verso il copyright si diffonde sempre più. In ambienti di sinistra, questo dissenso è corroborato dalla teoria della genesi sociale del sapere, ovvero che tutte le idee, da chiunque vengano partorite, siano sempre direttamente o indirettamente influenzate dall’insieme dei rapporti sociali che intrattiene il loro formulatore. Il Copyright è quindi inteso come strumento di repressione sociale. Il concetto di Copyleft nasce in ambito informatico. Il termine è un gioco di parole che oppone “left” (sinistra) a “right” (destra) della parola copyright. Venne introdotto dal programmatore Richard Stallman negli anni Ottanta nel contesto del movimento per il software libero, che agiva per il fine di impedire che software di pubblico dominio, sviluppati da comunità aperte di sviluppatori, una volta modificati anche in piccolissima parte potessero essere convertiti in questa versione leggermente diversa in software di proprietà. Nel 1989 Stallman rilascia la licenza GNU GPL, la prima licenza per uso generale ad applicare il concetto di Copyleft, e che garantisce a tutti gli utenti di redistribuire e modificare il software a cui viene applicata; ogni versione modificata deve essere distribuita sotto la stes-


sa licenza. Non si impedisce la distribuzione commerciale, ma si obbliga il distributore a rendere disponibile il codice sorgente del software a chi lo riceve. Il Copyleft è insomma un modo di applicare il copyright in modo da ribaltarne le consuete caratteristiche, per garantire le libertà degli utenti invece di restringerle. Nel caso in cui si cercasse di appropriarsi del software o non si rispettassero le libertà stabilite dalla licenza, l’autore originale mantiene il copyright e può dunque denunciare l’illecito. L’applicazione del modello del Copyleft a tutte le opere d’ingegno è stato sistematizzato grazie alle licenze di diritto d’autore redatte e rilasciate nel 2002 dalla Creative Commons, un ente no-profit fondato nel 2001 da Lawrence Lessing, professore di diritto alla Harvard University. Queste licenze sono strutturate in due parti: due libertà concesse dall’autore per la propria opera e quattro condizioni di utilizzo per quest’ultima. Le due libertà, a cui è associato un simbolo grafico, sono quelle di Condividere (To Share) , cioè di copiare, distribuire e trasmettere l’opera, e di Rielaborare (To Remix) , cioè di poterla riadattare. Le quattro condizioni sono le seguenti, e a ognuna è associato un simbolo grafico e una sigla: • Attribuzione/Attribution (BY) , che consente di copiare, distribuire, mostrare ed eseguire liberamente l’opera e le opere da essa derivate a condizione che venga mantenuta l’indicazione del suo autore. • Non commerciale/Non Commercial (NC) , che permette di copiare, distribuire, mostrare ed eseguire l’opera e le opere da essa derivate solo a scopi non commerciali. • Non opere derivate/No Derivative Works (ND) che permette la copia, distribuzione etc. solo di opere identiche all’originale.


• Condividi allo stesso modo/Share Alike (SA) , che permette la distribuzione di opere derivate solo sotto licenza identica o compatibile a quella concessa con l’opera originale. Le quattro condizioni sono combinate nelle sei licenze Creative Commons in uso, indicate da sigle: • CC BY: permette la copia, la distribuzione etc. dell’opera originale e di opere da essa derivate a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore originale. • CC BY-SA: permette la copia, la distribuzione etc. dell’opera originale e di opere da essa derivate a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’opera originale all’autore e che le opere derivate vengano rilasciate sotto licenza identica o compatibile a quella dell’opera originale. È la licenza più simile alla GNU GPL. • CC BY-ND: permette permette la copia la distribuzione etc. della sola opera originale a patto che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore. • CC BY-NC: permette di distribuire l’opera originale non a scopi commerciali, e di creare e distribuire opere da essa derivate a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore originale. Le opere derivate non sono obbligate a sottostare alla stessa licenza dell’originale, e dunque ne è permesso l’uso commerciale. • CC BY-NC-SA: permette di distribuire l’opera originale e di creare e distribuire opere da essa derivate a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore originale e che ai derivati vengano applicate le stesse condizioni dell’originale, impedendone dunque l’uso commerciale. • CC BY-NC-ND: consente la copia, la distribuzione etc. della sola opera originale a scopi non commerciali e a condizione che venga riconosciuta la paternità dell’ope-


ra al suo autore Creative Commons offre inoltre uno strumento legale per rinunciare al Copyright sull’opera in tutto il mondo, indicato con la sigla CC0. Nelle poche giurisdizioni in cui è possibile, ciò colloca l’opera nel pubblico dominio. Nelle altre, come in quella italiana, in cui l’autore non può rinunciare alla paternità dell’opera, lo strumento permette le massime libertà possibili. Inoltre Creative Commons ha introdotto il Public Domain Mark, uno strumento atto a segnalare opportunamente le opere che già rientrano nel pubblico dominio. Le fonti: Antonella Beccaria, Le realtà che diffondono: Wu Ming, in A. Beccaria (a cura di), Permesso d’autore, Libera Cultura/Stampa Alternativa, 2006, disponibile all’indirizzo: www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/intervista_permessodautore.htm Cos’è il copyleft?, disponibile all’indirizzo: http://www.gnu.org/licenses/copyleft. it.html Wu Ming 1, Il copyleft spiegato ai bambini. Per sgombrare il campo da alcuni equivoci, dall’inserto “Booklet” della rivista “Il Mucchio Selvaggio”, n. 526, 2531 marzo 2003, disponibile all’indirizzo: http://www.wumingfoundation.com/ italiano/outtakes/copyleft_booklet.html Il sito di Creative Commons: https://creativecommons.org Wikipedia: • Copyleft, disponibile all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/copyleft • Copyright, disponibile all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/copyright • GNU General Public License, disponibile all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/ wiki/GNU_General_Public_License • Licenze Creative Commons, disponibile all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/ wiki/Licenze_Creative_Commons




No copyright Estratti da “No Copyright – nuovi diritti nel 2000” di Ralph Valvola Scelsi, ShaKe Edizioni Underground a cura di Paolo Cerruto

Riscaldamento Un giorno Marco Philopat, fondatore della casa editrice indipendente Agenzia X, mi ha detto che secondo lui ogni epoca ha un termometro rivoluzionario: l’uso che si fa del noi rispetto all’io. Negli anni Settanta i giornalisti de il Manifesto non firmavano gli articoli. Oggi probabilmente la parola più usata dalle selfie people delle necropoli in cui viviamo è io. La condivisione dei saperi dev’essere il calore capace di far schizzare il mercurio nel termometro di un’epoca, la nostra: la presa di coscienza e la successiva azione dovranno partire dall’accessibilità e dalla divulgazione della conoscenza. Per questo siamo interessati ad analizzare e diffondere metodi alternativi al Copyright, che cristallizza e monetizza la libertà dei creatori. Noi ci stiamo scaldando e speriamo di ammalarci insieme, perché è dalla febbre che nascono le visioni. [Paolo Cerruto] Copyright vs diritto d’autore Un argomento importante che va sempre tenuto presente è la differenza sostanziale fra copyright e diritto d’autore, nonostante nel gergo comune ci sia la tendenza a usare le due espressioni come sinonimi. Il concetto di diritto d’autore è più ampio rispetto a quello di copyright. Il copyright tipico degli ordinamenti di matrice anglo-americana è nato con l’insito scopo di promuovere l’industria culturale (copyright significa “diritto di copiare”), quindi al diritto di riprodurre e distribuire sul mercato copie di un’opera. Dunque ogni autore può vantare sulla sua opera dei diritti di tipo patrimoniale che tendenzial-


-mente cede (in blocco, per mezzo di un contratto ad hoc e solitamente in cambio di un corrispettivo in denaro) ad un soggetto imprenditoriale, il quale si occupa di commercializzare l’opera. Da quel momento e per tutta la durata dei diritti trasferiti con il contratto, è il soggetto imprenditoriale a gestire le sorti dell’opera in questione. Il diritto d’autore italiano da un passo in più. L’attenzione della normativa si sposta verso la sfera dell’autore, il quale, anche dopo un’eventuale cessione dei diritti patrimoniali sull’opera, può controllare un certo controllo sulla stessa. Questo perché il diritto d’autore prevede in capo all’autore un fascio di diritti più ampio, aggiungendo a quelli di tipo patrimoniale (della durata di 70 anni) anche i cosiddetti diritti morali, che sono irrinunciabili, incedibili e perpetui. Nascita dei diritti e paternità dell’opera Nell’immaginario comune l’acquisizione dei diritti d’autore si perfeziona attraverso una non ben specificata formalità che per alcuni è la registrazione dell’opera alla Siae, per altri è l’iscrizione dell’autore alla Siae o altre leggende simili. Il diritto d’autore, a differenza del brevetto (che appunto richiede una registrazione presso appositi uffici), è per così dire “automatico”: l’autore acquisisce il complesso dei diritti sull’opera con la semplice creazione della stessa. Ciò è cristallizzato nell’art. 2576 cod.civ., che recita: “Il titolo originario dell’acquisto del diritto d’autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale”. A nulla rileva dunque l’intervento “magico” della Siae o di altri fantomatici organi certificatori. Il problema sussiste piuttosto dal punto di vista della prova della paternità dell’opera e del momento della sua creazione, allo scopo di difendersi da eventuali pretese o controversie relative alla paternità di quell’opera. I metodi per provare l’esistenza di un’opera in una data certa


sono vari: pubblicarla all’interno di una edizione periodica, depositarla presso enti pubblici tenuti a protocollare e registrare alcuni tipi di documenti, depositarla presso un notaio, fare in modo che vi venga apposto un timbro postale (sull’opera, non sulla busta!). C’è da dire che l’avanzamento delle tecnologie digitali sta portando forti cambiamenti anche in quest’ambito, soprattutto grazie ai sistemi di firma digitale certificata e di e-mail certificata (che a tutti gli effetti sostituisce la raccomandata, garantendo anche l’integrità dei file allegati). Una nuova compagine soggettiva Se nel modello di copyright tradizionale avevamo dei soggetti più determinati o quanto meno determinabili (autore, editore, produttore), nel modello Copyleft abbiamo un solo soggetto determinato, cioè colui che, avendone titolo, decide di applicare una licenza copyleft alla sua opera. Ogni utente finale dell’opera può essere un semplice spettatore oppure può a sua volta farsi soggetto attivo del meccanismo di distribuzione dell’opera (producendo copie o dispense dell’opera, ad esempio). A volte, nel caso in cui la specifica licenza lo consenta, l’utente può addirittura intervenire sull’opera, diventandone automaticamente coautore. Ogni soggetto intermediario non potrebbe comunque inserirsi tra autore e pubblico, fenomeno conosciuto come disintermediazione: nell’era di Internet e del peer to peer ogni soggetto è potenzialmente membro attivo della grande catena di distribuzione; non più solo emittente o ricevente di un messaggio, non più solo produttore o spettatore di contenuti. Il copyleft porta anche a una differenziazione nella sfera della facoltà di scelta dell’autore, il quale, preferendo una determinata licenza, decide a priori quali diritti concedere agli utenti, quali mantenere nella sua titolarità e quali eventualmente cedere ad un soggetto intermediario. In questo modo, ogni opera ha un suo


particolare regime giuridico, ovviamente sempre all’interno delle possibilità e sfumature previste dal diritto d’autore. [libera reinterpretazione da Teoria e pratica del copyleft, di Simone Aliprandi, NdA press, 2006].

Sette argomentazioni contro il copyright 1) Il primo argomento fa perno sull’obsolescenza della legge attuale sul copyright relativamente ai nuovi media digitali. Già a partire dall’invenzione della fotocopiatrice, il copyright ha cessato di funzionare in maniera adeguata. A voler utilizzare l’arcinoto testo di Walter Benjamin sull’Arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica si potrebbe ancor più arretrare temporalmente il momento di genesi di quanto sta accadendo oggi. La legge sul copyright è di origine settecentesca e come tale inadeguata non solo a normare, ma anche semplicemente a descrivere il prossimo futuro. Inoltre la maggior parte dell’informazione odierna e tutta l’informazione futura, non subirà più alcun tipo di trasformazione fisica. “Esso rimarrà in ciò che deve essere il suo ambiente naturale, cioè il ciberspazio, e sotto molti punti di vista il ciberspazio è assai diverso dal mondo fisico. Nel ciberspazio tutto è liquido. Nel ciberspazio tutto è mutabile. Nel ciberspazio tutto può autoriprodursi. Cercare di proteggere questi diritti sulla base della propria capacità di definire un qualche tipo di materia attraverso una conversione nella fisicità non è più qualcosa su cui potremo contare.” 2) Un altro aspetto interessante riguarda la natura del cosiddetto “furto”. Se dovessimo trattare l’informazione come una forma di proprietà, assecondando l’attuale legge sul copyright, ci troveremmo profondamente a disagio. Come acutamente osserva John P. Barlow “se io rubo la vostra informazione, voi ce l’avete ancora. Se


rubo il vostro cavallo, non potete più cavalcare”. Rubare è sempre un privare qualcuno del godimento di un bene, in caso della duplicazione questa condizione invece non si dà. 3) Un’applicazione coerente della legge sul copyright comporta immediatamente dei costi sociali altissimi, sia nel presente che nell’immediato futuro. Costi sociali altissimi non solo perché (…) la sua rigida impostazione spalanca le porte del carcere anche a soggetti che sono nei fatti degli sperimentatori tecnologici e degli attivisti sociali, tutt’altro quindi che criminali. La loro unica colpa è quella di collocarsi su un territorio di frontiera il quale, per ontologica costituzione, non prevede comportamenti chiaramente definiti, stretto com’è da necessità di sperimentazione tecnologica. Al contrario gli organi inquirenti ne danno una lettura esclusivamente criminalizzante: associazioni a delinquere di nuovo tipo. Ma il costo sociale nel prossimo futuro sarà ancora più alto, perché coinvolgerà in maniera necessaria la stessa definizione e funzione del sapere. Siamo entrati in un contesto economico in cui il principale oggetto di commercio assomiglia così tanto al linguaggio da risultarne nella maggior parte dei casi indistinguibile. Cercare di circoscriverne gli interessi proprietari mediante leggi draconiane sempre più restrittive e metodi legali, andrà a limitare e toccare immancabilmente la stessa libertà di parola e di comunicazione. D’altronde come suggerisce Barlow “i marchingegni per fare in modo che la gente paghi per usare un programma, incluse le licenze sulle copie, hanno sempre indotto un costo tremendo sulla società attraverso i contorti meccanismi necessari a capire quanto (o quali programmi) una persona debba pagare. Solo uno stato poliziesco può obbligare chiunque a obbedire. Considerate una stazione spaziale dove l’aria deve essere creata a costi eleva-


ti: facendo pagare ogni persona che respira un tanto al litro di aria può essere equo, ma indossare la maschera che conteggia l’acconto giorno e notte può essere intollerabile anche se tutti possono permettersi di pagare la tassa. E telecamere ovunque per controllare che non vi togliate la maschera è semplicemente oltraggioso. È meglio fissare una tassa direttamente sull’impianto per l’aria e buttare via le maschere. Copiare qualsiasi parte di un programma è naturale per un programmatore, come respirare, e altrettanto produttivo. Deve essere libero.” Inoltre lo stesso concetto di cittadinanza andrà probabilmente a ridefinirsi sulle possibilità di accesso al sapere. Già è all’opera da almeno una decina di anni un violento attacco neorevisionista sulla definizione dei cosiddetti valori universali dell’uomo, così come definitisi a partire dalla madre delle rivoluzioni, quella francese. Non più uguaglianza, né fraternità (o solidarietà), né tanto meno libertà. La società del prossimo futuro sembra uscire da un brutto incubo neotecnologico corporativo. Una società concepita come divisa a spicchi, in cui il criterio di cittadinanza viene definito in base a categorie neocensitarie. Il problema è che, mentre nell’Ottocento la fine del sistema censitario fu ottenuto grazie all’emergere sulla scena politica di un grande soggetto politico quale la classe operaia, indubitabilmente portatore di esigenze di carattere universalistiche, che lottò in maniera aspra per affermare non solo i propri diritti legati al lavoro ma con esso quelli relativi alla democrazia. Oggi, diversamente, la polverizzazione dei soggetti, politici e sociali, esito dei processi di globalizzazione economica distribuiti sui territori locali, sembra spianare la strada a soluzioni che tendono a creare la sfera delle opportunità solo per coloro che possono permetterselo economicamente. Non appare quindi fantapolitica pensare che la questione dell’accesso all’informazione non sia solo un problema relativo tout court alla comunicazione, ma sia invece


attinente proprio alla definizione dei profili professionali dei soggetti e quindi, in ultima istanza, alla possibilità stessa del lavoro. Lo skill della forza lavoro toyotista prevede una multifunzionalità inedita nel sistema fordista, una maggiore capacità di adattamento nel processo produttivo, proprio perché ha alla base dei saperi preacquisiti. E con lavoratore toyotista non dobbiamo rievocare solo un tipo di operaio meno conflittuale e funzionale al gruppo di produzione, ma molto più estesamente i lavoratori dei servizi e del mondo dell’informazione: in sintesi tutte le sfere della produzione che hanno a che fare in maniera imprescindibile con dell’informazione incorporata nella merce prodotta o ancor più radicalmente nel processo stesso di produzione. Proviamo pensare all’ormai mitizzata Internet e al progetto clintoniano di definizione di alcuni nuclei riservati, dove possano viaggiare solo le merci informative più riservate e preziose, e a cui l’accesso sia possibile solo tramite il danaro e particolari autorizzazioni. O ancor meglio al sistema bibliotecario mondiale, in fase di conversione verso logiche di pareggio economico, per i tagli necessitati dalle politiche economiche anti-welfariste imposte dal FMI. Il problema della trasmissione delle conoscenze e della qualità di ciò che viene trasmesso è già oggi uno dei terreni di scontro su cui può essere combattuta un’importante battaglia di diritto. Non casualmente il problema dei diritti relativi alla proprietà intellettuale appare al centro di ogni controversia commerciale di carattere mondiale, dal GATT alle periodiche riunioni del G7. Per i ricattati paesi del Terzo Mondo, derubati metodicamente per decenni e decenni, si pone ad esempio il problema del controllo del proprio germoplasma e delle biodiversità, dalle rapaci mani delle grandi multinazionali della farmacologia e dell’alimentazione. In sintesi proprio perché la questione della proprietà intellettuale riguarda non solo l’accesso all’informazio-


all’informazione ma anche la questione del lavoro, la riflessione sul copyright riguarda tutti. 4) Il quarto argomento contro il copyright e la sua rigida applicazione è la cosiddetta legge della ridondanza. A detta di molti operatori del mercato del software la ragione per cui un antiquato spreadsheet come il Lotus 1-2-3 copre ancora il 70% del mercato delle vendite presuppone implicitamente che le invenzioni siano rare e preziose, poiché soltanto in tali circostanze vi è beneficio. In realtà il campo del software “è caratterizzato da una reinvenzione costante. È stato detto talvolta che i programmatori buttano via più “invenzioni” in una settimana di quanto altri creino in un anno. E la relativa facilità di progettare grandi sistemi software fa sì che sia facile, per molta gente, lavorare in questo campo. Un programmatore risolve molti problemi nello sviluppo di ciascun programma. È probabile che tali soluzioni siano reinventate tanto frequentemente quanto altri sviluppatori considereranno problemi simili. La prevalenza di reinvenzioni indipendenti nega l’abituale ragione finale dei brevetti. Essi sono concepiti per incoraggiare le invenzioni e, soprattutto, per favorirne la divulgazione.” (Stallman) 5) La quinta argomentazione fa leva sull’analisi del mondo brevettuale. Una pratica usata soprattutto negli Stati Uniti, in stretto combinato con la tutela del copyright. Si ricorre alla richiesta di brevetto, soprattutto per porre sotto protezione singoli accorgimenti tecnici o di programmazione, quei singoli elementi che nel loro insieme vanno a comporre un intero programma. Un brevetto in realtà per come viene oggi inteso è un monopolio assoluto. A tutti è proibito l’utilizzo del processo brevettato, persino a coloro che lo reinventano indipendentemente.


6) L’uso attuale del brevetto e delle leggi relative al copyright sono strumenti utili solo alla creazione di grandi monopoli nel settore. E come suggerisce ancora Richard Stallman: “i brevetti concessi nella passata decade vengono ora utilizzati per attaccare compagnie come la Lotus Development Corporation, per aver venduto programmi sviluppati indipendentemente. Presto nuove compagnie saranno escluse dalla cosiddetta ‘software arena’, in quanto gran parte dei programmi di maggiore interesse richiederanno licenze per decine di brevetti, rendendoli irrealizzabili. Questo problema ha un’unica soluzione: i brevetti software devono essere eliminati. Ad esempio, la tecnica di usare exclusive-or per disegnare un cursore su uno schermo è sia ben nota e ovvia (il suo vantaggio risiede nel fatto che un altro identico exclusive-or può essere utilizzato per cancellare il cursore senza danneggiare le altre informazioni sullo schermo). Tale tecnica può essere implementata con poche linee di codice e uno studente intelligente di scuola superiore può tranquillamente reinventarla. Ma essa è coperta dal brevetto n.4.197.590, il quale è stato confermato due volte in tribunale, anche se tale tecnica era già utilizzata almeno cinque anni prima del suo brevetto. Cadtrak, la compagnia che detiene il brevetto, guadagna milioni di dollari dai grossi produttori di software.” Il pericolo peggiore del sistema dei brevetti risiede nel fatto che uno sviluppatore può scoprire, dopo aver rilasciato un prodotto, che esso viola uno o più brevetti. La causa civile e i costi legali che ne derivano possono spingere una compagnia anche di medie dimensioni al di fuori del mercato. Ancora peggio, per uno sviluppatore software non c’è praticamente alcun modo di evitare questo pericolo poiché non c’è alcun modo efficace di scoprire quali brevetti siano violati da un sistema. Un modo esiste ed è la ricerca tra i brevetti, ma tali ricerche non sono affidabili e in ogni caso troppo costose per essere impiegate in progetti software.


7) Il copyright distrugge l’innovazione scientifica. Contro la pratica di privatizzazione e monopolio delle scoperte comuni e del bagaglio teorico di base dei programmatori sta reagendo la comunità scientifica americana, la quale, con a capo il grande teorico dell’intelligenza artificiale Marwin Minsky e Mitch Kapor (Lotus 1-2-3), ha costituito già da alcuni anni un’organizzazione finalizzata alla difesa dell’uso libero delle informazioni prodotte in ambito informatico: l’Electronic Frontier Foundation. Contemporaneamente è sorto un altro organismo con scopi simili: la League for Programming Freedom, che raccoglie le migliaia di programmatori preoccupati per lo stato presente e futuro dell’arte della programmazione. Il grido d’allarme che nasce da ambo le organizzazioni è sintetizzabile nello slogan “IL COPYRIGHT UCCIDE L’INNOVAZIONE SCIENTIFICA”, ricordando con nostalgica lucidità la situazione completamente differente della fine degli anni Settanta, la fase della grande spinta innovativa dell’industria informatica americana, caratterizzata, al contrario della presente, da una grande e aperta socializzazione dei saperi scientifici. [tratto da No copyright- nuovi diritti nel 2000, a cura di Raf Valvola Scelsi, ShaKe Edizioni Underground, 1994]




CTRL: oltre il Copyright nella gestione collettiva del diritto d’autore. di Giovanni Pagani

Incontriamo Corrado Gemini, tra i fondatori di CTRL [leggasi Control], per farci raccontare il loro progetto: creare un mercato musicale alternativo contrario al monopolio di SIAE nell’ambito del diritto d’autore. Per quali motivi nasce la necessità di ampliare il panorama delle scelte proponibili a un autore che voglia tutelare la propria opera? Quali sono gli obiettivi di questa lotta e quali gli ostacoli che si frappongono al loro conseguimento? Per quale motivo dobbiamo auspicarci un futuro in cui si abbandoni il sistema tradizionale di gestione dei diritti in favore di licenze più flessibili? Che cos’è Control, quando nasce e qual è la sua finalità? CTRL è una rete di artisti e di operatori del mercato musicale che entrano in relazione attraverso una piattaforma web. Attraverso gli strumenti che questa mette loro a disposizione producono e distribuiscono musica, bypassando nella maniera più totale l’iter della filiera musicale. Vogliamo creare una società di gestione collettiva al di fuori delle logiche del copyright che assuma i caratteri di un vera e propria operazione di tecno politica. Il ragionamento è partito dalla nostra situazione di musicisti e riguarda il mercato musicale, la sua verticalità in termini di strutture e dinamiche di potere. Abbiamo iniziato questo progetto con l’obiettivo di creare uno strumento autosostentante che generi un mercato musicale alternativo basato sulle licenze Creative Commons e dia corpo alla teoria politica del Copyleft. Le funzioni fondamentali di CTRL sono due: creare una rete giuridica collettiva e un macro strumento digitale di autogestione della macchina imprenditoriale del si-


stema musicale. Uno dei primi passi per andare verso l’attivazione della piattaforma, che è ancora in fase embrionale, è stato ‘Tutta un’altra Musica’, incontro del 7 Aprile all’Angelo Mai di Roma. Tre giorni prima della scadenza del termine per il recepimento della Direttiva Barnier abbiamo deciso di organizzare un’assemblea di sensibilizzazione sulla situazione del mercato musicale in Italia. Abbiamo così incominciato a impostare un discorso sulla reale possibilità di nascita di un’alternativa a SIAE. Hanno partecipato SoundReef, Claudio Trotta, Simone Aliprandi e altre figure importanti nel dibattito sulla proprietà intellettuale. Quando è iniziato il progetto Control e quali sono i suoi sviluppi? Da un paio di anni ci stiamo lavorando in tre. Il nostro lavoro in questo momento è ancora di costruzione della piattaforma. Una volta partito, per come lo stiamo pensando ad oggi, andrà contro al concetto secondo cui qualcuno gestisce qualcun altro. Abbiamo previsto che a pieno regime impiegherà una decina di persone, nessuna delle quali avrà però il ruolo di direttivo. Le figure coinvolte nel progetto saranno essenzialmente quelle che permetteranno il suo corretto funzionamento, per il resto sarà tutto in mano alla comunità di riferimento. CTRL non prenderà mai dei diritti della musica degli altri, sarà innanzitutto una certificazione del fatto che ciò che vi esce non è gestito dalle altre collecting society (e quindi comporterà un punto di cesura netta tra il mondo del copyright e quello del copyleft). Avrà poi una funzione di tutela per gli aventi diritto che scelgono vie diverse da quella tradizionale. Lo riteniamo uno sviluppo necessario e naturale anche considerando il panorama internazionale, che si sta muovendo proprio in questa direzione. Ad esempio in Olanda è già iniziata una sperimentazione di coesistenza di copyright e licenze di


creative commons, mentre nel nostro paese una svolta simile è lontana anni luce. (È olandese la prima organizzazione che consente ad autori ed editori di musica di aprirsi a Creative Commons, collaborando a favore della cultura musicale del proprio paese, aprendosi ad un panorama di licenze flessibili che concedano agli artisti una maggiore libertà di scelta nel promuovere e sfruttare il proprio operato. Questo scenario rigido è stato temperato dall’iniziativa nata dalla negoziazione tra Creative Commons, Buma/Stemra, il corrispettivo locale della SIAE, artisti ed etichette indipendenti olandesi. La società, d’ora in poi, permetterà agli autori di godere della complementarità tra licenze Creative Commons e il sistema tradizionale di gestione dei diritti, sfruttando le prime per gli usi non commerciali del proprio repertorio e approfittando dei tradizionali meccanismi di retribuzione delle seconde per gli usi commerciali, ndr). Qual è la sostenibilità del progetto? Con quali soldi va avanti? L’obiettivo è quello di lanciare una campagna di crowdfunding per finanziare la start up del progetto. La sostenibilità a regime dovrebbe invece essere garantita da un piccolo ritorno che le operazioni compiute nella piattaforma forniranno. Quando CTRL sarà attivo avrà forma giuridica collettiva, dunque ognuno dei partecipanti al progetto sarà registrato in CTRL con il proprio account, sia egli artista, editore o altro. All’interno della piattaforma stessa si metteranno in contatto organizzatori e artisti, scaricheranno il pdf del contratto e lo porteranno a termine. L’editore pagherà gli artisti che faranno così un’autoriscossione del diritto d’autore (le modalità dell’operazione dipenderanno ovviamente dagli accordi tra artisti ed editori). Una piccola percentuale su queste operazioni andrà a CTRL. Questo ritorno sarà reinvestito nel progetto che sarà un’entità non profit.


Come si configurerà la vostra trattativa con artisti aventi opere già tutelate da altre società di gestione collettiva? Dove sta la chiave per garantire un funzionamento migliore di quello di SIAE? Per quanto riguarda la questione degli artisti già tutelati da altre società di gestione collettiva, fino al 9 Aprile 2016 nessuno di loro avrebbe mai potuto depositare la propria opera altrove. Dall’11 Aprile nella teoria anche in Italia il muro che impediva a un avente diritto tutelato da SIAE di depositare parte della propria opera in un’altra società è crollato (E’ scaduto il 10 Aprile il termine per il recepimento della Direttiva 2014/26/UE, o Direttiva Barnier, con la quale l’Unione europea ha ridisegnato il mercato europeo dell’intermediazione dei diritti, imponendo alle società di intermediazione una serie di obblighi volti a garantire più efficacemente i loro membri. Nonostante la Direttiva sia datata 26 febbraio 2014, due anni non sono bastati a Governo e Parlamento per recepirla nel nostro Paese con la conseguenza che, da oggi, gran parte delle disposizioni in essa contenute diventano applicabili, seppure in assenza di una legge nazionale, ndr). La difficoltà oggettiva di trovare un artista o un editore che abbia il coraggio di abbandonare SIAE rimane però un grosso ostacolo al cambiamento della situazione di fatto. Per farti capire in che acque navighiamo ti faccio un esempio. Sempre invocando la direttiva, che prevede la presenza di un database di brani unificato a livello europeo con al proprio interno le rappresentanze di tutte le società di collecting, se un dj passa un pezzo nella rete CTRL durante una serata depositata in SIAE, in teoria SIAE dovrebbe pagarlo a CTRL. Facendo ciò però tratterrebbe comunque delle percentuali significative sulla transazione grazie agli accordi di rappresentanza, che le permettono di avere un guadagno (sottraendolo all’artista, infine) anche qualora il brano in questione sia registrato all’estero.


Questa situazione, oltre a scoraggiare gli artisti internazionali a esibirsi in Italia, rende la battaglia contro SIAE molto dura nonostante la fine del mandato esclusivo. Allo stesso tempo crea una tensione che sarebbe sciocco non sfruttare per cercare di cambiare questa situazione. La chiave per la soluzione di questo problema e per l’educazione dell’artista alla tutela e alla conoscenza del valore del proprio lavoro sta nella digitalizzazione del processo di autoriscossione dei diritti. Soundreef è un esempio evidente di come la tecnologia oggi permetta di avere facilmente un controllo capillare e in tempo reale di tutto ciò che succede all’opera di un artista.



The Guerrilla Open Access Manifesto di Aaron Swartz

Aaron Swartz (1986-2013) è stato un programmatore e attivista per la libera fruizione dei contenuti sul web. Fondatore di Reddit.com e DemandeProgress, fu uno dei principali esponenti del movimento Anti SOPA (Stop Online Piracy Act), che coinvolse centinaia di migliaia di persone e i principali siti di informazione americana. Profondamente convinto della necessità di imporre la libera circolazione del pensiero, in particolar modo in campo scientifico, rischiava fino a 35 anni di carcere dopo aver scaricato nel 2011 4.8 milioni di articoli scientifici a pagamento dal portale JSTOR. Si tolse la vita nel suo appartamento di Brooklyn l’11 Gennaio 2013. Proponiamo qui il testo del Guerrilla Open Access Manifesto, scritto in Italia nel 2008 ad un incontro di attivisti per i nuovi diritti sul web. La sua storia è raccontata in un documentario – The Internet’s Own Boy , the story of Aaron Swartz, di Brian Knappenberger, USA, 2014 – e nel libro – The boy that could change the world – The writings of Aaron Swartz, a cura di Lawrence Lessing. L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private. Vuoi leggere le riviste che ospitano i più famosi risultati scientifici? Dovrai pagare enormi somme ad editori come Reed Elsevier. C’è chi lotta per cambiare tutto questo. Il movimento Open Access ha combattuto valorosamente perché gli scienziati non cedano i loro diritti d’autore e che invece il loro lavoro sia pubblicato su Internet, a condizioni


che consentano l’accesso a tutti. Ma anche nella migliore delle ipotesi, il loro lavoro varrà solo per le cose pubblicate in futuro. Tutto ciò che è stato pubblicato fino ad oggi sarà perduto. Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile. “Sono d’accordo,” dicono in molti, “ma cosa possiamo fare? Le società detengono i diritti d’autore, guadagnano enormi somme di denaro facendo pagare l’accesso, ed è tutto perfettamente legale — non c’è niente che possiamo fare per fermarli”. Ma qualcosa che possiamo fare c’è, qualcosa che è già stato fatto: possiamo contrattaccare. Tutti voi, che avete accesso a queste risorse, studenti, bibliotecari o scienziati, avete ricevuto un privilegio: potete nutrirvi al banchetto della conoscenza mentre il resto del mondo rimane chiuso fuori. Ma non dovete — anzi, moralmente, non potete — conservare questo privilegio solo per voi, avete il dovere di condividerlo con il mondo. Avete il dovere di scambiare le password con i colleghi e scaricare gli articoli per gli amici. Tutti voi che siete stati chiusi fuori non starete a guardare, nel frattempo. Vi intrufulerete attraverso i buchi, scavalcherete le recinzioni, e libererete le informazioni che gli editori hanno chiuso e le condividerete con i vostri amici. Ma tutte queste azioni sono condotte nella clandestinità oscura e nascosta. Sono chiamate “furto” o “pirateria”, come se condividere conoscenza fosse l’equivalente morale di saccheggiare una nave ed assassinarne l’equipaggio, ma condividere non è immorale — è un imperativo


morale. Solo chi fosse accecato dall’avidità rifiuterebbe di concedere una copia ad un amico. E le grandi multinazionali, ovviamente, sono accecate dall’avidità. Le stesse leggi a cui sono sottoposte richiedono che siano accecate dall’avidità — se così non fosse i loro azionisti si rivolterebbero. E i politici, corrotti dalle grandi aziende, le supportano approvando leggi che danno loro il potere esclusivo di decidere chi può fare copie. Non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste. È tempo di uscire allo scoperto e, nella grande tradizione della disobbedienza civile, dichiarare la nostra opposizione a questo furto privato della cultura pubblica. Dobbiamo acquisire le informazioni, ovunque siano archiviate, farne copie e condividerle con il mondo. Dobbiamo prendere ciò che è fuori dal diritto d’autore e caricarlo su Internet Archive. Dobbiamo acquistare banche dati segrete e metterle sul web. Dobbiamo scaricare riviste scientifiche e caricarle sulle reti di condivisione. Dobbiamo lottare per la Guerrilla Open Access. Se in tutto il mondo saremo in numero sufficiente, non solo manderemo un forte messaggio contro la privatizzazione della conoscenza, ma la renderemo un ricordo del passato. Vuoi essere dei nostri? Luglio 2008, Eremo, Italia



Hanno contribuito alla realizzazione di questo scritto: Giorgio De Ambrogio – Altrementiblog Giovanni Pagani – Altrementiblog Stefano Santangelo – Collettivo LUMe Paolo Cerruto – Tempi diVersi Ralph Valvola Scelsi – ShaKe Edizioni Underground AgenziaX – Idee per la Condivisione dei Saperi Corrado Gemini – CTRL Project Isabella Cortese – Collettivo LUMe / progetto Grafico e impaginazione La stampa di questo opuscolo è il frutto dei dibattiti e delle riflessioni mosse in questi mesi all’interno del Collettivo LUMe, Laboratorio Universitario Metropolitano, Vicolo Santa Caterina 3/5.





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