SPAZIOLIBERO

Page 1



Spazi occupati e produzione culturale indipendente


Introduzione di Isabella Cortese

Usiamo lo spazio urbano per muoverci, ma è più difficile dire se abitiamo realmente gli spazi che ci spettano. Abitare comporta in primis il riconoscimento dello spazio pubblico come qualcosa di intimo, di vicino, se non necessariamente di proprio. L’idea stessa di città dovrebbe trovare le sue fondamenta nella cittadinanza e nelle collettività, mentre oggi sono i cittadini i principali esclusi dalla metropoli e, sempre più spesso, addirittura autoesclusi. Chi vive in città è sollevato da ogni incarico decisionale che riguardi il fare città e, allo stesso tempo, abita i luoghi nel privilegio contraddittorio di poter fruire di moltissime esperienze di arte e cultura (sempre più ferventi nelle metropoli contemporanee) senza, però, poter prendere effettivamente parte a tale processo in un’ottica di compartecipazione artistica. La crisi della città e della vitalità artistica dei suoi abitanti è da riscontrare nella dissoluzione di ciò che ne costituiva l’elemento principale - prima che le dinamiche funzionaliste del capitalismo prendessero il sopravvento sull’habitat e sullo stile di vita – ovvero, gli spazi pubblici, liberi, collettivi e le loro molteplici relazioni con quelli privati. L’ambiente urbano è soprattutto un ambiente umano, un contesto di relazioni; ed è dall’interpretazione di queste relazioni che bisogna partire per costruire e rendere efficace un progetto di ripensamento dello spazio in cui viviamo. E’ fondamentale discutere, riflettere e dibattere sul ruolo odierno dell’arte e della cultura in relazione alla società e alle comunità urbane, tenendo bene a mente le loro trasformazioni; per capire se un progetto artistico possa ancora costituire uno strumento ai fini della let-


tura del presente, in che senso e per chi. Milano fatica a dare risposte a questi interrogativi, e allora alcune giovani realtà artistiche indipendenti si mettono attorno a un tavolo per ridisegnare il proprio ruolo urbano, artistico, sociale. E’ proprio la volontà di costruire un dialogo completo, che possa informare ed approfondire le criticità di un movimento - quello degli spazi occupati - capace di estendersi ben al di là dei confini della nostra città, ad orientare e muovere questa raccolta di scritti. Di fronte alla crisi di un modello di convivenza urbana che ha perso di vista i suoi valori fondamentali, gli spazi occupati si propongono come un’alternativa sociale completa e genuina e rispondono al profondo bisogno della collettività di riappropriarsi della “res publica”. Di qui la necessità di comprendere, analizzare e spiegare, anche attraverso differenti punti di vista, la complessità e la potenza simbolica di una rivendicazione popolare che da molti anni è parte integrante del nostro percorso storico. Milano, 25 Aprile 2016



Società moderna e tessuto sociale di Luca Oberti

Assistiamo all’emergere di una “tendenza sistemica” capace di erodere il tessuto della nostra società e la creazione quindi, di capitale sociale. La deriva consumistica che ha investito la società nel suo insieme, dalle relazioni tra gli individui, alla concezione degli spazi e dei luoghi, della socialità nel suo complesso, ha compromesso duramente le dinamiche atte alla creazione di capitale sociale. Il pragmatismo economico “dell’uomo che si fa da sè”, l’esaltazione dell’individuo e delle sue qualità, dell’impresa privata, delle pratiche a-sociali fondate sul mero calcolo di costi-benefici, alla base dell’iper-capitalismo diffusosi con la globalizzazione, hanno minato con forza la capacità di resistenza delle reti sociali, del collettivismo e dell’azione civica nel suo complesso. Alimentando la competizione tra gli individui nel mondo del lavoro, in quello affettivo e relazionale, il consumismo moderno ha messo a repentaglio la struttura novecentesca di gestione del potere, incidendo negativamente sulla distribuzione di ricchezza a livello globale, sui livelli di uguaglianza sostanziale e sulla capacità che la società attuale ha, di mantenere alti livelli di fiducia tra le persone. Putnam, concentrandosi sulla diminuzione delle tradizionali occasioni di formare legami sociali, a fronte dell’espandersi del settore comunicativo, pare convergere con le posizioni di Giaccardi e Magatti, anch’essi sociologi, i quali lamentano un indebolimento dei legami sociali, alla base del capitale sociale stesso. La “rispazializzazione” attuata da un sistema di interessi ed appartenenza multiplo e diffuso, nel quale è sempre più difficile trovare una propria identificazione o riconoscersi in quella di un gruppo, e la parzializzazione di


un territorio al quale è sempre più complesso donare la propria fedeltà e che risulta sempre più inaccessibile, distante e “di altri”, aumenta i livelli di diffidenza interni e, in particolare, l’intolleranza legata all’arrivo di stranieri o soggetti esterni, spesso ritenuti poco inclini a rispettare le regole di vita condivise. Insomma le abitudini che conserviamo, il nostro stile di vita, o ciò che abbiamo appreso socializzandoci all’ambiente, alla società nella quale siamo immersi, rispondono alle esigenze di un sistema che fa della frammentazione, dell’atomismo, le sue caratteristiche principali. Nell’epoca dei social network, di Internet, della connessione globale, delle chat, stiamo assistendo ad una ridefinizione di ciò che intendiamo per relazione, abbandonando la profondità emotiva che le aveva contraddistinte, per adeguarci alla brevità, alla superficialità di un mondo sommerso da impulsi affettivi, legami occasionali o virtualizzati, legati ad una mentalità opportunistica e razionale. Di qui la fortuna della metafora di Zygmunt Baumann, filosofo e sociologo polacco, circa il concetto di “società liquida” con il quale ha dipinto e ridefinito il nostro universo sociale: egli per “liquidità” intende uno stato, fisico e mentale,attraverso il quale è possibile descrivere l’evolvere, il procedere della nostra società, dell’insieme delle nostre relazioni. Tutto è liquido, inafferrabile, in costante movimento, senza forma o contorni, sospeso come in un mare di incertezza incapace di produrre isole o piattaforme di significato cui aggrapparsi: nè l’etica del lavoro, nè l’importanza attribuita a poche ma solide relazioni, nè la profondità emotiva o la ricerca distribuita nel tempo di un senso; tutto pare disperdersi e frammentarsi nella liquidità di un pensiero che pone l’atto del consumo e le sue implicazioni sociali, al di sopra di ogni cosa. Lo stesso atto che, secondo Baumann: “non può che esse-


re individuale e solitario”. E’ in atto un processo di vera e propria “liquefazione”, in grado di estendersi in ogni ambito della nostra vita: dal lavoro alle proprie passioni, dalle nostre relazioni alla gestione che abbiamo del nostro tempo libero, dal materiale all’ideale. L’uomo, calato nella società contemporanea, appare a Baumann come instabile, incerto, privo di punti di riferimento e, immerso in un contesto così dinamico ed impulsivo, estremamente solo ed egocentrico. Spazi e reti sociali In un sistema nel quale prevale l’utilitarismo affettivo, la “rispazializzazione consumistica” dei luoghi e il pensiero strumentale, che favorisce il complessarsi del processo di identificazione, risulta sempre più importante il ruolo svolto, in senso contrario, dagli spazi sociali. Costituitisi come centri di aggregazione politica e di produzione culturale già nel 900, la loro funzione di “catalizzatore” sociale appare oggi ancor più fondamentale nella ri-costruzione del capitale sociale dispersosi con l’avvento della cultura consumistica. Sono molti i motivi che fanno dei centri sociali, le strutture ideali da cui ripartire per la creazione di un tessuto sociale vivo e diffuso: • Sono luoghi in cui lo spazio viene vissuto e non usato, in cui è possibile creare un legame con l’ambiente che ci circonda che sia duraturo e stabile, non occasionale e vincolato. Sono luoghi in cui lo spazio viene costruito e plasmato dalle persone che lo vivono, che lo personalizzano, facilitando il processo di identificazione con uno spazio e la creazione di capitale sociale civico (quell’insieme cioè di valori quali l’attaccamento e la fedeltà al territorio che presuppongono alla difesa ambientale e culturale di uno spazio, che garantiscono la


sua fruibilità pubblica e che assicurano una percezione della “cosa pubblica” fondamentale per la creazione di un senso di collettività). • Sono luoghi di socializzazione, intesa non solo come possibilità di conoscenza di altre persone, ma delle regole implicite alla base dei rapporti interpersonali. In questi spazi, relazionarsi diventa quasi un imperativo: il confronto continuo migliora la nostra capacità di comunicare con gli altri, ci aiuta a combattere la mancanza di attenzione, l’indifferenza che il sistema ci spinge a nutrire nei confronti degli altri. Lo spazio sociale favorisce l’integrazione e la formazione sociale degli individui che lo vivono, che lo frequentano, stimolando le loro capacità comunicative e aiutandoli a superare gli ostacoli della diffidenza verso il diverso o ciò che non si conosce. • Il contatto continuo tra individui favorisce la formazione della fiducia interpersonale, delle reti sociali, nonchè la loro diffusione al di fuori dello spazio, alimentando la creazione di capitale sociale utile a superare le ambiguità e gli ostacoli che la società moderna frappone tra noi e gli altri. • Favorisce la formazione di un senso di appartenenza ed identificazione ad un gruppo sottraendo l’individuo al senso di incertezza che domina la struttura sociale odierna, supportandolo nel suo orientamento culturale, attraverso le attività a cui può prendere parte, attraverso il fascino di una “chiamata alle arti” e grazie alla libertà espressiva di cui si gode. Eliminando le barriere all’ingresso, eludendo l’oligopolio culturale contemporaneo, pone il singolo e la sua creatività al centro della collettività, ristabilendo i naturali rapporti tra un io ed un noi identificabili e non aleatori.


• Promuove le capacità del singolo mettendo a disposizione, in un unico luogo, quelle risorse, quegli stimoli che solo una rete sociale diffusa e capillare riescono a creare. • Fa della diversità, del contributo differente dei singoli, la sua forza, ponendosi in antitesi con il processo di omologazione socio-culturale che sta impoverendo la nostra società. Crea ricchezza sfruttando ciò che oggi è vista come una debolezza sistemica e aumenta le capacità del sistema stesso di rispondere alle diverse sollecitazioni, incrementando la sua flessibilità culturale, la sa capacità di innovarsi, il suo potenziale combinativo. • Resistendo alla logica strumentale che ha invaso l’ambito culturale, ridona consapevolezza artistica all’ambiente che lo vive, supportando la produzione indipendente e, promuovendo il localismo culturale, difende le tradizioni artistiche aggredite dalla globalizzazione e dalle dinamiche legate alla mercificazione dell’arte. • Criticizza l’individuo che si immerge in esso, portandolo a diretto contatto con le tensioni sociali in atto, con le razzializzazioni manifeste o latenti, rendendolo partecipe dell’universo socio-politico che ha intorno, sottraendolo dal senso di annichilimento che una società iper-burocratizzata riesce a creare. Restituisce alla comunità un cittadino consapevole della realtà che lo circonda, dell’influenza che la sua azione può avere e forte della consapevolezza di non essere isolato. Questi ed altri sono i presupposti che fanno degli spazi sociali dei veri e propri network paralleli a quelli tradizionalmente impostisi. O meglio, rendono questi spazi delle alternative complete di socializzazione ed apprendimento culturale, talvolta complementari a quelle tipi


che, talvolta decisamente alternative e “di resistenza”. Seguendo il modello di “società a rete” del sociologo spagnolo Manuel Castells, che descrive la società come una ragnatela di relazioni e legami capace di coagularsi in “nodi” ( vere e proprie convergenze di interessi, poteri o risorse relazionali), i centri sociali potrebbero configurarsi dunque come nodi interscambiabili con quelli canonici e legati alla dimensione politica o economica. La sua teoria, che assegna maggior potere a quei nodi capaci di far convergere su di se più peso politico, economico e mediatico, individuando nelle convergenze di “big interests” i punti cardine su cui ruota e si orienta la società attuale, può applicarsi e combaciare con il ruolo assunto, oggi come ieri, dagli spazi occupati a forte direzione socio-culturale. Vista la capacità di questi luoghi di coagulare interessi ed attenzioni in maniera così differente dall’inclinazione che Castells attribuiva alle grandi industrie mediatiche o economiche (enormi bacini di poteri e pressioni) è possibile immaginare e sperare che il ruolo assunto dai centri sociali vada ampliandosi, nel tentativo di sostituirsi a poli mediatici rigidi e precostituiti che poco o nulla lasciano al singolo. La diffusione della cultura sociale, la creazione di capitale sociale e di fiducia interpersonale, sono alla base dei più importanti successi ottenuti da questo tipo di iniziative in campo civilistico, culturale, artistico e giuridico. Costituendo le fondamenta della nostra democrazia si riverberano nella forza delle parole della nostra costituzione. Mentre lo spazio sociale e culturale per cui ci si sente responsabili tende a ridursi, questi luoghi portano avanti un tentativo di resistenza popolare diffuso che affonda le sue radici nella storia delle libertà dell’individuo e nelle sue capacità espressive, riuscendo, allo stesso tempo, a farsi percorrere dalle innovazioni e dalle ibridazio-


ni che consentono ad una società di trovare la sua via di sviluppo. La “chiamata alle arti, alla socialità, alla cultura” di cui si fanno portavoce gli spazi sociali, riflette le sollecitazioni di una società che fa sempre più fatica a riconoscere sè stessa, che vede soffocare la propria capacità di innovarsi e di far valere la sua storia, che ha paura di quella diversità che da sempre ha promosso la circolazione delle idee e che sembra arrendersi ad una visione strumentale che fa dell’uomo un sotto-prodotto del suo stesso sistema. Nella totale assenza di un ripensamento teorico che vada ad indagare sulle norme che oggi, regolano la nostra convivenza, il nostro mondo, gli spazi sociali portano avanti una lotta atta a difendere non solo la nostra libertà, ma anche la nostra umanità.



Attivismo artistico e spazi liberati: tra pratiche di partecipazione e resistenza di Isabella Cortese

A partire dalle Avanguardie del primo Novecento, alcuni artisti non si sono più posti come obiettivo quello di rappresentare semplicemente la realtà, ma quello di trasformarla prendendovi parte, tentando di sfuggire alla mercificazione e alla museificazione. Abbandonando i luoghi istituzionali per secolarizzare le loro azioni, hanno contribuito a generare un nuovo tipo di bellezza, una bellezza a portata di mano, a volte brutta, non più trascendente, una bellezza democratica e provocatoria, che entra finalmente nel corpo della società scuotendone l’assetto. Negli anni Settanta, i presupposti della concezione estetico-filosofica di Adorno, verranno formulati a partire da questa necessità: se l’arte abbandona la sua autonomia incisiva, rischia di perdersi nelle seduzioni dell’esistente. L’attivismo artistico contemporaneo trae quindi le proprie origini nelle serate dadaiste e nelle performance futuriste in cui si turbava lo spazio pubblico attraverso la provocazione, distogliendo gli spettatori dalla loro passività e suscitandone la reazione. Gli strumenti della politica (manifesti, giornali, comizi) davano forma a un evento artistico cui si attribuiva una finalità sovversiva. Quel che poi è accaduto nel secondo dopoguerra – dalla controcultura degli anni Sessanta fino al movimento no global – è stato il delinearsi in seno ai movimenti di un terreno ibrido fra arte e politica in cui gli attivisti, senza essere necessariamente artisti, hanno cominciato ad usare tecniche e tattiche riprese dalla storia dell’arte per farne strumenti di agitazione politica. Si sposta quindi il terreno di lotta dalla società alla cultura, dalla dimensione collettiva della giustizia sociale a quella della liberazione intellettuale.


L’attivismo artistico si distingue dall’arte pubblica commissionata proprio per quest’immersione nelle problematicità della quotidianità sociale e per la rivendicazione della propria autonomia di pensiero in un sistema dell’arte tendenzialmente omologato e limitante. Da un lato il farsi vita dell’arte come trasformazione del mondo e dall’altro l’autonomia dell’arte come resistenza al mondo, come rifiuto al farsi assimilare. L’attivismo artistico contemporaneo vive di forti richiami al Situazionismo degli anni Cinquanta e Sessanta. La pratica situazionista della deriva, intesa come “tecnica del passaggio rapido attraverso diversi ambienti” è una pratica ancor oggi molto viva e stabilisce una forte correlazione tra l’opera di attivismo artistico e la città in cui la si mette in pratica. La deriva non si consuma in se stessa, ma produce sapere e condivisione, definendo quella che i situazionisti chiamavano una psicogeografia dello spazio urbano. Tale metodologia costituisce uno dei modi attraverso cui sfuggire l’ordine prestabilito da parte della classe dominante nei confronti dei cittadini, andando a sperimentare delle “situazioni collettive” che possano decostruire criticamente gli spazi urbani per crearne di nuovi. La psicogeografia situazionista ha studiato le correlazioni tra psiche e ambiente, proponendo un atteggiamento sovversivo rispetto alla geografia classica e ponendo al centro dei suoi scopi la ridefinizione creativa degli spazi urbani. Guy Debord, nella stesura del manifesto dell’Internazionale Situazionista (1958), evidenziava già come il potenziale liberatorio della situazione consistesse nel fatto che tale tecnica non si limitasse ad uno spazio dato e occupato passivamente, ma si definisse come “un momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito per mezzo dell’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti”. In tal senso, la situazione non si esaurisce nella soddisfazione di un desi-


derio individuale, né è possibile che essa sia vincolata ad uno spazio architettonico preposto e organizzato, ma è un’esperienza collettiva concreta di trasformazione spaziale attraverso cui si acquisisce la consapevolezza delle proprie condizioni di vita e delle alternative possibili. Con il suo carattere esperienziale, ludico e non utilitario la costruzione di situazioni avrebbe dovuto consentire un superamento dell’arte, permettendo un’evoluzione della dimensione sublimata dell’opera d’arte fine a sé stessa in un’arte democratica, pubblica e urbana. Al contrario invece, l’attenzione maniacale che le società moderne hanno cominciato a nutrire nei confronti dell’estetica, del progresso e del consumo, in un’ottica che qualcuno ha definito ipercapitalista, ha investito anche altre forme di realtà, tra cui lo spazio cittadino, che è ora trasformato in modo sempre più pervasivo in merce possibile; ad esempio attraverso la produzione manieristica di paesaggi estetizzanti, la patrimonializzazione dei siti culturali, la moltiplicazione dei luoghi destinati al commercio. Sono questi gli stessi non-luoghi su cui l’antropologo Marc Augè si è interrogato e che egli definisce come luoghi alienati, spaesanti, luoghi di passaggio finalizzato all’acquisto, luoghi di spettacolo, contrassegnati da un crescente effetto Disneyland, in cui si è al contempo spettatori e comparse, ma mai attori in prima persona. In Italia questo processo di “vetrinizzazione” della realtà urbana è riconoscibile in tutte quelle città che sono divenute, nella loro interezza, musei a cielo aperto, sacralizzati al consumo turistico (come nel caso di Venezia e Firenze). In quei luoghi in cui invece, come nel caso di Milano, non è stato possibile operare in questo senso, le città libere dal vincolo della conservazione storica ritrovano vigore intorno alla creazione di nuovi palazzi simbolici, celebri più per la loro immagine architettonica e per la fama dell’archistar che li ha progettati, che per la


loro effettiva funzione di coinvolgimento sociale. Intorno a queste trasformazioni urbane crescono l’economia del turismo, del tempo libero e il settore immobiliare, determinando però spesso una dinamica entro cui la figura del cittadino rinuncia completamente ad esistere secondo il senso etimologico che questa parola custodisce, limitandosi a vivere la città unicamente come cliente consumatore. Ecco quindi che alla condizione di frammentazione, di limitazione umana e creativa, si decide di rispondere alla maniera situazionista con forme di azione diretta e di democrazia partecipativa, operando uno strappo nel tessuto sociale e cittadino. Da questo presupposto di partenza si sono articolati i diversi tentativi di costituire e promuovere, all’interno di nuovi spazi pubblici, collettività composte da una cittadinanza culturalmente ed artisticamente non allineata, in grado di riaffermare, tra le altre cose, l’esigenza di una gestione partecipata dei beni comuni destinati ai saperi. Alla società, generalista e anonima, si contrappongono le comunità indipendenti fondate sull’immediatezza del vissuto e sull’appartenenza ad un luogo. L’esperienza artistica, in tale contesto, diventa così sempre più contestuale e legata alla contingenze, alla particolarità concreta delle situazioni; significativo è il diffondersi di eventi intesi come happening cittadini, di installazioni pubbliche site specific, o di forme d’arte di strada come mezzi di affermazione sociale e politica. L’arte e la cultura, in tali circostanze, non possono più essere confinate nello spazio neutro della galleria, ma devono interagire con i luoghi abitati, modulandosi in rapporto con essi e trasformandoli. Questo perché l’atto artistico, quando è pubblico e generato internamente al tessuto urbano, diventa monito visibile e permette di creare consenso e partecipazione collettiva o, nei casi in cui l’atto sia volutamente provocatorio, garantisce la


riuscita della volontà di essere di disturbo alla società. E’ specificatamente in questo caso che l’atto artistico si trasforma in rivendicazione politica. Gli spazi liberati - ovvero quelle sfere di giurisdizione autonome che sfuggono allo Stato occupando illegalmente uno spazio dismesso all’interno della città al fine di restituirlo ai cittadini – nascono ad opera di comunità radicali legate a tradizioni politiche e culturali riconoscibili, che spesso ricostruiscono questi luoghi abbandonati trasformandoli gradualmente in fulcri urbani in grado di catalizzare sostenitori e simpatizzanti, perché in questi luoghi essi trovano stimoli e opportunità a sostegno dei loro interessi e ideali. Questo tipo di approccio performativo si relaziona alle criticità della città secondo un atteggiamento che insinui domande più che fornire rispo¬ste rassicuranti tali da compensare deficit politici. Le prime esperienze di questo tipo sono rintracciabili negli anni ’60 e ’70 quando al grido del “diritto alla città”, promosso nell’opera omonima di Henri Lefebvre, l’operatore estetico rivendicava lo spazio sociale all’insegna dell’ideologia e dell’utopia, coinvolgendo il pubblico nel processo creativo dell’opera nel contesto, concepita di fatto come un abitare il luogo e un fare spazio, ricreandolo. Lungo gli anni ’70, sulla scia dei movimenti di importazione beat, hippy e libertari, gli esperimenti comunitari sono stati numerosi anche in Italia; dalle spontaneistiche case aperte, pronte ad ospitare chiunque ne facesse richiesta, alle più o meno strutturate comuni urbane, fino alle comuni rurali, sperimentazioni ancora più radicali, figlie di un’istanza esplicitamente separatista e proto-ecologica. Adesso come allora, questi spazi rappresentano un modo per ottenere ciò che viene negato. L’occupazione di questi luoghi libera edifici altrimenti in disuso trasformandoli in concrete alternative di solidarietà e di risorsa per


la comunità. Sono la risposta simbolica alla mancanza di interesse da parte delle autorità di riflettere sull’impiego di immobili vacanti utilizzabili per esigenze sociali di grande necessità. Si tratta di una pratica libera che celebra il potere della dimensione locale e dell’immediato e che produce uno spazio cittadino liberato dalle logiche capitalistiche e sospende il diritto di proprietà a favore di altri diritti ed esperienze. Inoltre la riappropriazione collettiva assume la funzione di denunciare pubblicamente lo spreco di risorse pubbliche, la perdita di servizi sociali così come la prassi della speculazione immobiliare delle aree urbane. Gli interventi di progetto-azione nella città, poiché coinvolgono i cittadini e intervengono nei processi del quotidiano, attivano un confronto diretto con la realtà delle cose, interrompendo ripetitività e distrazione, provocando disorientamento, riportando quindi all’attenzione verso una conoscenza e un’esperienza autentica dello spazio. Luoghi e contesti vengono pensati sempre più in termini di insiemi relazionali e culturali, e non semplicemente a partire dalle loro caratteristiche spaziali. Orientando e ricreando l’ascolto tra individui è possibile generare una diversa percezione del luogo, innescando un processo relazionale che modifica potenzialmente gli assetti consolidati nell’ambito della comunità a cui si rivolge. La discussione artistica all’interno di questi luoghi assume carattere relazionale e collaborativo in cui la committenza è rappresentata dalla comunità, in una dinamica che fa delle persone che vivono gli spazi i destinatari finali del progetto, fino ad arrivare a forme di co-autorialità nell’ideazione stessa dell’intervento artistico. Si tratta di “tribù creative” o di “tribù dell’arte”. In molti casi, quindi, il gesto artistico coincide con l’intervento nella “tribù”, mentre l’aspetto tecnico-pratico dell’opera diviene talvolta uno strumento attraverso cui sta-


bilire un contatto tra individui, e talvolta una forma di baratto nell’ambito delle discipline e dei saperi che possono essere condivisi tra i vari elementi della “tribù”. Le tattiche di resistenza artistica, quando si svolgono all’interno degli spazi liberati, mettono quindi in campo un’arte dello scambio, del saper fare, dell’uso e del riuso, in cui a fare la differenza è lo stile sempre singolare e imprevedibile attraverso il quale la realtà può essere ricombinata e rivista. E’ infatti proprio il capitale simbolico di cui l’artista è ancora portatore a mutare il significato del gesto che compie all’interno delle comunità, a intensificarne il senso, a conferirne valore, sollecitando l’attenzione, l’impegno e la riflessione dei partecipanti. Nell’apparente contraddittorietà con cui l’artista che opera in questo tipo di realtà afferma e nel contempo nega, l’artisticità della sua operazione, egli crea un confine nuovo in cui è possibile sperimentare modalità diverse di relazione artistica individuale e collettiva. Conclusioni Le città sono ambienti straordinariamente eterogenei, essendo formate da una molteplicità di mondi sociali e culturali che riconoscono specifiche e diverse forme di insediamento nello spazio. La vitalità urbana e il piacere di vivere nella città derivano dal livello di armonia sociale esistente tra le differenti comunità. In questo senso favorire una realtà pluralistica, contraddistinta da una combinazione di molteplici usi ed opportunità di accesso ai luoghi (in particolar modo quelli riservati all’arte), e tale che tutti gli spazi pubblici costituiscano luoghi di incontro tra gruppi sociali differenti, si pone al momento come il principale obiettivo da conseguire nel disegno dei luoghi urbani. E’ dunque fondamentale pensare a città inclusive, che non perdano la propria identità, creando spazi per l’in-


contro, il gioco, per la cultura, per l’arte; luoghi che, coinvolgendo in una passione progettuale i cittadini, saranno sempre meno estranei per chi li abita. Forse, senza modificare la natura della produzione e l’accesso ai prodotti non potremo trasformare le città, nè potremo evitare che le pratiche dissidenti vengano assorbite e omogenizzate dal sistema capitalistico, ma è certo che la soluzione al malessere dell’estraneità cittadina non sta nella “fuga dalla città”, ma piuttosto nel lavorare sui nostri luoghi, al fine di garantirne la sopravvivenza, estenderne gli effetti, rafforzarne la dinamiche sociali. Milano reclama il ruolo dei cittadini nella lettura e nell’interpretazione di sé stessa. La città deve riempirsi di indizi di futuro, espressione della propria cittadinanza, ed è chiamata a strutturare i suoi elementi architettonici, artistici e sociali invitando a percorrerla, promuovendo e stimolando l’esperienza urbana come esperienza di comunità. Milano, con la sua creatività più ostentata che effettiva, ci chiama - come pianificatori, come architetti, ma anche come intellettuali, come classe dirigente, come cittadini - ad un impegno: quello di mettere a frutto le nostre competenze e le nostre tecniche a servizio di una città che sappia essere non soltanto il luogo della residenza di una comunità, ma che sia anche il generatore e l’amplificatore dell’esistenza di una moltitudine pensante, che sia sempre faro di civiltà.




Lume: quando l’autogestione diventa formazione di Pietro Savastio

Ogni cosa che si allestisce, nel suo piccolo, costituisce un angolo dell’esistente e come tale esercita la sua influenza su chi vi entra in contatto. In questo senso bisogna cogliere appieno la possibilità di modificare concezioni, spargendo idee, costruendo modelli, creando realtà. È questo l’enorme potenziale che fa di un CSA (Centro Sociale Autogestito) una ricchezza. L’azione svolta, politica o culturale che sia, concorre infatti alla composizione dell’avvenire attraverso la capacità di influenza strutturale ad ogni elemento del reale. Tutto ciò che è atto gioca la sua parte nella formazione degli attori dell’avvenire, per ciò ogni esperienza di autogestione costituisce un piccolo atomo di mondo sul quale innestare una filosofia che modifichi la vita materiale del domani. Tratto peculiare di un centro sociale è quello di porsi in una dimensione diversa rispetto al vigente sino ad assumere, così, un ruolo controculturale. L’esigenza di autogestirsi nasce chiaramente dalla sensazione di alterità percepita da individui o cittadini, gruppi o collettivi, rispetto all’istituito. Possedere (e preservare) un luogo dove fare controcultura significa appunto creare uno spazio di eteropoiesi. Si portano avanti attività che operano sommessamente sulla realtà storica in atto modificandola dal basso e piano piano. In questo senso la grande sfida di questi spazi è uscire dai confini ai quali sono relegati per condizione pseudo-naturale: la mancanza di capillarità. La prova difficile alla quale deve guardare ogni collettivo è pertanto quella di rompere i muri dell’autoreferenzialità aprendosi a quelle fette di società non direttamente a contatto con esso per sorte o per riserbo. Il tentativo è raggiungere una tentacolarità che abbracci l’intero schema sociale per costruire un’egemonia cul-


turale indispensabile alla realizzazione di qualsivoglia progetto politico. Persino lo schema logistico è esso stesso espressione di una concezione politico-organizzativa di ampio respiro. L’autogestione, che è il modello organizzativo di un CSA, è un grande mélange tra “staff” e utenti che si incontrano in una dimensione orizzontale senza gerarchie. È la realizzazione di un’equità sostanziale nelle possibilità di proposta e decisione. Un connubio tra promotori e pubblico che permette di liberare un potenziale enorme fatto di esperienze diverse, talenti da condividere, saperi in dialogo. Certo, all’interno di uno spazio sociale c’è sempre un collettivo costituente che si occupa di gestire le iniziative e prendere le decisioni. A differenza però di qualsiasi istituzione non ci sono ruoli prestabiliti e questo permette la libera influenza di ciascuno all’avvenire dello spazio. Si delinea così un collettivo aperto, pronto a intelaiare chiunque abbia voglia di mettersi in gioco con le proprie idee o i propri progetti. È così che si è sviluppato LUMe, un centro sociale autogestito occupato dal collettivo Dillinger dell’Università Statale di Milano. Per l’appunto, la costituente è stata quella, ma nel tempo (ormai un anno di vita) l’assemblea si è allargata sino a cucire insieme realtà eterogenee che hanno deciso di prendere parte alla gestione di questa res publica. Sintesi di persone e gruppi diversi, LUMe rivela la sua ricchezza proprio nella varietà delle proposte che escono invigorite dall’incontro reciproco. Collettivo di poesia che influenza un blog culturale e politico in dialogo con il collettivo studentesco mentre il piano musica stende gli animi con un sottile jazz in sottofondo. Nasce una biblioteca, si sviluppa un piano arte, si accoglie una redazione, si preserva una cripta. Si organizzano spettacoli teatrali, esposizioni di fotografia, letture di prosa e poesia.


Si da voce ad una generazione anni ‘90 che pensa la politica nel suo senso più etimologico di aggregato cittadino nei suoi diversi aspetti. In questo senso l’azione culturale è a suo modo politica perché concorre alla formazione di coscienze individuali che poi prendono parte alla vita pubblica, per forza di cose. La convinzione è che, per dirla con Gramsci, la sovrastruttura abbia la stessa importanza della struttura e quindi il piano delle idee, delle convinzioni conti tanto quanto quello delle azioni. Il pensiero e l’arte sono esse stesse prassi e si incrociano sul sentiero della storia. Nella dialettica del mondo la politica non è una camera pressurizzata, perciò detenere un luogo e farne uno spazio sociale impone di fare formazione in primo luogo culturale. Dare vita ad un co-working come quello che LUMe rappresenta è la dimostrazione migliore che si possa dare della possibilità di esistenza di una dimensione di collaborazione corale. Allo stesso modo la libera iniziativa in atto in questo Laboratorio è la miglior prova dell’opportunità di dare spazio e forma all’ingegno, all’estro e all’acume che non è possibile estrinsecare altrove. Si crea un alternativa ai margini, parallela e diagonale, interamente trasversale. Noi, a LUMe, cerchiamo di infrangere le barriere con il suono dei sax e delle trombe che gridano vita e danno fiato ad una concezione dell’organizzazione sociale come qualcosa di libero ed eterogeneo, liquido ma comunitario. È il nostro punto archimedeo per la composizione di un mondo spogliato da una rigida gerarchia sociale costruita su base economicistica. Un ripensamento del presente a partire da un sub-presente. La bellezza è ai margini ma si punta a renderla la prassi dominante.



Bene comune e proprietà privata di Francesco Vivone

L’8 aprile 2015, con un gruppo di giovani universitari, occupammo quella che per diversi anni fu l’Osteria la Pergola, un immobile del 1500 a pochi passi dall’Università Statale di Milano. Spesso, nelle serate ormai affollatissime, amici o sconosciuti mi chiedono quale fosse il progetto, un anno fa, che sorreggeva l’idea di occupare; la risposta, apparentemente semplice e banale, è che sentivamo dentro di noi l’esigenza di farlo, la spinta propulsiva era la soddisfazione di un bisogno, inteso come necessità di ciò che manca ed è indispensabile per vivere. L’altra domanda che spesso ci viene posta riguarda la modalità che abbiamo deciso di adoperare per dar vita a LUMe, soprattutto in relazione all’illegalità di tale pratica. Il codice penale italiano sancisce “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli è punito [..]”. Il reato in questione è evidentemente posto a tutela della proprietà privata, diritto riconosciuto dalle leggi dello stato e dalla nostra costituzione. La tutela della proprietà privata, però, è possibile a patto che ne sia rispettata la sua funzione sociale. E’ doveroso, allora, porsi delle domande circa il diritto di un proprietario di lasciare abbandonato e fatiscente il proprio immobile. Quando entrammo nello stabile, anziché in un palazzo storico tutelato dalle Belle Arti, ci siamo trovati in un edificio in rovina, abbandonato ed esposto alle intemperie da ormai dieci anni. Osservavamo questa situazione da anni, dall’unica finestra affacciata sul vicolo. Avremmo potuto rimanere nell’indifferenza, ma abbiamo scelto la via dell’indignazione. Quella di chi l’indifferenza la odia. Quella di chi vuole essere cittadino e non suddito. È con questa spinta che gli spazi vuoti e abbandonati


sono diventati fucina di idee, di progetti collettivi, di passioni condivise. Gli obiettivi futuri di LUMe sono in costante evoluzione. Nel presente, LUMe può essere definito come Bene Comune, ovvero il principio ordinatore della Costituzione, che lo definisce tramite diverse accezioni: ad esempio come «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale», «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Espressioni non coincidenti, ma convergenti, che si integrano l’una nell’altra in una coerente architettura di valori. Il bene comune è un tertium genus, ancora non presente nel codice civile, che si erge tra i beni pubblici e quelli privati. LUMe è un bene comune in quanto, tramite lo spossessamento di un’immobile al suo proprietario che non rispettava le condiciones imposte dalla carta costituzionale, ha restituito agli universitari milanesi uno spazio di libera condivisione e confronto di esperienze. Non è solo un luogo di socialità giovanile nè il risultato di un mero gesto di rottura nei confronti di una legalità percepita come estranea e ostile. LUMe mira a restituire beni materiali di valore e, insieme ad essi, risorse immateriali come conoscenza, cultura, relazionalità, alla cooperazione sociale. Abbiamo ribaltato sin dall’inizio i modelli di gestione dei beni privati sanciti dal codice civile; abbiamo messo in comune anche le pratiche decisionali scardinando l’idea di esclusività di utilizzo, abbattendo il fine del guadagno derivante dallo sfruttamento del bene. Al centro di tutto il processo decisionale non c’è la volontà di un soggetto o la deliberazione di un consiglio di amministrazione, bensì il concetto di libertà e partecipazione attiva che si esplica nell’assemblea. Le decisioni stesse non vengono mai prese seguendo il principio della maggioranza che ontologicamente porta all’esclusione


delle minoranze, bensì tramite il dibattito, la messa in comune di idee, progetti, desideri e posizioni differenti, nella continua ricerca della decisone collettiva. LUMe è Bene Comune non solo per il modello decisionale compartecipato, ma anche e soprattutto per ciò che tramite questo processo viene prodotto e socializzato. E’ un motore di produzione culturale indipendente, che si pone fuori dalle logiche di mercato e di mercificazione. L’accesso libero e inclusivo alle attività di LUMe va a scardinare i meccanismi del sistema dominante. In questo senso fruizione condivisa è cosa del tutto differente da consumo di massa, ovvero la dinamica entro cui una molteplicità di individui viene coinvolta in maniera frammentaria in forme di consumo esercitate congiuntamente. Siamo consapevoli di lottare contro un nemico molto più grande di noi, per questo utilizziamo il termine “guerriglia culturale”. Giovani militanti, artisti, musicisti, poeti, scrittori e lavoratori che vivono immersi in una precarietà esistenziale, i cui sforzi si concretizzano nella lotta per la possibilità di determinare le proprie sorti, di autogestire le proprie vite accumulando forza propulsiva che sia in grado di sovvertire l’esistente. Stiamo sperimentando forme reali di autogoverno, siamo indisponibili a rientrare in modelli o paradigmi già esistenti che non tutelano la res publica e che non siano realmente partecipativi. Siamo, insieme alle tante esperienze di autogestione e creazione culturale indipendente, un nuovo modello politico, giuridico e sociale e lotteremo per affermarci per quello che siamo, senza delegare né modificare la nostra essenza.



LÀBAS: un esempio di cultura di quartiere di Lorenzo Velotti

Dare una precisa definizione di cosa sia Làbas è, secondo i suoi stessi membri, davvero difficile. Come racconta Mario, storico membro di questo spazio sociale, esso racchiude una tale quantità di esperienze e sfaccettature, da sfuggire inevitabilmente alle imposizioni di una definizione univoca. È dunque solo ripercorrendone la storia ed esplorandone le numerose attività che si ha la possibilità di coglierne l’essenza. Làbas nasce nell’Ottobre 2013 con l’occupazione dell’ex caserma Masini, in via Orfeo 46, a Bologna. Si tratta di uno spazio di 8000m2 situato nel centro della città, nel quartiere di Santo Stefano. Fin dal primo momento il collettivo ha deciso di dare la priorità ad una delle maggiori esigenze della città: l’emergenza abitativa. Oltre a costituire lo Sportello per il Diritto all’Abitare, Làbas ha cercato, anche attraverso occupazioni di altri stabili, di ovviare, dal punto di vista pratico, al problema dell’abitare. Purtroppo, a causa degli sgomberi voluti dall’amministrazione Merola, l’occupazione è oggi circoscritta ai locali dell’ex caserma Masini, dove sono disponibili 25 posti letto. In relazione all’emergenza abitativa, inoltre, nel Dicembre 2015 ha visto la luce il progetto Accoglienza Degna. Di fronte al taglio di numerosi posti letto per i senzatetto da parte dell’amministrazione – nel contesto dei tagli al welfare da essa promossi – Accoglienza Degna ha potuto avviarsi grazie a una “chiamata ai volontari” la cui risposta non si è fatta attendere. Questo progetto si è posto in antitesi ai tradizionali dormitori – dove più di 200 persone possono essere ammassate nella stessa stanza – operando affinché la distanza tra l’ospite e l’ospitante sia ridotta al minimo.


Oggi diciotto ragazzi senzatetto, tra cui alcuni migranti, non solo dormono a Làbas, ma partecipano attivamente alla vita dello spazio, trasmettendo le proprie conoscenze e apprendendone di nuove, in un rapporto di amicizia con i volontari, con i militanti e con il quartiere. Mario racconta di come le famiglie del quartiere, incuriosite da ciò che stava prendendo forma in questo enorme spazio, abbandonato da più di 10 anni, cominciarono a curiosare nel cortile dell’ex caserma, portando con sé i bambini e cominciando a vivere il piazzale. È così che prese forma Làbimbi, un asilo sociale e che rimane attivo attraverso il volontariato. Un altro grande tema affrontato da Làbas è la sovranità alimentare, in opposizione alla logica del cemento, della speculazione e alla fasulla cultura contadina di cui si fanno portavoce realtà come Eataly, Fico o Expo. L’obiettivo è quello di valorizzare la vera cultura contadina, portandola dai colli bolognesi al centro della città. Si parte dunque da Campi aperti, un’ampia rete autorganizzata di contadini e piccoli produttori dell’Emilia Romagna (più di 200), che sostiene l’agricoltura contadina, biologica e di filiera corta, legata alla territorialità , alla stagionalità del prodotto e controllata attraverso un sistema di garanzia partecipata. I contadini portano i loro prodotti biologici in diversi punti della città, tra i quali appunto Làbas, stabilendo un contatto diretto tra il produttore e il consumatore. Ogni mercoledì a Làbas prende vita un mercato contadino al quale partecipano famiglie, nonni e bambini del quartiere, che hanno l’occasione di comprare cibo sano e genuino direttamente dai produttori, nel rispetto dell’ambiente e dei valori della terra. Questi valori vengono trasmessi al tessuto sociale cittadino e vengono riprodotti, dagli abitanti del quartiere, attraverso Orteo. Orteo è un orto condiviso situato all’interno dell’ex caserma Masini, dove ogni abitante del quartiere può col-


tivare prodotti agricoli in comune. Tra le altre numerose iniziative ecosostenibili, fondamentale è la Làbiopizza, una pizzeria sociale che utilizza i prodotti biologici provenienti da Campiaperti. La pizzeria è aperta alla partecipazione di tutti e si impegna a mettere le conoscenze di alcuni a disposizione di tutta la collettività, dando la possibilità ad adulti e bambini di apprendere l’arte della pasta madre, della pasta fresca e della pizza. Infine, all’ex caserma Masini è stato fondato il Birrificio Schiummarell, dove attraverso l’autorganizzazione e la condivisione di conoscenze si produce birra artigianale utilizzando i prodotti biologici di Campiaperti. Attraverso questi progetti è possibile osservare come la realtà di Làbas si presenti sempre più come esperienza collettiva di quartiere: lo spazio dell’ex caserma Masini è a completa disposizione di tutta la cittadinanza. Per questo, per esempio, a Làbas si sono trasferiti alcuni artigiani del quartiere che non riuscivano più a pagare l’affitto della propria bottega, a causa dell’aumento di prezzi. Quest’anno, per esempio, è attivo il laboratorio di un falegname, che condivide la sua arte con la comunità del quartiere non solo mettendo a disposizione di tutti i propri strumenti e i propri materiali, ma anche organizzando numerosi corsi gratuiti di falegnameria, sia per gli adulti che per i bambini. Oltre a queste iniziative sociali e politiche, Làbas è anche un fertile centro artistico e culturale. La street art, per esempio, attualmente al centro del dibattito politico culturale bolognese, qui è fortemente incoraggiata: quasi tutti i muri di cui è composto l’enorme spazio dell’ex caserma sono stati messi a disposizione degli street artists. Inoltre, in collaborazione con numerose associazioni che si occupano per esempio di diritti umani o di ambiente, vengono organizzati frequentemente dibattiti e seminari, che insieme ai corsi di tango,


di shiatsu e di kung fu, rendono lo spazio vivo e partecipato durante tutti i giorni della settimana. Ciò che più colpisce, senza dubbio, di questa bella storia collettiva, è la straordinaria risposta del quartiere alla presenza di questo spazio occupato. Infatti, l’ex caserma Masini è percepita dalla cittadinanza come un vero e proprio “bene comune”e l’enorme piazzale al suo interno è considerata al pari di una piazza di quartiere. Per accorgersene, basta passare di lì un mercoledì qualsiasi: i bambini giocano liberi sfrecciando sui loro tricicli, i contadini vendono i loro prodotti a kilometro zero, i cittadini acquistano prodotti sostenibili e di qualità e, con gli studenti universitari, passano la serata con pizza e birra biologica, vino a prezzi popolari, balli, canti e spettacoli. Tuttavia, la risposta del quartiere non si è limitata a questo. Il 20 agosto 2015 il Comune ha deciso di tagliare le utenze: tutti i progetti che vivevano a Làbas si sono trovati, da un giorno all’altro, privi di energia elettrica. Due giorni dopo, in una Bologna d’agosto completamente svuotata dell’humus studentesco che la caratterizza, 800 persone si sono presentate all’ex caserma Masini con una candela in mano, ad affermare come la luce che illumina Làbas non è certo quella elettrica, toltagli dal Comune, ma quella di tutti coloro che vivono questo spazio con passione e impegno. Con il tempo, grazie all’impiego di un generatore e di dieci pannelli fotovoltaici, è tornata l’energia elettrica e Làbas è diventato energicamente autosufficiente. Tuttavia, l’attacco non si è esaurito: qualche mese dopo, la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’immobile, ha presentato una richiesta di sequestro preventivo. Come se non bastasse, il Comune ha elaborato un preciso piano per il futuro di questo spazio: sostituire l’ex caserma Masini con un hotel a cinque stelle, degli appar-


tamenti di lusso e un parcheggio. Uno spazio d’aggregazione ormai fondamentale, considerato Bene Comune dall’intera cittadinanza, potrebbe essere distrutto per dar luogo a una speculazione edilizia, in un quartiere, tra l’altro, caratterizzato dall’abbondanza di stabili sfitti. Per affrontare il problema è stata indetta un’assemblea di quartiere, che ha visto la partecipazione di più di 600 persone, durante la quale si è deciso di istituire il “Comitato per la tutela e l’affermazione dell’esperienza dell’ex casema Masini bene comune”, che annovera tra i suoi membri numerosi cittadini del quartiere S. Stefano (tra cui personaggi come la signora Marta, di 83 anni), i commercianti di via Orfeo e – ultimo, ma non meno importante – un vigile municipale. Con l’obiettivo di valorizzare sempre più l’esperienza di Làbas come bene comune, è stato compiuto un passo ulteriore: la ricostituzione, il nove di aprile, della Festa di Strada di via Orfeo, che da ben sei anni non era più stata celebrata. Grazie alla collaborazione dei cittadini e di tutti i commercianti del quartiere, dalla signora Lucrezia (la proprietaria del panificio), al celebre bar “Miky e Max”, una grandissima festa di quartiere, partecipata da più di 12.000 persone, ha preso forma: i commercianti sono rimasti aperti, ci sono stati tantissimi concerti e spettacoli teatrali, ed è stata organizzata una grande lotteria popolare. Quella che prima di Làbas era una via deserta e priva di qualsiasi forma di aggregazione e socialità, si è trasformata in un luogo fondamentale per tutta la cittadinanza. Attraverso questi racconti è impossibile non riconoscere la straordinaria capacità di Làbas nel produrre cultura di quartiere: le esperienze di musica, teatro, street art, artigianato, agricoltura sostenibile e alimentazione etica sono condivise da studenti, anziani e bambini che non solo vivono questo spazio, ma ne difendono l’esistenza.


Un quartiere che con gli anni stava perdendo la sua anima, assomigliando sempre più a un alienato dormitorio, è riuscito a rigenerarsi grazie all’occupazione di uno spazio pubblico, in cui le forme di autogestione e cooperazione sono state rese libere e inclusive. Ciò che Mario afferma con convinzione, è che “producendo cultura di quartiere, attraverso la riapertura di spazi di socialità e di condivisione, stiamo compiendo una fondamentale azione politica”. Infatti, la prima battaglia politica di Làbas, è proprio questa: rifiutare la privatizzazione, la speculazione e la cementificazione ed affermare, al contrario, l’importanza del bene comune. Alle città fantasma contemporanee, svuotate d’ogni profondità contenutistica – centri commerciali di giorno, alienanti dormitori di notte – si contrappone l’urgente necessità di spazi sociali, culturali e politici. Di fronte a chi accusa Làbas d’illegalità e ne denuncia la violazione di una “proprietà privata”, a rispondere è il quartiere: le famiglie stesse, nel vivere e nel sentire proprio questo bene comune, stanno compiendo un reato. E così lo stanno compiendo i nonni, i bambini, il vigile municipale, i contadini, i tangueros e tutti coloro che vivono l’ex caserma Masini come uno spazio comune, facendo emergere agli occhi di tutti l’antinomico cortocircuito tra legalità e giustizia. Non è il collettivo Làbas ad opporsi all’assurdo progetto dell’amministrazione comunale di Bologna, ma gli stessi abitanti del quartiere. Non è Làbas che giustifica il Làbas stesso, ma è il quartiere che ne legittima l’esistenza. Làbas, conclude Mario, attraverso l’attiva partecipazione del quartiere, offre un’alternativa al modus operandi della maggior parte dei collettivi politici, che risultano eccessivamente rigidi, ideologici e cristallizzati. Nella società liquida in cui viviamo, caratterizzata da un’endemica crisi politica, del movimento e della militanza tradizionalmente intesa, i ragazzi di Làbas sono sempre


più convinti che “non è più possibile sventolare una bandiera con la semplice convinzione che tutti ci debbano stare dietro: non possiamo più pensare di avere il tessuto sociale dietro di noi, ma dobbiamo fare lo sforzo di fare un passo verso un costante con noi, insieme a noi”. Il testo è stato scritto e redatto grazie alla gentile collaborazione di Mario Pozzan del collettivo Làbas.



LUMe: canto notturno di un palazzo fatiscente di Luca Oberti

Appena superata la maestosità silenziosa dell’Università Statale di Milano, punto di riferimento storico per i giovani universitari milanesi e non, in Largo Richini l’aria tiepida di primavera si gonfia del brusio e del vociare proveniente dal vicolo lì vicino. Stretto tra i palazzi adiacenti alla Chiesa di San Nazaro, il vicolo di Santa Caterina ospita infatti da un anno, la vivace comunità di LUMe, Laboratorio Universitario Metropolitano, diventato il palcoscenico ideale per l’espressione dei talenti e delle passioni di tutti coloro che frequentano e vivono questo luogo. Rispetto all’atmosfera distesa di Festa del Perdono, la differenza è da subito evidente, specie il mercoledì sera: le vibrazioni sotterranee del jazz, il rumore dei passi, delle risate e dei richiami riempiono lo spazio, rimbalzando sulle pareti e propagandosi in echi. La voce di LUMe risuona chiara e limpida nell’aria fragrante della notte e il suo pubblico risponde al richiamo: è un eterogeneo assembramento di umanità straripante, diversa e mutevole che si raccoglie rumorosa al calare della notte. Non vi sono distinzioni nella diversità entusiasta e chiacchierona, delle volte un po’ ubriaca, che trova spazio all’interno di LUMe, che si appoggia ai suoi muri, che siede tra i suoi divani o che si raccoglie davanti alle sue porte. Entrarci non è facile, bisogna farsi spazio tra la ressa, tra chi attende la sua birra e chi si fuma una sigaretta, per poi spingersi lungo gli stretti corridoi di quella che un tempo era una creazione bramantina, poi una canonica ed infine una locanda. Da qualche parte si nasconde ancora l’eco della folla manzoniana, la stessa che ti guarda dal murales del muro di fuori e che osserva, incuriosita, l’arresto di Renzo.


Leggenda vuole, infatti, che sia questo il luogo che ispirò lo scrittore milanese nella composizione del suo quindicesimo canto, ambientato nell’Osteria della Luna Piena. Nel frattempo, la serata scorre veloce, tra un reading di poesia nella sala divani ed un salto al terzo piano, dove è allestita una mostra fotografica; si fa appena in tempo ad assistere ad una perfomance teatrale che un gruppo attacca il jazz. Il tempo, prima frenetico, ora rallenta, si prende una pausa, allontanandosi dalla cripta fumosa e dallo strano silenzio in cui è avvolta. Le note si srotolano al tempo della cassa e il cuore di LUMe pulsa nella notte, trasportando la sua gente lontano da tutto. Lontano dalla città e dai loro pensieri. Sul tardi, la jam e l’improvvisazione si prendono la scena, liberando la creatività dei musicisti nascostisi tra il pubblico; l’atmosfera, prima intensa e raccolta, ora si strappa delle loro note e dei loro movimenti e chi gli è vicino partecipa come può: chi con la voce, chi battendo le mani o chi, più in disparte, segue con il corpo l’evolvere scostante della musica. Gli strumenti invadono lo spazio e le intese nascono dagli sguardi per poi spostarsi sulle armonie e sui tempi. La voce di LUMe diventa quella dei suoi avventori e dei suoi ospiti e si compone di parti e sfumature intrecciate, differenti e lunatiche; il grido di un luogo diventa il suo canto alla città ed alle sue strade, ai suoi abitanti ed alle sue piazze, appena impastato dalle birre e dagli amari a basso prezzo. È un canto di resistenza e di lotta, di amore e speranza, di folle passione ed ebbrezza, di gioia, entusiasmo e selvaggia libertà; è un canto che squarcia il grigiore della città e dona colore alle luci urbane, che travolge i passanti e la loro indifferenza, che risveglia l’umanità e la giovinezza di ognuno di noi; è un canto notturno di malinconica bellezza, d’arte perduta e di musica ritrovata, che ricopre le pietre e i mattoni, si aggrappa ai vestiti e si sparge nell’aria.


Poi, quando il suono si spegne e calano le luci, il ritorno alla realtà è un brusco atterraggio: la folla, come stordita, fatica a lasciare i suoi posti e si trascina lentamente verso l’uscita. Nella piazza della Chiesa qualcuno continua a suonare, tra il vociare diffuso di chi non è disposto ad andarsene subito, mentre i tram scandiscono, con il loro passaggio, il ritmo della vita urbana. La nostalgia invade gli animi, la stessa che ci prende quando, al finir di un sogno, si è tentati dal riviverlo. C’è chi amoreggia all’ombra del campanile e chi se ne va, da solo o in gruppi. La piazza si svuota pian piano, riempiendosi del suo silenzio. Solo qualcuno, armato di scopa, indugia a restare: spazza via le impronte che la serata ha lasciato. Il vicolo è sgombro e qualche passante si affaccia, assaporando il vuoto che vi trova. Il canto è finito, almeno per ora, ma già un sussulto si muove tra le pietre di LUMe ed aspetta il suo tempo ed una nuova occasione.



Hanno contribuito alla realizzazione di questo scritto: Pietro Savastio – Altrementiblog Lorenzo Velotti – Altrementiblog Luca Oberti – Collettivo LUMe Francesco Vivone – Collettivo LUMe / Collettivo Dillinger Isabella Cortese – Collettivo LUMe / Progetto grafico e impaginazione La stampa di questo opuscolo è il frutto dei dibattiti e delle riflessioni mosse in questi mesi all’interno del Collettivo LUMe, Laboratorio Universitario Metropolitano, Vicolo Santa Caterina 3/5.





Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.