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Breve è la vita di tutto quel che arde
Breve è la vita di tutto quel che arde. Presto si spengono le ali su magioni oscure. Presto si spengono le rose nel giardino della notte. Mai però si spegne il desiderio di luce.
Breve è la vita di tutto quel che arde è un’intensa raccolta di poesie di Stig Dagerman (19231954), recentemente edita dalla casa editrice Iperborea che negli ultimi anni si sta occupando di valorizzare il pensiero di questo autore, ormai una figura di culto nella letteratura svedese, tramite una nuova veste grafica e una traduzione in italiano molto curata della sua opera.
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La raccolta è la prima antologia in italiano a ripercorrere dieci anni di attività del poeta, dal drammatico 1944 al 1954, anno in cui, da tempo malato nell’anima, Dagerman decise di strappare da sé il filo che lo teneva unito alla vita. Ma la vita ha continuato a ardere nei suoi versi, esprimendo certamente dolore, ma anche tanto amore per il prossimo. A tal proposito tra i suoi componimenti meritano certamente attenzione la lunga Suite per Birgitta (1950), in particolare il momento in cui il poeta rivela che “La malattia del cielo si chiama stelle. / Come si chiami la mia non lo so. / C’è però un dolore nell’universo / che solo il non amato conosce. / C’è una tomba per le nostre barche aperte. / C’è un mare dove le stelle cadute dormono / quando il loro dolore è per sempre spento. / Sono una stella caduta anch’io, Birgitta. / Sono caduto male. Sono caduto sulla terra. / Sono parte del dolore della terra”. E i toccanti versi centrali del Messaggio di Natale (1951), un vero e proprio canto di fratellanza: “Non credere agli angeli. Non giungono lesti. / Lo spazio è vuoto e freddo per loro, la via faticosa. / Se il canto cerchiamo e la luce, cerchiamo la luce / nello sguardo dei fratelli, e il canto che in gola riposa”. Il concetto ritorna intatto in Il mondo non puoi cambiarlo (1954) “Il mondo non puoi cambiarlo. / Placa la tua anima focosa! / Fare del bene a qualcuno: / è questa l’unica cosa. / Ma già significa tanto / che le stelle ti sorridono giù. / Un uomo in meno che ha fame / vuol dire un fratello in più”.
I tre componimenti rientrano nella sezione dedicata ai Dikter, poesie caratterizzate da grande varietà non solo metrica, ma anche tematica: la riflessione dolente sulla condizione umana, infatti, non tarda a lasciar posto a un’indignazione potente contro l’ingiustizia e l’ipocrisia. A essere sotto accusa è soprattutto la democrazia svedese quando, durante la Guerra Civile Spagnola non inter- venne se non in modo superficiale (anche per timore dell’ideologia repubblicana) e, per ragioni economiche, non rifiutò accordi con la dittatura; è questo l’argomento di No pasaràn! (1946): “E noi, grandi, forti, democratici svedesi? / Ma sì, non ce la siamo presa poi troppo. / Non si può mica pretendere che la coscienza / del mondo abbia il tempo di essere anche la propria / ma che la questione spagnola sia stata dimenticata / questo va assolutamente negato! / L’interesse per le arance spagnole è del tutto immutato / e perfino il giornale democratico della sera approva che i nostri bambini collezionino carte di arance spagnole, / “Per chi suona la campana” è stato un successone a teatro […] e “Guernica” di Picasso è stato apprezzato da tutti come un quadro niente male”.
Tutta la seconda sezione della raccolta, molto più omogenea, è riservata invece ai Dagsedlar, “i rapporti quotidiani” (ma in svedese il termine significa anche “ceffoni”), componimenti satirici strettamente collegati all’attualità politica e sociale dell’epoca. Il corpus originario è vastissimo, ma la scelta editoriale ha inteso privilegiare quei testi che, nonostante il trascorrere degli anni, non hanno perso nulla della loro carica eversiva. In particolare colpisce Attenti al cane! (1954) in cui Dagerman condanna la Dichiarazione di un responsabile della Previdenza Sociale del Värmland che riteneva “deplorevole” il fatto che la gente che richiedeva sussidi si permettesse di mantenere anche un cane. Così replica il poeta “Imperfetta è la legge, difatti / anche i poveri si tengon dei cuccioli. / Perché invece non tenersi dei ratti? / Non paghi tasse e te li coccoli”. Ancor più dolorosa è Senzatetto (1946) in cui il poeta condanna il rifiuto da parte delle autorità militari di mettere a disposizione i letti delle caserme vuote per i clochard di Stoccolma: “Alla vita il freddo è propizio. / la via del senzatetto è nera. / Seguire le stelle è un buon inizio. / Sì, fratellino, ma la meta qual era? / Dell’Orso qual è mai il traguardo? / Dove ha un senzatetto difesa fidata? / Le stelle dispiegan la loro bandiera / sopra la deserta camerata”.
La raccolta si conclude, infine, con un’interes- sante postfazione a opera del traduttore Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’Università di Trento, che dagli anni Ottanta traduce dal tedesco e dalle lingue scandinave. Egli sottolinea come tradurre poesia sia un compito arduo, ancora più faticoso rispetto al lavoro sui testi in prosa: ci sono termini, infatti, che non possono essere tradotti alla lettera senza penalizzare rime, musicalità e ritmo. Egli ha cercato soprattutto di avvicinare il lettore a un’esperienza di lettura, emotiva e di pensiero, il più simile possibile a quella che si avrebbe conoscendo la lingua originale; a suo avviso non potrà mai esi- stere un’unica traduzione “giusta”, più traduzioni sono pensabili, ma nessuna sarà mai possibile senza un profondo senso di responsabilità da parte del traduttore.
Solo nella solitudine più grande Potremo finalmente incontrarci Stig Dagerman (1950)
Prof.ssa Rita Pilia