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Essere... o non essere

di Marta Pancini foto di Max Siedentopf

“ E ssere o Non Essere, questo è il problema”. No. Il problema è che troppo spesso me la sono posta frettolosamente la domanda, tra un lavoro e una cena, un treno in corsa e un bicchiere di vino. Questo tempo è molto strano, dilatato, non so come ne usciremo e come ce lo ricorderemo. Dobbiamo uscire con la mascherina. Ma l’abbiamo sempre avuta no? Quante volte siamo stati tra la gente con una maschera, coprente, dietro la quale ci sentivamo protetti, non da un virus, ma dagli altri e da noi stessi? L’essere umano è proprio un animale strano. Paradossalmente adesso vorremmo poter vivere senza. Anche se a dire il vero ci sono personaggi che in tempi non sospetti ne hanno fatto un punto di forza: primo fra tutti Michael Jackson, spesso in pelle o con paillette (Miss Keta, Billie Eilish non vi siete inventate niente di nuovo!). Zhijun Wang nel maggio del 2017 iniziò a creare mascherine con la ormai famosa busta blu di Ikea, dal nome impronunciabile, Frakta. Recentemente l’artista ne ha creata un’edizione speciale made in Italy, con quella gialla Esselunga. Max Siedentopf è invece l’ autore di “How To Survive A Deadly Global Virus” serie di scatti non politically correct sull’uso di oggetti quotidiani reinterpretati come mascherina, facendo ovviamente infuriare chi non ne ha colto l’ironia. Come dimenticare poi Adam Kadmon personaggio di fantasia, (speriamo), che dietro la sua maschera nera, intratteneva l’italiano medio con le sue strampalate teorie esoteriche sul Mondo e la sua fine imminente. Ma anche politici, come il Presidente della Slovacchia, Zuzana Caputova, che ogni volta che cambia d’abito ha la sua mascherina abbinata.

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Il tema è scottante: ce ne sono poche anche e soprattutto per gli operatori sanitari. I potenti colossi dell’Industria della Moda hanno momentaneamente riconvertito la produzione creando una catena solidale (e anche parecchia autopromozione, direbbe la mia parte cinica) con la distribuzione di mascherine e disinfettanti per i presidi medico-sanitari. Mentre scrivo sono a casa, in “Quarantine”, non so quando uscirà questo articolo se sarò uscita anche io. Mi chiedo quale e come sarà la vita che ci aspetta. Io come sarò? Sono pronta a uscire là fuori senza maschera? Preferisco questo tempo sospeso ma ricco di aspettative sulle possibilità future? C’è solo una risposta sensata che posso darmi e darvi: non lo so.

Fuorisede, tra vite sospese e ritorno a casa

di Gabriele Vagnetti

Il pensiero di chi scrive va ai più temerari, quelli che “scontano” la quarantena in micro-appartamenti condivisi, tra biciclette stipate lungo i corridoi, cucine come ponti di volo per lavatrici anteguerra al decollo dopo le ventitré e “rigidissimi” turnover di pulizia aree comuni. Non è certo argomento su cui fare ironia, tanto più se a osservarlo dall’interno è uno dei fortunati, che per vicinanza o per la comodità di un ultimo regionale preso al volo, può trascorrere la quarantena insieme ai suoi vecchi coinquilini: amati, lamentevoli e ormai oltre la sessantina. I fuorisede sono una delle categorie “in sospeso” nello scenario da paralisi pandemica, in bilico tra affitti da pagare per stanze in cui nessuno entra da settimane, con gli effetti personali in attesa, mentre le delibere in materia tardano ad arrivare e le speranze di tornare a frequentare l’università si fanno pallide. Difficile essere ironici volgendo lo sguardo ai numeri. Secondo le ultime stime ISTAT la popolazione universitaria Toscana di studenti fuorisede in entrata è pari a 31.924, a fronte dei 10.462 in uscita, con 27.529 unità nel solo capoluogo. I numeri relativi all’affluenza di studenti stranieri sono alti: “16.000 quelli che arrivano ogni anno nella regione, di cui 10.000 solo a Firenze”, ha dichiarato in una recente intervista il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. Stime ben più alte riguardano tutti gli universitari prossimi alla conclusione del percorso di studi, sospesi in un panorama dubbioso rispetto alle ripercussioni e gli adattamenti che il mercato del lavoro subirà in seguito alla pandemia. Quante le possibilità di mobilità internazionali per lavoro e quante quelle sul suolo nazionale? Fino a che punto sarà richiesto un adattamento a settori di attività che non sono rispondenti ai percorsi di studio intrapresi? Questi gli interrogativi sui quali rinnovare e riprogettare i contesti lavorativi e di formazione nel futuro post-pandemia.

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