Biografie
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Ricerca
a cura di Alvise Mattozzi E Paolo VolontÉ
Biografie di oggetti
a cura di angelika burtscher e daniele lupo
Storie di cose Bruno Mondadori
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Introduzione
Biografie di oggetti
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Paolo Volonté
Oggetti di personalità
27
Thierry Bonnot
L’approccio biografico alla cultura materiale
37
Francesca Rigotti
La decosificazione del mondo
45
Maurizio Ferraris
Mundaneum
55
Harvey Molotch
L’origine degli oggetti:
come il luogo e la regione entrano nei prodotti
67
Giovanni Gasparini
Oggetti interstiziali e oggetti del tempo
77
Michela Nacci
Vita e morte degli oggetti
95
Hans Höger
Il design e l’incontro tra artefatti ed esistenze umane
103
Alvise Mattozzi
Percorsi di vita e articolazioni di senso:
approccio biografico e metodologia semiotica
125
Gli autori / i curatori
storie di cose
131
Angelika Burtscher
Semiotica del quotidiano
e Daniele Lupo
137
Åbäke
La minestra Campbell
139
Martín Azúa
Un cestino per la frutta
141
Azzimonti Pigem
Peter Fax
143
Manuel Bandeira
Il magnete
145
Fernando Brizio
Il datario
147
CuldeSac
Pentola a pressione
149
Lorenzo Damiani
Gondola bianca
151
Electricwig
L’apribottiglia
153
Luis Eslava
Stuoina: My fair lady
155
Patrick Frey
Biografia di un casco
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Alexis Georgacopoulos Caraffa da vino in alluminio
159
Tal Gur
Forchetta
161
Ditte Hammerstrøm
Teiera
163
Meriç Kara
Shampoo Blendax
165
Sophie Krier
Le parasol jaune de bonpapa et marraine
167
Kyouei Design
Questo è un corallo
169
Nicolas Le Moigne
La mia maschera da scherma
171
Cecilie Manz
Un cesto finlandese
173
Peter Marigold
Residuo di campanello
175
Jason Miller
T-shirt Hanes a girocollo senza etichetta
177
Nòdesign
Un bicchiere da vino
179
Polka
Un metro avvolgibile
181
Adrien Rovero
Sgabello di Péclard
183
Wieki Somers
Sedie cinesi – fatte in Cina e copiate da olandesi
185
Aamu Song / Company Mummo Housut 1 Mummo Housut 2
187
Tesolin e Estadieu
Mental power
189
Sylvain Willenz
Selene chair 1969
193
Gli autori / i curatori
Introduzione Vogliamo ragionar d’uomini parlando di cose. Sembra un compito privo di senso, oppure senza la prospettiva di un risultato. Eppure è un programma affascinante e, ne siamo convinti, di grande utilità per la comprensione del mondo sociale. «Che cosa potrebbe rivelare della società in cui è inserita la vita di un’automobile in Africa, o quella di un’automobile posseduta da un cittadino americano, o da un Navajo, o da un contadino francese?» Così, una ventina d’anni fa, l’antropologo Igor Kopytoff avanzava l’idea che anche gli oggetti avessero una propria “biografia”, e s’interrogava sul suo valore conoscitivo. Questo volume recupera quell’interrogativo e lo ripropone tramite molteplici riflessioni, analisi, ricerche e narrazioni condotte in vari ambiti e con metodi e sguardi diversificati. Lo espande e lo scompone nei suoi fattori costitutivi, interrogandosi sulla sua utilità non solo e non tanto per studiare una società data, quanto per descrivere, più in generale, le relazioni sociali in una maniera che tenga conto del ruolo che gli oggetti indubitabilmente vi svolgono. Non prende in considerazione un solo oggetto o la categoria generale di “oggetto”, ma disparate cose, spesso indagate nella loro singolare concretezza, guardando al loro singolare percorso di vita. Più concretamente: da un lato una serie di riflessioni e analisi, dall’altro una mostra; da un lato etnologi, filosofi, semiologi, sociologi, storici e storici del design attraversano il concetto di “biografia degli oggetti”, dall’altro lato un folto gruppo di designer intreccia le proprie biografie con quelle di altrettanti oggetti di loro proprietà, qui visivamente riprodotti.
Questa partizione spiega l’impostazione data al volume, diviso effettivamente in due parti – Biografie di oggetti e Storie di cose – con due curatori ciascuna. Ma tale suddivisione non deve far pensare a due iniziative separate e in qualche misura distinguibili. Il progetto sotteso, benché pensato come una ricerca plurale, né univoca né uniforme, è tuttavia un progetto unitario. Fin dall’inizio ci è sembrato che il modo più consono per indagare il ruolo sociale ricoperto dalle biografie delle cose materiali fosse dar vita a una tensione unitaria tra prospettive e pratiche diverse: quella dei ricercatori e quella dei progettisti. Quella di coloro che si muovono nel mondo universitario tra aule, biblioteche, convegni e pubblicazioni, ma che in questo caso, per la loro consuetudine col mondo del design e della design education, si sentono a loro agio anche tra laboratori e progetti, installazioni e mostre. E quella di coloro che si muovono nel mondo del design e della produzione tra studi, aziende, fiere e prodotti, ma che in questo caso, per un loro spiccato interesse critico e culturale, si sentono altrettanto a casa tra discorsi, dibattiti e idee astratte. I primi raccolti e rappresentati dalla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano, i secondi dalla galleria Lungomare, anch’essa di Bolzano, che ha ospitato un’esposizione delle storie di cose qui documentate. Prima ancora di essere un’indagine sulla “biografia degli oggetti”, dunque, questo volume è un tentativo di dialogo tra ambiti, sguardi e pratiche differenti che illustra ciò che è, o potrebbe essere, quella cosa strana chiamata design research.
a cura di Alvise Mattozzi E Paolo VolontÉ
Biografie di oggetti paolo VolontÉ Thierry Bonnot Francesca Rigotti Maurizio Ferraris Harvey Molotch Giovanni Gasparini Michela Nacci Hans Höger alvise mattozzi
paolo volontÉ
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Oggetti di personalità Alla ricerca delle masse mancanti Da alcuni, pochi, decenni le scienze sociali hanno sollevato, benché per ora solo per accenni e tentativi, un problema nuovo. Hanno cominciato a chiedersi quale ruolo si debba riconoscere agli oggetti materiali per produrre una spiegazione compiuta e sostenibile delle dinamiche sociali osservate. In precedenza esse avevano costruito l’intera loro storia sulla contrapposizione tra il mondo degli umani e quello della natura, coltivando la convinzione che il primo presentasse una discontinuità tale rispetto al secondo da giustificare la creazione di un approccio disciplinare autonomo. Tanto che per un certo periodo si sono chiamate anche scienze umane. Non che questo assunto sia stato estesamente discusso nelle lunghe dispute sul metodo tipiche delle scienze storico-sociali. Ma ha costituito un dato per scontato nei loro approcci teorici e nella loro prassi scientifica quotidiana, al punto che esse hanno fatto propri, per indicare il fuoco della loro attenzione, i termini filosofici di individuo e soggetto. In una scienza dei soggetti, quale s’è concepita la sociologia per più di un secolo, non c’è spazio per riconoscere un ruolo attivo agli oggetti. Essi vi sono ridotti a meri spettatori passivi dell’azione che va in scena sul palcoscenico della storia, là dove appunto dominano i soggetti (individuali o collettivi che siano, poco importa). Nella migliore delle ipotesi gli oggetti sono ridotti a fatti, cioè a prodotti dell’attività umana o del divenire della natura. In altri casi sono concepiti come strumenti, per esempio come mezzi di produzione o
come media, cioè come docili servitori della volontà del soggetto padrone (individuale o istituzionale, di nuovo, non importa). In altri casi ancora vengono semplicemente ignorati, concepiti come meri oggetti, la cornice del quadro, il set del dramma umano, o ancora come oggetti di valore, e quindi rispettosamente lasciati alle competenze della scienza economica. Per motivi che non posso approfondire qui, ma che senz’altro hanno a che fare con le trasformazioni avvenute nell’uso quotidiano degli artefatti in seguito alla diffusione massiccia della produzione in serie, e quindi con il mutamento verificatosi nelle funzioni svolte dalle cose nella vita delle persone e nelle interazioni tra loro, oggi l’atteggiamento di molti studiosi della società verso il ruolo sociale degli oggetti è mutato. Da varie parti ci si comincia a chiedere quale peso abbiano le cose inanimate, e più in generale ancora i non umani, nel determinare i fenomeni sociali che osserviamo. Non solo ci si chiede dove stiano le “masse mancanti” della struttura sociale, come fece in un famoso saggio Bruno Latour (1992), ma si cerca di capire anche in quale modo queste masse non umane siano in grado di esercitare il loro influsso sulla vita degli umani, attraverso quali meccanismi e con quali risultati. Le riflessioni a questo proposito sono molto varie sia nell’impostazione teorica che cercano di corroborare, sia negli strumenti retorici che usano. Ai molti emuli o epigoni di Latour e della Actor-Network Theory si affiancano gli antropologi ispirati al lavoro di Mary Douglas
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e Baron Isherwood (1979), gli studiosi della società dei consumi formatisi sui libri di Jean Baudrillard (1968; 1972), Colin Campbell (1987) o Daniel Miller (1987), e poi storici, filosofi della tecnica, teorici del design, ciascuno col proprio approccio e dal proprio punto di vista. Con questo volume vorremmo offrire un nuovo contributo al dibattito. Nuovo per l’approccio teorico, perché la concettualizzazione della biografia degli oggetti contribuisce, credo, a mettere in luce aspetti della vita sociale altrimenti oscurati. E nuovo per la scelta metodologica di tenere insieme una serie di riflessioni scientifiche con un’esperienza di storie di cose rivisitate dal punto di vista di chi lavora alla progettazione degli oggetti. Gli oggetti non vengono qui solo pensati, ma anche presentati. Non è però mia intenzione fare un’introduzione a quest’opera multiforme e dalle varie anime, come se dovessi rinchiudere entro una gabbia unitaria una molteplicità di stimoli e riflessioni che, al contrario, aprono il pensiero in molte direzioni inaspettate. Voglio invece proporre alcune considerazioni di carattere generale che facciano emergere l’utilità per la comprensione della società di un approccio che pensi agli oggetti come a soggetti di percorsi biografici. Una “vita” per gli oggetti? Gli oggetti, le cose inanimate, hanno una storia che può essere raccolta e raccontata. Di più, essi hanno – questa è la tesi esplicita del volume – una biografia. L’affermazione dovrebbe sorprendere. Com’è possibile narrare la vita di cose senza vita? Una biografia è la narrazione (γραφια) della vita (βιοσ) di qualcuno. In che senso un oggetto inanimato potrebbe avere una vita da narrare? Certo, ciascun oggetto nasce e ciascun oggetto muore. Tutti permangono per un periodo di tempo limitato, anche quando molto lungo, durante il quale subiscono delle trasformazioni a opera del mondo circostante. Essi hanno una “storia”. La considerazione è, in fondo, molto banale. In
quest’ottica l’espressione “biografia” verrebbe però usata in un senso soltanto metaforico, per pura analogia col percorso esistenziale di ciascun essere vivente. Sarebbe tutto sommato inespressiva. Non è un caso, infatti (e lo si vede anche leggendo i saggi di questo volume), che la vita degli oggetti sia stata trattata in passato quasi esclusivamente attraverso le forme artistiche del discorso: la letteratura, il teatro, le arti figurative. Essa è entrata nella cultura occidentale e nella nostra comprensione del mondo come uno strumento retorico utile a creare un collegamento tra l’esistenza umana e quella delle cose, al fine, solitamente, di dire qualcosa di nuovo intorno all’esistenza umana, prima che a quella delle cose. L’analogia che essa crea con gli oggetti consente di allargare lo sguardo sulla vita dei soggetti. Le cose vengono trattate come portavoce delle persone. Proporre una riflessione sulla biografia degli oggetti nell’ambito delle scienze sociali significa qualcosa di diverso. È un invito a prendere sul serio l’idea che le cose abbiano una loro vita. Non certo in senso animistico, non serve dirlo. Ma nel senso sociologico dell’espressione. Dobbiamo prendere sul serio l’idea che gli oggetti materiali abbiano una propria vita sociale, e che per questo vadano considerati, nella spiegazione del funzionamento della società e dei singoli fenomeni sociali, come soggetti capaci di contribuire ai processi collettivi di produzione della realtà (Pels, Hetherington e Vandenberghe 2002, p. 2). E prenderla sul serio significa predisporsi a raccogliere con metodo scientifico le evidenze empiriche di questa vita sociale delle cose. In questo contributo svolgerò in particolare due compiti: anzitutto, proverò a descrivere (molto sinteticamente) lo stato della questione, ovvero da dove nasce e come è stata trattata finora l’idea della biografia degli oggetti; nella parte conclusiva discuterò invece di quelli che considero gli aspetti principali intorno a cui si sviluppano le biografie degli oggetti, e che desidero proporre come possibili temi per ulteriori approfondimenti.
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Oltrepassare la visione antropocentrica L’interesse degli studiosi della società per gli oggetti intesi come soggetti di vita propria risale agli ultimissimi anni Settanta del secolo scorso. Intendo dire l’interesse per gli oggetti intesi non solo come entità che passano attraverso un concepimento, una nascita, varie fasi della vita, la morte e la decomposizione, ma anche come soggetti sociali, capaci, cioè, di modificare con la loro presenza il sistema delle interazioni umane. In precedenza – anche probabilmente a seguito della scarsa considerazione di cui ancora godevano le discipline del design – gli oggetti entravano nell’orizzonte delle scienze umane e sociali attraverso vie d’accesso d’altro tipo. Vi era per esempio la via maestra del marxismo, che considera gli oggetti essenzialmente come frutti del lavoro umano, e quindi come prodotti pronti vuoi all’uso, vuoi allo scambio. La teoria marxiana della distinzione e contrapposizione tra valore d’uso e valore di scambio, almeno per come si presenta nel Capitale (1867, trad. it. pp. 67-115), si basa sul rapporto che intercorre tra l’oggetto e il lavoro necessario a produrlo. L’oggetto è essenzialmente un prodotto, e ciò che gli accade dopo la sua immissione nel mondo è rilevante solo in relazione alla domanda se esso venga utilizzato per soddisfare il bisogno da cui nasce o se subisca un destino impreveduto, quale quello di divenire una merce. Il peccato originale della trasformazione degli oggetti in merci, cioè in beni disponibili allo scambio, sta nel fatto che l’operaio, nella società della prima industrializzazione, non ha accesso al consumo di quegli stessi beni che ha contribuito a produrre. La questione rilevante non riguarda dunque gli oggetti e le loro trasformazioni, ma la presenza o assenza di una correlazione tra la soggettività creatrice e quella consumatrice. L’asimmetria tra i due soggetti è ciò che conduce le merci a farsi strumenti fondamentali della dominazione di alcune classi sociali su altre. Poi vi è stata la via della semiologia e della sua reinterpretazione sociologica, che aveva formulato l’ambizio-
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so progetto di descrivere il sistema degli oggetti come un sistema semiotico di tipo particolare, come un linguaggio, parallelo e analogo al sistema del linguaggio naturale. Inizialmente fu Roland Barthes (1964) a sviluppare quest’idea, offrendo anche dei saggi della sua applicazione a casi concreti (la moda, le automobili). Il suo sguardo era quello del semiologo, e privilegiava conseguentemente i significati e le loro leggi strutturali rispetto ai comportamenti umani e agli effetti che produce l’uso delle cose sulla collettività che le utilizza. Fu invece Jean Baudrillard (1972) ad approfondire con più cura quest’ultimo aspetto, mettendo in luce come gli attori della società per lui contemporanea, all’inizio di quella che successivamente è stata chiamata la seconda modernità (o società postmoderna), usassero gli oggetti come strumenti al servizio delle proprie tattiche di mobilità sociale, come simboli di status. Ciò conferiva loro un valore particolare, quello che lui chiama “valore-segno”, e quindi una sorta di ruolo nelle interazioni sociali. Una terza via è, infine, quella percorsa dall’antropologia e dall’archeologia, che a lungo hanno considerato i prodotti della cultura materiale principalmente come testimonianze di strutture sociali e processi culturali non più visibili (archeologia) o non ancora comprensibili (antropologia). Come indica anche Bonnot nel saggio contenuto in questo libro, gli oggetti sono stati trattati in questa prospettiva con un approccio sostanzialmente positivistico, come indizi o manifestazioni attendibili della cultura e delle istituzioni, vale a dire della vita degli umani, in società celate alla nostra cognizione (cfr. anche Gabus 1965). Il termine che più apertamente tradisce questo modo di considerare gli oggetti è quello di “feticcio”. Esso ha costituito per lungo tempo – da quando ha fatto il suo ingresso negli studi proto-antropologici con Charles de Brosses (1760) – la chiave di lettura attraverso cui la scienza occidentale ha spiegato la pretesa di certi oggetti di possedere una vita propria. Quegli oggetti sono artifici, divinità fittizie, cose fatate perché fatte così dagli umani, e quindi espedienti e invenzioni di
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soggetti dei quali portano l’impronta (Apter e Pietz, a c. di, 1993; cfr. anche Latour 1994; 1996; Dant 1999, pp. 40-59). Agli occhi degli occidentali civilizzati i feticci non sono gli oggetti animati che pretendono di essere, ma indizi dell’animo, e quindi della cultura, dei soggetti che li hanno prodotti. Ciò che accomuna questi modi di considerare le cose materiali è un assunto di tipo antropocentrico: le cose sono materia bruta cui qualcuno (un soggetto umano) ha dato una forma specifica in funzione di una propria esigenza di qualche tipo. Considerate in se stesse, esse non sono interessanti, perché entrano nel mondo degli esseri umani solo come arredo, come cornice delle interazioni sociali: il tavolo da pranzo mi impedisce di stare un po’ più vicino o un po’ più lontano da chi mi sta di fronte, ma non crea né determina la mia relazione con lui, che è indipendente dal tavolo stesso. Esso si limita a influenzarla, favorendola od ostacolandola. Ciò che rende le cose interessanti è allora l’essere umano, il fatto che questi assuma le cose materiali nel proprio mondo e le usi in qualche modo. Che le usi, per esempio, come merci di scambio, per produrre e scambiare ricchezza, quindi, e conservare in tal modo privilegi e disuguaglianze. Oppure come simboli di status, per produrre e comunicare appartenenza di classe e riprodurre, in tal modo, relazioni di potere costituite e massificazione dei consumi (per esempio impiegando gli oggetti come segni di differenziazione in virtù delle loro differenze marginali rispetto al corrispondente modello: cfr. Baudrillard 1968; 1974, trad. it. pp. 89-104). O, infine, come artefatti della cultura materiale, per vivere nella quotidianità e consentire la celebrazione di quei rituali che strutturano la vita di tutti i giorni mettendo ordine nelle relazioni sociali, nell’uso dello spazio e del tempo, nei consumi alimentari ecc. In tutti e tre questi approcci gli oggetti sono interessanti solo in quanto portavoce dei pensieri, delle azioni e delle relazioni umane che hanno dato loro vita. Da una parte starebbe il mondo umano, ovvero il mondo dei valori, dell’etica, dell’arte, della religione e, in
generale, dello spirito, capace di produrre beni senza alcuna finalità pratica ma dal valore spirituale inestimabile. Esso è il mondo dell’azione volontaria e della produzione di significato. Dall’altra parte starebbe il mondo delle cose, della materia, e quindi dei segni lasciati dal passaggio degli umani; il mondo degli oggetti che questi ultimi utilizzano per vivere nelle loro varie forme di vita associata, e che usano per aiutarsi nella difficile opera di stabilizzazione delle relazioni sociali, delle credenze collettive, delle istituzioni comuni. Il primo sarebbe il mondo della vita, il secondo un mondo inanimato, arido, secco. Ma il mondo degli oggetti non è così. Il tavolo può non limitarsi a influire dall’esterno su una relazione umana, può anche crearla e determinarla. Un tavolo, una superficie piana orizzontale e stabile, offre universalmente agli esseri umani la possibilità di appoggiarvi oggetti senza doversi chinare per terra. Esso offre anche una seconda funzione altrettanto importante: quella di farsi riconoscere da lontano, a prima vista, come un tavolo, cioè come una superficie d’appoggio. Non c’è bisogno d’indicarlo con un cartello, né d’accompagnarlo con un libretto d’istruzioni. Grazie a queste sue caratteristiche, il tavolo è anche, di norma, un polo d’attrazione, un oggetto che cattura non forse lo sguardo, ma senz’altro i corpi delle persone. Si collochi un tavolo in un ambiente qualsiasi, e si osserverà che quello diventa il principale luogo di sosta e di raggruppamento degli umani nei paraggi. Il tavolo attira i corpi, li racchiude entro uno spazio circoscritto, definito non da un confine esterno, ma dal polo d’attrazione centrale, e crea in tal modo relazioni tra i soggetti che vi si siedono o vi sostano intorno. Il tavolo nella mensa, nella hall di un albergo, nella radura di un bosco crea conoscenze nuove e finanche amicizie tra persone che non si sono cercate né scelte, ma sono state attratte e messe in relazione proprio e solo dalla sua presenza. Esso agisce socialmente. Non in rappresentanza di chi lo ha collocato in quel posto, ma in virtù di una propria personalità. La sua presenza nel mondo, il ruolo sociale che riveste non ha il
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senso di una mera testimonianza di azioni o relazioni d’umani già date. Al contrario, esso s’introduce nel dramma degli umani come un personaggio in certo qual modo franco, libero da padrone. Lo stesso vale, naturalmente, quando gli oggetti incorporano un contenuto tecnologico apprezzabile, come ha magistralmente mostrato Bruno Latour descrivendo, per esempio, il meccanismo di chiusura automatica di una porta (Latour 1992). Essi, infatti, non si limitano a incorporare una serie di funzioni e comportamenti che gli umani delegano loro per poter aggirare la propria incapacità a svolgerle, o l’impossibilità di delegare ad altri umani il farlo. In direzione inversa, gli oggetti tecnologici finiscono per prescrivere (Akrich 1992, trad. it. p. 58) agli umani determinati modelli di comportamento, e tali prescrizioni di comportamento non sono sempre quelle previste, desiderate, iscritte negli oggetti dai loro produttori. Gli oggetti, insomma, si comportano da soggetti autonomi. Certo, un chiudi-porta automatico incorpora parte del lavoro svolto da un usciere. Ma, come avviene già per l’usciere, anche il chiudi-porta impone a chi attraversa quella porta determinati modelli di comportamento, ovvero esprime, per così dire, delle “aspettative di ruolo” (è Latour stesso a sottolineare l’analogia tra i due concetti: cfr. Latour 1992, trad. it. p. 121) che chiedono di essere soddisfatte: una certa traiettoria nello spazio, una certa velocità di attraversamento, alcuni movimenti delle mani o di altre parti del corpo. E l’aspetto per noi più importante è che le prescrizioni che l’oggetto ingiunge ai suoi interlocutori umani non sono normalmente riconducibili alla situazione che il progettista e il produttore hanno originariamente previsto e iscritto nell’oggetto. Questo non è mera estensione del corpo e della volontà di uno o più umani, ma, come le marionette, possiede una propria personalità capace di sorprendere il burattinaio e indurlo a scelte impreviste e persino indesiderate. L’attore sociale è superato dalle cose che egli stesso fabbrica (Latour 1994, trad. it. p. 220). Gli oggetti, dunque, e non solo quelli con un apprez-
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zabile contenuto tecnologico, sono dotati di una personalità, di un carattere particolare, ed è questa loro personalità che interagisce con la personalità degli umani, creando una fitta rete di relazioni sociali di cui essi sono protagonisti. Per comprendere a fondo un fenomeno sociale qualsiasi, sia di tipo micro (l’interazione allo sportello delle poste) sia macrosociale (i movimenti di liberazione nazionale degli anni Settanta), è necessario ricorrere al ruolo svolto in esso dagli oggetti materiali che vi prendono parte (il vetro allo sportello, il kalashnikov nelle mani del rivoluzionario). Ma la posizione che ciascun oggetto di volta in volta occupa in una situazione sociale, e quindi il ruolo che vi svolge, non sono già definiti a priori, né dipendono solo dal contesto occasionale. Essi dipendono invece anche dalla storia degli eventi cui l’oggetto ha partecipato, e che vi hanno lasciato impresso qualcosa d’indelebile. A volte impronte fisiche sul suo sostrato materiale (il seno destro della statua di Giulietta che fronteggia l’ingresso di casa Capuleti a Verona reca l’impronta, come testimonia la fig. 1, delle strane usanze dei turisti globali). Altre volte incrostazioni di senso nel suo significato immateriale (l’uso particolare della kefiah da parte di Yasser Arafat l’ha resa qualcosa di più di un semplice copricapo, in special modo quando indossata da un cittadino europeo). La personalità degli oggetti non dipende quindi dalle scelte e dalla volontà di chi li ha prodotti, non solo. Dipende soprattutto dalla successione delle “esperienze” (questo termine, sì, usato in senso metaforico) che essi hanno accumulato nel corso della loro esistenza: un tavolo può essere stato creato come pietra sacrificale per il culto di un certo dio, ma successivamente può essere stato usato come piano d’appoggio da un fabbro o come punto d’orientamento dai cacciatori, considerato una testimonianza da un archeologo, aver fatto da passatempo per il pubblico colto dei visitatori di musei. Non sono ipotesi di pura fantasia. Intorno al 580 a.C. l’imponente Kouros di Samos (fig. 2) venne inizialmente creato, si suppone, come immagine votiva, e quindi con un doppio significato di rappresentazione
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(ancorché molto schematica) e d’intercessione. Ma non possiamo sapere che cosa esso realmente significasse per gli artigiani che lo scolpirono nella pietra. Senz’altro piuttosto diverso doveva essere il significato che assunse agli occhi dei romani, che ne usarono dei pezzi (la testa, una gamba) per la costruzione di una villa e di una cisterna nei dintorni dell’antico santuario. E ancora molto diverso è il significato che gli attribuirono gli archeologi, quando scavando individuarono i resti di quella cisterna, per non dire di noi oggi, turisti globali, quando lo osserviamo, pensierosi e a rispettosa distanza, visitando il Museo Archeologico di Vathi1. La vita sociale delle cose In questa prospettiva, la sollecitazione a considerare la biografia degli oggetti come un dato utile e originario per la comprensione del mondo sociale si fa forte della promessa di far acquisire nuove categorie d’analisi. Essa nasce dall’intuizione che parlare di una “vita” delle cose non è solo un artificio retorico, una metafora, ma qualcosa di serio, di molto reale. È un concetto capace di descrivere meglio di altri ciò che accade all’interno delle collettività umane. Storicamente s’è iniziato a parlare di una “biografia culturale delle cose” in seguito alla pubblicazione, nel 1986, del volume The Social Life of Things, curato da Arjun Appadurai, in cui appariva un breve saggio di Igor Kopytoff, intitolato appunto The Cultural Biography of Things, dove si richiamava l’attenzione sul fatto che l’attribuzione agli oggetti di un valore d’uso o di un valore di scambio (ma noi potremmo aggiungere anche, in riferimento a Baudrillard, di un valore simbolico) sia un atto tutto sommato arbitrario, e comunque poco esplicativo, se non si tiene conto del carattere dinamico e mutevole dell’esistenza delle cose nel tempo. Poche merci restano tali dal concepimento alla distruzione. E, comunque, il carattere di 1 Per un discorso per certi versi analogo a quello fatto qui cfr. la riflessione di David Turnbull (2002) sui monumenti megalitici maltesi.
merce non è ascritto. Al contrario, esso è sempre revocabile, osserva Kopytoff, e nel corso della loro vita le cose attraversano solitamente momenti in cui sono ridotte al mero valore di scambio e momenti in cui, rispetto al mondo degli umani, svolgono altre funzioni e rivestono altri valori. Ciò è particolarmente evidente, per fare un esempio, nel momento dell’agonia di un oggetto, vale a dire quando esso diventa pattume, rifiuto da smaltire o riciclare. Lo status di rifiuto, infatti, costituisce una condizione del tutto particolare, come ha osservato Michael Thompson nella sua Rubbish Theory (1979). Esso sospende e modifica radicalmente l’esistenza quotidiana delle cose, sottraendole al loro ruolo sociale usuale. In questo senso si tratta di una svolta qualitativa nella loro biografia, e non solo quantitativa (come potrebbero essere invece intesi i vari passaggi nella storia della mercificazione di un oggetto, vale a dire gli atti di compravendita). Ma, soprattutto, l’agonia di un oggetto non equivale alla sua distruzione. Dallo stato di rifiuto esso può gradualmente o improvvisamente rinascere come oggetto durevole, quando entra nella sfera del modernariato, in quella dell’antiquariato, in quella dell’arte, in quella delle testimonianze storiche o in quella dell’archeologia. Il medesimo oggetto che poco prima reclamava lo smaltimento è stato ora singolarizzato ed è divenuto qualcosa di collezionabile o, in ogni caso, da proteggere dalla distruzione (cfr. anche Engeström e Blackler 2005, pp. 313-315). La riflessione di Kopytoff muove invece dall’analisi dei processi di scambio economico, e osserva che ciò che caratterizza la nostra percezione delle cose, quando le trattiamo meramente come merci di scambio, è la loro standardizzazione e omologazione. Nello scambio le cose sono ricondotte a un valore per così dire “oggettivo”, nel senso di misurabile, equiparabile a quello delle altre merci ed espresso, ovviamente, dal denaro. Grazie a questa riduzione a un comun denominatore, o per meglio dire a un comune metro
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di misura, ci si rende in grado di appropriarsi o disfarsi degli oggetti con grande facilità, grazie appunto all’espediente dello scambio, eventualmente mediato dal denaro. Lo stesso non è possibile con le persone, nella misura in cui le si considera degli individui, dei soggetti. Come tali, le persone sono insostituibili, e quindi non possono essere scambiate con altre persone. Ciò rende impossibile il loro acquisto e la loro vendita, a eccezione ovviamente di quegli esseri umani cui non è riconosciuta la dignità di persona, quali gli schiavi e – fa notare Francesca Rigotti in questo stesso volume – molte volte le donne. L’aspetto interessante è che, a ben vedere, questa sottrazione al mondo dello scambio riguarda spesso, secondo Kopytoff, anche le cose. Per nulla al mondo darei via il vecchio orologio da taschino che il nonno mi affidò sul letto di morte. O quegli occhiali che mi piacciono tanto e che servono a dare un tocco inconfondibile al mio look. Se molti sono gli oggetti “comuni”, cioè scambiabili, altrettanti sono gli oggetti non mercificabili, “non comuni”, singolari. In maniera esemplare ciò riguarda, ricorda Kopytoff, tutti gli oggetti sacri, i monumenti pubblici, gli oggetti collezionabili (che non equivalgono affatto agli oggetti unici, come dimostrano non solo i multipli in arte o il collezionismo filatelico, ma anche le vicende di quegli oggetti di produzione industriale, quali taluni oggetti di design, che vanno a collocarsi più facilmente là dove possono essere mostrati e visti anziché là dove possono essere usati, sullo scaffale del soggiorno anziché in cucina). Ma, a ben pensarci, qualsiasi oggetto comune e quotidiano può, in un dato momento della sua vita, essere singolarizzato da qualcuno e divenire non comune. Anche il bullone che porto in tasca e che uso come portachiavi, per esempio. La successione delle singolarizzazioni subite da un oggetto ne scandisce, secondo Kopytoff, la biografia individuale. E si tratta di una “biografia culturale”: i suoi punti di svolta, infatti, sono determinati non
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tanto da fattori economici o tecnici (la compravendita, il meccanismo che si rompe), quanto da trasformazioni del significato che l’oggetto incorpora per gli umani con cui entra in dialogo, in interazione (l’oggetto che giaceva dimenticato nell’armadio della nonna ed è ora il più caro ricordo che io ho di lei, diventerà per mio figlio solo un interessante oggetto di antiquariato da vendere sul mercatino delle pulci). Ricostruire biografie culturali di oggetti significa, certo, chiedersi da dove vengano e chi li abbia prodotti, ma anche come siano stati usati, quale status sia stato loro attribuito, quali siano state le loro carriere a confronto con la carriera ritenuta “ideale” per quel tipo di oggetto, quale effetto abbia prodotto la loro presenza nelle interazioni tra gli umani (Kopytoff 1986, trad. it. pp. 79-82). Dopo la pubblicazione, il saggio di Kopytoff è stato molto citato e molto usato nella sociologia della cultura per cercare di dare un’interpretazione efficace del ruolo sempre più centrale che è andata assumendo la cultura materiale nella vita contemporanea, in quella che molti hanno chiamato la società dei consumi. Una società in cui la presenza dei beni nell’ambiente in cui si muovono le persone (e, conseguentemente – ma solo conseguentemente –, il possesso dei beni materiali) svolge una funzione fondamentale nella determinazione degli equilibri sociali e nella costruzione delle identità personali. Attraverso l’espressione coniata da Kopytoff si è cercato di dare un contorno più preciso a un’intuizione ancora sfuocata, ma che aveva già attraversato molteplici tentativi di dire che quella del consumismo non è l’unica chiave di lettura della società contemporanea, e che il senso della vita delle persone passa sempre meno attraverso ciò che esse “sono” (l’appartenenza sociale) e sempre più attraverso ciò che esse “fanno” (il consumo): dal sistema degli oggetti di Baudrillard (1968) al mondo delle cose di Douglas e Isherwood (1979) e all’identità smarrita di Luisa Leonini (1988). Il consumo viene oggi
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studiato come fonte d’identità, come fonte d’inclusione sociale, come fonte di realizzazione personale. Ciò induce a spostare l’accento, nella considerazione delle cose materiali, dalla loro condizione di prodotti (e quindi di utilizzabili materiali) a quella di strumenti per la costruzione sociale della realtà, e quindi alla condizione di significati, in se stessi provvisori e negoziabili.
Quest’ultimo aspetto merita ora un breve approfondimento. Come ho già spiegato inizialmente, l’utilità per lo studio della società di ricorrere all’idea della biografia degli oggetti risiede nella possibilità di ottenere in tal modo una maggior completezza esplicativa: si acquisisce profondità nella determinazione delle variabili che sono in gioco dietro ai singoli fenomeni sociali. Ma questo accade solo qualora la biografia degli oggetti venga presa sul serio, e non in senso metaforico. Ciò non è facile che accada, perché l’abitudine a considerare le cose come semplici portavoce degli umani è radicata. Non penso qui agli approcci, peraltro ancora assai diffusi nel senso comune – per esempio in quello dei progettisti (o designer) –, che riconoscono bensì alle cose materiali un contenuto immateriale, semantico, capace di trasmettere dei significati alle persone che le incontrano, ma che ritengono che tale significato sia impresso nell’oggetto dal rispettivo produttore, da chi l’ha creato e gli ha dato forma, e sia quindi oggettivato, materializzato, dato una volta per tutte nell’esperienza del destinatario (o dei molteplici destinatari)2. Penso invece alle recenti teorie sociologiche dei processi culturali che, a partire da quella di Baudrillard, disvelano l’importanza del momento del consumo nel definire il significato sociale delle cose. Baudrillard manifesta l’esigenza di un «superamento di una visione spontanea degli oggetti in termini di bi-
sogni, dell’ipotesi della priorità del loro valore d’uso» (Baudrillard 1972, trad. it. p. 7), perché lo statuto primario dell’oggetto non è dato dal suo uso pragmatico, dalla sua funzione materiale, ma dalla prestazione sociale che consente di ottenere la sua funzione di segno. Michel de Certeau, a sua volta, propone di pensare al consumo come a una seconda produzione, come a un’attività senza tener conto della quale è impossibile descrivere correttamente la costellazione dei significati che la cultura materiale assume in una data società. Certo, la produzione di artefatti, e in particolare quella industriale, li pensa latori di un contenuto semantico definito, e li attornia solitamente di discorsi posti a supporto di tale rappresentazione (la pubblicità, il packaging, le strategie di marketing ecc.). Ma la tesi di de Certeau, che mi sento di condividere appieno, è che questa rappresentazione proposta “dall’alto” «non ci dice nulla di ciò che significa per i suoi utilizzatori. Prima bisogna analizzare come viene manipolata da chi non l’ha creata. E solo allora si può valutare lo scarto o la somiglianza fra la produzione dell’immagine e quella secondaria che si cela nei procedimenti con cui viene utilizzata» (de Certeau 1990, trad. it. p. 8; cfr. anche Miller 1987, p. 190). È chiaro che questo passaggio da una concezione economica del consumo a una che ne mette in risalto la funzione culturale e comunicativa è fondamentale per riconoscere alle cose il loro protagonismo sociale, nella misura in cui le libera dalla sudditanza verso il proprio creatore. Ma non è sufficiente. Liberare le cose dalla schiavitù del creatore non restituisce loro alcuna dignità e autonomia, se significa ridurle sotto la schiavitù “democratica” del consumatore. Il riferimento agli oggetti non aggiungerebbe granché alla nostra comprensione del mondo sociale, se gli oggetti fossero solo delle armi inerti con le quali gli attori sociali combattono la loro battaglia per una posizione migliore. Dall’antropocentrismo del produttore, o dell’emittente, si passerebbe a un antropocentrismo del consumatore, o del destinatario. Di
2 Concezioni di questo tipo, che si riflettono radicatamente nel nostro modo di pensare, anche in quello dei più avveduti osservatori del mondo degli oggetti (cfr. per es. Marrone 2002, p. 17), finiscono per vedere ancora l’oggetto come strumento nelle mani dell’essere
umano, e per non riconoscergli, di fatto, alcuna autonomia sociale. Il contenuto semantico sarebbe opera esclusivamente di un soggetto umano, e l’oggetto fisico non ne sarebbe che il veicolo materiale, il messaggero (il portavoce).
Falsi amici
paolo volonté
nuovo, le cose sarebbero ridotte a portavoce di qualcuno, a media di comunicazione, come emerge anche dalla concezione di de Certeau: allo stesso modo in cui le parole della lingua vengono fatte proprie da colui che parla e utilizzate arbitrariamente per i propri scopi e i propri interessi, così avviene, a suo avviso, per i prodotti dell’economia culturale in genere, quando i consumatori se ne impossessano per attuare le loro tattiche sociali. Con questo intendo far vedere che esistono dei “falsi amici” – per usare un’espressione tratta dalla linguistica – della teoria della vita sociale delle cose. Studi e pubblicazioni che apparentemente cercano di innovare il nostro modo di considerare gli oggetti, ma di fatto restano legati alla concezione tradizionale, o dicono qualcosa d’altro. Si pensi per esempio alla mirabile collezione di Vladimir Archipov, di cui egli stesso offre un compendio in un recente volume (Archipov 2006). Essa raccoglie più di mille oggetti autoprodotti da semplici cittadini russi nel difficile periodo della transizione dall’Unione Sovietica a un sistema di consumi di tipo occidentale. Sono manufatti spesso elementari, espressione dell’inventiva e del bricolage delle persone in uno stato di necessità diffusa, che non sono mai stati pensati per il commercio, ma solo per l’autoconsumo, e che, tuttavia, nello stesso tempo s’inseriscono iconograficamente in un mondo consumistico tardo industriale. Come sottolinea lo stesso Archipov (2006, trad. it. p. 9), «tutti hanno tre caratteristiche in comune: funzionalità, unicità e la testimonianza dell’autore, che è anche il suo fruitore». Queste caratteristiche sono anche l’espressione di un approccio che non riconosce agli oggetti la capacità d’interagire con personalità nella rete delle relazioni sociali. Ciò che interessa ad Archipov è esclusivamente la fase progettuale e creativa, la generazione delle cose, in quanto testimonianza dell’ambiente sociale da cui esse scaturiscono e di cui, ancora una volta, divengono portavoce. «Considero vero design», dice in
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un’intervista pubblicata su “Abitare” (n. 483, giugno 2008, p. 48), «gli oggetti semplici e spontanei, quasi arcaici, autoprodotti della gente comune». Oggetti che, proprio per il loro essere prodotti di bricolage – e, dunque, di un’attività che produce cose nuove e significati nuovi a partire da un repertorio prefissato di materiali, tecnologie, messaggi già noti che vengono semplicemente riorganizzati in funzione dello scopo contingente (Lévi-Strauss 1962, trad. it. pp. 29-35) –, non entrano nel commercio universale del senso e quindi non hanno l’occasione di esercitare la propria personalità nel sistema delle relazioni collettive. Analogamente, altri lavori simili restano in verità più o meno lontani dalle problematiche poste in questo volume. Sherry Turkle (a c. di, 2007) ha raccolto 34 biografie di oggetti redatte da altrettanti scienziati, letterati, artisti e designer. Nel suo libro gli oggetti vengono presi in considerazione per la loro capacità evocativa, per il potere che hanno d’influire su molti aspetti della vita quotidiana (il gioco, il desiderio, la meditazione ecc.). Ma le storie raccontate sono in verità autobiografie dei soggetti che le scrivono, e gli oggetti vi compaiono più che altro come testimoni di eventi che hanno avuto luogo nella vita delle persone. La loro capacità evocativa viene trattata più come una capacità di rappresentare che di produrre effetti nel contesto sociale. Più attenta a quest’ultimo tema è forse Lorraine Daston, non tanto nel volume Biographies of Scientific Objects (Daston, a c. di, 2000), dove si limita a studiare i processi attraverso cui determinate entità acquisiscono a un dato momento la prerogativa di essere considerate fatti scientifici, con un approccio tipico dei recenti studi sulla scienza e la tecnologia, quanto piuttosto nella raccolta Things That Talk (Daston, a c. di, 2004), che pur non seguendo un approccio biografico riconosce alle cose – almeno a livello d’ipotesi – il dono dell’eloquenza, e in questo modo la capacità d’imporsi ai soggetti sociali indipendentemente dalla loro volontà. Questo è il caso della fotografia,
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per esempio, che – veridica o ingannatrice che sia – s’impone a chi la guarda (e a chi l’ha scattata) come un’entità indipendente. Una personalità in trasformazione Rimarcare il fatto che le cose possiedono una biografia, che può essere più o meno compiutamente ricostruita e raccontata, non serve solo a comprendere appieno il ruolo che esse svolgono nella determinazione dei fenomeni sociali a prescindere dai progetti di chi ha dato loro vita. Serve anche a evidenziare il carattere mutevole di questa loro presenza sociale. Gli oggetti di personalità hanno in linea di principio una personalità in trasformazione. Le masse mancanti della società non sono masse statiche, o sostanzialmente statiche, come venivano intesi i fattori geografici o quelli climatici in certe spiegazioni sociologiche tradizionali. Esse sono masse dinamiche (Lash e Lury 2007, p. 198), nuclei d’energia che si evolvono nel tempo, ed evolvendosi contribuiscono in maniera essenziale al mutamento sociale. Già Latour ha osservato implicitamente questo fatto quando s’è soffermato sull’esempio del chiudi-porta automatico “sceso in sciopero” a La Villette (Latour 1992, trad. it. p. 94). È chiaro che lo sciopero, ovvero l’interruzione del regolare funzionamento di un meccanismo tecnologico, è una novità rispetto alla sua precedente presenza sociale, una trasformazione del ruolo che esso svolge nella collettività. La dimensione più evidente del divenire sociale degli oggetti è costituita dalla successione delle funzioni (o disfunzioni) che una cosa incorpora rispetto alla collettività da cui viene usata. Nell’uso che Latour fa del linguaggio semiotico ciò si chiama debrayage: determinate azioni o funzioni collettive vengono delegate a un oggetto materiale, e quindi riposizionate o tradotte in esso. L’oggetto in tal modo incorpora un ruolo sociale che poi svolge, interpreta in maniera autonoma e “creativa” rispetto al programma d’azione originario. Non solo. Molti oggetti ricevono nel corso della loro esi-
stenza deleghe molteplici e successive, talvolta anche simultanee, che ne trasformano il ruolo sociale. La biografia di tali oggetti è in definitiva la storia di queste diverse deleghe, tra le quali potremmo senz’altro annoverare quei particolari programmi d’azione che sono la mercificazione e la singolarizzazione, su cui aveva richiamato l’attenzione Kopytoff. Ma la biografia degli oggetti, come quella degli umani, è più complessa di così, e dipende da una somma di fattori. Ha anche altre dimensioni, oltre a quella del debrayage. Per chiarire questo aspetto va fatta un’altra distinzione, questa volta di tipo analitico, che provo a esprimere in questo modo: gli oggetti hanno una biografia, i tipi d’oggetto hanno una storia. Allo stesso modo in cui gli individui hanno una biografia, le nazioni e le istituzioni una storia. Molti oggetti dell’odierna produzione industriale appartengono a una famiglia (la serie), a un clan (la marca), a una categoria (il tipo), e ciò ne determina in gran parte il destino e il ruolo sociale. Ma la biografia di una cosa materiale non si riduce alla storia del tipo cui appartiene, perché ciò occulterebbe le sue vicende individuali, che invece le s’imprimono addosso e contribuiscono a produrre il suo significato per noi. Altro è descrivere le vicissitudini dell’orologio ereditato dal nonno, altro le vicissitudini dell’oggettoorologio nella storia dell’umanità. Porre l’attenzione sulle biografie degli oggetti significa, allora, riconoscere che come individui gli oggetti sono rilevanti nella determinazione del mondo sociale. Naturalmente la storia sociale degli oggetti ha una lunga e autorevole tradizione, ed è stata di grande aiuto nella comprensione delle epoche storiche e delle civiltà. Ma di norma non ha scalfito la visione tradizionale delle cose come meri sedimenti delle attività umane, né è servita a comprendere il ruolo del tutto speciale che esse hanno assunto nel determinare i fenomeni sociali nel mondo contemporaneo. Diversamente accade per le biografie di oggetti singolari. Esse ci restituiscono “piccole cose” (Gasparini, a c. di, 2004) che si comportano come soggetti sociali, come “attanti”,
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direbbe Latour (1987, trad. it. pp. 109-120), capaci di interagire con altri soggetti sociali e di determinarne le traiettorie. Gli oggetti sono dotati di personalità nella misura in cui allo status derivante loro dal tipo cui appartengono (per esempio: orologio) si somma una specificità dovuta alla loro storia individuale (per esempio: l’orologio del nonno). Questa specificità spesso si manifesta, dicevo sopra, attraverso le impronte fisiche che le vicende biografiche lasciano sulla cosa. La tazzina sbrecciata e un po’ sbiadita in cui servo il caffè ai miei ospiti “parla” loro proprio in virtù di quella sbrecciatura e della consunzione dei colori. Non è necessario dire espressamente che si tratta di un oggetto d’antiquariato. Allo stesso modo, molti oggetti raccolti da Archipov testimoniano attraverso la consunzione l’uso che ne è stato fatto. E, per converso, la caffettiera nuova e mai usata testimonia, attraverso l’assenza di impronte d’uso visibili, la propria incapacità a produrre un buon caffè. La forza performativa che queste tracce lasciate dall’uso conferiscono agli oggetti è tale che a volte il sistema produttivo se ne appropria, anticipando in un oggetto, in una famiglia o in una categoria di oggetti l’impronta fisica dell’uso che se ne farà. Jacques Fontanille (1995), citato e commentato da Marrone (2002, pp. 23-27), avanza l’esempio degli oggetti ergonomici, come la fiaschetta da whisky arcuata, tale da adattarsi alla forma del busto o a quella della natica. Essa incorpora già in sé la forma che acquisirebbe dopo un lungo periodo d’utilizzo. Forse più convincente è, però, l’esempio costituito dai jeans scoloriti ed eventualmente anche strappati durante il processo produttivo. Esso testimonia indirettamente dell’importanza che può avere la biografia di un oggetto nel determinarne il significato per la collettività e, quindi, la capacità di ricoprire un ruolo autonomo nella definizione dei fenomeni sociali. Un paio di jeans logori per l’uso che ne è stato fatto non produce, nel mondo sociale di cui entra a far parte, le stesse reazioni prodotte dal medesimo paio di jeans nuovi di fabbrica. I segni biografici che
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l’uso (il “consumo” in senso proprio) lascia impressi sull’oggetto materiale ne modificano la personalità, il più delle volte arricchendola progressivamente nel tempo. Così, l’usanza di acquistare jeans già scoloriti nasce dall’esigenza, o opportunità, di sfruttare a proprio vantaggio la particolare personalità che dei jeans scoloriti esercitano quando compaiono entro un consesso sociale. Gli eventi che costellano l’esistenza di un oggetto lasciano delle impronte su di esso, sul suo sostrato materiale, e queste impronte modificano le caratteristiche percettive dell’oggetto stesso, e quindi la sua presenza sociale. Biografie immateriali Sia attraverso l’azione umana di debrayage, sia attraverso le tracce che gli eventi biografici lasciano impresse su qualsiasi corpo fisico, gli oggetti incorporano materialmente la capacità di produrre effetti sulla società circostante sotto forma di una molteplicità di disposizioni materiali che predispongono gli interlocutori ad agire e interagire con essi in maniere specifiche. Rom Harré (2002) e Bruno Latour (2002) suggeriscono giustamente di impiegare a questo scopo il concetto di affordance (Gibson 1979), che indica la “profferta” che ciascun oggetto fa al proprio interlocutore e che lo “incanala” verso uno spettro più o meno ampio, ma comunque limitato, di modalità d’uso. Le cose materiali si caricano di simili affordances (il pavimento si offre come supporto per camminare, danzare, poggiare i mobili, giammai come contenitore per bere o strumento da suonare) attraverso le quali agiscono nel mondo sociale modificandolo. Impugnare un martello non significa banalmente far svolgere all’oggetto una funzione preordinata, ma comporta un cambiamento nel soggetto che lo impugna, che diviene a sua volta un nuovo soggetto, una persona diversa che agisce in modo diverso, proprio per il fatto di impugnarlo. Il martello non consente, se non in minima parte, di realizzare schemi d’azione predefiniti; esso invece produce nuove possibilità d’azione prima
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inesistenti: basta impugnarlo e “ascoltare” la reazione dei propri muscoli per rendersene conto. Attraverso questa sua profferta, esso agisce sull’umano in una maniera imprevista e non programmabile, al pari di come fanno gli altri umani. Ma vi è una terza dimensione fondamentale della biografia degli oggetti, che va oltre quelle incorporate nella cosa materiale e merita perciò attenzione (sebbene molto sbrigativamente, qui, rispetto alla portata degli argomenti che toccherò). Si pensi a ciò che accade per gli umani. Gli eventi biografici s’imprimono sui nostri corpi modificandoli nel tempo: perdiamo i capelli, si formano delle rughe sulla pelle, muta l’espressione del viso. Queste trasformazioni modificano di volta in volta la nostra presenza sociale nelle situazioni collettive, per esempio inducendo l’altro a cederci il posto a sedere sull’autobus. Tuttavia, esse non sono sufficienti, da sole, per spiegare il particolare status sociale attribuito a un corpo umano (a monte di ogni eventuale interazione comunicativa). Le trasformazioni dell’aspetto materiale del corpo umano non producono conseguenze sociali sempre uguali: in certe società l’anziano è più rispettato, ricercato, desiderato, invidiato del giovane, in altre di meno. Il significato di un certo stato di cose in una società deriva sempre dall’incontro tra quello stato di cose e la tradizione culturale in cui esso s’inserisce. La biografia di un oggetto è dunque scandita, come quella degli umani, non solo dagli eventi che s’imprimono materialmente in esso, ma anche dai significati che gli interlocutori di volta in volta gli attribuiscono, e che non dipendono univocamente dal suo aspetto fisico. Essa è scandita dalle trasformazioni della sua complessione non solo materiale, ma anche immateriale (Lash e Lury 2007, pp. 181-207). E questo è ciò che rende la biografia di un soggetto sociale, umano o non umano che sia, estremamente variabile. Il contenuto immateriale di cui sono portatori gli oggetti nel mondo umano dipende in maniera strutturale dalle condizioni dell’esperienza degli esseri umani, in quanto esseri capaci di significazione. Gli indivi-
dui non fanno mai esperienza di cose, ma sempre di “cose nel come delle loro qualità” – mi si perdoni l’espressione di derivazione husserliana. Il tavolo non è mai soltanto un tavolo per noi, ma sempre anche qualche cosa d’altro, un tavolo nel come del suo darsi: un tavolo di presidenza, un piano d’appoggio, una barriera che ostacola, un punto d’attrazione, la solita cattedra di tutti i giorni, un orribile tavolaccio da buttare, legna da ardere per non morire di freddo. In una battuta: noi non viviamo in un mondo di cose, viviamo in un mondo di significati. Sicché possedere un contenuto immateriale non è una prerogativa di alcune cose rispetto ad altre. Non solo l’opera d’arte, l’oggetto di design, l’abito di moda, il reperto museificato posseggono una dimensione simbolica che si aggiunge a quella materiale. Se gli esseri umani vivono in un mondo di significati, qualsiasi oggetto entra nel loro mondo esperienziale solo sotto forma di significato. Va aggiunto che il significato è sempre, per definizione, significato-per-me, significato individuale. Esso nasce dall’interazione tra l’esperienza attuale di una persona e il deposito delle sue esperienze pregresse, ed è perciò qualcosa di strettamente legato alla sua biografia individuale. I significati possono essere collettivi solo in senso lato, per analogia, e solo nella misura in cui esiste una storia di esperienze comuni (vale a dire simili) che unisce quella certa collettività e rende sotto certi aspetti affini le biografie di chi ne fa parte. Ma se i significati sono per definizione significati individuali, il contenuto immateriale di qualsiasi oggetto d’esperienza finisce per essere a sua volta relativo a colui che ne fa esperienza, è essenzialmente soggettivo. Ciò significa che il contenuto immateriale degli oggetti non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre il prodotto volatile, momentaneo del loro incontro con un umano o dell’incontro e della negoziazione tra più umani intorno a loro. Il significato delle cose varia col variare delle persone che di esse fanno esperienza. La Gioconda che io contemplo nella sala del museo non è la stessa Gioconda
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che sta contemplando il mio vicino. Gli oggetti sono “cose viventi”, soggetti di una biografia individuale, anche nella misura in cui posseggono una dimensione immateriale (un contenuto semantico) che non è mai fissa, definita, stabile, ma fluttua costantemente in relazione al fluire degli “incontri” quotidiani tra l’oggetto e gli umani. Certo, nemmeno il contenuto materiale dell’oggetto è veramente fisso: la tazzina si può sbrecciare, il tessuto si consuma, cambia colore. Ma è un cambiamento incommensurabilmente più lento rispetto alla volatilità del senso, tanto che spesso è proprio alla resistenza e durata della materia che ci si affida per sottrarre determinate costellazioni di senso (una poesia, un brano musicale) alla loro naturale deperibilità (le si trasferisce allora su carta, su nastro, in byte). Conclusioni La considerazione sociologica della biografia degli oggetti è solo all’inizio, allo stadio di un’idea embrionale. Le direzioni di riflessione e d’indagine che quest’idea sembra aprire sono molteplici e dagli sviluppi al momento imprevedibili. Non esiste una trattazione teorica compiuta dell’argomento, se si eccettua forse quella di Latour, che tuttavia, per il suo carattere ardito e paradossale, non riscuote al momento un ampio consenso nella comunità dei sociologi. Né esistono ricerche empiriche volte a dimostrare il reale impatto degli oggetti, e delle vicende biografiche che recano impresse, sulle dinamiche sociali in situazioni reali. Questo ambito di studi è quindi aperto a ogni tentativo di testarne le potenzialità e i limiti, come ben testimoniano i saggi raccolti in questo volume, fino alla sostanziale negazione del carattere dinamico degli oggetti, avanzata da Rigotti. Le stesse osservazioni che ho raccolto in questo contributo introduttivo meriterebbero senz’altro un diverso approfondimento, una discussione più dettagliata, l’allargamento a una serie di questioni laterali senza delle quali rischiano di apparire arbitrarie. Nondi-
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meno, sono spunti di riflessione e discussione che, come tali, potrebbero tornare utili per migliorare la nostra comprensione di una società in cui il consumo di cose materiali ha raggiunto livelli impensabili anche solo un secolo fa, e del tutto inspiegabili con il semplice ricorso alla motivazione dell’appagamento dei bisogni materiali delle persone. Alla base di tali osservazioni c’è, inespressa, una profonda insoddisfazione per le varie versioni della teoria critica della società. Quest’ultima, infatti, non riesce ad apprezzare la funzione sociale delle cose materiali, e interpreta come forma degenerativa del legame sociale quella che ne è una semplice evoluzione. Dietro la bandiera della critica e contestazione del sistema di potere dominante – il sistema della produzione in serie che rende uniforme il mondo degli oggetti, del consumismo apparentemente indotto dalla pubblicità, dell’omologazione delle opinioni prodotta (si dice) dai media, della globalizzazione o mcDonaldizzazione dei consumi occidentali – essa nasconde perlopiù una nostalgia conservatrice verso il mondo antico che sta scomparendo e una percepibile difficoltà di adattamento al nuovo. Ed è perciò espressione, credo, di una forma di rigidità mentale dello studioso. Anziché riconoscere il fondamentale contributo che le cose apportano all’istituzione e alla trasformazione dei legami sociali, essa bolla l’interesse per gli oggetti materiali come una forma di corruzione dell’esistenza umana autentica. L’insoddisfazione per simili posizioni nostalgiche ci deve spingere a guardare con occhio diverso alle pratiche del consumo, e a cercare di comprenderle appropriatamente come delle pratiche sociali, come forme dell’interazione, senza ridurle troppo frettolosamente sotto la categoria della decadenza. Riconoscere il ruolo sociale degli oggetti e la sua radice biografica è una condizione fondamentale per apprezzare, nel senso di comprendere e stimare correttamente, le forme dell’interazione che sono tipiche della società contemporanea e ne costituiscono la struttura portante.
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L’approccio biografico alla cultura materiale L’etnologia, come tutte le scienze sociali, è legata alla cultura materiale e agli oggetti, dal momento che tutti, in ogni società, fanno uso di oggetti nella loro vita quotidiana. In effetti, un antropologo che desideri studiare un gruppo di persone deve studiare la sua cultura materiale, gli oggetti che la gente usa, ammira, definisce, desidera, scambia, dimentica e ritrova, e così via. Nel corso dell’articolo, dopo un rapido accenno alla teoria dell’oggetto in quanto testimonianza (objet témoin), teoria elaborata nell’ambito dei musei etnografici, cercherò di dimostrare come si possa studiare la vita individuale di un oggetto e come io abbia potuto applicare la teoria della biografia degli oggetti alla mia ricerca sul campo. Ciò che qui mi propongo è di suggerire un’opzione metodologica che consenta di superare le categorie ordinarie in cui sono racchiusi gli oggetti – oggetti come prodotti o oggetti come funzioni – e che tenga conto della singolarità degli oggetti nella vita sociale. L’oggetto come testimonianza L’etnologia ha sempre avuto una relazione speciale e ambigua con gli oggetti: speciale, perché gli oggetti sono una parte di conoscenza importante per una
scienza che studia le società umane; ambigua, perché i significati e le funzioni sociali degli oggetti possono implicare svariate interpretazioni. Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX l’etnologia era lo studio di popoli cosiddetti “primitivi” e geograficamente distanti. Come l’archeologo, l’etnografo raccoglieva quindi tutti gli oggetti che considerava significativi del popolo studiato, a prescindere da considerazioni estetiche o dalla loro rarità. A interessarlo erano soprattutto gli oggetti più umili. Si dava priorità agli oggetti comuni – come il barattolo della marmellata di Marcel Mauss (Jamin 2004) – che erano considerati più interessanti di quelli esteticamente belli. Questo approccio dava agli oggetti raccolti uno status di testimonianza (Gabus 1965). Essi diventavano quindi una fonte di conoscenza positivista, esemplari di civiltà che servivano ad attestarne la tecnica, la cultura, l’economia, l’ambiente. L’ovvio punto d’incontro per l’etnologia e gli oggetti era il museo. L’etnologia in Francia – e riguardo alla Francia – faceva affidamento sul museo per svilupparsi, ma gli oggetti non erano più testimonianze di modi di vivere esotici, bensì di una civiltà rurale che stava scomparendo. Gli oggetti erano testimonianze del passato, più esattamente di un certo passato,
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popolare e tradizionale, trasformato dalla modernità e dall’industrializzazione. Negli anni Trenta del Novecento, Georges-Henri Rivière offrì un’anteprima di quelli che sarebbero stati i musei d’arte e tradizioni popolari con il Museo etnografico del Trocadéro (Gorgus 2003). In un periodo in cui l’etnografia era concepita come un’attività di salvataggio, egli volle associare cultura popolare e cultura nazionale alla ricerca scientifica. Dopo la seconda guerra mondiale questo progetto collocò la ricerca etnografica nella cornice dell’approccio museale, finalizzato alla raccolta e all’archiviazione di oggetti come testimonianze materiali di tecniche in via di sparizione. Di fatto, si trattava di uno spostamento dei confini dell’esotico che si basava su una visione arcaica ed estetica degli oggetti e che provocò una frattura tra l’etnologia nei musei e l’antropologia sociale. L’oggetto al di là della sua materialità Dopo gli anni Ottanta la teoria dell’oggetto come testimonianza fu gradualmente messa in discussione, così da lasciar parlare l’oggetto al di là della sua materialità. Questa idea era però già presente nei lavori di Bronislaw Malinowski; scrivendo delle canoe delle Isole del Pacifico, Malinowski (1922, trad. it. 111-112) raccomandava di guardare alla canoa non solo come pezzo di cultura materiale, ma anche per ricercare le caratteristiche immateriali della vita dell’oggetto: «Per il marinaio indigeno, non meno che per quello bianco, l’imbarcazione è circondata da un’atmosfera di leggenda, fatta di tradizioni e di esperienze personali. È un oggetto di culto e di ammirazione, una cosa vivente che possiede una propria individualità». «Vita della canoa», «cosa vivente» e «individualità» dell’oggetto: tali concetti a quel tempo erano molto innovativi per l’etnologia funzionalista. Quelle idee sarebbero riapparse più tardi e avrebbero portato a una critica della concezione strettamente documentaristica dell’oggetto come testimonianza.
Ma negli anni Novanta gli ecomusei e i musei di arti e tradizioni popolari francesi continuavano a essere imbevuti di quella concezione classica. «Arredamento, vasellame, attrezzi e oggetti quotidiani sono testimonianze di vari modi di vivere e di lavorare passati e presenti», diceva un documento pubblicitario nel 1998. È in questo contesto che ho inziato la mia ricerca per l’ecomuseo di Le Creusot-Montceau in Borgogna. Classicamente, i miei lavori si basavano su due temi: come erano fatti questi oggetti? Quali erano le loro funzioni? Dapprima mi sono posto queste domande riguardo ai tipi di ceramiche d’uso comune prodotte industrialmente vicino a Montceau-les-Mines e Le Creusot nel XIX e nel XX secolo (fig. 3). Ma quest’impostazione tradizionale mi ha portato ben presto su nuovi percorsi di ricerca, che andavano ben al di là dei classici confini delle ricerche di un etnologo museale riguardo a un insieme di oggetti. Dovevo raccogliere ceramiche, comprarle, prenderle in prestito, scoprirle o fotografarle. Facevo interviste ai loro proprietari, a ex operai o a dirigenti di fabbriche, a collezionisti di vecchie ceramiche o ad abitanti dei posti in cui erano fabbricate, che avevano utilizzato in passato o che continuavano ancor oggi a usare queste stoviglie, bottiglie, caraffe, boccali o vasi. Le conversazioni mi hanno portato a interrogarmi non solo sugli oggetti come fonte di conoscenza, ma anche sulle relazioni tra le persone e gli oggetti: perché la gente compra oggetti di cui non ha bisogno – oppure oggetti che potrebbero essere sostituiti da altri più moderni? Come avviene l’incontro con un oggetto? Perché si collezionano certi oggetti e non altri? Come inizia la carriera di un collezionista? Perché alcuni si legano a un oggetto piuttosto che a un altro? Di che cosa è fatta la storia di un oggetto, e in che modo il suo proprietario ne racconta la storia? La biografia degli oggetti Mi misi dunque a studiare un gruppo di prodotti industriali e di utensili quotidiani dell’epoca ante-
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cedente al consumo di massa. Studiai anche le relazioni individuali che si venivano a creare tra soggetti e oggetti, illuminanti per capire la complessità della cultura materiale. Ho completato il mio studio sul campo con la lettura delle opere di vari studiosi che formulano una teoria dell’identità singolare delle cose. Per esempio, Annette Weiner avanzava l’idea della «identità esclusiva e cumulativa [di alcuni oggetti preziosi] che avevano avuto una particolare serie di proprietari nel corso del tempo» (Weiner 1992, p. 33). E qui non siamo lontani dalla canoa di Malinowski. Un’idea simile si trovava anche nell’opera di un altro antropologo, che ha lavorato nelle isole del Pacifico, Nicholas Thomas (1991). Nel suo studio su scambio, cultura materiale e colonialismo nel Pacifico, Thomas ha provato che gli oggetti, durante il colonialismo, erano presi in un intrico di varie culture, confermando inoltre la simmetria tra l’appropriazione indigena di oggetti europei e il collezionismo coloniale di beni indigeni. Per Thomas questo è anche un modo di «rompere la dicotomia del “noi/loro”» (Thomas 1991, p. 5). Una delle idee centrali del libro è che «gli oggetti non sono ciò per cui sono stati fatti, ma ciò che sono diventati». Egli vuole, così, combattere «il sistema di classificazione dilagante nella ricerca museologica e nelle ricerche di cultura materiale che fissa l’identità di un oggetto nella sua forma materiale stabilizzata e precostituita» (Thomas 1991, p. 4) e ce ne dà un esempio: le asce di ferro di cui una cultura di cacciatori di teste si è appropriata sono diventate una cosa diversa dalle asce di ferro usate nelle culture di provenienza di questi oggetti, così come le cose poste da Europei e Americani nelle teche dei musei, divenute modelli «di stili pittorici e di disegni di tessuti» (Thomas 1991, p. 5), sono diverse da cose simili usate nelle culture di provenienza. I musei devono tener conto delle storie, delle biografie di questi oggetti: «Una ricontestualizzazione creativa e, in effetti, una ri-creazione può così far seguito a un’appropriazione, avvenuta tramite acquisto o furto;
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e, dato che i musei e le mostre di carattere storico e culturale non sono meno importanti oggi di quanto lo fossero all’epoca delle fiere mondiali, si verifica una sorta di intrico da cui la maggior parte di noi non può sfuggire» (Thomas 1991, p. 5). Gli storici dell’arte studiano già questo tipo di dati sui vari proprietari e sui mutamenti di status delle opere d’arte. Per esempio, la biografia dell’Origine du monde di Gustave Courbet è stata commentata più delle qualità estetiche del dipinto. Anche Walter Benjamin (1936, trad. it. p. 26) ha richiamato l’attenzione su questo mutamento di prospettiva riguardo a uno stesso oggetto: «Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto». Krysztof Pomian ha sviluppato notevolmente questo tema nelle sue numerose opere. Egli ha preso in esame, per esempio, i preziosi vasi appartenuti alla famiglia Medici, facendo «l’inventario dei diversi mutamenti che si sono prodotti non nell’apparenza fisica dei vasi in sé, ma nei loro rapporti con altri oggetti e con gli uomini» (Pomian 2004, trad. it. p. 132). Tali cambiamenti sono di tipo legale o simbolico e coincidono con il succedersi dei loro proprietari. Le categorie degli oggetti In modo più iconoclasta, Jean Bazin ha comparato oggetti etnografici e opere d’arte. Egli ha cercato di immaginare quale scandalo avrebbe potuto suscitare l’esposizione della Gioconda e di un feticcio chiodato proveniente dal Congo (fig. 4) posti l’uno di fronte all’altro nel museo del Louvre. Una cosa del genere avrebbe provocato proteste in nome della “Bellezza” e proteste rispetto alla classificazione dell’oggetto: o l’oggetto non è un’opera d’arte, dal momento che il cartellino dice che si tratta di un feticcio, oppure il cartellino è fuorviante e si tratta di un’opera d’arte, dal momento che è esposta al Louvre. «In entrambi
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i casi il punto di accordo consisterà nel fatto che un oggetto è definito dall’uso che ne facciamo. […] Qual è il “buon uso”, la classificazione legittima? Quella indigena, basata sulle loro credenze, così come sono raccontate dagli etnologi (“questo oggetto serve per respingere gli attacchi degli stregoni”)? O quella degli amanti dell’arte primitiva (“questa è un’opera d’arte proveniente dal Congo”)?» (Bazin 1996, p. 109). Tutte queste considerazioni, anche se riguardanti le opere d’arte, vale a dire oggetti straordinari, nel senso letterale della parola, sono state molto stimolanti per lo studio degli oggetti più ordinari, o addirittura banali, che formano le collezioni degli ecomusei e dei musei delle arti e tradizioni popolari. È chiaro che, in quanto scienza sociale, l’etnologia è una scienza storica, dal momento che si occupa di relazioni, interazioni e pratiche sociali che sono radicate nel tempo e impregnate di passato. Tuttavia, l’etnologia si occupa di azioni contemporanee e l’etnologo osserva ciò che accade qui e ora. Pertanto, considerare gli oggetti materiali da un punto di vista etnologico implica che li si studi nella loro attuale posizione sociale. L’etnologo descrive situazioni attuali, riferisce ciò che i suoi informatori gli raccontano e cerca di estrapolare informazioni rilevanti da queste conversazioni, non solo per stabilire una supposta “realtà” delle cose – per esempio per confermare la funzione cosiddetta “reale” o “autentica” di un oggetto. Ciò vuol dire che è probabile che gli oggetti vengano visti come differenti da ciò che erano quando furono fabbricati e usati (anche se questa posizione originale ha un suo impatto sulla posizione presente dell’oggetto: per esempio, la genesi tecnica degli oggetti di ceramica è spesso ricordata nei discorsi dei loro attuali proprietari). Ben presto mi apparve chiaro un aspetto importante e spesso trascurato delle ceramiche che io studiavo: quegli oggetti sono intrisi di rappresentazioni, discorsi e pratiche che conferiscono loro lo status sociale attuale. Inizialmente prodotti per conservare cibo o sostanze chimiche, questi vasetti, bottiglie, barattoli
sono ora ricercati per le loro qualità estetiche; venduti da antiquari; o esposti nei musei. «Invece di essere venduti in blocco e valutati per la loro funzionalità, essi erano, e sono certamente offerti oggi come pezzi singoli e valutati per il loro interesse estetico» (Knappett 2005, p. 119). Come Thomas, anche noi possiamo dire che questi oggetti sono diventati qualcosa di diverso da ciò per cui erano stati fatti. La funzione degli oggetti Negli ecomusei il valore di testimonianza dell’oggetto è in genere correlato alla sua funzione: una bottiglia è una bottiglia per qualcosa (inchiostro, liquore, acqua minerale, sidro); un vasetto è un vasetto di senape o un vasetto di lucido per scarpe, e così via. Gli oggetti sono strettamente e quasi esclusivamente associati alla loro funzione. Ma se essi sono sicuramente stati concepiti e prodotti per un utilizzo ben preciso, noi dobbiamo tener conto dei loro vari usi attuali per definire le loro identità, nonché della progressiva sedimentazione delle loro funzioni e dei loro status successivi. Sotto questo aspetto, ciò che mi interessava non era tanto l’identità funzionale dell’oggetto, quanto ciò che il suo proprietario mi diceva che ne stava facendo o ne aveva fatto. L’etnologia per classificare un oggetto conservato in un museo si basa in genere su associazioni legate all’identità funzionale, stigmatizzando tutti gli abusi funzionali che hanno trasformato una tinozza per salare il cibo in un vaso per i fiori o una bottiglia d’inchiostro in una base per una lampada. Nel suo saggio sul feticcio chiodato (fig. 4) e la Gioconda, Jean Bazin ha scritto che indicare sul cartellino dell’oggetto africano «Feticcio chiodato» è già una spiegazione etnografica. Un testo strettamente descrittivo direbbe: «composizione lignea con chiodi e altri materiali». Trattando quell’oggetto direttamente come un feticcio, se ne riduce la funzione a quella di strumento magico. Come ciò che noi denominiamo Gioconda è il risultato dell’opera di Leonardo da Vinci su legno di pioppo, ciò
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che noi denominiamo feticcio è il risultato del lavoro di un fabbricante di feticci che ha messo insieme cose eterogenee su una statua di legno «in modo tale da dar vita a una cosa nuova che non può essere sostituita da nessun’altra» (Bazin 1996, p. 110). Applicando questo modello ai manufatti ordinari dei musei delle arti e tradizioni popolari, possiamo citare l’esempio di una caffettiera di gres con una decorazione marezzata che ho avuto modo di vedere durante la mia ricerca sul campo. Io non potevo ridurla alla sua identità funzionale – di caffettiera –, poiché il proprietario mi aveva raccontato questa storia singolare: «Fu realizzata da mio nonno nelle sue ore libere dal lavoro e fu regalata ai miei genitori per il loro matrimonio, ma loro non la usarono mai. Oggi, questo oggetto è posto in una nicchia nella parete della mia sala da pranzo». Un oggetto non è una funzione: è una cosa usata per effettuare certe azioni in certe circostanze. Per esempio, contenere una bevanda alcolica o degli alimenti. Ma questa funzione è solo ciò per cui l’oggetto era stato fatto; e se, generalmente, l’oggetto era in origine usato secondo una data destinazione funzionale iniziale, molti casi nel corso della mia ricerca sul campo mi hanno dimostrato che gli utensili venivano sviati da quella funzione già subito dopo aver lasciato la fabbrica. La funzione non può essere considerata come un destino per l’oggetto. Pertanto, non esistono abusi funzionali degli oggetti: ci sono soltanto pratiche che corrispondono a ciascun momento della biografia dell’oggetto. Su questo punto si può leggere il saggio di Beth Preston, The Functions of Things (2006). Scrive l’autrice: «Per una cosa avere una sola funzione è chiaramente l’eccezione più che la regola» (Preston 2000, p. 30). La molteplicità di funzioni è dinamica, nel senso che le cose perdono o acquistano funzioni costantemente. Questo è ciò che Preston definisce la «labilità delle funzioni della cultura materiale» (Preston 2000, p. 31). Non esiste un qualcosa che si possa definire la funzione di un oggetto. Per di più, le scienze sociali devono studiare tutte le pratiche in cui
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gli oggetti sono usati. «Ogni elemento della cultura materiale con una specifica funzione ha in sé un’intera gamma di capacità e di disposizioni. [...] una cosa con una specifica funzione è un’aggregazione di opportunità per usarla per qualcos’altro» (Preston 2000, p. 44). Queste opportunità sono l’oggetto reale della ricerca etnologica. La teoria di Igor Kopytoff vive Sulla teoria della biografia degli oggetti c’è un libro fondamentale, The Social Life of Things, curato e introdotto da Arjun Appadurai (1986a). Più in particolare, un saggio di questo libro, scritto da Igor Kopytoff, sviluppa il tema della Biografia culturale degli oggetti. L’autore è uno specialista del fenomeno della schiavitù e applica agli oggetti materiali il modello dello status dello schiavo, dimostrando che «la schiavitù non è considerata come uno status fisso e unitario, ma come un processo di trasformazione sociale che comporta un succedersi di fasi e cambiamenti nello status. […] In breve, il processo ha spostato lo schiavo dal semplice status di merce di scambio a quello di singolo individuo che occupa una particolare nicchia sociale e personale. Ma lo schiavo solitamente rimane una merce potenziale: continua ad avere un potenziale valore di scambio, che potrebbe essere realizzato per mezzo della rivendita. […] Questa considerazione biografica della schiavitù come processo suggerisce che la mercificazione di altri oggetti può essere utilmente considerata sotto la stessa luce, cioè come parte della formazione culturale delle biografie» (Kopytoff 1986, trad. it. pp. 78-79). Da un lato, come per lo schiavo, essere una merce non è una condizione definitiva o uno status immanente, ma una situazione transitoria, una fase nella carriera biografica. «Da una prospettiva culturale – scrive Kopytoff – la produzione di merci è altresì un processo culturale e cognitivo: le merci non devono solamente essere prodotte materialmente come oggetti, ma devono anche essere connotate culturalmente come genere specifico di oggetti» (Kopytoff 1986, trad. it. p. 77).
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La biografia di un oggetto è la storia delle sue varie singolarizzazioni, di classificazioni e riclassificazioni in varie categorie «la cui importanza muta a ogni minimo cambiamento del contesto» (Kopytoff 1986, trad. it. p. 109). Inoltre, le categorie di un museo sono soltanto categorie fra molte altre, e non necessariamente le più importanti. È l’intera biografia di un oggetto, e quindi tutte queste categorie e tutti questi valori, che l’etnologo deve studiare, anche se l’approccio biografico è soltanto un modello intellettuale, non una forma di animismo. Come scrisse Appadurai (1986b, trad. it. p. 5), noi possiamo definire questo approccio “feticismo metodologico”: «anche se da un punto di vista teorico gli attori umani codificano gli oggetti con significati, da quello metodologico gli oggetti in movimento danno senso ai loro contesti umani e sociali. Nessuna analisi sociale degli oggetti (che l’analista sia un economista, uno storico dell’arte o un antropologo) può evitare un livello minimo di ciò che potrebbe essere chiamato feticismo metodologico. Tale feticismo, rivolgendo la nostra attenzione agli oggetti stessi, è in parte un correttivo alla tendenza a socializzare eccessivamente le loro transazioni». Questa teoria era pienamente adeguata agli oggetti di gres che io studiavo (fig. 3). Una bottiglia fabbricata nel XIX secolo per contenere liquori non può essere ridotta all’identità esclusiva di “bottiglia per liquore” se noi la ritroviamo con dentro un fiore sulla mensola di un caminetto in una moderna sala da pranzo; o esposta in una collezione privata dopo essere stata acquistata in un mercatino dell’usato; oppure a illustrazione della storia di un’industria locale, nella vetrinetta di un museo. La biografia di questa bottiglia può contenere tutte queste possibilità, e tutte quante sono importanti per capire la complessità di relazione tra persone e oggetti. Potrei citare un altro esempio: la biografia di una bottiglia di ceramica per il sidro. Ho seguito l’itinerario di questa bottiglia (Bonnot 2002a) dal luogo in cui era stata prodotta (una fabbrica a Palinges, un
villaggio della Saône-et-Loire), attraverso la sua commercializzazione, la scoperta da parte di un archeologo, fino alla sua attuale collocazione in un municipio della Bassa Normandia. Questa biografia metteva in luce i suoi successivi status sociali e simbolici. A prescindere dalle lezioni storiche che se ne potevano trarre, una biografia di tal genere sollevava importanti questioni riguardo alla creazione di un patrimonio culturale locale. Chi era autorizzato a conservare ed esporre quell’oggetto? Colui che lo aveva scoperto (un archeologo della Normadia), oppure il museo di Palinges, il villaggio in cui era stata fabbricata la bottiglia? Che cosa avrebbe scritto il museo sul cartellino: la destinazione funzionale iniziale (bottiglia per il sidro) o l’uso effettivo al tempo della sua scoperta (elemento riempitivo parietale o, come supponeva l’archeologo, vaso acustico)? Da questo punto di vista, l’identità di un oggetto è composta sia dal suo specifico itinerario, sia dalle sue posizioni successive nel sistema delle rappresentazioni collettive. Ho raccolto molte biografie di tabacchiere, boccette d’inchiostro, ceramiche di vario tipo (Bonnot 2002b). Tutte storie che i musei tendono a perdere in un approccio universalizzante. Ho cercato di prendere sul serio queste storie, come temi di riflessione antropologica sulla cultura materiale e sulla vita sociale, e di approfondire al meglio in che modo si crei il patrimonio culturale. Per un collezionista – che spesso lavora e scambia conoscenze o oggetti con i musei – il valore di un oggetto consiste tanto nelle conoscenze conseguite durante le sue ricerche – datazione, tecniche di produzione, funzione originale – quanto nell’aspetto estetico dell’oggetto lucidato e messo in bella mostra, o nelle specifiche circostanze della sua acquisizione. Tali elementi servono ad arricchire notevolmente i significati che si possono dare agli oggetti collezionati. Nel corso di un’altra ricerca (Bonnot 2006) ho studiato modelli di locomotive a vapore. Nel 2002 l’ecomuseo di Le Creusot-Montceau acquistò un’importante collezione, composta da tre modelli di locomotive a
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vapore in scala 1/14 (vale a dire macchine di circa due metri di lunghezza che pesavano più di cento chili), opera di Lucien Mothu, un novantenne morto ad aprile del 2000 (fig. 5). Fabbricarli aveva richiesto migliaia di ore di lavoro ed essi rivelavano la passione del loro creatore per la realizzazione meticolosa di un vero e proprio “gioiello tecnico”. I parenti del defunto erano convinti del suo genio tecnico e creativo ed erano profondamente legati alla sua memoria e alla sua passione per queste macchine. La biografia di questi oggetti, totalmente legati al loro creatore e alla sua famiglia e indelebilmente segnati dalla divorante passione di Lucien Mothu, può consentirci di comprendere che cosa aveva spinto i donatori a regalarli e in che modo il museo avesse creato la legittimazione necessaria a includere un lascito familiare nel proprio patrimonio culturale. In che modo si legittimava il passaggio di questi oggetti a uno spazio pubblico, dal momento che essi erano così intrisi della storia di un uomo e della sua famiglia? Perché scegliere un museo territoriale nell’area di Le Creusot e Montceau-les-Mines, considerando che il costruttore di questi modelli viveva a Le Havre e aveva iniziato a realizzare i suoi trenini in Algeria negli anni Trenta? Perché gli eredi avevano deciso di separarsi dalle opere del defunto e perché avevano fatto una donazione? La descrizione delle fasi successive del processo di donazione ci permette di capire che cosa accade attorno agli oggetti e anche che cosa accade per gli oggetti, poiché la donazione di un oggetto o di un’intera serie di oggetti va al di là della pura e semplice firma di un accordo. Di fatto è un’interazione composta da varie fasi nel corso del tempo e implica scambi, colloqui, pratiche tecniche, trattative di vario genere, che permettono il passaggio di un oggetto dalla sfera individuale a una collezione pubblica. Nel corso delle mie ricerche ho anche dovuto prendere in considerazione gli effetti prodotti dal museo sull’atteggiamento degli abitanti locali e sul loro punto di vista riguardo a quegli oggetti. Chiunque essi fossero (conoscitori di oggetti, esperti di ceramiche,
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ex operai di fabbrica o proprietari di maioliche acquisite dal museo) tutti gli informatori integravano perfettamente il classico discorso museologico sul patrimonio culturale collettivo. Per loro, questo lavoro di presa in considerazione costituiva un modo di appropriarsi degli oggetti e una parte importante nella biografia degli oggetti stessi. Questo lavoro di riflessione sul museo mi permetteva di decostruire le categorie di cui ho parlato precedentemente, per esempio la categoria di “bell’oggetto” o la categoria di “funzionale”: non esistono oggetti funzionali senza qualità estetiche e alcuni oggetti con “funzioni estetiche” possono avere in certi contesti una funzione pratica. Anche la categoria dell’“oggetto del patrimonio artistico e culturale” (objet de patrimoine) può essere considerata nella stessa prospettiva: non esiste un processo di patrimonializzazione (processo di creazione di un patrimonio) lineare e inevitabile, perché ci sono sempre fallimenti, oscillazioni e deviazioni nell’itinerario di un oggetto. L’unico modo per comprendere queste derive è la descrizione di situazioni concrete. Conclusione In una prospettiva sociologica, gli oggetti, e in particolare gli oggetti della vita quotidiana, sono considerati come mezzi, o strumenti d’indagine, che danno accesso alle relazioni sociali. Per esempio, alcuni antropologi riducono gli oggetti a «protesi delle condotte motrici» (Warnier 1999, trad. it. p. 18). Considerando le cose in sé e non solo chi le usa, possiamo vedere la ricchezza del loro status sociale e comprendere in modo più completo che cosa avvenga tra individui e oggetti. Questa è la mia interpretazione del “feticismo metodologico” di Appadurai: il legame soggetto/oggetto dipende sicuramente dallo status sociale e occupazionale del soggetto, ma anche dalla storia e dallo status dell’oggetto, anche se quest’ultimo è fatto da soggetti umani. Tale costruzione è mutua e reciproca. Come hanno scritto Antoine Hennion e Bruno Latour
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(1993, p. 22): «Gli oggetti fanno qualcosa e, innanzitutto, fanno noi stessi». L’oggetto non è soltanto un mediatore che incorpora materia sociale, ma un vero e proprio agente nelle relazioni sociali. Ciò appare chiarissimo nello studio del dono. Gli oggetti hanno un loro proprio potere, una carica sociale che non li limita allo status di mediatori. Capire questa potenzialità – che spiega il fatto che ci leghiamo a un oggetto – ci mostra in che modo una cosa possa diventare qualcos’altro in altre situazioni. Ciascun curatore di museo che incontri regolarmente donatori di oggetti conosce bene tutte queste storie singolari, con cui i proprietari portano i loro oggetti al di là delle rappresentazioni collettive. L’approccio biografico prende sul serio queste storie, come parte importante della realtà degli oggetti e della loro classificazione. I legami individuali tra soggetti e oggetti creano la costruzione microsociologica del patrimonio culturale collettivo. Intuitivamente, ogni antropologo che conduca una ricerca sul campo sa perfettamente che ciascun oggetto, anche il più disprezzato, il più comune, il più informe, può avere significato per una o più persone. E sa inoltre che esso può avere una storia ricca di sviluppi ed essere carico di valori diversi e polisemici. Tutti sanno che le categorie, essenziali per i sistemi di classificazione adattati dai musei, sono sempre imperfette perché troppo restrittive. Tutti sanno che gli oggetti trascendono queste categorie, che il loro significato muta a seconda dei differenti contesti e che talvolta anche il loro nome cambia quando cambia il loro uso. Come potremmo correlare questi mutamenti senza riferirci al loro itinerario, e quindi alle loro biografie individuali? Considerare l’oggetto come una testimonianza può imporre un contesto rigido, laddove la biografia degli
oggetti apre a una molteplicità di contesti successivi, ristabilendo in tal modo la polisemia dell’oggetto, nella sua piena storicità e non in una storia selettiva – come per esempio quella che dice che tali oggetti furono usati solo per tali azioni, in tale periodo, in tale area e in tali circostanze. Ci sono due condizioni correlate, necessarie per applicare il metodo biografico allo studio degli oggetti materiali: l’oggetto studiato deve avere una storia individuale, l’oggetto studiato deve essere passato attraverso evoluzioni e trasformazioni di status. Pertanto, in qualche momento della sua carriera, deve essere stato oggetto di affetto da parte di un individuo o di un gruppo, per ragioni che sono al contempo individuali e collettive. Se c’è un legame affettivo, l’oggetto può diventare un’altra cosa. O, per meglio dire, se un oggetto diventa qualcos’altro è perché c’è un legame affettivo. La biografia degli oggetti non è un fine in sé, ma un modello intellettuale aperto a un’opzione metodologica per superare le categorie ordinarie imposte dal linguaggio e dalle norme culturali. Questo approccio evidenzia la porosità di tali categorie e la natura transitoria dello status sociale degli oggetti. Come ha scritto Alban Bensa (2006, p. 156): «Nessun oggetto ha uno status definitivo. Nessuno può decretare che esso ricada nella categoria del documento etnografico o in quella dell’arte contemporanea. La vita dell’oggetto sfugge ai suoi produttori come ai suoi compratori, ai guerrieri della Papuasia come ai proprietari delle gallerie, agli etnologi come agli organizzatori di mostre». L’etnologia nei musei non deve studiare gli oggetti solo come utensili, prodotti o opere d’arte, ma deve esaminarli nel contesto della società e nella loro evoluzione.
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La decosificazione del mondo Introduzione Sotto questo titolo un po’ misterioso si cela un percorso filosofico prevalentemente teorico, che cercherà di cogliere la specificità dell’oggetto – ciò di cui dovremmo tracciare biografie – individuando le sue differenze con la cosa e con la persona. Il percorso sfiorerà poi il tema della biografia non tanto degli oggetti quanto dell’interesse per gli oggetti nel pensiero contemporaneo, individuandone la causa nella scomparsa degli oggetti nel mondo digitalizzato – nulla quindi di particolarmente nuovo – che allo stesso tempo si accompagna a una ricerca affannosa dell’identità, della struttura e dell’essenza degli oggetti stessi, come se, di fronte alle continue trasformazioni proposte e imposte dalla modernità, avessimo bisogno non soltanto dell’oggetto ma forse ancor di più, a mio avviso, del concetto di oggetto, di quella “invarianza essenziale” che ci dice quando e come un oggetto è quell’oggetto, come e quando una sedia è una sedia. Una precisazione conclusiva. Cosificazione non ha nulla a che fare con reificazione, termine che traduce la Verdinglichung di Gyorgy Lukács, introdotta dal pensatore marxista nella famosa raccolta di saggi pubblicata nel 1923 col titolo Storia e coscienza di classe mettendo temerariamente insieme motivi tratti dalle opere di Karl Marx, Max Weber e Georg Simmel. Con “reificazione” si è tradotta in italiano la “Verdinglichung”, dove il termine Ding
è reso in italiano col vocabolo che contiene la res (ma come presto vedremo, non è Ding che traduce res, è Sache). Nella filosofia di Marx la Verdinglichung è l’alienazione dell’uomo quando questi finisce per diventare lo strumento passivo dei beni da lui stesso prodotti. Nell’elaborazione di Lukács reificazione significa il processo cognitivo nel quale l’uomo viene visto e trattato come “cosa”, in particolare, nel capitalismo, come cosa-merce per eccellenza. La mia cosificazione invece potrebbe corrispondere alla Dingwerdung di Rainer Maria Rilke o alla Dinglichkeit di Martin Heidegger. È quella la direzione in cui vado. Oggetti, cose, persone Benché oggi usiamo i termini cosa e oggetto come sinonimi, provocando un appiattimento del pensiero simile a quello causato dall’uso sinonimico di sapere e conoscere, oggetto non significa cosa, né viceversa. Cosa è qualsiasi entità concreta e astratta, è la res latina, il πραγµα greco, la Sache tedesca; è, per parlare il linguaggio della scolastica, la res che equivale a ens, l’essere in quanto tale. L’insieme delle res o realitas equivale all’entitas, è ciò che si contrappone al nulla, anzi che contiene sempre più realtà man mano che dal nulla si allontana (di Vona 1960, pp. 193 e 205).
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È questo che ci interessa conoscere e sapere, è la cosa che ci sta a cuore, che riteniamo importante perché è, come dice l’etimologia latina del termine, causa (cfr. in tedesco Sache e Ursache). Oggetto è invece la cosa concreta, fisica, materiale, ciò che si para davanti al soggetto, che fa opposizione, che è sperrig, ingombrante, come dice Bill Brown in Thing Theory (2001) riprendendo un termine heideggeriano (cfr. anche Tischleder 2007). L’oggetto può essere pensato nel contesto quotidiano del suo impiego; esso si pone in una chiara distanza dal soggetto, è differenziato, oggettivo, possiede dei contorni, è immerso in un contesto di senso e di uso umani. L’oggetto, scrive ancora Brown, è una finestra attraverso la quale si osserva il mondo per sapere che cosa ha da dirci sulla società, la storia e la cultura nella quale è inserito. È quello l’oggetto che ci interessa qui, se ben capisco. L’oggetto che nella terminologia di Heidegger non è né Sache né Ding bensì Zeug, quasi attrezzo in senso lato, l’oggetto visto nella sua usabilità, gli oggetti brocca, scarpe, ponticello, che però ritornano a esser cosa e cose, sostiene Brown, quando si rompono, si logorano, vanno fuori uso1. L’oggetto sembrerebbe dunque essere la cosa dopo che ha acquistato un’anima e una funzione, e soprattutto dopo che ha ricevuto un nome che lo consacra a quel punto come catalogabile, categorizzabile, comunicabile. Che cosa succede però alla fine dell’opera di “restauro concettuale” appena compiuta (Bodei 2004)? Che alla prima enunciazione linguistica la distinzione tra cosa e oggetto si sgretola e i due termini tornano a fondersi come due palline di mercurio che s’incontrano. A distinguersi e a differenziarsi dalla persona, che è l’operazione che volevo compiere dopo quella della distinzione tra oggetto e cosa, è quindi di nuovo un mix di cosa e oggetto. Secondo Igor Kopytoff (1986, trad. it. p. 102) la cultura occidentale tende da sempre a separare concettualmente persone da cose, riservando alle prime il destino di individualizzazione e
secolarizzazione e alle seconde quello di mercificazione e di scambio (dire che tutte le persone siano contemporaneamente individui è, propriamente parlando, scorretto, dal momento che le donne, che nella gravidanza si “dividono”, individui non sono). Mi permetto di avanzare due critiche alla posizione di questo autore. La prima riguarda il fatto che, a detta di Kopytoff – che non prende in particolare considerazione la letteratura sulla reificazione2 –, la negazione a esseri umani dello statuto di persona e la riduzione a quello di cosa avviene nel fenomeno della schiavitù, senza rendersi conto di un fenomeno di negazione molto più esteso che è quello nei confronti delle donne, alle quali come è noto furono, e in alcuni contesti ancora sono, negati lo statuto e i diritti di persone. La seconda critica osserva che la separazione tra persone e cose, che a detta di Kopytoff preme fin dai suoi inizi nella “cultura occidentale”, sembra invece molto tardiva, se Dante poteva parlare di Beatrice come di «cosa, venuta di cielo in terra a miracol mostrare» (forse il poeta scriveva cosa per causa, nel senso di causa efficiente, come dicono i commentari, forse no, perché Beatrice era una donna, della quale anche oggi in tedesco3 si dice das Dingchen, e che in ogni caso quando è piccola riceve il suffisso del neutro tipico delle cose: das Fräulein, das Mädchen). Soprattutto però c’è molto di res nella persona ancora nel Seicento, se res può essere sia res extensa, cioè mondo dell’oggetto esterno al pensiero, sia res cogitans, cioè mondo del soggetto, e se Baruch Spinoza, René Descartes e John Locke potevano parlare dell’essere umano come res (Bostrenghi 2003). E ce n’è anche in Leopardi, dove «cosa arcana e stupenda» è la vita umana, vista dal coro dei morti nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (1824, ora 1988, p. 134)4. La distinzione non è dunque così antica e nemmeno forse del tutto affermata, se siamo tra l’altro ancora lì a chiederci a quale settimana il feto cessi d’essere cosa e diventi persona. Se dunque nemmeno la distinzione tra persona e oggetto/cosa è chiaramente appurata,
1 «Siamo messi al cospetto con l’esser cosa degli oggetti quando essi smettono di lavorare per noi: quando il trapano si rompe, quando l’automobile si ferma, quando la finestra è sporca» (Brown 2001, p. 4). 2 Tra cui segnalo il recente volume di Axel Honneth (2005).
3 Nel cui linguaggio giuridico, ispirato al diritto romano, ancor oggi gli animali sono “Sachen”. 4 Cfr. Emanuele Severino (1997, p. 22) che sottolinea come per Leopardi la cosa sia «l’essere in quanto essere» e che la totalità dell’esistente sia «costituito da cose che sporgono provvisoriamente dal nulla».
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figurarsi quella tra oggetto e cosa, i quali continuano a sovrapporsi in un unico concetto col quale siamo costretti bene o male a convivere. Sembra quasi che da quella indistinzione primigenia in cui tutto è cosa, le persone, gli oggetti, le cose fatichino a uscire e a darsi contorni precisi e univoci. L’interesse per gli oggetti/cose Ma veniamo alla seconda parte, alla quale questa lunga premessa era indispensabile per poter parlare della storia dell’interesse per gli oggetti/cose infilandomi, consapevolmente consenziente, nella trappola linguistica della sovrapposizione dei due termini. L’interesse per gli oggetti si focalizzerebbe in due momenti del secolo scorso, ovvero gli anni Venti e gli anni Novanta del Novecento (Brown 1996). Negli anni Venti la cosa emerge come tema di impegno teoretico profondo nelle opere di Edmund Husserl, Georg Simmel, Ernst Bloch, Walter Benjamin. È vero, ma questo succede dopo almeno un ventennio nel quale cose e oggetti erano stati rivisitati da Ralph Waldo Emerson e da William James, nonché dopo un decennio nel quale una analoga rivisitazione era stata compiuta da Ezra Pound, Marcel Duchamp, Wallace Stevens, Gertrude Stein. Negli anni Novanta del Novecento l’ondata di studi sulle cose, determinata secondo Andrea Semprini (1999, p. 18) dalla diffusione del pragmatismo e del pensiero antropologico nonché dall’interesse per la vita quotidiana e la cultura materiale, registrava una seconda ondata di vitalità, con titoli come The Social Life of Things (Appadurai, a c. di, 1986), History from Things (Lubar e Kingery, a c. di, 1993), The Sex of Things (de Grazia e Furlough, a c. di, 1996); Material Culture: Why Some Things Matter (Miller, a c. di, 1998) (cfr. Brown 2003, p. 7) o, in Italia, col bel testo a cura di Andrea Borsari, L’esperienza delle cose (Borsari, a c. di, 1992). Ma se davvero la moda delle cose si concentra in quei
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due periodi, come la mettiamo con l’attenzione per le cose, anzi col partito preso a favore delle cose di Francis Ponge a partire dagli anni Quaranta, con la brocca di Martin Heidegger dello stesso periodo, la brocca e le tracce di Ernst Bloch degli anni Cinquanta, le questioni sulle cose di Michel Foucault degli anni Settanta, i giochi di Jacques Derrida con le cose di Ponge degli anni Ottanta, gli schizzi fenomenologici su Dinge und Undinge di Vilèm Flusser (1993) e, dello stesso periodo, gli interrogativi di Jean Baudrillard e Cornelius Castoriadis sulla relazione soggetto-oggetto? Nonché, l’elenco continua, con gli studi sulle cose di Emerson di Stanley Cavell degli anni Novanta, la Thing Theory di Brown (2001), le Things That Talk a cura di Lorraine Daston (a c. di, 2004), sino, si parva licet, ai testi miei La filosofia delle piccole cose (Rigotti 2004) e Il pensiero delle cose (Rigotti 2007) e di Maurizio Ferraris (2005), per citare solamente gli studi a carattere filosofico? Questo per dire che la concentrazione in due blocchi unitari – anni Venti, anni Novanta – rendeva semplice la spiegazione: l’ondata d’interesse sorta intorno al primo dopoguerra costituiva la risposta alla modifica della percezione delle cose data dal cinema; quella degli anni Novanta rispondeva a sua volta alla digitazione del mondo causata dai nuovi media. In entrambi i periodi si assisteva alla perdita delle cose e degli oggetti nella loro unicità e singolarità materica cui si reagiva, come la nottola di Minerva, con un intensificato interesse teorico per ciò che si percepiva sfuggire dalle mani. La risposta diventa però più difficile se si considera l’estensione dell’interesse durante l’intero secolo, e oltre, all’indietro fino agli ultimi decenni dell’Ottocento e in avanti fino a oggi. Può bastare la spiegazione di Flusser, secondo il quale la modernità rifugge sempre di più dalle cose alle loro relazioni, verso la mediazione dunque, verso ciò che sta in mezzo (Bozzi 2007, p. 154)? Si parla dunque di processi di decosificazione e di smaterializzazione della realtà, soprattutto nelle
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derive apocalittiche del pensiero tedesco (penso a Günther Anders e ancora a Vilém Flusser), che riflettono sul fatto che l’accrescimento continuo del progresso tecnico-scientifico segue «una logica d’inarrestabile astrazione dal materiale». La tecnologia – asseriscono nelle loro analisi – determina sempre più «la quotidianità dell’uomo e modifica il suo rapporto col mondo e i suoi oggetti e cose [...]. Tra l’uomo e il mondo si frappongono sempre più apparati che rendono la realtà mediatizzata, mentre la realtà immediata come materia, materialità e resistenza diventa sempre più inesperibile» (Bozzi 2007, p. 147). Il processo di smaterializzazione e decosificazione del mondo potrebbe dunque aver avuto inizio con la fotografia ed essere continuato attraverso le varie tappe del cinema, della radio, della televisione, fino agli odierni mezzi, il computer e le sue varianti, che hanno sostituito alla percezione primaria della realtà attraverso tutti i sensi una percezione «secondaria e terziaria di segni, immagini e codici che perde sempre di più il rapporto referenziale con una realtà di partenza o di rimando» (Bozzi 2007, p. 154), fino all’ipertrofia della moderna produzione iconica. È la nostra storia e la nostra vita, questa, e la conosciamo – o almeno crediamo di conoscerla. Oggetto e concetto Ma se le cose stanno davvero così (e siamo giunti al terzo punto di questa relazione divisa in partes tres, come la Gallia di Cesare), come e perché non soltanto le cose/oggetti continuano a esistere, anzi a inondarci in quantità oceaniche, ma soprattutto avvertiamo l’impellente bisogno di capire che cosa sono? Perché desideriamo che ce ne venga restituito il significato? Perché vogliamo afferrarne il concetto specifico, che è un atteggiamento diverso dell’interesse generale per cose e oggetti di cui ho trattato nel punto secondo? 5 Cit. da Willard (1965, p. 312).
Spesso la filosofia ha guardato all’arte come modello di restituzione di significato, facendo appello alle cose/oggetti delle nature morte del Seicento olandese o alle tovaglie e alle mele di Paul Cézanne. Un’altra forma d’arte non figurativa, la poesia, ha però anch’essa riempito di significato le cose: sarebbe il caso che la lettura filosofica si aprisse maggiormente al suo contributo, se vogliamo strappare gli oggetti al loro aspetto di utilità e restituir loro valore simbolico. Non solamente le mele di Cézanne sono state in grado di operare la resurrezione delle cose, bensì anche i fichi di Ponge, i suoi gamberetti e il suo sapone; e anche il ditale di Rilke, o il blackbird (il merlo) guardato in tredici modi di Stevens (cfr. Willard 1965). Basta considerare le poesie opere d’arte fatte non con tela e colori bensì con parole che, come scrive Ponge (1961, p. 277), «somigliano a mele e hanno altrettanta realtà di una mela» (o di un fico, potremmo dire). I poeti delle cose – cui si potrebbero aggiungere Pablo Neruda e Gertrude Stein – desiderano una riconciliazione dell’uomo col mondo delle cose che passa attraverso la distruzione dei modi stereotipi di pensarle; per i poeti dedicati alla Dinglichkeit, alla cosità, la funzione dell’arte è di rivelare le cose per quello che realmente sono pensandole in maniera nuova e fresca al di là dell’uso convenzionale: «È molto utile, in certe ore del giorno o della notte, osservare profondamente gli oggetti in riposo», scrive Neruda (1956, p. 1193). «Da essi si sprigiona il contatto tra l’uomo e la terra come una lezione per il tormentato Poeta lirico […]. Così sia la poesia che cerchiamo»5. La mia impressione è dunque che l’arte risponda vivacemente alla sottrazione degli oggetti, alla decosificazione, alla mediatizzazione e smaterializzazione della società. La poesia delle cose (il Dinggedicht, la Dingwerdung di Rilke), come la pittura delle cose, oppone in qualche modo resistenza alla tendenza del reale a dissolversi nella riproduzione delle sue immagini, soprattutto oggi che un evento o una cosa paiono esi-
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stere soltanto se fotografati e riprodotti sullo schermo del computer.6 Vorrei concludere abbozzando l’idea che la nuova riflessione sugli oggetti/cose/fatti fisici, e anche la branca che si dedica agli oggetti e ai fatti sociali di cui parla Ferraris (2005), facciano parte della stessa ricerca delle cose e dello stesso tentativo di trattenere cose, fatti e oggetti presso di noi, all’interno del nostro mondo rifiutandone, quasi inconsciamente, la decosificazione. L’arte viene dunque a condividere con la vecchia disciplina filosofica dell’ontologia e la sua nuova stagione, la ricerca del concetto dell’oggetto. Il problema è sempre lo stesso, peraltro, nella venerabile metafisica e nella nuova ontologia nata, dopo la morte della metafisica, dall’esigenza dell’informatica di individuare invarianti attraverso un processo di selezione dell’essenziale da una gran massa di dati per poter catalogare e categorizzare i dati stessi: sta nell’individuazione del quid est (τι εστιν) della cosa o dell’evento, il quid che fa sì, dicevo, che una sedia sia una sedia e non uno sgabello, una panca o un inginocchiatoio, e che io possa vedere un oggetto, riconoscerne l’identità e dire: “sedia”. Lo stesso vale per gli oggetti e i fatti, dove al posto di sedie, letti e tavoli avremo lo stato, la giustizia, il denaro, il credito, il matrimonio, il testamento ecc. La rinascita dell’ontologia ricadrebbe dunque nel tentativo, questa volta accademico, di acchiappare le cose, di preservarle dalla scomparsa dall’orizzonte in cui la realtà è diventata uno schermo e un network (Brown 1998). Vogliamo conoscere le cose come “veramente” sono, pare, come forma permanente di quella specie e non come cosa particolare, avrebbe detto Schopenhauer (1818, trad. it. p. 38). E qui facciamo un tuffo nella metafisica classica: per l’ontologia platonica il vero essere era, come è noto, il mondo delle idee. Nel libro X della Repubblica [595c597e] si trova uno dei luoghi classici di questa concezione, illustrata con oggetti. Dapprima letti e tavoli, e poi il solo letto. Socrate individua tre tipi di letto. Il 6 Per la storia del Dinggedicht (poesia di cose) come genere cfr. Kurt Oppert (1926). 7 Come ha intuito nel corso di una nostra conversazione privata l’amico artista Aldo Lanzini, che qui ringrazio.
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primo è la forma naturale del letto, il letto «creato da un dio», l’idea di letto; il secondo è il letto fabbricato dal falegname, «un letto particolare tra gli innumerevoli che si possono costruire». L’ultimo è il letto riprodotto dal pittore imitando il letto del falegname. Mentre il primo letto, quello creato dal dio, equivale all’essenza unica e perfetta di ogni letto passato, presente e futuro perché corrisponde alla “lettità” (Bettigkeit) del letto, il letto del falegname si discosta di un grado da quella e il letto del pittore di ben due gradi. Questa concezione serve a Platone per condannare la pittura nel suo allontanarsi di ben due gradi dalla realtà e dal vero essere di ciò che è letto, cioè la specie immutabile del letto ideale. Se ora guardiamo la pittura del Novecento, sia l’arte astratta sia l’arte concettuale, non sono anch’esse ossessionate dal rapporto col concetto, dal desiderio di afferrare il quid della cosa/oggetto, come nel caso dell’ειδοσ platonico, dell’idea hegeliana e della nozione neurologica di costanza degli elementi di Semir Zeki, pioniere della neuroestetica (Pinotto 2007; Zeki 1999, cap. V)? Se poi le cose siano così perché al cervello interessano de facto solamente le proprietà costanti, immutabili e permanenti degli oggetti in quanto gli consentono di ordinare gli oggetti per categorie, non lo so, e neanche il mio neurofisiologo di fiducia conosce la risposta perché così poco si sa del funzionamento del cervello. Vediamo ora il principio applicato non al letto di Platone ma alla sedia, nell’interpretazione di Joseph Kosuth, artista dedito alla ricerca di un’arte fondata sul pensiero e non più sul puro piacere estetico. Nel 1965 Kosuth realizzò l’opera (fig. 6) Una e tre sedie che comprendeva la definizione di sedia ritagliata da un dizionario, una vera sedia, e la sua riproduzione fotografica. Che cosa fa qui Kosuth se non mettere in pittura l’ontologia platonica7, coi suoi tre livelli o gradi, per individuare il concetto di sedia, l’ειδοσ, l’idea, in
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ogni caso la sua invariante essenziale, quella che fa sì che una sedia sia una sedia e un letto un letto? Ma questa appassionata ricerca non potrebbe rientrare – questa è la mia tesi che butto lì alla fine di un complesso percorso riflessivo sugli oggetti – nello sforzo di preservare le cose, ognuno con le sue capacità (come direbbe Marx che, buttato fuori dalla porta, rientra dalla finestra) – i pittori con la pittura, i poeti con la poesia, gli ontologi con l’ontologia –, dalla loro scomparsa nello schermo e nella rete e dalla loro perdita d’identità tramite la fusione degli oggetti in un oggetto unico, come il telefonino di cui parla Ferraris o la chiave, che già in molti luoghi è una
tessera magnetica con la quale apriamo, sì, la porta, ma abbiamo anche accesso al parcheggio, alla fotocopiatrice, alla biblioteca? È un’operazione nostalgica, come quella di pensare agli animali, alla loro tutela e diritti, in un’epoca in cui gli animali sono scomparsi dalla nostra vita? Può essere, come potrebbe essere, che siamo qui di fronte alla retorica un po’ patetica della postmodernità alle prese col sintomo per cui nella società post-industriale gli oggetti/cose non sono più primari e la loro sostanza, esattamente quello che cerchiamo, è stata soppiantata dal segno, dal simulacro senza originale? Siamo qui – credo – anche per chiederci questo.
francesca rigotti
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maurizio ferraris
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Mundaneum Come Michel Foucault ha introdotto Sorvegliare e punire rendendo celebre l’immagine del Panopticon, nel mio piccolo vorrei illustrare la mia ontologia con un altro oggetto mirabolante che, diversamente dal Panopticon, è stato realizzato. Nel 1895 due giuristi belgi decisero di mettere insieme lo scibile universale e di classificarlo con un sistema che chiamarono Classificazione Universale Decimale, quella che tutt’ora si adopera nelle biblioteche e che in effetti è un potenziamento della Classificazione Dewey. I due non si chiamavano Bouvard e Pécuchet, ma Paul Otlet, figlio di un grande industriale, e Henri-Marie La Fontaine, premio Nobel per la pace 1913. Ne venne fuori il Mundaneum1, un gigantesco archivio che contenne, alla fine, dodici milioni di documenti. Così lo descriveva, nel 1914, un dépliant in inglese: «Il centro internazionale organizza collezioni di importanza mondiale: il Museo internazionale, la Biblioteca internazionale, il Catalogo bibliografico internazionale, e gli Archivi documentali internazionali. Queste collezioni sono concepite come parti di un corpus universale di documentazione, come una rassegna enciclopedica della conoscenza umana, come un enorme magazzino intellettuale di libri, documenti, cataloghi e oggetti scientifici. […] Queste collezioni tenderanno progressivamente a costituire una rappresentazione completa e permanente del mondo intero». In fondo, lo immaginavamo da sempre, e Jorge Luis Borges (1941) lo ha immaginato meglio di tutti: «L’universo (che altri
chiamano la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile». Otlet, che sognava il giorno in cui tutti avrebbero potuto accedere a questo immane archivio standosene comodamente a casa, è per alcuni il vero inventore del web, sebbene in una versione cartacea, e autore, nel 1934, di un Traité de Documentation2, che è considerato il suo testamento filosofico. La sua creatura, originariamente ospitata nel Palais du Cinquantenaire a Bruxelles, e destinata, nelle ambizioni di Otlet, a venir trasferita a Ginevra in un edificio progettato da Le Corbusier, ha incominciato a decadere nella seconda metà degli anni Trenta. Poi fu la volta dei nazisti, che dopo l’occupazione del Belgio sloggiarono i cataloghi di Otlet (distruggendone parecchi) per far posto a una trionfale mostra dell’arte nel terzo Reich. Otlet morì nel 1944, dimenticato da tutti, il che, per un archivista universale, appare come un destino piuttosto ironico. La sua creatura sopravvisse, in uno stato di abbandono, all’interno di un vecchio edificio di anatomia dell’Università, nel Parc Léopold. E fu solo nel 1968 che un neolaureato, W. Boyd Rayward, si prese a cuore la sorte dell’archivio, trovandogli alla fine una destinazione conveniente, a Mons, una cittadina medioevale a una settantina di chilometri a sud-ovest di Bruxelles3.
1 Cui ha dedicato recentemente un articolo il “New York Times”: www.nytimes. com/2008/06/17/science/17mund.html?oref=login (novembre 2008). 2 Disponibile su archive.ugent.be/handle/1854/5612 (novembre 2008).
Sulla figura di Otlet esiste un documentario, consultabile in rete: www.mementoproduction.be/Otletfr.htm (novembre 2008). 3 Disponibile su www.mundaneum.be (novembre 2008).
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Individui Sono iniziative che si ripetono, e che sono destinate a ripetersi sempre più ora che il web rende più facile l’impresa. Ricordo come nell’aprile del 2007, a Bogotà, fui introdotto alla gigantesca impresa di un Libro total, capace di realizzare il sogno de La Biblioteca di Babele e quello di Stéphane Mallarmé, l’idea che il mondo esista solo per por capo a un libro. Di qui l’idea o il demone del sistema: una classificazione di tutto ciò che c’è nel mondo. Ecco, ma, prima di tutto, che cosa c’è nel mondo? Che cosa si cataloga? La risposta è abbastanza semplice: si catalogano individui, cioè particolari concreti, cose, per esprimersi alla buona, e non universali. Si catalogano piatti e forchette, banconote e francobolli, lepidotteri e celenterati, capi indiani e dinastie egiziane, mentre non si catalogano né la virtù in sé, né il musico in sé, né il rosso in sé o il suono in sé, ma solo esempi e fattispecie di virtù, di musici, di colori e di suoni. In breve, si catalogano enti, non si cataloga l’essere. Diciamolo francamente, Socrate sarebbe stato davvero deluso dai cataloghi, li avrebbe detestati, in quel suo mondo privo di particolari e popolato soltanto da universali e da essenze. Ma il catalogo è fatto così: scontenta anche grandi filosofi. Da questo punto di vista, credo molto ragionevole rigettare anche la tesi di Ludwig Wittgenstein (1921, § 1.1) secondo cui il mondo è la totalità dei fatti, e non delle cose (un’idea che, a ben pensarci, renderebbe a dir poco arduo il progetto di un catalogo), e seguire piuttosto Peter Strawson (un bravo filosofo, che però non è mai asceso all’Olimpo della sua categoria), che trova gli ingredienti fondamentali del mondo negli individui (Strawson 1959)4, cioè nei corpi e nelle persone. In effetti, sono proprio loro, ben più che quelle entità un po’ evanescenti che sono gli universali o i fatti, a costruire l’arredo di base del mondo in cui viviamo, che è composto molto più di bambini e di tappeti 4 In tutta la trattazione degli individui e della metafisica descrittiva seguo la caratterizzazione di Strawson.
(cioè di particolari), che non di “bambini sui tappeti” (cioè di fatti), o di “bambinità” e “tappetità” (cioè di universali). Non nel senso che quelle altre entità non esistano, ma nel senso che possiamo pensare ai bambini sui tappeti, o alla bambinità e alla tappetità, solo a partire da questi due ingredienti di base che assolvono la funzione che gli atomi rivestono in una teoria fisica, o i “dati di senso” in una classica teoria dell’esperienza. Provate a pensare a una partita di calcio senza palloni e campi, cioè corpi, e giocatori, cioè persone, o, come in Alice nel paese delle meraviglie, a sorrisi di gatti senza gatti che sorridono, e capirete subito che cosa voglio dire. A questi due elementi fondamentali Strawson perviene con un ragionamento che muove dall’analisi empirica delle nostre pratiche linguistiche e conclude sulle loro condizioni ontologiche di possibilità. Quando parliamo, ci sembra di riferirci a qualcosa: ma a che cosa? E come è possibile questo riferimento? Con un argomento trascendentale, Strawson risale dal fatto e ne cerca le condizioni di possibilità, che sono due tipi di sostanze che compongono l’inventario ontologico del nostro mondo, cioè per l’appunto i corpi e le persone, che dunque vengono ad assolvere la funzione, per dir così, di apriori materiali: l’esperienza è impossibile senza corpi e persone, proprio come per Immanuel Kant era impossibile senza le due forme pure della sensibilità, lo spazio e il tempo. Solo che per Kant spazio e tempo erano forme universali, mentre quelli a cui mi riferisco sono individui concretissimi, sono, direbbero i medioevali, materia signata hic et nunc. Corpi e persone sono, infatti, dei particolari di base, che possono portare degli universali, per esempio essere bianchi, o lisci, o freddi, e questo rende possibili frasi come “Mario è accaldato e beve un bicchiere di tè freddo”. D’accordo con una tradizione vecchia come Aristotele, e probabilmente fondata sulla struttura delle lingue indoeuropee, la distinzione ontologica tra sostanze particolari e universali si rispecchia nella distin-
maurizio ferraris
zione logico-grammaticale tra soggetti e predicati. Ma più che di un rispecchiamento, si tratta di una fondazione. L’ontologia, qui, assicura una base per la logica e la grammatica. Gli individui sono dunque i mattoni che compongono il mondo, ma sono mattoni fatti in una certa e determinatissima maniera, non semplici atomi disponibili per qualunque costruzione. Rispetto alla caratterizzazione di Strawson, tuttavia, la mia proposta di classificazione del mondo ha una variante non autorizzata: proporrei di dividere gli individui, invece che in persone e in corpi, in soggetti e in oggetti. Il motivo di questa scelta è la difficoltà di definire il concetto di “persona” (carico di valenze morali e giuridiche) e la semplicità di definire il concetto di “soggetto” e – correlativamente – di “oggetto”: soggetto è ciò che ha rappresentazioni, oggetto è ciò che non ne ha, sebbene, ovviamente, possa essere rappresentato. Inoltre, nella polarità soggetto-oggetto, mi propongo di dare un privilegio all’oggetto, e in questa scelta entra in gioco un’opzione antikantiana. Se la maggior parte dei sistemi moderni è stata costruita su basi kantiane, a partire dai soggetti (dall’Io puro), quello che propongo è invece un sistema aristotelico, che dà preminenza agli oggetti, e che considera il soggetto come un tipo di oggetto, e che dunque si presenta essenzialmente come un catalogo. I principi che mi sono dato per formare il mio catalogo sono cinque: classificare, non costruire; oggetti, non soggetti; esemplificare, non semplificare; descrivere, non prescrivere; esperienza, non scienza. Immagino che messe così queste regole appaiano piuttosto criptiche e – rispetto alle Regulae di Cartesio – presentino il solo vantaggio, indubbio ma insufficiente, di essere poche. Cerco allora di chiarirle in breve.
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Incominciamo con la prima regola. Contro il costruzionismo, contro l’idea che il mondo sia una pura
costruzione del soggetto, affermo invece che il mondo ha le sue regole, e le fa rispettare, e che il compito del filosofo è anzitutto classificare. In effetti, i costruzionisti – da Kant ai postmoderni passando per gli idealisti trascendentali e gli ermeneutici nietzschiani – asseriscono che la realtà è determinata dalla verità (cioè dai nostri giudizi e schemi concettuali)5, e alcuni affermano6 che la lista degli schemi non si ferma alle scienze, coinvolgendo molte altre pratiche umane, e in particolare quelle artistiche. In una parola, asseriscono che l’ontologia, quello che c’è, è determinata dalla epistemologia, quello che sappiamo. A mio avviso, la strategia corretta è un’altra. Anzitutto, riconoscere che la realtà precede ed è indipendente dalla verità, che l’ontologia non è determinata dalla epistemologia, non più di quanto la nostra semplice speranza di montare uno scaffale dell’Ikea coincida con l’effettivo montaggio di quello scaffale. Ma, subito dopo, osservare che la nostra inventività si esercita non già nel fabbricare mondi, quanto piuttosto nell’introdurre – e anzi il più delle volte nel riconoscere – un ordine razionale e non sempre coincidente con quello della scienza. Anzi, i suggerimenti di Marcel Proust e Pablo Picasso sono i benvenuti, insieme a quelli di Tito Livio, di Niccolò Machiavelli, di Michel de Montaigne, e di tanta altra gente che non ha mai avuto nulla a che fare con i quark senza per questo proporre mondi di invenzione. L’idea del catalogo è antica7. Nell’età barocca si compilavano dei “cataloghi ontologici” che classificavano, per esempio (e rispondendo a loro modo a esigenze di modernizzazione) tutto ciò che si trovava in uno Stato o in una regione: dalle stoviglie ai titoli nobiliari, dagli animali da cortile alle città e ai sobborghi. Una specie di mappa dell’impero che avrebbe fatto la felicità di Borges; e del resto già Alexander G. Baumgarten, il filosofo che nel Settecento ha coniato il nome di “estetica”, consigliava all’artista a corto di argomenti di trarre ispirazione da un manuale
5 Il capostipite di queste affermazioni va cercato nel principio di Kant «le intuizioni senza concetto sono cieche». Per una analisi di questo assunto e della sua fallacia mi permetto di rinviare a Ferraris (2004). 6 Come Nelson Goodman (1978) e Richard Rorty (1979). 7 Dopo gli ontologi classici, come Christian Wolff o Alexander G. Baumgarten,
il filosofo inglese Charlie D. Broad (1923) ha sostenuto che il compito della scienza è formare cataloghi del mondo. Recentemente l’ideale della metafisica come catalogo del mondo è stato riproposto da Achille Varzi (2001). Per le problematiche della catalogazione, cfr. Traniello (2005), Petrucciani e Turbanti (2006), Guerrini (2008).
Classificare, non costruire
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ontologico, cioè da un catalogo. In parte, dunque, pensare alla filosofia come classificazione è un ritorno alle origini, sotto l’egida di un ideale della filosofia come descrizione (tornerò fra poco su questo punto). Ma in parte è anche una risposta a esigenze del tutto recenti. Da trent’anni in qua, infatti, il mondo si è riempito di nuovi oggetti fisici, i computer, che danno vita a nuovi oggetti virtuali, come per esempio i siti web. Proprio per far funzionare il web, e per evitare l’effetto Babele, gli informatici hanno avvertito l’esigenza di un’ontologia, ossia di ciò che, sin dal Seicento, era uno strumento per organizzare e classificare gli oggetti presenti nel mondo. Ora questi cataloghi hanno trovato una nuova attualità. I Siti, nuovi Stati dei cataloghi ontologici, sono connessi tra loro (“web”, “net”, “rete” significano proprio questo) e si riferiscono a una grandissima quantità di oggetti o di eventi: i medicinali prodotti da una casa farmaceutica, le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, i pacchetti di viaggio tutto incluso per una settimana in Finlandia, gli acquisti dei clienti in un supermercato, gli evasori fiscali della Provincia di Belluno. Ma perché non fare lo stesso per il mondo nel suo insieme? In fondo, il successo di Google non è che la prova di quanto la ricerca e la classificazione di individui costituisca un’esigenza primaria nella nostra vita, una necessità a cui raramente prestiamo (almeno dal punto di vista teorico) l’attenzione dovuta.
Veniamo alla seconda regola, la scelta degli oggetti rispetto ai soggetti, che più pomposamente si potrà definire come una scelta dell’ontologia rispetto alla teoria della conoscenza. Se assumiamo, come fanno i costruzionisti, che il mondo è fabbricato dal soggetto, sarà molto naturale immaginare che la parte più importante per la filosofia sia la teoria della conoscenza, cioè l’esame degli schemi concettuali per
il cui tramite si fabbrica il mondo. Io affermo invece che la cosa importante sono gli oggetti che stanno nel mondo, ciò che ci troviamo a dover organizzare, e che comunque incontriamo nella nostra esperienza. E affermo perciò che la parte importante della filosofia non è la teoria della conoscenza, ma l’ontologia come teoria dell’oggetto. La mia tesi di fondo è che gli oggetti appaiono molto più chiari e definiti di quanto non accada ai soggetti, possiedono delle leggi immanenti8, sono riconoscibili (almeno in moltissimi casi) senza apparati categoriali complessi o sofisticati, ed è questa la ragione principale della mia opzione per una ontologia realistica concepita come una teoria dell’oggetto, d’accordo con parte della tradizione9. Il privilegio degli oggetti può, a mio avviso, essere giustificato in base a tre motivi. Il primo ha a che fare con l’evoluzione. Come ha mostrato qualche anno fa la psicologa Elizabeth Spelke (von Hoften e Spelke 1985), i bambini, prima ancora di imparare a parlare, segmentano la realtà in oggetti, perché l’attenzione verso gli oggetti corrisponde all’esigenza di riconoscere ostacoli e individuare prede10. Siamo estremamente attrezzati per gli oggetti, abbiamo per loro occhi molto migliori che per i concetti, e questo lo si capisce considerando quanto è facile l’equivoco concettuale, mentre scambiare fischi per fiaschi o Roma per toma non è cosa di tutti i giorni. Il secondo ha a che fare con la reificazione11. L’oggetto, rispetto al soggetto, è fisso, con contorni netti, chiari. Proprio in questa chiarezza dei confini e dei contorni sta lo splendore della reificazione, e il fatto che l’oggetto parli, e che taluni oggetti parlino meglio di altri. Così, gli oggetti danno evidenza visiva ai concetti. Pensate a quello che succede sul desktop del computer: per rendere chiare delle funzioni astratte si ricorre a oggetti, come cestini, forbici, spazzole, libri, stampanti, dischetti (ora quasi scomparsi nel mondo reale, ma sopravvissuti nelle icone del desktop). Inoltre, gli oggetti hanno il potere di captare e di sedimentare anche
8 Hermann Lotze (1841) ha sostenuto, e non a torto, che le cose sono leggi, e secondo Bertrand Russell anche Leibniz si avvicina a questa teoria. 9 Tra i fautori dell’ontologia come teoria dell’oggetto, cioè della equivalenza di fondo tra ente, oggetto e cosa, abbiamo Paul Natorp (1888), Kazimierz Twardowski (1892), Alexius Meinong (1904), Hans Pichler (1909), che eserciterà una forte influenza su
Hartmann. Per la centralità dell’oggetto nell’ontologia classica, cfr. Kobau (2004). 10 Richard N. Nisbett (2003) ha riconosciuto tendenze diverse tra occidentali e orientali nella selezione degli oggetti, ma si tratta di differenze minime rispetto a quelle che intercorrono nel linguaggio, nei concetti, nelle consuetudini ecc. 11 Su questo punto mi permetto di rinviare a Ferraris (2002).
Oggetti, non soggetti
maurizio ferraris
quelle cose più fluide che sono gli eventi (si cercano le tracce, in un omicidio, in un evento storico). Infine, danno spessore a quelle cose impalpabili che sono i rapporti sociali, si presentano come rapporti sociali resi durevoli, e soprattutto resi visibili, lì fuori: il vero signore si riconosce dalle scarpe, forse, ma ciò che è sicuro è che nelle scarpe si condensa qualcosa che ha a che fare con i rapporti sociali. Il terzo riguarda per l’appunto il catalogo. Il bello degli oggetti è che possiamo classificarli, collezionarli ecc.; è la cosa più naturale del mondo, e la definizione dell’ontologia che propongo è essenzialmente quella di Adolf Reinach (1913, trad. it. p. 4), che si adatta egregiamente all’idea di “catalogo”: «come ontologia o teoria a priori dell’oggetto, si occupa dell’analisi di tutti i tipi possibili di oggetti come tali». La sola modifica che propongo consiste nel non ridurre l’analisi alle teorie apriori, includendo anche la sfera dell’aposteriori, ossia di ciò che concretamente si dà nel mondo. Questo per la terza caratterizzazione della mia ontologia, ossia il primato della esemplificazione sulla semplificazione. Esemplificare, non semplificare Diceva Amleto: «Ci sono più cose fra la terra e il cielo che in tutte le nostre filosofie». Mi sembra che spezzasse una lancia a favore della esemplificazione e dell’abbondanza. In effetti, quella tra semplificazione ed esemplificazione è una scelta di campo che vede opporsi, tra i filosofi, i patiti dei deserti e i fautori delle giungle. Tra i primi c’è chi, come Quine (1948, trad. it. p. 27), si è pronunciato per un’ontologia molto ascetica: «mi piacciono i deserti», ha scritto, e si è comportato di conseguenza, sia nella vita (andava in vacanza in Arizona) sia nell’ontologia: il mondo è fatto di particelle, gli atomi, il resto sono solo parole. Il problema, però, è che l’occamite (proporrei di chiamare così l’abuso del rasoio di Occam, che nel 12 Si pensi allo «zelo occamizzante» che si è attribuito Gilbert Ryle (1971, p. VII). 13 L’espressione «giungla meinonghiana» è tratta dal titolo di Routley (1980).
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potare enti inutili finisce talvolta per amputarne anche di utili12) è una brutta malattia, almeno se ti sei proposto di render conto di quello che sta fra la terra e il cielo: avresti soltanto delle particelle disposte a tavolo, a sedia, a professore, ma il fatto di sapere che sono delle particelle non ti dice granché sul tavolo, la sedia, il professore. È un po’ come spiegare la trama di un romanzo parlando di cellulosa. Di qui i vantaggi di un’ontologia più rigogliosa, cioè della giungla di Meinong13. L’idea è che noi abbiamo un pregiudizio in riferimento al reale, pensiamo che le sole cose che esistono sono gli oggetti fisici, senza pensare alla infinita varietà del reale. Se ne possono mettere in scena tantissimi: non solo gli oggetti fisici come i sassi e gli alberi, ma anche oggetti che non ci sono più (gli oggetti ex esistenti, come l’impero Romano), quelli non esistenti di fatto (una montagna d’oro), quelli inesistenti di diritto (il rotondo quadrato) e quelli sussistenti, come i numeri o le relazioni. Sembra una moltiplicazione indebita, una passione barocca, eppure è difficile rendere conto del mondo sociale soltanto a colpi di particelle. È chiaro che quanti più oggetti ci sono, tanto meglio è per capire un mondo che, come si dice sempre, è complicato, e lo è proprio perché gli oggetti sono tanti. Lo ricordava quello spirito conciliativo che è Gottfried Leibniz (1764, cap. IV, § 1), per il quale chi abbia visto attentamente più figure di piante e di animali, di fortezze o di case, letti più romanzi e racconti ingegnosi, ha più conoscenze di un altro, anche se, in tutto quello che gli è stato dipinto o raccontato, non ci fosse una sola cosa vera. E aggiungeva, con un bell’esempio legato agli oggetti, che i vasi egizi possono ben fungere al servizio del vero Dio. Insomma, al deserto preferiamo la giungla, ma soprattutto ci piace il catalogo, come Leporello nella sua iperbole dell’elenco: «Ma in Ispagna sono già mille e tre». Anche per amore di varietà e della ricchezza che comporta. L’obiezione rispetto a questa abbondanza è che il
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catalogo sarebbe disordinato, ma non credo che sia necessariamente così, e non lo credo in forza di quella che chiamerei “esemplarità dell’esempio”14, giacché si riferisce alla possibilità di riconoscere delle essenze negli individui, ossia di incontrarli non come particolari, bensì come esemplari, non solo come oggetti, ma come essenze. Quando colgo un oggetto colgo anche un’essenza, che non sta in un mondo iperuranio, ma è destinato a venire scoperto progressivamente. Si pensi alle opere d’arte, che possono diventare “canoniche”, cioè per l’appunto esemplari, ma solo dopo che sono concretamente apparse nel mondo. O alle invenzioni tecniche: il modo in cui hanno interferito nelle nostre vite, e la loro autentica funzione, non poteva preesistere rispetto alla loro concreta esemplificazione, e spesso i primi a esserne sorpresi sono stati gli inventori. Bisogna concludere che la verità è figlia del tempo, che non ci sono questioni che non siano empiriche, che tutto è relativo o simili? Niente affatto: le cose hanno delle necessità e delle legalità intrinseche, che per l’appunto le rendono esemplari, senza che per questo le loro essenze siano concepibili apriori. Comprendiamo allora che c’è, all’interno dell’esempio, un oggetto che è insieme un’essenza: un caso e una regola (si pensi alla nozione di “classico”), ma anche una regola e un’eccezione (pensiamo al “campione”, che designa sia il “campione senza valore” sia chi batte un record), e talvolta persino una realtà e una idealità (difficilmente un esempio di padre è un padre esemplare). Ecco che, allora, l’esame degli oggetti e della loro esemplarità ci apre a una immensa varietà di essenze, inimmaginabili in una ontologia ristretta a quelle due o tre che ci vengono in mente quando ci chiudiamo in una stanza a ragionare su come è fatto il mondo. A parte che poi, fateci caso, anche il filosofo che si ritira dal mondo incomincia a esemplificare su quello che ha sul tavolo: «questa carta, questo foglio, questo fuoco», diceva Cartesio. E noi tutti con lui. 14 E che Roberta De Monticelli (De Monticelli e Conni 2008) definisce «tesi di esistenza di dati non empirici». 15 Secondo il suggerimento terminologico di Roberto Casati (2008, p. 437 e ss.). 16 Achille C. Varzi, “Il catalogo universale”, disponibile su www.columbia.edu/~av72/ papers/CatalogoUniversale.pdf (novembre 2008).
Descrivere, non prescrivere Veniamo alla quarta regola: lo scopo della classificazione deve essere, nei limiti del possibile, piuttosto una descrizione che non una prescrizione, realizzando così l’ideale di una metafisica descrittiva per contrapposto alla metafisica “revisionaria”15, che ambisce piuttosto a riformare gli schemi concettuali. Anche nel parteggiare per la metafisica descrittiva sono vicino a Strawson, e non trovo che il descrittivismo sia necessariamente una scelta provinciale o casalinga, come ha argomentato brillantemente Achille Varzi16. Ci vedo piuttosto un progetto parallelo a quello dell’etnologia. Infatti, tanto nell’etnologia quanto nella metafisica descrittiva abbiamo a che fare con uno sguardo distanziato: l’etnologo ritrova Edipo e Cenerentola in Alaska e in Mato Grosso, il metafisico descrittivo getta luce sul mondo in cui viviamo e che per l’eccesso di prossimità appare concettualmente opaco. O, reciprocamente, d’accordo di nuovo con l’analisi di Strawson, il metafisico descrittivo si trasforma in autore di fantascienza, e dimostra la fondamentalità di corpi e persone con un argomento e contrario, cioè con un affascinante esperimento mentale: provate a immaginare un mondo composto soltanto di suoni. Potrebbe funzionare? Chiaramente no. E non funzionerebbe nemmeno un mondo composto soltanto di dati di senso, o di colori, o di monadi leibniziane, o di cose pensanti distinte dalle cose estese. Eccoci nel mondo fantastico dei filosofi che parlano di un cogito indipendente dal corpo, di monadi senza porte né finestre, e di altre stranezze rispetto alle quali l’universo a due sole dimensioni di Flatlandia, inventato nell’Ottocento dal reverendo Edwin A. Abbott, è poco più che una innocente evasione. Insomma, tutte le spiegazioni dei filosofi non funzionano, e quelle del senso comune, invece, vanno benissimo. Il filosofo deve aggiungere solo la consapevolezza riflessiva, che è una cosa molto diversa dal sapersi muo-
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vere efficacemente nel mondo. In questo esercizio, trovi il caso e cerchi la regola a cui si riferisce, o, più concretamente, trovi l’oggetto e cerchi lo scaffale in cui collocarlo, come se ci si trovasse in un negozio di ferramenta o in un supermercato. E con la consapevolezza che, proprio come avviene nei supermercati, la forma logica o le teorie fisiche non sono necessariamente le vie giuste per dar ragione del mondo, che è sempre più complicato, delle formalizzazioni. Dunque, tutte le iperboli della metafisica revisionaria, tutti i giacobinismi ontologici, vanno respinti in nome dell’eccessiva bizzarria che li anima. E viceversa tutte le vecchie soluzioni del senso comune sono accettate, o almeno verificate per trovarne la legittimità, giacché sono sperimentate dall’uso da generazioni e generazioni, e non escogitate un pomeriggio in poltrona da un filosofo revisionario che non sapeva che fare. Inoltre, il fatto che qualcosa risulti secondario nella nostra classificazione del mondo non significa che vada scartato, ma semplicemente che deve essere collocato nel posto giusto, con una corretta gerarchia. Ci possono benissimo essere delle proprietà ontologicamente secondarie, che non vanno buttate via, ma appunto messe al loro posto. Anche perché probabilmente l’idea di conservare solo le proprietà ontologicamente primarie non è diversa dall’idea di una vita tesa soltanto all’essenza, che si nutre di soli capolavori e che mangia solo i cibi più scelti. Ma, soprattutto, c’è l’idea che – esattamente come i vasi di cui parlava Leibniz – i vecchi concetti possono essere recuperati e adibiti a nuove funzioni, e casomai ritrovati, riparati, ripuliti e proprio per questo rinnovati. Esperienza, non scienza Resta la quinta regola: esperienza e non scienza. Grava infatti sulla metafisica descrittiva alla Strawson l’intima fragilità della difesa del linguaggio ordinario in John Austin; quando Willard O. Quine (1960,
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trad. it. p. 11) osservava che il linguaggio ordinario non deve essere considerato sacrosanto, Austin (1961, trad. it. p. 11) aveva un bel rispondere che il linguaggio ordinario ha pur sempre la prima parola: era riconoscere implicitamente che l’ultima parola sarebbe spettata a qualcun altro. Ora, nella prospettiva del catalogo che propongo, questa circostanza non si dà, appunto perché qui abbiamo a che fare con cose, non con parole, e con classificazioni, non con spiegazioni. E, in questo quadro, non è affatto detto che la classificazione debba rispondere, in ultima analisi, ai dettami della scienza. Per chiare questo punto, torna utile il succo di pomodoro, tipico esempio di quegli «articoli da emporio di modeste dimensioni» su cui Austin (1962, trad. it. p. 23) aveva portato l’attenzione per indicare ciò che è essenzialmente un oggetto fisico per il senso comune. Anni fa i succhi di pomodoro sono scomparsi, almeno in apparenza, dai supermercati. Non si trovavano più nel posto dove solitamente li esponevano, insieme ai succhi di frutta. Una classificazione abbastanza intuitiva anche se non esattissima (davvero i pomodori sono frutti allo stesso modo che mele e pere?), ma che quantomeno era sostenuta da una tradizione. Sono andato a cercarli nel settore dei sughi pronti. In fondo (ragionavo da fisico e da chimico) le molecole sono quelle, dunque saranno lì. Niente da fare. Ho smesso di cercare. Lo prendevo al bar, ma lì ovviamente non potevo fare domande tipo: “lei dove li trova?”, perché la risposta sarebbe stata “dal grossista”. Poi, per caso, dopo che avevo perso ogni speranza, ho ritrovato i succhi di pomodoro. Erano vicino agli aperitivi, il che non corrispondeva in nulla alle nostre cognizioni sul mondo fisico, visto che il succo di pomodoro non è una bevanda alcolica, diversamente dalla stragrande maggioranza degli aperitivi. A cosa rispondeva, allora? Pensandoci, me ne sono fatto una ragione: la classificazione era dettata dal fine, dalla modalità di impiego e dal suo ambito. Diremmo, per l’appunto,
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che era una classificazione teleologica. Dato l’aneddoto, cerchiamo di trarne qualche insegnamento. Il succo non era un’opera d’arte né un atto morale, territori tradizionalmente estranei alla scienza. Non mi serviva, nella mia ricerca, nemmeno il piacere o dispiacere, oppure il problema dell’agire morale, perché, in effetti, io stavo cercando un oggetto fisico, una lattina di succo di pomodoro. Che, se ritrovata, mi avrebbe dato certo un piacere fisico interessato, soddisfacendo un desiderio eteronomo, e che dunque non rispondeva ai requisiti dell’estetica e dell’etica nel senso kantiano. Nel cercare il succo scomparso nel settore dei sughi pronti ragionavo da piccolo chimico, che si faceva guidare dalle molecole di pomodoro comuni ai sughi e ai succhi, cadendo vittima della fallacia trascendentale. La classificazione teleologica (il succo sistemato tra gli aperitivi) non era affatto guidata dalla scienza, eppure non sembra affatto una specie di superstizione che prima o poi sarà spazzata via dal progresso dello spirito umano. Tento persino una previsione. Col tempo, queste discrepanze non saranno ridotte e non se ne andranno. Probabilmente, anzi, cresceranno, e lo dico perché negli ultimi due secoli è successo proprio questo: una progressiva divaricazione tra ontologia ed epistemologia, che non è consistita in una crescita
della superstizione, bensì in una crescente consapevolezza di differenze che in precedenza, in uno stato più primitivo della scienza, non apparivano tanto evidenti. Nel Settecento, infatti, la scienza non era una cosa tanto discosta dall’esperienza; ma oggi siamo in una posizione migliore sia per riconoscere i pregi di una scienza che è ormai lontana anni luce dall’esperienza, sia per accettare che la maggior parte della nostra vita, per sofisticata che possa diventare, non può ridursi alla scienza. In breve, se nel Settecento nessuno aveva pensato a costruire delle scienze dello spirito o delle fenomenologie della percezione, era proprio perché in fondo una fisica come quella di Isaac Newton rendeva abbastanza conto dei fenomeni osservati nel mondo ecologico (15.000 chilometri, quelli in cui la teoria della relatività non comporta variazioni apprezzabili, non sono pochi, dopotutto). Oggi le cose non stanno più così, se non altro perché sappiamo che per l’appunto le nostre leggi di esperienza sono limitate nel tempo e nello spazio. È questo il motivo per cui abbiamo bisogno di cataloghi, molto più di quanto non accadesse nel Settecento. Che per questi cataloghi, poi, sia necessaria l’ontologia, come hanno capito, lo ricordavo prima, gli informatici, è argomento che, credo, deve rallegrare la categoria dei filosofi.
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L’origine degli oggetti: come il luogo e la regione entrano nei prodotti Introduzione Ciò che avviene nelle città, nelle regioni, o in più ampie entità nazionali – vale a dire gli aspetti specifici di ciò che si potrebbe definire il loro “carattere” di luoghi – resta impresso nelle caratteristiche dei prodotti. Mi oppongo all’idea che, in quest’era di globalismo e omogeneità, il luogo non abbia più molta rilevanza. Al contrario, a mio parere continua a essere vero che le caratteristiche di un luogo si possano vedere, toccare e in vari modi sperimentare nei prodotti. In più ampi termini morali, sociali o ecologici, il risultato può essere “buono” o “cattivo”. Anche se alcuni luoghi, o tipi di luoghi, possono tendere verso un ruolo più positivo o più negativo (il Giappone, per esempio, produce veicoli meno inquinanti rispetto a Detroit), rimando ad altre occasioni l’analisi di questa interessante dimensione del ruolo del luogo. Qui cercherò
invece di fare un inventario di alcuni dei processi attraverso i quali, nel bene o nel male, il luogo entra a far parte dei prodotti. I luoghi differiscono per il modo in cui le persone che vi abitano si relazionano fra loro, per il tipo di “capitale sociale” che possiedono. Essi differiscono anche per ciò che la gente del posto conosce del mondo, incluse le realizzazioni in ambito estetico o scientifico, e quindi anche per il tipo di “capitale culturale” posseduto dalla gente. I luoghi, e non soltanto gli individui o le classi – sulle cui differenze di “capitale” si è incentrata in passato la maggior parte del lavoro concettuale –, differiscono sotto questi aspetti. Certo, anch’essi hanno la propria particolare storia su questi fronti e sono diversi in termini di risorse finanziarie e naturali. Ma intrecciato a queste predisposizioni e
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relazioni è l’ambiente fisico locale a improntare prodotti, edifici e infrastrutture. In modi che la gente spesso ignora, gli elementi del contesto, ivi inclusi i prodotti materiali, compongono il vocabolario cognitivo che influisce su chi è in grado di concepire qualcosa e, di conseguenza, su che cosa può essere progettato, prodotto, commercializzato. Tutti gli elementi locali concorrono a generare delle differenze specifiche nella «struttura della sensibilità», per usare un’espressione di Raymond Williams, un critico letterario marxista della passata generazione (Williams 1973). A volte il progetto emula ciò che circonda, altre volte vi si oppone, e nella maggioranza dei casi, ritengo, è una combinazione di entrambe le cose. Entrando a far parte della creatività, come è inevitabile che accada, anche piccole differenze tra i luoghi, se accentuate, possono avere conseguenze rilevanti. L’arte come forza locale Uno dei modi in cui le piccole differenze crescono, sia nel tempo sia nello spazio, è l’arte. L’arte è il meccanismo che consente alle strutture della sensibilità di tradursi rapidamente in artefatti, dato che, per esempio, gli artisti non hanno bisogno d’impianti di produzione, né di consulenti legali, né di brevetti. Gli eventi culturali possono facilmente nascere da persone anche marginali dal punto di vista materiale. Poiché le barriere d’ingresso sono così basse, si tratta di un’impresa che può essere iniziata da chiunque e in ogni luogo. L’arte favorisce l’influenza del luogo. E i designer di prodotto, avendo in genere un background artistico e le antenne sempre pronte a captare le tendenze espressive, come anche la necessaria competenza tecnica, sono figure chiave in questo tipo di operazioni. Il processo che porta dall’arte all’industria è facile da documentare rispetto all’arte elevata, nella quale a volte le istituzioni, come nel caso del Bauhaus, hanno deliberatamente mischiato gli artisti con i designer industriali. Studenti e scuole soprattutto olandesi e, nel caso del Bauhaus, del centro Europa hanno ideato
ogni genere di prodotti ed edifici. La stessa dinamica si verifica, in modi meno evidenti, a tutti i livelli e in tutte le forme espressive dell’arte, ivi incluse quelle popolari, quelle minori e quelle marginali. Vanno considerate anche loro. Non c’è bisogno di una scuola formale come il Bauhaus, la traduzione può avvenire ovunque coloro che fanno arte s’incontrino tra loro e con i sistemi produttivi. Di sicuro, come sostiene lo storico della tecnologia Cyril Stanley Smith (1981), l’arte è stata di centrale importanza per lo sviluppo di tutta l’industria, dalla fabbricazione dei primi occhialini di vetro fino ai progressi fondamentali nella metallurgia e nelle fibre ottiche. Anche i materiali bellici – come bombe, aeroplani, uniformi mimetiche – nascono da fantasticherie e da una visione estetica. Fu gente in cerca di un significato trascendentale, oppure impegnata a giocare con degli esperimenti, a dare il via alle grandi conquiste associate ai sistemi d’industrializzazione “pesante”. Le manifestazioni del sistema industriale possono nascere anche dal lato “leggero” dell’espressività, della passione e della sperimentazione umane. Il carattere locale di ciò che è “ovunque” L’arte – e qui desidero davvero allargare questo concetto fino a includere ogni genere di vigore e di esuberanza umani – compie le sue meraviglie anche in quegli elementi della tarda modernità che sono più vicini alla produzione di massa senz’anima. Per fare degli esempi concreti, possiamo iniziare con il grande omogeneizzatore per eccellenza, McDonald’s. Ormai è presente in molti luoghi, anche se non proprio “ovunque”. Il suo logo è divenuto familiare anche là dove non esistono dei McDonald’s. Lo stesso vale per le sue architetture, dette di volta in volta googie, highway, o billboard. Oltre a rappresentare un cambiamento nel campo visivo, McDonald’s è anche una forma differente di coreografia, anch’essa derivante da una sensibilità estetica diversa. Nonostante la sua quasi onnipresenza, McDonald’s
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non potrebbe venire da un luogo qualunque e, per quanto riguarda la sua origine, resta localmente determinato. Non potrebbe certo essere nato nelle moltissime località dove ora ha successo come rivenditore di cibo. Probabilmente più di una regione al mondo avrebbe potuto dare origine a questa catena, ma di sicuro – e qui arrischio una spiegazione post hoc – uno soltanto era il luogo ideale. La California meridionale è l’area in cui sono nate quasi tutte le catene di fast food statunitensi, inclusa quella di McDonald’s. Quest’ultima è un’istituzione californiana, come i Beach Boys. I ristoranti statunitensi, come quelli della maggior parte del mondo, implicavano che vi si entrasse per sedersi a un tavolo, ordinare da mangiare, aspettare, che ci fossero dei camerieri per servire le portate e altri inservienti per lavare i piatti. McDonald’s ha rivoluzionato tutto questo in molti modi, creando il fast food (o speedee service, come lo si chiamava inizialmente). Insieme con la sua architettura, adatta all’informalità locale e all’abitudine di mangiare in macchina tipica della California meridionale, McDonald’s è nato da un ambiente culturale ben preciso ed è attecchito in altre parti del mondo con caratteristiche simili. Meno classisti rispetto ad altre regioni statunitensi, gli abitanti della California meridionale erano disposti a mettersi in coda per mangiare e poi (quando qualche tempo dopo furono anche messi a disposizione dei tavoli) a ripulire personalmente il posto. Tutto questo corrispondeva alla dinamica di ciò che oggi è comunemente chiamato “economia creativa” (Florida 2004) ma nel contesto di un’industria non abituata al fascino di quell’espressione, e ha rappresentato quindi una vera e propria innovazione. Oltre agli artefatti fisici costituiti dai negozi stessi, ci fu anche una serie di invenzioni collaterali. Per limitarci a due esempi (nel bene e nel male), nuovi tipi di friggitrici per le patatine e vaschette richiudibili per il cibo da portar via. Solo successivamente McDonald’s si spostò a Chicago per facilitare il suo lancio su scala nazionale. Anche in questo caso il luogo è importante, ma in modi che si possono meglio comprendere facendo riferimento ai
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convenzionali “fattori di produzione” che i geografi e gli economisti tradizionalmente usano per prevedere i vantaggi marginali di una regione rispetto a un’altra, o di una compagnia rispetto a un’altra. Chicago godeva di una sua centralità, sia in termini d’accesso ai mercati, sia d’accesso alle materie prime, soprattutto la carne. Crocevia ferroviario della nazione e prossima ai produttori di carne, Chicago divenne il centro della produzione degli hamburger. Resta il fatto – un po’ perduto nelle nebbie della storia, visto che il quartier generale della compagnia indica “Chicago” come sede di McDonald’s – che tutto ebbe inizio altrove, e che tra gli elementi cruciali che lo permisero ebbe un ruolo significativo un ben preciso stile di vita. Quando acconsentiamo di tenerne conto apriamo la strada a una comprensione più precisa di come le specificità locali diano origine ai prodotti e di come i prodotti possano variare a seconda della natura dei luoghi da cui provengono. Possiamo parimenti capire com’è che certe cose possono diffondersi in gran parte del mondo pur provenendo da luoghi ben precisi: grazie all’omogeneità sul piano dell’apparenza, ma alla distinzione sul piano dell’origine (cfr. Storper 1997). Ci sono casi ancor più famosi di come in certi luoghi forme di capitale locale si combinino in modo da dar vita a prodotti specifici. L’esempio classico è la provenienza del vino: coltivazione del suolo, viticoltura, clima ecc. Le protezioni legali si estendono a includere le etichette per i prodotti locali, etichette che di fatto compendiano la particolare combinazione di fattori sottostanti a un prodotto caratteristico. Un altro caso ovvio è quello del profumo francese, non altrettanto ben protetto. Il profumo francese continua ad avere mercati mondiali grazie a un luogo d’origine spesso etichettato come “Parigi” (sul sito web di un distributore di profumi nordamericano1 ho trovato sei diversi profumi pubblicizzati con la parola Parigi nella denominazione della fragranza, contro uno soltanto per Londra e nessuno per Berlino). Per l’Italia, il tessile costituisce un caso eloquente dove un’estetica particolare, i laboratori a conduzione familiare e la reputazione
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del luogo d’origine (il nome “Milano” ne è una sorta di compendio) confluiscono e creano un forte apparato d’esportazione. In tutti questi casi – vino, profumi, tessile – la chiave non è data soltanto dal modo in cui le caratteristiche locali possono dar vita a un particolare prodotto, ma da come esse possono portare al suo consumo locale. L’esistenza di un mercato locale interno, un insieme caratteristico di domande locali che possano giustificare l’iniziale avvio della produzione e il perfezionamento del prodotto nel corso del tempo, è in tal senso determinante. Un esempio meno scontato è rappresentato dall’ascesa dell’industria cosmetica a Los Angeles. In un certo periodo Los Angeles è stata il più grande produttore mondiale di cosmetici femminili. Anche quest’ascesa fu alimentata dalla reputazione del luogo d’origine e dai mercati di consumatori locali. Essa è anche una dimostrazione dei vantaggi che derivano dall’agglomerazione con altri settori di produzione del luogo. Gli studi cinematografici avevano bisogno di un tipo di trucco che, con l’invenzione del Technicolor, non riflettesse sul volto degli attori le superfici circostanti, come quelle dei vestiti, dei gioielli e del set. Questo è ciò che accadeva col cerone lucido. In soccorso arrivò Max Factor, un fabbricante di parrucche che inventò il trucco pancake, costituito da una base in polvere su cui si potevano applicare altri prodotti cosmetici, anch’essi di sua invenzione. Durante gli anni Quaranta e Cinquanta Max Factor dominò i mercati mondiali grazie a vendite che erano in parte tirate dal coinvolgimento di praticamente tutte le star del cinema, che svelavano il loro “segreto di bellezza hollywoodiano”. Il prodotto era nato dallo “spirito” della California meridionale (analogamente quindi alla storia di McDonald’s), ma anche grazie alla presenza di un’industria per la quale sarebbe stato il necessario completamento. Più famoso è l’esempio dei prodotti disneyani oggi diffusi in gran parte del pianeta. In tal caso, i prodotti nacquero come souvenir dei film e, in seguito, 1 www.fragrancenet.com/f/net/womens_fragrances.html?id=U8iRxUo4 (ottobre 2008)
dei parchi di divertimento, primo fra tutti Disneyland, in California. La California meridionale diede la sua impronta alla realizzazione di un mondo di fantasia su larga scala, ispirato ovviamente ai film disneyani, ma anche alle forme di divertimento caratteristiche della regione e alla specifica natura dei giochi in essa apprezzati (non orientati, per esempio, allo sport o al gioco d’azzardo). Anche in questo caso si ebbero effetti a catena per altre industrie. Le società produttrici di materie plastiche svilupparono nuovi polimeri e nuove applicazioni di polimeri già esistenti, adatte a realizzare castelli, case di spettri e covi di pirati a prova d’intemperie. Alcune di queste innovazioni furono adottate nell’edilizia come materiali di costruzione e sistemi economici di decorazione, usati in molte applicazioni in tutto il mondo. Gli ostacoli all’espansione: i beni che restano a diffusione locale Gli inglesi vengono spesso portati a esempio (o taciuti) per il contrasto che costituiscono rispetto sia a Hollywood sia all’Europa continentale, in particolare alla Francia. Certi elementi strutturali della Gran Bretagna ostacolano l’espansione dei suoi prodotti, trattenendoli all’interno dei confini nazionali. Secondo uno stereotipo in voga da secoli (Lubbock 1995) agli inglesi mancano la sensualità, la frivolezza e il gusto per costruire qualcosa su queste inclinazioni dell’anima. In almeno una versione di tale critica estetica essi sono condannati a un austero senso pratico. Ne è un esempio eloquente la cucina britannica, poco allettante e priva di sapore e d’inventiva. Questo ci porta, nel risalire dal prodotto al luogo d’origine, a parlare dello spremi aglio. Lo spremi aglio è di gran lunga più usato in Gran Bretagna (e negli Stati Uniti) che in Francia o in Italia. Quello riprodotto qui (fig. 7) è di design britannico. L’uso dello spremi aglio – così mi dicono gli amici che sanno davvero cucinare – muta il sapore
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dell’aglio e lo rende meno saporito. Io ne considero l’uso come una forma di civilizzazione dell’aglio, che lo separa dal contatto diretto con le mani. Oltretutto, richiede minori conoscenze sui modi corretti di tritarlo o schiacciarlo con il coltello. Vi sono anche altri aspetti in cui gli Stati Uniti rispecchiano bene questa pruderie britannica, che per loro è un retaggio della “madre patria”. Questo particolare utensile rappresenta una sorta di momento di transizione dalla paura-delle-spezie di una volta all’attuale gamma di sapori più internazionale. Possiamo citare un altro stereotipo sugli inglesi. Raymond Williams formulò la sua idea di una “struttura della sensibilità” per spiegare la deferenza tipicamente britannica verso le classi superiori. Basandosi soprattutto sugli esempi forniti dalla letteratura inglese, egli notò che esiste un’ammirazione per la gente di elevata condizione sociale – qualcosa che si ripercuote sulla vita quotidiana e su una certa acquiescenza politica. Io credo che si ripercuota anche sul gusto britannico. La classe operaia e la piccola borghesia inglese mostrano di prediligere i beni connessi a “chi sta sopra”. Ciò spiega non solo la passione per i motivi floreali, le fini porcellane e il chintz, ma anche quella per l’applicazione di analoghe decorazioni persino sugli apparecchi elettrici, producendo così un tipo di apparecchi che diversamente non potrebbe esistere. Questo un bel po’ di tempo dopo che i produttori tedeschi avevano già abbracciato il Bauhaus con marchi come Krups e Braun, che li hanno portati a una chiara supremazia internazionale per prodotti di questo tipo. E un bel po’ di tempo dopo che i prodotti della Olivetti ne avevano fatto un marchio mondiale grazie a una versione parzialmente diversa del modernismo e del futurismo. L’effetto a lungo termine della tradizione britannica è che l’Ikea ha trovato proprio in Gran Bretagna la massima resistenza alla sua esportazione in tutto il mondo delle linee essenziali del design scandinavo. Un’ulteriore idiosincrasia dello stile di vita britannico
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è l’attaccamento ai rubinetti separati per l’acqua calda e per l’acqua fredda nei lavandini del bagno. Quando vivevo in Gran Bretagna persi un sacco di tempo cercando di capire con i designer di attrezzature idrauliche perché perdurassero questi modelli (anche se oggi sono un po’ in declino). Il resto del mondo industriale già da un pezzo aveva detto addio ai rubinetti separati, in quanto ecologicamente insensati, pericolosi e scomodi. La spiegazione più passabile che ricevetti fu che i rubinetti separati corrispondono allo stile edoardiano, cioè al momento della storia britannica in cui per la prima volta i rubinetti entrarono nelle case dei benestanti. Fu un periodo di gloria dell’impero, e in quest’ottica i rubinetti separati diventarono successivamente una maniera per portare un po’ d’impero anche nelle case modeste. Tutto questo ha impedito lo sviluppo di prodotti britannici che potessero far confluire gli elementi emergenti del modernismo britannico, così com’erano, in cose comuni come le apparecchiature idrauliche. Ovviamente è superfluo dire che nella storia della Gran Bretagna ci sono anche molti esempi positivi di congiunzione favorevole tra gusto e produttività: su di essi si è basata la rivoluzione industriale, e la produzione su scala mondiale è stata di fatto un’invenzione britannica. I gabinetti giapponesi sono un altro esempio di localismo che non si può facilmente esportare, anche se comporta forti vantaggi funzionali ed ecologici. Nella fig. 8 è riprodotto un modello Toto. Si tratta di una dimostrazione concreta dell’igienismo nipponico, spesso ritenuto estremo dagli altri popoli. La specifica genialità di questo gabinetto (il Giappone ne offre molti di straordinari) è che l’ossessione per l’igiene ha prodotto un sistema di pulizia sul gabinetto stesso che elimina la necessità di toccare i rubinetti o le maniglie delle porte con le mani sporche di escrementi. I progettisti hanno collocato un lavandino proprio sopra il water. Quando si aziona lo sciacquone, contemporaneamente dal rubinetto del lavandino
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comincia a venir fuori l’acqua per lavarsi le mani. Questa stessa acqua va poi a riempire la cassetta del water, che così resta piena per l’uso successivo. Tutto ciò significa che, dopo essersi lavati le mani, non è più necessario toccare il pulsante contaminato dello sciacquone. Si può quindi uscire con le mani pulite. In un bagno pubblico si può aprire la porta senza la preoccupazione di lasciare germi sulla maniglia. Non c’è quindi il rischio di prendere germi lasciati da coloro che hanno usato il bagno in precedenza, e che presumibilmente sono usciti anche loro con le mani pulite. Poiché l’acqua è riciclata sul posto e durante l’uso, senza tubature, trattamenti chimici e pompaggi, il sistema è ecologicamente efficiente. I gabinetti aiutano a vedere una diversità biografica più generale tra gli oggetti: alcuni di essi viaggiano più facilmente di altri. I gabinetti non viaggiano facilmente. Un motivo per cui quelli giapponesi sono poco noti in Occidente è che la gente normalmente non scambia informazioni sui gabinetti. Nella maggior parte delle culture, forse quasi in tutte, le persone sono riluttanti a parlare dell’eliminazione dei rifiuti. Perciò i gabinetti sono “prodotti tabù”. I rivenditori possono sottolinearne caratteristiche quali il risparmio d’acqua e l’estetica (che in certi casi li rende simili a sculture), ma le loro funzioni effettive – tutte imbarazzanti – non vengono tematizzate. Mentre la gente prova ammirazione per l’abbigliamento, i computer portatili e le automobili, ed è pronta a scambiarsi informazioni al riguardo, quando si tratta dei gabinetti c’è un’auto censura. Ciò significa che nei negozi non si può parlare in modo esplicito delle loro qualità e che i distributori non possono pubblicizzarli per quello che fanno. Questo ne rallenta lo sviluppo. Di conseguenza, anche all’interno dell’Europa restano delle varianti nazionali nella funzionalità dei gabinetti, una situazione che cambia più lentamente rispetto ad altre dimensioni dell’integrazione europea. Ecco un’altra forma di localismo. Per alcuni oggetti è probabile che il luogo d’origine resti il luogo d’uso. La mcDonaldizzazione è quantomeno difficile.
Un’altra causa della stabilità di luogo di certi beni dipende dal carattere specificamente locale delle condizioni politiche e di potere che possono determinare la nascita di qualcosa. Nell’Unione Sovietica e nei Paesi satelliti erano i commissari e i loro delegati a decidere che cosa si dovesse produrre e in che modo. Agli inizi della storia sovietica il regime aveva soffocato il costruttivismo e i movimenti artistici correlati, che avevano in realtà un discreto impatto sul design di prodotto e sull’architettura. In modi che non avrebbero sorpreso Smith (1981), questo soffocò l’innovazione. I prodotti sovietici erano beni di un’economia dirigista. I designer attinsero a piene mani ai prodotti occidentali, modificandoli per adeguarli alle contingenze della produzione locale o ai capricci di chi deteneva il potere. Coloro che progettavano e producevano questi beni cercavano di rispondere a circostanze molto specifiche che non esistevano altrove e che avrebbero cessato di esistere dopo la glasnost. Non si trattava di “beni socialisti”, le cui caratteristiche derivassero dall’obiettivo di renderli accessibili a un’ampia fascia di popolazione per il resto deprivilegiata (a questo obiettivo avevano risposto meglio la Volkswagen sotto i nazisti e la Ford sotto il capitalismo). Erano invece l’espressione di un ben preciso ambiente burocratico. Essi contenevano in sé, e qui allargo la mia argomentazione, anche il germe della caduta del comunismo. A mio modo di vedere non fu un declino generale dell’“economia sovietica” a portare al collasso (che in quanto tale, infatti, non fu un declino), ma la qualità specifica dei beni sovietici. In generale, ma anche al livello dell’élite, l’inferiorità di questi beni – perlopiù mere imitazioni dei prodotti occidentali – contrassegnava come inferiori anche i loro creatori e i loro consumatori. Per gli appartenenti all’élite che viaggiavano frequentemente – primo fra tutti il gruppo di Gorbaciov – i prodotti sovietici erano un’umiliazione (fatta eccezione per equipaggiamenti militari, come il kalashnikov). Nel famoso “colloquio in cucina” a un’esposizione moscovita Richard Nixon disse a Nikita Krusciov che l’America avrebbe vinto la guerra
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fredda per la superiorità dei suoi elettrodomestici. A quei tempi sembrò una dichiarazione piuttosto ridicola. Ma dopo il proliferare degli studi sui consumi, e dato il significato simbolico che sappiamo avere gli oggetti, Nixon è stato riabilitato. L’immagine alla moda di Raissa Gorbaciova impersona il divario tra consapevolezza e possibilità di accesso. Adesso, dopo la sua morte, Michail Gorbaciov accetta di farsi usare per le pubblicità di Louis Vuitton. Parte integrante della biografia dei prodotti sovietici è il fatto che hanno contribuito alla caduta del regime che li produceva. In termini tattili, visivi e funzionali essi erano la prova di un fallimento collettivo. Di sicuro, non hanno mai viaggiato per altri lidi. La creazione di prodotti a partire da un’immagine dislocata Fin qui ho sottolineato le condizioni “reali” che distinguono gli uni dagli altri i vari luoghi di progettazione e produzione. Ma i produttori prendono le immagini associate a un luogo e le trasferiscono su beni con cui quel luogo, nel migliore dei casi, ha legami incidentali. Prendono in prestito o rubano l’immagine del luogo, appropriandosene per vendere al meglio un prodotto, come farebbero con qualunque altra immagine o qualsiasi parola (“entusiasmante”, “realistico”, “sano”). È così che una società tedesca può chiamare Florida una linea di arredamento da giardino prodotta in Estremo Oriente. I costruttori d’auto statunitensi hanno sempre dato nomi esotici ai loro modelli: Riviera (Buick), Le Mans (Pontiac), Biarritz (Chrysler). La giapponese Subaru ha chiamato Tribeca un’auto che non ha nulla a che vedere con l’omonimo quartiere alla moda di Manhattan. Ma io non credo che ciò sia espressione di meri simulacri. Indica invece un altro modo ancora in cui il luogo entra a far parte della biografia degli oggetti. Persino a un livello molto superficiale c’è qualcosa di reale che accade. Prendiamo ad esempio Las Vegas, la più superficiale fra tutte le ambientazioni. A Las Vegas ci sono hotel che evocano altri luoghi: il
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Bellagio, il New York New York e il Luxor (figg. 9 e 10). Nessuno di questi hotel ha la benché minima autenticità; ma differiscono l’uno dall’altro, e queste differenze corrispondono all’iconografia che si può di fatto riscontrare in ciascuno dei luoghi d’origine. Questa è una prova che i motivi provenienti da luoghi particolari possono avere circolazione, e per questa ragione si possono utilmente legare a determinati beni, indipendentemente dal luogo in cui questi sono prodotti o situati. Gli alberghi pubblicizzano i luoghi e le loro iconografie attraverso i souvenir che i turisti comprano e attraverso le pubblicità dell’industria del turismo. In entrambi i modi le immagini del luogo (per esempio della sfinge o delle piramidi) circolano ulteriormente e si rendono disponibili per ogni genere di prodotti. Un esempio pregnante di presa a prestito del luogo ci viene offerto dalla sfera intima dei giocattoli sessuali. Un produttore femminista londinese di questo tipo di aggeggi ha ideato una linea di peni artificiali “non fallici”, cui ha dato il nome di alcune città. Sono di colori pastello e vengono proposti in differenti modelli denominati, fra l’altro, Verona, Trento e Murano (fig. 11). In realtà sono tutti fatti a Londra. A prescindere dalle qualità estetiche o d’altro tipo di quelle città, il fatto che ne siano stati scelti i nomi è un riflesso dei cliché che circolano riguardo a ciò che avviene in quei luoghi. Può anche ripercuotersi su quel che veramente accade in quelle città. La medesima azienda di giochi sessuali ha una linea d’inserti anali ai cui modelli è stato dato in genere il nome di città dell’Europa orientale e centrale: Tula, Prague, Budapest. L’uso dei nomi di questi luoghi per simili prodotti implica che essi siano legati a un’idea che, benché non più valida in considerazione di ciò che, almeno in alcuni di essi, sta attualmente accadendo, è tuttavia rivelatrice di una precedente nomea. La reputazione di certi luoghi ha un effetto retroattivo, influenzando ciò che i loro abitanti effettivamente fanno nell’inventare i propri prodotti. I produttori e i designer lavorano per rispondere alle aspettative su come dovrebbe essere un prodotto proveniente
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dalla loro località. Così, per esempio, l’abbigliamento newyorchese deve essere sofisticato (si pensi a Donna Karan) se vuole portare l’etichetta “New York”. L’abbigliamento casual e sportivo può ben essere disegnato e prodotto fuori da New York (ed è certamente pensabile che sia così), ma non sarebbe elegante commercializzarlo come tale. Quando gli stilisti di New York creano pensando a “New York”, ciò influenza la natura del prodotto rendendolo differente non solo da come potrebbe essere un prodotto, che so, di Los Angeles o Barcellona, ma anche da come esso stesso potrebbe essere se loro non si stessero conformando all’“idea” di New York. Le società di design della Silicon Valley, quasi tutte cresciute grazie al successo della locale industria informatica, godono in altre parti del mondo di una certa fama high-tech. Quando fanno prodotti d’altro tipo, come gli spazzolini da denti, conferiscono loro un’aria e un aspetto tecnologici, per esempio inserendo uno spigolo colorato, oppure, alla maniera dei recenti prodotti Apple, progettando una superficie bianca totalmente arrotondata. I prodotti sono quindi influenzati dal contesto locale high-tech anche se la tecnologia usata è semplice. L’aspetto “tecnologico” deriva dalla sensibilità estetica che contraddistingue i designer locali, ma anche dal fatto che tutti gli interessati probabilmente si conformano alla convinzione dei clienti, e forse anche dei consumatori finali, che qualsiasi cosa sia passata da quella parte della California debba senz’altro avere un’aria e un aspetto hightech. Così, anche beni che non hanno alcun rapporto diretto con i prodotti che hanno dato inizio alla reputazione di un luogo fanno proprie le caratteristiche che si pensa siano tipiche della regione e di ciò che ne “dovrebbe” provenire. Gli oggetti delle infrastrutture A parte i beni di consumo (e i prodotti militari), c’è tutto un mondo di oggetti che formano le infrastrutture pubbliche. Anch’essi sono una conseguenza della
natura dei luoghi e contribuiscono retroattivamente a formarla. In una recente ricerca, svolta in collaborazione con Noah McClain, ho studiato prodotti e apparecchiature per garantire la sicurezza, in primo luogo a New York, ma anche in altri contesti. Un dispositivo di controllo importante è il tornello, un mezzo per sorvegliare l’accesso. La fig. 12 mostra un tipico tornello della metropolitana newyorchese (una variante fra le tante esistenti). Alcuni sistemi di controllo del passaggio si basano sul principio d’onestà, in cui si presuppone che sia la coscienza delle persone a impedir loro di tentare di eludere il sistema. Ma questo non fa parte del mondo newyorchese. Un’alternativa è il controllo a campione sulle persone che avrebbero dovuto comprare il biglietto. Anche questa non è una pratica abituale a New York. Una spiegazione, a mio parere, è che un sistema del genere comporterebbe il rischio di discussioni e forse di disobbedienza in una popolazione che non subisce facilmente. Invece si lascia all’apparecchiatura materiale il compito di controllare gli ingressi. I designer di tornelli cercano di costruire una «prescrizione» fisica (Akrich 1992, trad. it. p. 63) al comportamento altrui. I loro sforzi si palesano nei dettagli. In alto c’è una sbarra orizzontale, sicché se qualcuno cerca di saltare il tornello rischia di rompersi la testa. Da uno dei lati, all’altezza delle mani la superficie è inclinata, così da rendere più difficile usarla come punto d’appoggio per la mano o l’avambraccio per saltare dall’altra parte. Quando il tornello gira, uno dei suoi bracci punta verso il basso, creando un ostacolo che interferirebbe col tentativo di strisciare sotto. Nondimeno, la gente giovane e agile riesce a lanciarsi attraverso questo spazio, per esempio tuffandosi a testa in avanti per poi atterrare in qualche modo in piedi dall’altra parte. Secondo alcuni questa configurazione di salto ha ispirato un particolare movimento della break dance che i giovani appassionati si sforzano di eseguire: correre, saltare, fare la capriola e riprendere a camminare. Il design entra nei meccanismi del corpo. In questa maniera il design modifica, inoltre, il modo in cui si
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può barare, senza eliminare la possibilità di farlo. Diversamente dalla versione odierna, nel 1922 i tornelli newyorchesi si presentavano come nella fig. 13. Li si poteva scavalcare o ci si poteva infilare sotto. Anche i grassi e gli anziani potevano barare, l’accesso all’imbroglio era democratico. La forma attuale dell’imbroglio è riservata invece a coloro che sono fisicamente molto agili. La tecnologia ha redistribuito la frode in modo differente fra la popolazione. Si tratta anche della tecnologia di un periodo e di un luogo particolari, in cui il controllo e il desiderio di sconfiggerlo sono forti. Le autorità non hanno remore a dimostrare di non aver fiducia nell’onestà dei cittadini. Ai meno atletici il sistema offre una chance di disonestà alternativa. Uno degli altri artefatti di cui è composto il “pacchetto” (Shove 2003) dei tornelli è la Metrocard. Gli utenti la comprano dai distributori automatici nelle stazioni della metropolitana e poi la introducono nella fessura obliteratrice del tornello. Alcuni hanno escogitato un modo di piegare questa carta così da renderne possibile l’utilizzo per un numero illimitato di corse. Fuori dai tornelli ci sono uomini che vendono tesserini ai passeggeri a circa metà prezzo. Loro devono essere abbastanza robusti da squagliarsela in gran fretta se arriva la polizia. E di solito sono abbastanza minacciosi da togliere agli impiegati della metropolitana la voglia d’intervenire. Ma devono anche essere, nell’abbigliamento e nei modi, abbastanza gradevoli da indurre eventuali clienti all’acquisto. L’artefatto assegna in modo molto preciso l’infrazione delle regole a una particolare nicchia di colpevoli. Abbiamo trovato anche altri dispositivi atti a sconfiggere l’oggetto, ciò che Bruno Latour (1991) chiama «antiprogramma» – a vantaggio di altri gruppi specifici. La paranoia locale come elemento di design La diffidenza è aumentata in molte parti del mondo, ma dall’11 settembre gli Stati Uniti primeggiano nell’intensificazione dei meccanismi di controllo. Ne è una prova la foresta di attrezzature e procedure di cui è fatta
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oggi la sicurezza in aeroporto. Nonostante gli sforzi massicci compiuti negli Stati Uniti, con spese enormi e un imponente ammodernamento delle attrezzature, i controlli di sicurezza comportano un miscuglio assai eterogeneo di strumenti e oggetti. Per la maggior parte si tratta di utensili ordinari adattati a un nuovo uso. I vassoi in cui depositiamo computer portatili e cappotti appartengono all’attrezzatura standard dei ristoranti, dove sono usati per sparecchiare i tavoli. Le ciotole di plastica per mettere le monetine e i palmari sono quelle che si usano a scuola e per i picnic. In alcuni aeroporti del mondo le autorità hanno commissionato attrezzature specifiche adeguate all’uso, ma ciò non è avvenuto negli Stati Uniti. La mancanza di un design mirato è a mio parere sintomatica della generalizzata reazione militaristica alla distruzione del World Trade Center. Non mi è ancora capitato di vedere in giro per il mondo, ma soprattutto nelle città statunitensi, nemmeno il più piccolo miglioramento nel design, come lo sarebbero dei vassoi trasparenti, che renderebbero più facile vedere se contengono computer portatili (che verrebbero quindi trattati con maggior cautela), oppure delle ciotole per le monetine con l’estremità a imbuto, che renderebbe più agevole rovesciarle nella mano. Come per la maggior parte della restante tecnologia aeroportuale, gli standard sono qui imposti dal gigante americano (Braithwaite e Drahoos 2000) – un altro caso, come quello di McDonald’s, in cui un particolare “localismo” ha avuto conseguenze omogeneizzanti su un’area del mondo molto più ampia. Così come dominano il mercato globale in campo militare, gli Stati Uniti si stanno imponendo come il centro mondiale delle attrezzature che rispondono alle paure interne. Ciò deriva in parte dall’aver fissato le procedure di controllo cui quelle attrezzature sono connesse. Negli aeroporti statunitensi i passeggeri devono togliersi le scarpe. Invece in Gran Bretagna, che pure ha buoni motivi per preoccuparsi della sicurezza, non è necessario. Per facilitare l’ispezione delle scarpe senza che sia necessario togliersele la statunitense General Electric Company ha ideato uno
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speciale scanner su cui le persone possono passare con le scarpe. Sono macchine da 200.000 dollari l’una. Non sono ancora pronte per un’installazione a tappeto, perché hanno dato problemi durante le prove di collaudo negli aeroporti. Probabilmente le difficoltà tecniche potranno essere superate. Per poterne coprire i costi, ogni passeggero dovrà iscriversi a uno speciale club simile a quelli delle compagnie aeree, il cui scopo è però di superare più rapidamente i controlli di sicurezza: pagando una quota annuale di cento dollari – questo è al momento il prezzo previsto – si potrà passare sulla macchina. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un’invenzione caratteristica di uno specifico Paese in un momento particolare della storia. Si basa sulla paura ed è classista, non nel senso usuale dell’appartenenza a una certa classe (o a una casta, o del possesso di un diritto di nascita), ma nel senso dell’essere in grado di pagare la quota annua – una sorta di bene di consumo. Una grande ironia per tutte le strumentazioni di questo genere è, ovviamente, che hanno conseguenze non intenzionali, come i tornelli della metropolitana che ridisegnano le possibilità di devianza. Le apparecchiature di sicurezza oggi attive negli aeroporti, qualunque sia la loro efficacia nell’individuare i terroristi e il rispettivo equipaggiamento, di fatto mettono insieme un potenziale obiettivo che in altre condizioni non esisterebbe. Le persone che affrontano le file a zig-zag per sottoporsi ai controlli di sicurezza al JFK o all’aeroporto di Heathrow sono sicuramente più numerose di quelle che poi s’imbarcano su ciascun aereo. Ma, ancora una volta, a mio parere è la struttura della sensibilità in questi punti caldi globali, insieme alle condizioni politiche che ne derivano, a determinare le caratteristiche dei prodotti e delle procedure. Queste stesse dinamiche vengono in superficie nel più ambizioso sforzo newyorchese di trasformazione architettonica, la ricostruzione di Ground Zero. I più famosi architetti del mondo hanno fatto a gara per progettare i nuovi edifici che sorgeranno su questo sito. Fra gli altri obiettivi era divenuto importante dare una forma
ardita alle costruzioni, per dimostrare che la libertà, la democrazia e gli altri valori americani non potevano essere sconfitti. A vincere il concorso fu Daniel Libeskind, che propose un edificio che sarebbe stato il più alto d’America, chiamandolo Freedom Tower. Furono i valori simbolici del progetto di Libeskind, insieme con le forti pressioni da parte dei suoi sostenitori nel Partito repubblicano, a convincere il governatore dello Stato di New York – a quel che si dice – a rovesciare il verdetto della giuria di esperti, che in realtà aveva aggiudicato la vittoria a un’altra società (per una stravaganza amministrativa, ad avere l’effettiva autorità sul sito di Ground Zero è il governatore dello Stato e non il sindaco della città). Una delle tante caratteristiche simbolicamente rilevanti della Freedom Tower di Libeskind era che avrebbe dovuto misurare 1776 piedi, un’altezza corrispondente all’anno di fondazione degli Stati Uniti. Avrebbe dovuto essere fatta in modo che un particolare raggio di luce riuscisse a fendere il sito un giorno solo all’anno, l’11 settembre. La torsione della torre avrebbe dovuto evocare il braccio disteso della Statua della Libertà, al di là del fiume (fig. 14). Il progetto di Libeskind non sarebbe, però, mai stato realizzato. L’altezza della struttura effettivamente utilizzabile non avrebbe mai potuto raggiungere i 1776 piedi, in parte per la paura di saturare il mercato immobiliare del centro con un eccesso di offerta di spazi per uffici, e in parte per la presumibile paura dei potenziali proprietari di essere così vistosamente esposti nel più evidente obiettivo terroristico del Paese. Nella parte più alta avrebbero quindi trovato collocazione opere ornamentali e spazi di servizio. Il raggio di luce era un falso: in realtà non si sarebbe mai verificato. La torsione non era realizzabile da un punto di vista ingegneristico e presentava difficoltà tecniche insormontabili. La riprogettazione comportò una completa revisione da parte dell’architetto David Childs, direttore di Skidmore, Owings e Merrill (SOM). È uno dei più importanti progettisti al mondo di edifici per uffici, quello che era stato incaricato di ristrutturare i piani più bassi e il centro commerciale del World Trade Center subito
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prima della sua distruzione. Il progetto di Childs prevede la costruzione di un edificio di settantasette piani (1362 piedi). L’altezza di 1776 piedi sarà nuovamente raggiunta, ma solo con l’aiuto di un’antenna altissima – un’ostentazione delle virtù della televisione via cavo e della telefonia cellulare. E non ci sarà alcuna evocazione della Statua della Libertà. Ci sarà, però, una gran quantità di cemento armato. Prossimo al traguardo, anche il progetto di Childs ha dovuto essere modificato per rispondere ai requisiti di sicurezza. La polizia di New York, guidata dal sovrintendente Ray Kelly, ha ritenuto i piani più bassi troppo vulnerabili alle autobombe posteggiate nelle adiacenze. Ciò ha costretto a una revisione del progetto, che ha portato a realizzare i primi venti piani in cemento armato. E senza finestre. Quasi immediatamente i critici hanno censurato quello che, scherzosamente, è stato chiamato il “progetto Kelly”, perché compromette la visione di Libeskind e anche i compromessi di Childs. Il critico di architettura della rivista “New Yorker”, Paul Goldberger, ha definito questo progetto la «fear tower». E poi, tutte le misure di sicurezza del mondo potrebbero risultare infine inutili, dal momento che l’opera di ricostruzione è stata bellicosa quanto basta da irritare ulteriormente coloro che sono in cerca di un modo per fare del male (né la guerra in Iraq ha aiutato in tal senso). Un mio amico ha chiamato questo edificio «Bombardami-per-primo», una definizione abbastanza appropriata per una struttura che già ben prima dell’attacco del 2001 era stata oggetto di un grave attentato. La torre che si sta costruendo adesso è ancora una volta l’esempio di un artefatto che prende forma sotto
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l’influsso del particolare luogo e tempo in cui sorge. Doveva essere alta perché New York è la città dei grattacieli – un’idea nostalgica, visto che ormai altre città del mondo l’hanno superata per altezza degli edifici. Si è iniziato con un progetto scelto dal governatore dello Stato invece che da una giuria di architetti, perché New York non si rimette al giudizio degli esperti e perché il governatore (non il sindaco) ha l’autorità legale per farlo, una peculiarità newyorchese delle relazioni tra la città e lo Stato. Inoltre, data l’importanza che ha in generale in città la polizia, in particolar modo dopo il mandato di Rudolph Giuliani e gli eventi dell’11 settembre, è stata la polizia ad avere l’ultima parola. È chiaro che molto di tutto ciò rispecchia non solo la città di New York, ma anche la nazione in cui essa è situata, anch’essa un luogo che – su una scala più ampia – possiede una cultura e una politica che hanno contribuito a fornire molti dei sostegni ideologici che sorreggono una struttura di questo tipo. I luoghi sono sempre inseriti in altri luoghi, ciascuno con un proprio carattere – come ho cercato di dimostrare – e una propria scala. I prodotti nascono da tutti i livelli geografici e da tutti gli elementi culturali e tecnologici che contraddistinguono ciascun luogo. Nessun singolo elemento è determinante. Al contrario, i fattori “pesanti”, come le risorse, i mezzi di trasporto e il denaro, sono connessi a elementi più “leggeri”, come la politica, le opinioni, l’arte e l’espressività (ivi inclusa la vendetta). I luoghi hanno delle qualità distinte, e che si tratti di un hamburger, di un gabinetto o di un edificio gigantesco, la natura del luogo d’origine può essere considerata un fattore discriminante nella creazione di ciascun prodotto.
Bibliografia Akrich M. (1987), Comment décrire les objets techniques?, in “Technique et Culture”, n. 9, pp. 49-64; trad. it. La descrizione degli oggetti tecnici, in Il senso degli oggetti tecnici, a c. di A. Mattozzi, Meltemi, Roma, pp. 53-80. Braithwaite J. e Drahos P. (2000), Global Business Regulation, Cambridge University Press, Cambridge. Florida R. (2004), The Rise of the Creative Class, Basic, New York; trad. it. L’ascesa della nuova classe creativa: stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano 2003. Latour B. (1991), Technology is Society Made Durable, in A Sociology of Monsters: Essays on Power, Technology, and Domination, a c. di J. Law, Routledge, London. Lubbock J. (1995), The Tyranny of Taste, Yale University Press, New Haven. Smith C.S. (1981), A Search for Structure, the MIT Press, Cambridge (Mass.). Shove E. (2003), Comfort, Cleanliness and Convenience: The Social Organization of Normality, Berg, Oxford. Storper M. (1997), The Regional World, Guilford, New York. Williams R. (1973), The Country and the City, Oxford University Press, New York.
giovanni gasparini
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Oggetti interstiziali e oggetti del tempo Oggetti o concetti? Spunti dal pensiero interstiziale L’obiettivo di questo contributo è cercare di dare conto e possibilmente mettere a frutto due filoni teorici di cui mi sono molto occupato negli ultimi anni, alla luce di un focus specifico che è comune ai diversi contributi di questo volume ed è rappresentato dalla biografia degli oggetti. I due filoni saranno esplorati separatamente tenendo anche conto dei loro possibili nessi. Inizio dunque dall’area più recente, quella degli interstizi, che si può far rientrare in una prospettiva teorica di sociologia della vita quotidiana. Lo studio degli interstizi della vita quotidiana rappresenta un’ipotesi e una prospettiva concettuale per la comprensione di una serie di dimensioni rilevanti della società postindustriale contemporanea: essa può contare attualmente su un certo numero di volumi e saggi1 usciti nell’ultimo decennio, nonché sul dialogo e la collaborazione tra e con studiosi di parecchie discipline2. In sostanza, tralasciando ulteriori sviluppi teorici, da questo filone di ricerca emergono due livelli di fenomeni-esperienze interstiziali, che sono esplorabili a partire dall’ampia latitudine del termine stesso:
a. gli interstizi di primo livello, ossia quei fenomeni che “stanno fra” (in between, entre-deux), in mezzo tra due realtà o fenomeni o situazioni in termini di spazio, di tempo o complessivamente di comunicazione; b. gli interstizi di secondo livello, vale a dire quei fenomeni marginali, residuali o eccezionali rispetto ad altri ritenuti centrali o normali in un dato contesto sociale e in un quadro di convenzioni sociali consolidate: qui l’interstizialità è intesa in quanto marginalità. È evidente, da quanto precede, che l’analisi e ricerca riguarda essenzialmente l’elaborazione di concetti e tipologie, vale a dire “oggetti teorici” e non fattuali; ma la messa a fuoco di singole esperienze interstiziali consente di cogliere una serie di collegamenti, corrispondenze e implicazioni tra fenomeni indagati concettualmente e specifici oggetti, intesi come cose concrete o manufatti a cui essi possono dare adito. In questa logica, vengono qui richiamati e ripresi sinteticamente i dieci fenomeni interstiziali che sono stati trattati nei primi due volumi dedicati da chi scrive
1 Mi riferisco ai volumi di sociologia degli interstizi usciti dal 1998 a oggi (Gasparini 1998; 2002; 2005a; 2007a) nonché a una serie di altri articoli e saggi (Gasparini 2004; 2005b; 2006; 2007b).
2 Mi riferisco al volume collettaneo Le piccole cose (Gasparini, a c. di, 2004) e alla Newsletter on-line del Gruppo Interstizi & Intersezioni del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, consultabile (novembre 2008) sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia: www.ais-sociologia.it.
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alla prospettiva teorica in esame, vale a dire: viaggio, passaggio, attesa, sosta, silenzio, corrispondenza, sorpresa, dono, gioco, perdita (Gasparini 1998 e 2002). Il viaggio (Gasparini 1998, cap. 1), esperienza multiforme e di grande impatto a molteplici livelli nelle società contemporanee, pone in evidenza una vasta gamma di oggetti tipici che è impossibile enumerare qui in modo esaustivo. Avendo presente la dimensione dell’interstizialità, intesa essenzialmente come ciò che sta in mezzo tra partenza e arrivo del viaggiatore, mi limito a indicare tre serie di oggetti. La prima è quella che ha accompagnato e si accompagna a ogni tipo di viaggio, di ieri come di oggi, ed è rappresentata da quei contenitori in cui il viaggiatore racchiude le cose che reputa utili se non essenziali per la propria esperienza di movimento nello spazio: bisaccia, borsa, sacco, zaino, valigia e oggetti consimili rappresentano un concentrato di ciò che il viaggiatore (turista, escursionista, globetrotter, pellegrino, migrante o altro) reca con sé dal luogo/mondo di partenza per servirsene durante il viaggio. La seconda serie di oggetti è rappresentata dai mezzi di trasporto tipici delle società meccanizzate, che hanno permesso spostamenti sul territorio su vasta scala, non sempre finalizzati a veri e propri viaggi (tali non essendo, per esempio, gli spostamenti a breve raggio in ambito urbano-metropolitano, i movimenti dei lavoratori pendolari e simili): dal treno all’automobile e alla motocicletta, dall’aeroplano all’elicottero, dai piroscafi ai mezzi nautici moderni, si tratta di oggetti che hanno reso possibile non solo – genericamente – i movimenti nello spazio ma lo sviluppo vertiginoso di molte forme di viaggio. La terza serie è costituita, più che da oggetti, da artefatti caratteristici di certi tipi di viaggio i quali hanno interessato, coinvolto e convogliato dalla Rivoluzione industriale a oggi grandi masse di soggetti viaggianti: pensiamo alle stazioni ferroviarie – con tutto il loro corredo caratteristico di oggetti quali, per citarne solo uno, l’orario ferroviario –, agli aeroporti, alle stazioni marittime. Il passaggio, che si può ritenere omologo al viaggio in
quanto fenomeno interstiziale di primo livello attinente alla dimensione spaziale (Gasparini 2002, cap. 1), può essere ricordato, nella logica degli oggetti caratteristici relativi, anzitutto per la presenza di manufatti fisici e simbolici al tempo stesso, quali porte o archi (in molte società arcaiche), o come ponti e gallerie che mettono in comunicazione un’area con un’altra distinta geograficamente, socialmente o politicamente, ciò che avviene tipicamente con le frontiere nazionali. Nei casi più critici (che possono diventare drammatici) esistono sbarramenti come muri e fortificazioni, fili spinati e fossati che impediscono il passaggio da un paese all’altro oppure lo limitano fortemente. Il passaggio delle frontiere dà adito anche, normalmente, a oggetti-documenti peculiari di cui il viaggiatore è o dovrebbe essere munito: il passaporto o documento analogo, che certifica l’identità del soggetto viaggiante e la sua attitudine o legittimazione a varcare una frontiera. L’attesa è un altro fenomeno interstiziale di primo livello, attinente in questo caso alla dimensione temporale (Gasparini 1998, cap. 2). Anch’essa può dar origine a manufatti tipici, come sono tutti gli ambiti costruiti e finalizzati a situazioni d’attesa: dalle anticamere e sale d’aspetto di medici e dentisti alle sale d’attesa di ospedali, alle aree d’attesa appositamente previste nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, per non citarne che alcuni. La sedia – l’umile sedia che può presentare varianti in termini di poltrona o divano – rappresenta probabilmente l’oggetto più tipico delle situazioni di attesa, quando i luoghi a ciò deputati ne consentano l’inserimento o collocazione a beneficio di coloro che si trovano appunto a vivere questa esperienza considerata frustrante nelle nostre società ma che può essere quanto meno alleviata da strategie di “arredamento” del tempo d’attesa, facendo in modo cioè che esso possa consentire lo svolgimento di altre attività parallele. La sosta si può avvicinare all’attesa, in quanto fenomeno interstiziale di primo livello che allude al tempo (Gasparini 2002, cap. 2). Anche se sosta e attesa
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tendono in diversi casi a sovrapporsi, si può notare una certa differenza, dovuta al fatto che la prima è generalmente autoregolata e corrisponde normalmente a esigenze di riposo e rilassamento: in questo senso si possono menzionare le aree di sosta presenti sulle autostrade, così come le aree attrezzate per i picnic che fiancheggiano le strade frequentate dai turisti. Volendo indicare un oggetto simbolico tipico della sosta, non v’è dubbio che si tratti della panchina: così come la sedia allude all’attesa, la panchina – che troviamo non solo nelle aree di sosta ma talora in luoghi urbani o naturali atti alla contemplazione estetica e al rilassamento – allude a una pausa, un’esperienza interstiziale che il soggetto si concede nel corso o nel vivo di altre attività, come il lavoro e l’attività professionale, o come il viaggio stesso. Altro particolare da indicare è che la panchina è un tipico manufatto en plein air, da esporre e collocare all’esterno, a differenza della sedia che solitamente è posta all’interno di un ambiente o al limitare di esso quando le condizioni climatiche lo consentano. Il silenzio, esperienza interstiziale di primo livello che implica la dimensione trasversale della comunicazione (Gasparini 1998, cap. 3), non sembrerebbe di primo acchito dar luogo a oggetti che ne indichino espressamente la presenza. Tuttavia il silenzio – come per un motivo o per l’altro anche i fenomeni sopra richiamati – allude a luoghi specifici, deputati e riservati a esso: fra questi il più antico, pervenuto fortunatamente (o fortunosamente) fino a noi è la biblioteca, luogo nel quale è ancora richiesto, prescritto e solitamente osservato il silenzio dei frequentatori. Il silenzio si accompagna poi a luoghi e riti che hanno al centro la dimensione religiosa: fra essi si può citare il cimitero con i suoi tipici manufatti – le tombe – che da sempre indicano il silenzio definitivo che scende su chi ha terminato la propria esperienza umana. La corrispondenza epistolare, che si può apparentare al silenzio in quanto fenomeno interstiziale di primo livello attinente alla comunicazione (Gasparini 2002, cap. 3), ne differisce però completamente dal punto
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di vista dell’oggettualità implicata. La corrispondenza in effetti per esprimersi ha bisogno di un oggetto tipico e caratteristico, la lettera: pur essendo conosciuta da molti secoli nelle relazioni tra i membri delle ristrette élite culturali e politiche che, in diverse società potevano permettersi di trasmettersi messaggi scritti, la lettera è diventata uno strumento usuale di comunicazione da pochissimi secoli, di fatto da quando i mezzi di trasporto realizzati dalla Rivoluzione industriale ne hanno permesso la regolare trasmissione a livello sia nazionale che internazionale. Si possono citare al riguardo due altri oggetti che accompagnano la lettera in senso stretto: uno è la busta, che ne garantisce e suggella il fondamentale carattere di comunicazione riservata e privata tra due soggetti; l’altro è il francobollo, che oltre a rappresentare il costo o la tassa richiesta per la spedizione di una lettera (o di un plico), sviluppa tutta una propria logica di oggetto con valenze estetiche, simboliche e collezionistiche (si pensi all’importanza della filatelia, da oltre un secolo a questa parte). Per chiudere con un riferimento alla corrispondenza nei tempi presenti, basti osservare che l’oggettualità fisica tipica della corrispondenza epistolare viene meno con la posta elettronica, anche se l’e-mail mantiene alcune delle funzioni che hanno reso caratteristica e diffusa a tutti gli ambiti sociali l’esigenza di comunicare per iscritto. La sorpresa è un fenomeno che introduce all’area degli interstizi di secondo livello (Gasparini 1998, cap. 4), cui appartengono le altre esperienze che verranno ora richiamate. Si tratta di un fenomeno che di per sé non adduce a specifiche traduzioni oggettuali, se non per il suo collegamento ad altre esperienze quali il dono, anch’esso studiato nella stessa logica degli interstizi di secondo livello (Gasparini 1998, cap. 5): in effetti, le belle sorprese si possono collegare a doni ricevuti dal soggetto, quando essi vengono espressi nella forma oggi molto diffusa del regalo. Tra le diverse realizzazioni possibili del dono, quella dei regali esprime la corrispondenza oggettuale più stretta ed evidente: i regali concreti offerti e ricevuti accompagnano
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festività importanti sia di carattere individuale – i compleanni, gli anniversari di vario genere, la celebrazione di riti di passaggio come il matrimonio – che tempi festivi caratteristici come in primo luogo, oggi, il Natale. I doni-regali ai bambini rappresentano nelle nostre società un elemento culturale ed economico di primo piano; analogamente, intere aree della produzione e dell’attività commerciale – articoli da regalo, fiori, in parte i dolci – danno luogo a oggetti che sono tipicamente utilizzati per essere donati. Al dono si collega in parte il fenomeno del gioco (Gasparini 2002, cap. 4), con l’avvertenza che qui sono implicati non solo giochi e giocattoli per bambini ma anche oggetti che concretizzano attività ludiche svolte prevalentemente da adulti (i giochi delle carte ad esempio) o indifferentemente da grandi e piccoli, come i moderni videogiochi. Per quanto riguarda infine la perdita, fenomeno considerato interstiziale di secondo livello in certe fasi delle società industrializzate (Gasparini 2002, cap. 5), ci si può limitare a osservare che una sua espressione oggettuale, anche se settoriale, è quella che fa riferimento a una categoria di cose più o meno definite che sono “gli oggetti smarriti”. In effetti, non tutti gli oggetti si perdono: è interessante osservare che le cose che sono investite dall’esperienza, quanto mai comune nella vita quotidiana, di una perdita – sia essa temporanea o definitiva – vengono solitamente perse durante un viaggio o uno spostamento su un mezzo di trasporto pubblico. Si tratta spesso di oggetti da viaggio come ombrelli e soprabiti, borse e zaini, apparecchi fotografici, ma anche di effetti personali quali portafogli, documenti, occhiali, telefoni cellulari e così via. E si tratta sovente di oggetti-appendice, quali tipicamente sono gli ombrelli e gli occhiali o certi contenitori da viaggio, che per distrazione vengono lasciati sul mezzo utilizzato per il trasporto, senza escludere peraltro che la loro perdita derivi da una sottrazione per furto operata da altri. Nel complesso, la sintetica rassegna sui fenomeni interstiziali ora compiuta permette di ribadire da un
lato l’esistenza di nessi e interdipendenze – che possono essere più o meno stretti – tra tali fenomeni e singoli oggetti concreti, dall’altro la non esauribilità dei fenomeni interstiziali in tali oggetti. Resta cioè sempre aperto lo spazio e lo scarto tra la concretezza di oggetti fissati nella loro forma, e dunque per così dire nel tempo, e d’altro lato le possibilità di loro interpretazioni simboliche da parte dei soggetti che se ne servono. Gli oggetti nella riflessione sui tempi sociali Come si è avuto modo d’illustrare, la dimensione temporale – intesa eminentemente in senso cronologico e quantitativo – è una componente spesso presente nei fenomeni interstiziali: e questo sia in modo diretto o esplicito, come nei casi considerati dell’attesa e della sosta, sia indirettamente o implicitamente, come tra l’altro nei fenomeni della sorpresa e della corrispondenza. Considerando ora esplicitamente il filone di studi delle scienze sociali sul tempo – o se si vuole l’area di ricerca e analisi rappresentata dai rapporti tra tempo e società –, appare immediatamente lo stretto rapporto che lega la tematica del tempo alla presenza di certi oggetti: alla loro invenzione e costruzione, così come al loro utilizzo e diffusione in ambito sociale. È d’obbligo qui menzionare l’orologio meccanico, che sin dalla sua invenzione anonima in Occidente tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo ha stabilito con il tempo una relazione privilegiata e tutta particolare, che ha favorito grandemente l’affermarsi e il predominio di una certa concezione del tempo. Ma, prima di dedicare alcune considerazioni all’orologio, si può di passaggio osservare che in tutte le collettività umane in cui emerge l’interrogazione e la ricerca sul senso del tempo si afferma l’esigenza di misurarlo attraverso oggetti specifici e atti a coglierne le manifestazioni nell’area naturale e cosmica. D’altra parte, il problema del tempo, in termini sia individuali che sociali, non è esauribile nella sola
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misurazione del suo scorrere, nella esatta determinazione o previsione delle sue scansioni. Il tempo, infatti, non si può misurare come lo spazio o come altre entità fisiche (peso, volume ecc.); e proprio la sua inafferrabilità e il suo mistero sono probabilmente all’origine dei tentativi di molti gruppi sociali di fissarlo in determinati oggetti, di coglierlo attraverso certi momenti topici, come il mezzodì quando il sole è al suo zenith (ne danno atto gli gnomoni inventati dagli antichi Egizi, e poi le meridiane in uso presso diverse popolazioni) o come il solstizio d’estate (cui si collegano complessi monumenti megalitici come, ad esempio, quello di Stonehenge nel mondo celtico). Lo scorrere inarrestabile del tempo viene misurato poi da altri strumenti: gli orologi ad acqua (“clessidre”) in uso nel mondo antico e perfezionati dagli arabi, così come gli orologi a polvere o a sabbia (pure indicati comunemente con il termine clessidra) che si diffondono in Occidente quasi contemporaneamente all’invenzione dei primi orologi meccanici da campanile e servono, tra l’altro, a controllarne la precisione (Dohrn-van Rossum 1992). La clessidra (orologio a polvere o a sabbia) opera in base a una logica di tempo finito e concreto, anziché indefinito come nell’orologio meccanico: essa è immagine della finitezza e di un compito da svolgere entro un tempo delimitato (Jünger 1954). È curioso osservare che la clessidra, oggetto oramai desueto e quasi scomparso dalle società contemporanee, è riemersa come una delle icone più frequenti e significative del linguaggio dei computer, per alludere appunto a un’attesa, un indugio (di solito di pochi secondi) che si rende necessario per lo svolgimento di un’operazione richiesta o in corso. Dalla vastissima letteratura ormai disponibile sugli orologi meccanici, sui loro sviluppi e perfezionamenti, nonché sulle loro funzioni storico-sociali (cfr., tra gli altri, Cipolla 1967; Landes 1983; Dohrn-van Rossum 1992), non è certo possibile qui dare conto in modo esaustivo. Si possono tuttavia trarre alcune indicazioni di sintesi interessanti per la presente ana-
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lisi: la prima di esse consiste nel prendere atto dell’eccezionale influenza che ha avuto progressivamente l’orologio meccanico a livello degli attori individuali e dei sistemi sociali, anzitutto in Occidente – dove questo oggetto è nato ed è stato altamente valorizzato – e poi, con lo sviluppo dell’industrializzazione dalla seconda metà dell’Ottocento, progressivamente a livello mondiale. L’importanza dell’orologio rispetto ad altri precedenti strumenti di misurazione del tempo si può rilevare nei termini dell’impatto che esso, operando un distacco dal tempo concreto dello svolgimento delle azioni quotidiane, ha esercitato nel favorire una concezione astratta del tempo stesso: essa si esprime appieno con lo sviluppo dell’industrializzazione, allorché si afferma una “cultura temporale” imperniata sulla dimensione quantitativa del tempo, sulla valorizzazione della velocità e dell’istantaneizzazione, sulla programmazione temporale e sulla considerazione economicistica del tempo stesso (Gasparini 2001b). L’orologio della fabbrica, l’orologio della stazione ferroviaria e quindi l’orologio elettrico che per strada indica l’ora a tutti i passanti sono tra i manufatti più emblematici delle nuove società industrializzate. In sostanza, un oggetto o manufatto che è nato da una certa dimensione concettuale (quella che in termini religiosi e civili era sin dal Medioevo in Europa l’attenzione al tempo lineare piuttosto che ciclico) ha svolto storicamente una basilare azione di feedback e di rinforzo nei confronti di tale concezione lineare e quantitativa. Un’altra osservazione può essere compiuta riguardo ai processi di sviluppo e perfezionamento degli orologi meccanici, cui dopo circa sette secoli gli orologi al quarzo della fine del XX secolo danno il cambio mantenendone però in parte le caratteristiche esteriori, come le lancette che alludono al movimento circolare del tempo. Si tratta del processo di miniaturizzazione che porta a una sempre più diffusa personalizzazione dell’oggetto segnatempo per eccellenza: l’orologio non è soltanto un oggetto personale, di competenza e proprietà del singolo, ma è qualcosa che “si porta
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addosso”, di solito al polso (con l’invenzione della montre-bracelet dei francesi, concepita all’inizio per l’utilità dei primi aviatori all’inizio del Novecento) per consentire la frequente e immediata consultazione (a differenza del precedente orologio da taschino, riservato comunque tipicamente agli uomini) e diventa parte dell’abbigliamento personale. C’è in questo “portarsi addosso il tempo” qualcosa che anticipa il modo di portarsi addosso la comunicazione istantanea che sarà realizzata con la diffusione capillare dei telefoni cellulari tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo; e non è senza significato che i cellulari siano usati anche come orologi oltre che per la comunicazione con altri utenti. Se l’orologio meccanico – e in seguito l’orologio al quarzo, che ne raccoglie l’eredità – si può considerare il referente e insieme il catalizzatore della concezione quantitativa del tempo che dall’Occidente s’impone progressivamente in tutto il mondo (nonostante la persistenza di altre concezioni della temporalità), non si possono non menzionare altri caratteristici oggetti legati alla dimensione della temporalità e in modo più specifico all’organizzazione sociale del tempo nelle società contemporanee: è il caso in particolare dei calendari, degli almanacchi (che recano anche indicazioni astronomiche e meteorologiche) e delle agende. Queste ultime, pur essendo simili ai calendari, sono uno strumento che si diffonde solo nel Novecento ed è tipico delle società contemporanee (cfr. Maiello 1994; Weinrich 2004): l’agenda, presente oggi anche in forma elettronica, è ancora prevalentemente un manufatto cartaceo che si offre come un calendario personalizzato, predisposto per la programmazione e l’organizzazione del tempo quotidiano. Si tratta di un oggetto che, al di là della sua dichiarata funzione di promemoria per impegni e appuntamenti quotidiani e settimanali, testimonia in modo esemplare i tratti della cultura temporale attuale, contrassegnata dal senso della scarsità del tempo, da una sorta di fobia 3 Mi riferisco in particolare alla tematica della biografia degli oggetti (Kopytoff 1986). Non mi è possibile in questa sede affrontare il tema del rapporto delle cose con il trascorrere del tempo; per alcune considerazioni rinvio a Gasparini (2001a, cap. 6).
per le perdite di tempo e da un costante sforzo di ingabbiare il futuro attraverso la pianificazione di azioni e comportamenti (Gasparini 2001a, cap. 6). La questione della distanza: i telefonini e le stelle È arduo, dopo aver tracciato orizzonti teorici piuttosto ampi e avendo rigidi limiti di spazio nell’esposizione, tentare di delineare qualche elemento conclusivo. Tralasciando parecchie altre piste, mi concentro su una possibile conclusione e su una questione aperta: entrambe danno adito anche a qualche implicita considerazione e riflesso sul tema specifico degli oggetti attraverso le loro trasformazioni nel tempo e nell’utilizzo3. L’elemento conclusivo che mi sembra interessante in una prospettiva futura, nell’analisi della relazione tra approcci teorici (come quelli qui esposti, o come altri che sarebbe stato possibile esplorare) e oggetti o manufatti concreti, riguarda la differenza o l’alternativa tra oggetti uni-purpose e multi-purpose, o se si vuole tra oggetti monofunzionali e plurifunzionali. La maggior parte degli oggetti che sono stati esemplificati, sia in riferimento al filone teorico degli interstizi, sia a quello dei tempi sociali, sono sostanzialmente uni-purpose; così come lo sono la quasi totalità degli oggetti delle società del passato e molti tra quelli che anche a noi oggi sono familiari. Beninteso, gli oggetti uni-purpose possono anche rivestire funzioni collaterali, manifeste o latenti, ma restano centrati sulla loro finalità dichiarata o quanto meno accettata socialmente: così, un libro rimane una cosa da leggere anche quando diventi un mero oggetto per riempire spazi vuoti in un arredamento o un simbolo di status; una bottiglia di vino resta un oggetto da bere (nel suo contenuto liquido) anche se può trasformarsi in bene da collezionismo o in strumento per avvelenare un nemico; un orologio è fondamentalmente un oggetto segnatempo, anche se può prestarsi ad altre funzioni
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come quelle di abbigliamento, di arredamento interno o arredo urbano, di ostentazione di ricchezza, di espressione artistica e così via. Per quanto riguarda gli oggetti o manufatti multi-purpose, se ne può segnalare qualche rara esemplificazione nelle società del passato (un esempio molto specifico può essere fornito dal “coltellino svizzero”, che non ha solo lame per tagliare ma contiene e svolge una serie di funzioni utili all’escursionista in cammino o al campeggiatore all’aria aperta), ma è soprattutto con i sistemi contemporanei che essi prendono piede, in conseguenza anzitutto degli sviluppi dell’elettronica e dei processi di miniaturizzazione consentiti dalle moderne tecnologie. Il primo oggetto da segnalare al riguardo è il personal computer, strumento che consente molteplici operazioni nel campo della scrittura, della memorizzazione, della grafica, della riproduzione e trasmissione di suoni e immagini, nonché – attraverso Internet – di una comunicazione interpersonale divenuta capillare e di ampiezza planetaria. Il computer è stato segnalato ripetutamente come oggetto altamente simbolico e rappresentativo delle società contemporanee; minore attenzione si è prestata finora al fatto che esso pratica e simboleggia una tendenza alla trasversalità e alla multifunzionalità che potrebbe rappresentare uno dei tratti delle future società in corso di globalizzazione dal punto di vista tecnologico, economico e finanziario, e inoltre con importanti risvolti sul processo di omologazione culturale. Il secondo oggetto da indicare accanto al computer è il telefono cellulare, che negli ultimi anni ha via via assunto caratteristiche tipicamente multifunzionali: esso non serve più solo per telefonare ma per svolgere una serie di altre funzioni importanti, da quella segnatempo a quella di invio di messaggi scritti (gli sms, nuovo tipo di comunicazione scritta attraverso uno strumento nato per la comunicazione orale come il telefono), dalla ricezione di notizie e segnalazioni a
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una serie di altre funzioni come quelle consentite dal collegamento al computer e alla rete Internet, per non citarne che alcune (cfr. Ferraris 2005). Computer e cellulare additano le potenzialità trasformative di nuovi strumenti tecnologici che si pongono accanto ai consueti oggetti uni-purpose della vita quotidiana (sia privata sia professionale) e ne mettono in discussione le logiche di fondo, che sono quelle – in linea di massima – della delimitazione tra aree funzionali, tra sfere di competenza diverse. La nuova logica che si delinea attraverso gli oggetti multi-purpose sembra essere invece quella di un mescolamento e forse di una ibridazione tra funzioni, oltre che tra tempi e spazi sociali che ne vengono coinvolti; si tratta di valutare se essa sarà in grado di convivere o meno con la logica precedente. La citazione del telefono cellulare introduce alla questione aperta preannunciata sopra, che è quella della distanza (cfr., tra gli altri, Kern 1983) e ci riporta al tema degli interstizi: la distanza infatti allude a una separazione, a uno scarto fisico esistente tra un soggetto e un altro nello spazio, o tra un attore in viaggio e la meta del suo viaggio. Il cellulare si pone (apparentemente almeno) in una linea di continuità con i primi strumenti che verso la fine dell’Ottocento e poi all’inizio del Novecento segnano una svolta davvero epocale, quella che rende possibile per la prima volta agli attori sociali un processo di comunicazione a distanza: telegrafo senza fili, radio e telefono sono i fattori di questa straordinaria trasformazione che si perfeziona progressivamente nel Novecento e che con il cellulare raggiunge livelli finora insuperati di capillarità e di potenza. Molto più, e più agilmente degli altri media moderni, il telefonino tende ad annullare le distanze e lo fa funzionando quasi come un’appendice di un soggetto in itinere: con il cellulare si può oramai raggiungere istantaneamente quasi ogni persona che sia dotata di analogo strumento, e si può farlo – tramite la
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comunicazione satellitare – al limite verso qualunque punto del pianeta. Nessun altro strumento come il cellulare ha dato forse questa sensazione di potenza che è l’affrancamento in qualche modo dalla condizione dell’essere fissati momento per momento a un punto determinato nello spazio, in quanto esseri umani che non godono del dono dell’ubiquità (cfr. Gasparini 2003). Proprio per questo, negli ultimi anni si sono elaborate e fatte presenti nelle società e nei vari ambiti sociali norme e istanze tese alla limitazione dell’uso dei cellulari: dal volo in aereo alla guida dell’automobile, dalla partecipazione a rappresentazioni teatrali alla frequenza delle lezioni a scuola, dalle chiese a certi ambiti ospedalieri, e così via. Resta il fatto che il telefonino sfida la distanze, tutte le distanze. Proprio per questo esso pone antifrasticamente, per così dire, il problema del significato stesso della distanza, del suo valore: nel momento stesso in cui abolisce potenzialmente le distanze, esso sembra additare anche, e contrario, l’importanza della distanza come interstizio, sia spaziale che temporale e comunicazionale. In altri termini, il nodo si presenta come alternativa tra esigenza di ridurre da un lato e di mantenere dall’altro la distanza, le distanze tra persone e tra luoghi; e il punto è di comprendere se ai singoli e ai gruppi sociali interessi mantenere il senso della distanza ovvero abolirla tout court, completamente, come sembra essere nelle potenzialità dei nuovi media e particolarmente dei cellulari. La questione potrebbe essere formulata nel modo più semplice con questa domanda: c’è ancora bisogno oggi di distanza, dal punto di vista individuale e della cultura collettiva? Si tratta appunto di una questione aperta, nella quale in termini sia di osservazione sociologica sia di presa di posizione filosofica può prevalere l’opzione che privilegia l’abolizione piuttosto che la conservazione della distanza. Dovendo e volendo dichiarare al riguardo il mio personale orientamento – suffragato peraltro dall’analisi dei fenomeni interstiziali e 4 Il tema delle stelle venne rappresentato dallo scultore per la prima volta nel 1920 (Le stelle), ricorrendo a due contadini che si appoggiano al tronco di un albero spoglio e guardano verso il cielo, e venne ripreso nel 1932 da alcune altre opere (Il cielo. Le stelle e Le stelle) in cui un uomo e una donna guardano verso l’alto (Gian Ferrari, Pontiggia e Velani, a c. di, 2006).
dall’osservazione di comportamenti nell’area della vita quotidiana –, ritengo che, accanto agli esiti importanti in termini di modernità che derivano dalla riduzione delle distanze operata dalle nuove tecnologie della comunicazione e dei trasporti, permangano e non siano superate le esigenze individuali e collettive di “mantenere le distanze”. Lo stesso tendenziale annullamento planetario delle distanze, in senso fisico e simbolico, postula di nuovo l’esigenza della distanza: distanza tra me e gli altri a suggello della mia libertà, distanza persino tra me e la persona amata nel modo più alto affinché vi sia comunione nella diversità anziché fusionalità (si veda al riguardo la magistrale interpretazione che ne dà Gibran 1923, trad. it. p. 15), distanza tra me e il mondo fisico per dare senso ancora alla ricerca, ai passi del viaggio, a ciò che resta più in là, sempre oltre, irraggiungibile come le stelle. La prova empirica decisiva che l’uomo ha bisogno di nutrirsi di distanza sono, infatti, le stelle. Oggi come nell’antichità l’uomo alla sera alza il volto per guardare le stelle, come indicano alcune mirabili sculture di Arturo Martini4, e sa che esse sono irraggiungibili, inattingibili, distanti migliaia o milioni di anni-luce, indifferenti a ogni tentativo di comunicazione. E le stelle che io osservo in un terso cielo notturno sono le medesime che un uomo di una società qualunque del globo terrestre poté vedere e ammirare cento, mille o cinquemila anni fa. Le stelle non possono essere raggiunte dai telefonini, sono “fuori campo”. Per questo esse continuano a svolgere una funzione essenziale: quella di additare i limiti della comunicazione interumana e di consegnarci uno spazio integro, immune da interferenze, aperto al sogno di cui si alimenta la lontananza. Come nell’amor de lonh cantato molti secoli fa dai trovatori: un amore che è tanto più forte e intenso quanto più si nutre della lontananza e dell’impossibilità di appagamento.
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Vita e morte degli oggetti Portatori di significato Il punto sul quale è facile trovare un accordo parlando di oggetti è la tesi secondo la quale essi sono portatori di significato. Di che oggetti si tratti, che cosa si intenda precisamente con “oggetti” e quale significato essi abbiano: su queste tre domande, invece, le posizioni si diversificano e si allontanano l’una dall’altra, come il contributo di Paolo Volonté a questo volume mostra bene per l’ultima delle questioni evocate. È curioso come tutti gli studiosi che si occupano dell’argomento “oggetti” si entusiasmino per gli oggetti su cui lavorano e per il tema in generale: è successo anche a me. Si ha come l’impressione di essere i primi che si accorgono che gli oggetti esistono, di essere i primi che li vedono. Forse perché, come ha notato anche Bruno Latour (1994), gli oggetti nel nostro mondo risultano invisibili. Nelle favole, come del resto nel linguaggio letterario, sono presenti spesso oggetti trattati come se fossero esseri viventi: case, comignoli, zappe, campanelli, bambole, statue, soldatini di piombo. Non solo nel senso che a volte si animano, come i giocattoli della famosa novella che di notte prendono vita, intrecciano storie e amori, e trascorrono un’esistenza parallela a quella
degli esseri umani, ma nel senso che sono considerati alla pari degli esseri animati: vengono loro attribuite qualità e difetti, un carattere, azioni, sentimenti, pensiero, intenzioni. Nel descriverli, e nel descriverli proprio come oggetti inanimati, le parti di cui sono formati sono trattate come se fossero membra, organi di esseri viventi, come se – pur essendo pezzi di legno o lamiere colorate – potessero essere utilizzati allo stesso modo in cui noi siamo soliti utilizzare le parti del nostro corpo, le mani o le braccia, gli occhi o le gambe, allo stesso modo in cui ci serviamo, in maniera del tutto involontaria, del cuore o dei polmoni. Non si tratta solo di un vezzo letterario, né di semplici modi di dire: evidentemente nel mondo delle fiabe, così come nella immaginazione romanzesca e poetica, riesce a trovar posto uno sguardo rivolto agli oggetti che in quegli spazi risulta pienamente legittimo mentre nel mondo della realtà, e nel mondo della scienza e della razionalità, non può esprimersi. La considerazione degli oggetti che ci stanno intorno che si rivela in quei modi di dire, in quelle favole, rinvia a un interesse per gli oggetti e per il loro mondo, a un interesse per la loro vita, il
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loro percorso, le loro abitudini. L’umanizzazione degli oggetti che si compie così facendo contiene forse qualcosa di più serio di quanto si pensi. Per accedere a questa diversa considerazione degli oggetti ci viene chiesto però come condizione indispensabile di cambiare registro, di uscire dai panni dello studioso per indossare quelli del bambino o del lettore di fiction. E se, invece, decidessimo di guardare agli oggetti intesi come esseri non distinti da quelli viventi proprio nei nostri panni di studiosi? È probabilmente questo atteggiamento che spiega il tono da intraprendenti esploratori che prendiamo ogni volta che ci accostiamo a questo tema, ogni volta che adottiamo questo sguardo: andare contro un’abitudine, una ideé reçue, fa sempre sentire in una via di mezzo fra il ribelle e il pioniere. Nel considerare gli oggetti come non diversi dagli esseri viventi, un passo decisivo è prenderne in considerazione il ciclo vitale a partire dai suoi estremi: la nascita e la morte. Per tutti gli altri esseri viventi facciamo così, e anche per noi umani: i compleanni e i decessi sono date fondamentali nella nostra vita. E poi sono importanti anche le malattie che contraiamo, le età che attraversiamo, il carattere che ci troviamo ad avere, le nostre reazioni. Il tentativo che farò in queste pagine è proprio quello di prendere sul serio l’espressione “biografie di oggetti” alla quale si intitola questo volume: se si tratta di biografie, se dunque gli oggetti hanno una vita, la nascita e la morte sono momenti che non possono essere evitati, dal momento che ne delimitano l’inizio e la fine. Se l’espressione “biografia” non è solo un modo di dire, deve essere possibile applicare le idee di vita e di morte all’esistenza degli oggetti. Esistono molti tipi di oggetti: quelli che terrò presenti in questo caso sono esclusivamente gli oggetti tecnici (cfr. Cavallo e Chabot 2006; Molotch 2005; Nacci 1998; Norman 1988; 1994; 2005; Semprini 1999). La tecnica disponibile in un dato momento storico appare, agisce, viene utilizzata, attraverso la realizzazione di oggetti, di strumenti, di macchine, di reti. Per oggetti semplici si parla di manufatti, anzi
di artefatti. Tutte queste realizzazioni contengono il sapere tecnico di quel momento. Quando parliamo di oggetti tecnici dobbiamo tener presente che possiamo parlarne solo da quando sono diventati un bene di consumo prodotto in modo industriale, e prodotto in serie. Nell’ultimo poco più che quarto di secolo è stato preso in esame il processo di nascita e morte di tali oggetti da una storiografia sulla tecnica che si è rinnovata molto rispetto al passato. Questa storiografia ha sottolineato il fatto che la tecnica che usiamo non la usiamo in astratto o in generale, ma sempre attraverso oggetti tecnici: più o meno semplici, più o meno grandi. Non è detto che li usiamo direttamente o da soli (come nel caso di una centrale nucleare o della rete telefonica), ma resta il fatto che li usiamo. Si potrebbe dire che la tecnica ci si offre sotto forma di oggetti (cfr. Simondon 1958). Qual è il modo in cui normalmente guardiamo agli oggetti? «È paradossale il rapporto che la società utilitaristica istituisce col mondo degli oggetti fisici che la circondano. Interessata com’è alle conseguenze dell’operare con gli oggetti, la cultura utilitaristica distrae continuamente l’attenzione dall’oggetto in quanto tale; pertanto gli oggetti non vengono più vissuti come dotati di realtà o di valori intrinseci e permanenti», ha scritto Alvin Gouldner (1970). In una società di questo genere siamo circondati da un numero crescente di oggetti che però vediamo sempre meno: quanto più sono numerosi tanto più risultano indistinguibili, in parte proprio perché sono tanti, in parte perché sono intercambiabili fra loro, in parte, infine, per effetto di quella riduzione dell’oggetto alla sua funzione che è alla base di quello che Gouldner definisce «utilitarismo». L’affermazione dell’utilitarismo nel senso qui precisato coincide storicamente con l’età del disincanto (cfr. Weber 1922; Gauchet 1985) e con il periodo in cui le macchine, che in precedenza erano una realtà rara e spettacolare, si sono moltiplicate e hanno fatto il loro ingresso prima nella vita quotidiana dei lavoratori e in seguito in quella delle loro famiglie.
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Cicli di vita È possibile così distinguere due momenti che da quell’epoca in poi si sono separati anche nella realtà: quello in cui una macchina nuova appare e il momento in cui entra nelle abitudini della gente e scompare alla vista. Mentre nel primo momento i nuovi oggetti tecnici attraggono l’attenzione degli spettatori per la loro novità, stupiscono e sconcertano, scuotono abitudini consolidate, provocano resistenze oppure suscitano entusiasmi perfino eccessivi, nel secondo momento diventano semplicemente invisibili perché inghiottiti dal ritmo abituale della vita, incorporati nelle abitudini e non più diversi dagli altri che già ne facevano parte. Ci accorgiamo a questo punto che le due tappe nella vita degli oggetti tecnici che abbiamo deciso di indagare – la nascita e la morte – coincidono quasi perfettamente con questi due momenti di visibilità iniziale e invisibilità successiva degli oggetti, di novità e assimilazione, di turbamento delle abitudini e di inerzia delle abitudini consolidate. C’è dunque un momento in cui gli oggetti nascono, vengono al mondo, disturbando con la loro stessa esistenza quelli che al mondo ci sono già, e c’è un momento in cui scompaiono; ma aggiungiamo che gli oggetti possono anche scomparire non solo perché non li vediamo più ma proprio perché muoiono: nelle mie pagine vorrei sottolineare questo aspetto della scomparsa fisica, del rientrare nella non esistenza, del non venire più prodotti, del non essere più utilizzati, proprio come diciamo che vengono a mancare, muoiono, gli esseri umani. L’aura che portano con sé le due fasi è assai diversa: nel primo momento, quando appaiono in un mondo di cui fino a quel momento non facevano parte, gli oggetti sono percepiti come strani e inediti, suscitano diffidenza e fanno paura, oppure inducono aspettative superiori alle loro effettive possibilità, suggeriscono sogni di salvezza, di eliminazione della fatica o dell’invecchiamento, utopie di abbondanza e ricchezza: in ogni caso non lasciano indifferenti, se ne parla, sono osservati e discussi. Quando entrano
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a far parte delle abitudini e diventano non più visibili, vivono la loro vita che possiamo definire normale. Infine, quando scompaiono, ci sono nuove perturbazioni in chi li usa e in chi li osserva, in chi li progetta e li produce, dal momento che gli stessi oggetti che avevano provocato spavento suscitano ora nostalgia e rimpianto; anche perché generalmente sono sostituiti da altri oggetti, a loro volta nuovi, che vengono percepiti sotto il segno del progresso della tecnica oppure del regresso dell’uomo, e quindi esaltati o deprecati, ma che in ogni caso vengono a turbare abitudini ormai acquisite. E così via sempre nello stesso modo, in un ciclo vitale che provoca sentimenti diversi negli esseri umani, nelle diverse fasce di utenti, nella cultura del periodo, nell’opinione pubblica, nella società intera. È solo nel primo momento e, in misura minore, nell’ultimo che gli oggetti risultano visibili: perché sono novità o perché non sono più fra noi e lasciano un vuoto. Nella fase centrale, invece, diventano parte dell’ambiente umanizzato in cui viviamo e non si distinguono più da esso in modo significativo. Sull’impressione di essere i primi a praticare un simile approccio (quello degli oggetti come portatori di significato) provata da tutti coloro che puntano il loro sguardo sugli oggetti e riflettono su di essi vale la pena di fermarsi ancora un attimo. Ho affermato che tutti pensano di essere i primi che si accorgono del fatto che gli oggetti non sono cose inerti, ma portatori di significato, e, in quanto portatori di significato, sono indistinguibili dagli altri esseri viventi, dagli altri personaggi che compongono il mondo nel quale viviamo. Ma di che tipo sia il significato che essi hanno, e soprattutto da dove gli oggetti lo prendano, resta piuttosto misterioso, anche se sono state avanzate alcune ipotesi interessanti. Tutto sommato, si può dire che per gli oggetti non sia stata ancora completamente aperta quella scatola nera che anni fa Nathan Rosenberg (1982) ha esortato ad aprire e rendere esplicita per quel che riguardava la tecnologia, in particolare nei suoi rapporti con l’economia. Un significato primo ma banale degli oggetti è quello
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affettivo, di tipo proiettivo, secondo il quale gli oggetti incorporano e portano con sé pezzi della nostra vita: emozioni, ricordi, stati d’animo significativi, per tutta la vita, spesso negli aspetti quotidiani di essa. Di grande importanza e di maggiore difficoltà a essere indagata è l’imbricatura tra oggetti e società, oggetti e natura, oggetti e esseri umani. E qui si apre il campo alle interpretazioni più diverse: è la società che dà significato agli oggetti, oppure al contrario sono gli oggetti che indirizzano (se proprio non vogliamo dire che determinano) la società; prolungano la mano (Popitz 1995) oppure è la mano che prolunga loro; l’uomo li usa o invece si fa usare da quelli come nella versione di Günther Anders (1980); soccorrono la manchevolezza tipica degli esseri umani, come sostiene Arnold Gehlen (Gehlen 1957) oppure è l’uomo che dà loro quel senso e quella completezza che essi di per sé non possiedono; sono una solidificazione di quelle strategie adattive che anche la natura mette in atto, come secondo l’evoluzionismo applicato alla tecnologia (Hull 1988) oppure sono l’espediente artificiale che alla natura si contrappone radicalmente (Longo 1998; Negrotti 2000); sono docili o indocili, dipendenti da chi li usa oppure autonomi, come ha sostenuto che siano o che divengano quasi tutta la filosofia della tecnica novecentesca, da Karl Jaspers a Martin Heidegger, da Serge Latouche a Paul Virilio (Nacci 2000); sono animati oppure sono senza vita, hanno una personalità propria oppure è possibile volgerli a qualunque uso, qualunque pratica, qualunque progetto, dipendono dal sistema di produzione nel quale si trovano a essere usati, cosicché si può distinguere un uso capitalista delle macchine da un uso socialista, come pensavano i marxisti più che Karl Marx stesso, oppure invece sono uguali in ogni sistema sociale, indipendenti e anzi condizionanti rispetto al sistema di produzione e di vita; e si potrebbe continuare a lungo. La filosofia della tecnica si è nutrita di interrogativi (spesso formulati in modo assai più ermetico di quanto io non abbia fatto) analoghi a questi. Come spiega bene Francesca Rigotti in questo volume, bisogna
prima di tutto precisare la differenza che passa fra la cosa e l’oggetto. Ma, anche detto questo, i problemi non sembrano affatto risolti. Si apre il gioco a più variabili: chi o che cosa decide come sarà un oggetto e chi o che cosa stabilisce il modo in cui sarà usato? Saranno alcuni speciali attori sociali, la società nel suo insieme, il singolo, i consumatori, i produttori, gli utenti, le casalinghe, oppure gli oggetti stessi? E in che modo? Con una decisione semplice, con un lunghissimo negoziato, attraverso l’uso sociale come sostiene Michel de Certeau (1980), attraverso la produzione considerata così anche fonte di conoscenza, con l’invenzione, con l’innovazione, seguendo la tradizione, con un apprendimento che deriva dalla pratica? E infine non bisogna trascurare il caso: una grande parte di caso che svolge il suo ruolo nell’invenzione, produzione e uso degli oggetti, così come in tutte le cose umane, come ha messo in rilievo da par suo Norbert Wiener (Wiener 1994). Le domande e le interpretazioni a cui si fa riferimento in queste righe corrispondono ad altrettante teorie e a svariati campi del sapere: determinismo tecnologico, marxismo, heideggerismo, antropologia filosofica, semiotica, economia, filosofia, sociologia e antropologia della tecnica. Tutte queste discipline tengono poco conto dell’elemento “storia” nella comparsa e nella trasformazione degli oggetti: credo invece – pur non essendo io una cultrice eccessiva della storia e dello storicismo – che in questo campo la storia possa aiutare molto, come insegnano alcune vicende di oggetti tecnici che proprio attraverso il cambiamento in un certo arco temporale mostrano le trasformazioni intervenute nell’uso e nella concezione degli oggetti, e dunque nella loro essenza, in quello che essi sono e rappresentano per noi (cfr. Marvin 1988). Diventa anche evidente, attraverso lo sguardo storico, l’elemento della ripetizione: gli oggetti tecnici nuovi suscitano reazioni di stupore, opposizione o entusiasmo, poi entrano a far parte del paesaggio normale della vita, infine a volte scompaiono per lasciar posto ad altri; quelli nuovi, esattamente come i precedenti, susciteranno reazioni forti per
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Verona, statua di Giulietta Capuleti – fotografia di Daniele Ansidei Vahti, Kouros di Samos – fotografia di Paolo Volonté Bottiglie e vasi di ceramica prodotti in Saône-et-Loire – fotografia di Thierry Bonnot
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Feticcio chiodato – per gentile concessione di Arnaud Delberghe Modellini di locomotive costruiti da Lucien Mothu – per gentile concessione dell’ecomuseo di Creusot-Montceau Joseph Kosuth, Una e tre sedie, 1965 (MoMA, New York) – © 2009. Digital image,The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze Spremiaglio, modello Mike and Kremmel – per gentile concessione di Robin Levien, Anthony Harrison-Griffin e John Tree Gabinetto, modello della marca TOTO – per gentile concessione di TOTO Ltd.
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Las Vegas, Hotel Luxor – fotografia di Paolo Volonté Las Vegas, Hotel New York New York – per gentile concessione di MGM Mirage Public Relations Pene artificiale, modello Verona – per gentile concessione di Babes-n-Horny.com
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New York, tornelli della metropolitana (1922) – per gentile concessione del New York Transit Museum New York, tornelli della metropolitana (2008) – fotografia di Noah McClain Daniel Libeskind, masterplan della Freedom Tower – per gentile concessione dello Studio Daniel Libeskind Ilya & Emilia Kabakov: Igor Spivak, Holiday in the Village, 1996 (2004) – per gentile concessione di Ilya & Emilia Kabakov
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Victor Papanek, Work Chart for Designers, 1984 (1972) – da V. Papanek, Design for the Real World. Human Ecology and Social Change,Thames and Hudson, London 1972
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entrare poi nelle abitudini della gente, e in seguito per essere gradualmente abbandonati o sostituiti. Così, il ciclo dell’invenzione di nuovi oggetti tecnici segue una sua logica mai completamente prevedibile ma che ormai per alcuni aspetti presenta dei tratti costanti e ben noti: per esempio, le reazioni maggiori pro o contro una tecnologia si hanno nella sua fase iniziale, quando essa compare; quando un oggetto tecnico appare non necessariamente prende il posto di quello che fino a quel momento svolgeva la stessa funzione: piuttosto, accade spesso che il sistema di oggetti esistente si risistemi e trovi nuove funzioni per oggetti vecchi. Questi meccanismi sono per esempio stati osservati per il sistema dei media e la sua vita: la radio ha fatto seguito al telefono nella trasmissione della voce, ma lo ha fatto da un punto verso molti, così come il telefono aveva preso il posto del telegrafo ma aggiungendo alla comunicazione a distanza l’elemento della voce. Di fatto però il telegrafo non è scomparso del tutto anche quando il telefono ha fatto la sua comparsa (sopravvive ancora sulle navi), così come il telefono si è mantenuto dopo la nascita della radio che aveva occupato lo spazio della voce. Si sosteneva che la comparsa e la diffusione della televisione avrebbe spazzato via la radio, che Internet avrebbe rovinato il mercato dei cellulari e messo fine alla civiltà del libro: invece la radio ha trovato una sua collocazione forte e stabile e perfino in grande crescita nel mercato, mentre cellulari e civiltà del libro sono per il momento in buona salute. Così, la carrozza a cavalli gira in ambiente urbano solo per i turisti da quando ha fatto la sua prepotente apparizione l’automobile, ma la bicicletta non è stata affatto soppiantata dal motorino, né il treno dall’automobile (cfr. Ortoleva 2002). La teoria che mi appare più convincente, in quanto capace di spiegare un maggior numero di aspetti del problema, è un costruttivismo sociale «rimpolpato» (cfr. Nacci, a c., 2006). Per costruttivismo non intendo affatto la teoria filosofica di David Bloor (1976) e John Searle (1995), ma le magistrali spiegazioni della nascita della lampadina dovute a Wiebe Bijker (1995)
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o del comportamento del chiudi-porta automatico di Bruno Latour (1992), della forma attuale che ha la bicicletta ancora di Bijker (1995) oppure del negoziato svoltosi attorno alla forma e al funzionamento della lavatrice di Quynh Delaunay (1994; 1998). Questa teoria – che deve molto nella sua definizione iniziale e nel suo primo impulso al più volte citato Bijker, a Thomas Hughes e a Trevor Pinch (cfr. Bijker, Hughes e Pinch 1989; Pinch e Bijker 1989) – rinvia a un negoziato sociale che si svolge fra i diversi attori e gruppi ogni volta che appare all’orizzonte una novità tecnologica: il negoziato si svolge tra produttori, fruitori, pubblicitari, cittadini, giovani, donne e così via. Esso coinvolge abitudini, modi di vivere, immagini di sé, interessi, valori, ideologie: tutto questo entra nella trattativa che si svolge attorno alle tecniche, alla tecnologia, agli oggetti tecnici, e ha a che fare in modo decisivo con lo stato dell’arte in quel momento, cioè con le conoscenze tecniche accumulate fino ad allora e con i paradigmi dominanti, che esercitano una grande forza d’inerzia e rappresentano vincoli decisivi. Il negoziato si chiude quando si trova un accordo, cioè quando si verifica una scelta tecnica. Un esempio è la ricostruzione di Latour del progetto Aramis al quale era stato chiamato a collaborare: leggerlo mostra bene come funziona un negoziato quando si trova o (come in questo caso) non si trova un accordo (Latour 1993). Il modello costruttivista, però, trascura un elemento importante: il ruolo delle istituzioni e della politica. Non lo prende in considerazione che di scorcio e in modo casuale, senza mai tematizzarlo: invece, come mostrano i recenti conflitti sugli OGM, sulla TAV in Val di Susa o sullo smaltimento dei rifiuti in Campania, istituzioni e parti politiche entrano con forza nel negoziato che si svolge attorno a temi tecnici, a progetti, a tecnologie da accettare o rifiutare. Del tutto infondate mi sembrano le accuse rivolte al costruttivismo di basare la realtà della tecnica su qualcosa di astratto e di immateriale come i rapporti sociali, di considerare tutto ciò che è ben reale come una convenzione e quindi di dissolverne la realtà in una
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serie aerea di rapporti sociali, di rappresentazioni e di aspettative: è noto che – proprio per il fatto che il costruttivismo non è solo una filosofia (che interessa poco in quanto tale), ma un modo di guardare alla tecnica – è presente in esso un forte elemento di realtà, di concretezza. I rapporti sociali non vengono presi in considerazione come un totale astratto, ma spezzettati nelle loro componenti molto particolari e visti nelle loro concrete relazioni, azioni, effetti: gli interessi delle varie parti vi svolgono un ruolo di rilievo. Inoltre, le scelte si istituzionalizzano una volta che sono state prese: si radicano nella società, e in quella società nella quale si sono radicate modificano a loro volta i bisogni, gli usi, i comportamenti, il paesaggio sociale, esercitano quello che è stato definito il momentum: una forza d’inerzia che li rende stabili, fissi, modificabili a loro volta solo con grande sforzo e fatica (cfr. Hughes 1983). La pubblicità rappresenta un momento importante nella biografia degli oggetti tecnici perché rende comprensibile e attraente un oggetto (che in sé potrebbe non essere particolarmente desiderabile) per il pubblico, per gli acquirenti potenziali. È per questo motivo che una sola lettura semiotica della pubblicità rischia di essere insufficiente: la pubblicità offre uno stile di vita, spesso dei valori, a volte una vera e propria ideologia, e anche delle istruzioni d’uso che altrimenti dovrebbero essere lette nelle istruzioni o apprese attraverso il passaparola. Pensiamo a quanti trucchi sul funzionamento dei nostri amati-detestati computer o palmari o telefonini abbiamo imparato dagli amici o dall’imitazione del comportamento altrui. La spiegazione migliore che in questi ultimi anni è stata proposta per comprendere gli oggetti tecnici mi sembra dunque quella della co-costruzione sociale: gli oggetti sono costruiti dalla società (distinta nei suoi vari segmenti) nel momento medesimo in cui la società è costruita dagli oggetti. E gli oggetti li definirei “attanti”, al modo di Latour: attori sociali anch’essi, ma non-umani; attori che, pur essendo non-umani,
esercitano, al pari degli altri attori, un’azione sociale. Se ripercorriamo il magistrale saggio di Bijker sulla lampadina fluorescente, possiamo vedere la ricostruzione della dialettica complessa fra produttori, pubblicitari, manager e operai, utenti, uomini e donne attorno al nuovo oggetto. Possiamo assistere al gioco di rimbalzo fra tentativi, prove, primi risultati, apprezzamenti e insuccessi nel pubblico, affermazioni e sconfitte che vengono da sondaggi effettuati nel mondo dei consumatori, dalle previsioni degli esperti, dai pareri dei pubblicitari, dall’esperienza effettiva e dalla minore o maggiore facilità e risparmio necessari per fabbricare le nuove lampadine. In quel caso, come in altri, l’oggetto nuovo non si presenta da solo: un oggetto tecnico fa la sua comparsa insieme a una serie di oggetti simili, di varianti che spesso ne differenziano fortemente l’uso, la produzione e il costo, per non parlare della facilità di utilizzazione. Fra tutte le varianti che esistono in uno stesso momento è necessario che se ne affermi una per le esigenze della produzione, ed è in questa scelta che intervengono gli spezzoni della società, le ragioni dell’industria e del consumo, i vari, diversi, punti di vista che sono in gioco, dalla bellezza al risparmio. Parlare dell’utilità di un’invenzione o di una innovazione, dell’oggetto come risposta a una domanda sulla base di bisogni espressi o inespressi da parte della società, è sempre un terreno rischioso dal momento che sono presenti nel nostro mondo oggetti inutili e ne mancano di utilissimi: il concetto di utilità è secondario e molto relativo. Come diceva Bertolt Brecht della radio: «Quando la radio fu inventata, non c’era nessun bisogno di essa» (cit. in Nacci 1998). Umani, troppo umani Siamo portati a pensare gli oggetti come eterni, come più duraturi rispetto alla nostra esistenza. Pensiamo che staranno lì per sempre, ad aiutarci, ad allietarci oppurci a opprimerci, crediamo che siano fatti di materiale duraturo, a differenza di quello sottoposto a deterioramento di cui siamo fatti noi. Invece gli
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oggetti – proprio come noi e al pari di tutte le cose viventi – nascono e muoiono, hanno un’esistenza, per esempio si ammalano e, proprio come noi, invecchiano. È per questo che parlare di nascita e di morte degli oggetti non è solo una metafora. Gli oggetti nascono: sono le invenzioni che appaiono sulla scena e spesso in numero superiore a una sola unità. Muovono i primi passi con grande difficoltà, come fanno i bambini: sono le invenzioni che stentano ad affermarsi, che incontrano contrasti e resistenze, che non piacciono ai consumatori. Sono adolescenti impetuosi: si tratta delle invenzioni che vincono sulle altre e vengono introdotte con successo sul mercato. Diventano adulti: è la fase in cui dominano il loro settore in modo affermato e tranquillo. Invecchiano: è il momento in cui perdono attrattiva per chi li usa, vengono considerati imperfetti, brutti, inutili. Si ammalano: il loro funzionamento, fino a quel momento ritenuto normale, diventa patologico, e all’improvviso non riescono a fare bene ciò che facevano prima, proprio come chi si ammala. Muoiono: gli oggetti ogni tanto sono soppiantati da altri, scompaiono, non vengono più prodotti, magari per ricomparire in seguito come oggetti estetici, museali o di antiquariato, di collezionismo pubblico oppure privato. A che cosa serve questa prospettiva sugli oggetti tecnici che ne prende in considerazione il ciclo vitale? Ricordiamo che essa deriva da una storiografia che mette in evidenza ed estrae dagli oggetti solidificati le loro stratificazioni, la loro storia per sottolineare che non si tratta di una storia per così dire naturale, ovvia e che va da sé, ma di una costruzione sociale. Quando si applica questo sguardo agli oggetti, essi non sono inerti: appaiono, scompaiono, sono sostituiti da altri, in un gioco della società, loro e nostro, in cui il protagonista non è la scienza, la ricerca, la tecnologia, e neppure il profitto economico da solo, ma l’interazione fra tutto questo con gli attori sociali. Tutti questi elementi devono confrontarsi con ciò che già esiste, e che esercita un peso formidabile e
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spesso poco considerato: un vincolo molto forte di cui tener conto. Gli oggetti, in questa prospettiva, risultano fatti della stessa sostanza degli esseri viventi, degli altri elementi che sono nella società: la contrapposizione fra una loro eternità o fissità o durata maggiore e un passare effimero dei viventi cade e non è più valida. Proprio questa contrapposizione fra un essere e un divenire, fra permanenza e variazione, fra eternità e mutevolezza, è stata la base sulla quale si è poggiata la filosofia della tecnica nella sua versione più comune per almeno un secolo. La prospettiva diversa che in questo modo acquisiamo sugli oggetti è utile a comprendere che nella loro esistenza non valgono le ragioni della perfezione tecnica, della risposta adeguata a bisogni, ma ragioni di potere, di contrattazione sociale, di peso maggiore o minore di una abitudine, un sapere, una tradizione. Ci sono molti oggetti non-nati non perché non fossero buoni dal punto di vista tecnico, ma perché semplicemente non ce l’hanno fatta: come le teorie scientifiche sbagliate, essi raccontano sulla storia della tecnica più delle teorie (nella storia della scienza) o degli oggetti (nella storia delle tecniche) che si sono affermati. Seguire una concezione multilineare degli oggetti e della tecnica, concepire la storia della tecnica come un percorso a più alternative, ed essere consapevoli che fra tali alternative vengono operate di continuo delle scelte, è utile anche per il presente: permette di essere più avveduti quando si svolgono battaglie pro o contro una novità tecnica (dagli OGM alle onde elettromagnetiche). Per esempio, in un caso come quello della TAV in Val di Susa o dello smaltimento dei rifiuti a Napoli, rendersi conto che non esiste la soluzione tecnica al problema, per la quale basta chiedere agli esperti, ma esistono varie soluzioni ciascuna con pregi e difetti, consentirebbe forse di porre il problema su un piano più ragionevole, più trattabile da parte delle istituzioni, e anche con maggiori possibilità di soluzione. Questo vale per altri innumerevoli esempi, tutti di interesse immediato: l’alternativa fra nucleare ed energie naturali, l’alternativa fra cure chimiche
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e cure palliative negli ammalati terminali, la scelta fra diversi tracciati di una metropolitana, la scelta fra metropolitana di superficie e metropolitana sotterranea, la scelta fra benzina ed elettricità come carburante dei veicoli, e così via. In ognuno di questi casi sapere che non esiste una soluzione unica, migliore perché tecnicamente migliore, può essere di grande aiuto per trattare il problema in oggetto. Questa prospettiva serve, infine, a comprendere che gli oggetti hanno una nascita, una vita e una morte, una durata finita: non sono eterni, fissi e immutabili, compaiono nei nostri paesaggi ma anche scompaiono da essi. In questa loro finitezza gli oggetti risultano non diversi da noi umani. Non sono l’onnipotente demiurgo tecnico che si concretizza in una sua realizzazione, come tante volte si è pensato da parte della cultura umanistica, ma semplici tentativi che restano in vita per un certo periodo per poi in genere farsi da parte, invecchiare e morire. Proprio come tutti gli altri esseri viventi. Gli oggetti sono precari, deboli, cagionevoli, sottoposti a mille attacchi. E sono anche, come ogni organismo, sottoposti al peso della tradizione, dell’inerzia (se possono, non si discostano dalla norma imperante, ma si limitano a riprenderla con variazioni minime), sono sensibili al condizionamento che viene dal mondo esterno e assai ricettivi nei confronti della moda. Si comportano in modo non diverso da un vestito o un accessorio: spesso un oggetto tecnico viene cambiato per lo stesso motivo per cui la moda prescrive un anno di vestirci di
bianco e nero e l’anno dopo di colori pastello: per far buttare via i vestiti dell’anno precedente e farne acquistare di nuovi, e così alimentare il mercato tenendo alte le vendite. L’aspetto che mi è sembrato più significativo rileggendo quel capolavoro che è Le cose di Georges Perec è l’aspetto della delusione relativa agli oggetti che va unita all’attaccamento a essi. Nel libro seguiamo i protagonisti per tutta la loro vita intessuta di oggetti e in cui gli oggetti li sovrastano, e alla fine, quando essi si avviano a essere soddisfatti, arriva la delusione. Si legge: «E così, dopo alcuni anni di vita vagabonda, stanchi di esser senza denaro, stanchi di dover contare e risentiti di farlo, Jérôme e Sylvie accetteranno – forse con gratitudine – due posti di responsabilità, remunerati da uno stipendio che potrà passare, a rigore, per un ponte d’oro, presso un magnate della pubblicità. […] Si presenteranno bene. Avranno una bella casa, buon cibo, bei vestiti. Non avranno niente da rimpiangere.[…] Si sentiranno a proprio agio negli abiti leggeri. Si crogioleranno nello scompartimento deserto. La campagna francese sfilerà sotto il loro sguardo. […] Il viaggio sarà, per un lungo tratto, piacevole. Verso mezzogiorno si dirigeranno con passo svogliato verso il vagone ristorante. […] tutto sembrerà il preludio a un sontuoso banchetto. Ma verrà servito loro un pasto francamente insipido» (Perec 1965, trad. it. pp. 171-172). Che il nostro rapporto con gli oggetti sia tutto contenuto tra i poli del desiderio e della delusione?
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Il design e l’incontro tra artefatti ed esistenze umane Ascolto il tuo cuore, città (Savinio 1944) Considerazioni preliminari “Biografie di case” potrebbe essere chiamata una riflessione sui rapporti che esistono tra le dimore e i loro abitanti. Si apre un intero ventaglio di questioni che riguardano non solo le diverse modalità d’uso che gli abitanti fanno degli oggetti che li circondano, ivi comprese le svariate motivazioni per procurarseli, adoperarli e – dopo qualche tempo – magari buttarli oppure tenerli. Al centro di possibili riflessioni su biografie di case si trova anche la tematica di come – con quali dinamiche e quali risultati – gli artefatti e gli uomini si influenzino a vicenda, fino ad arrivare alla domanda su come le case influenzino anche i rapporti interpersonali, nonché il nostro “stare al mondo” (cfr. Martinotti 2005, p. X). Acquisisce importanza, in questo contesto, la questione sull’origine e sulle dinamiche di processi evolutivi – sia nel comportamento umano e nell’organizzazione sociale sia
nello sviluppo degli artefatti stessi e delle economie. Non devono essere tralasciate, in un quadro esplorativo di questo genere, le caratteristiche di diversi luoghi di produzione (artigianale e industriale) e di diverse zone culturali ed etnografiche dove le biografie (di artefatti e ovviamente degli uomini) prendono vita. Modelli di felicità Le mie riflessioni sono focalizzate sulla figura professionale del progettista e sulla questione di come egli si pone di fronte al duplice fatto che da una parte sono «i desideri delle persone [che] contribuiscono a far diventare le cose quello che sono» (Martinotti 2005, p. 120), mentre dall’altra parte sono gli stessi artefatti a influenzare i pensieri e i desideri delle persone. Dice a questo proposito Ettore Sottsass jr.
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(1987, p. 33): «Quando un uomo usa una macchina, si attiva anche un altro processo: la macchina usa l’uomo. Si mettono in moto complessi contraccolpi culturali, psicologici, sociali. […] Non incontreremo mai una macchina neutra, ma uno strano animale che entra in rapporto con noi». La questione di per sé è antica. Karl Marx, per esempio, la commentò nella sua Per la critica dell’economia politica con le parole: «Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza» (Marx 1859, trad. it. p. 5). Il progettista, tuttavia, non si trova soltanto davanti a simili interrogativi per decidere quale orientamento dare al proprio lavoro. Si trova anche nella situazione di essere impegnato su due fronti diversi per quanto riguarda le aspettative rivolte al suo operare: da una parte vi è il dovere di tipo contrattuale nei confronti del committente, dall’altra quello di tipo morale ed etico nei confronti degli utenti finali. Gli interessi dei due gruppi non coincidono automaticamente. Il progettista è costretto a delle valutazioni al di là del contesto tecnico o estetico del suo lavoro. Il rapporto tra biografie di oggetti e biografie di persone diventa per l’autore degli oggetti una questione profondamente legata al suo tipo di Weltanschauung, di visione del mondo (sociale, culturale, economica)1. «Come architetto e come designer», disse Sottsass in un’intervista, «ma soprattutto come uomo qualunque, sento il bisogno di occuparmi di quello che succede nel mondo» (Smarelli 2007). Accanto alla dimensione politica del design (già ampiamente presente, del resto, nel termine “disegno” discusso nel Quattrocento da Alberti e da altri fautori dell’ideale di homo universalis) emerge una questione proprio metodologica del progettare, legata al principio della “codificazione e decodificazione della realtà” – cioè al fatto che non solo nelle teorie di comunicazione, ma in generale nell’analisi di come ci 1 Cfr. anche il paragrafo “From science fiction to social fiction” in Thackara (2005), dove l’autore spiega la sua tesi: «L’innovazione non è un’attività neutrale». 2 Ovviamente vi sono, a questo proposito, ampi riferimenti al costruttivisimo in filosofia e in psicologia. Si vedano, per esempio: Feyerabend (1963), Watzlawick (1976), Bruner (1986). 3 Oltre a filosofi, psicologi e studiosi delle semiotica e della comunicazione sono soprattutto artisti moderni che sostengono questa tesi – come per esempio Marcel
relazioniamo con “il mondo” e con altre persone, non esiste l’elaborazione di un’esperienza (decodificazione) che non equivalga anche all’atto di proporre a sua volta nuove esperienze e interpretazioni, aggiungendo quindi nuove forme di codificazione al repertorio di segni e situazioni già esistenti2. A prescindere dal fatto che questa dinamica implica l’essere progettisti da parte di tutte le persone coinvolte in forme di vita collettiva3, per il progettista di professione si mette in evidenza che il suo lavoro non cade mai su un terreno vergine ma entra, invece, in contatto con una complessa rete di relazioni e visioni del mondo già sviluppate e, per così dire, operative. In altre parole: il designer – qualora ci tenga al valore contestuale del suo lavoro – deve tener conto di tutta una serie di contesti di vita che condizionano l’esistenza dei potenziali utenti dei suoi servizi e artefatti. Perché è proprio di quei contesti che i suoi artefatti sono destinati a diventar parte: nuove biografie di oggetti che si avviano a un loro percorso intrecciato ad altre biografie di oggetti ormai in essere. «L’interieur», scrive per esempio Walter Benjamin nel suo Parigi, capitale del XIX secolo, con riferimento alla casa privata, «non è solo l’universo, ma anche la custodia del cittadino. Abitare significa lasciare impronte, ed esse acquistano, nell’interieur, un rilievo particolare» (Benjamin 1983, trad. it. p. 12). E il progettista e studioso di cultura tecnica Tomás Maldonado (1975, p. 37) aggiunge: «Il microambiente abitativo presuppone, oltre ad un modello d’uso, anche un modello di felicità. […] Nella dinamica creativa (e ricreativa) del microambiente abitativo, il modello di felicità compie una funzione strutturante di primaria importanza». Interattività Proseguendo nel discorso metodologico della progettazione, si pone la seguente domanda: come accedere Duchamp («È lo spettatore che crea l’opera, non l’artista»), Marcel Proust («Ogni lettore, quando legge, legge se stesso») e Joseph Beuys («Ogni uomo è un artista»). Nel primo capitolo del suo libro Le scienze dell’artificiale, il premio Nobel in economia Herbert Simon (1976, trad. it. p. 143) fornisce una conferma per quanto riguarda l’attività imprenditoriale (nel senso di prendere delle iniziative): «Prepara un progetto chiunque pensi ad azioni destinate a trasformare situazioni esistenti in situazioni desiderate».
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alle biografie di case e di situazioni (ormai in corso) per ottenere informazioni su quei contesti di vita delle persone dei quali anche i nuovi artefatti prima o poi dovrebbero far parte? Due assiomi sempre presenti quando si riflette sul rapporto tra design e utente sono quelli della funzionalità e dell’estetica. Si può dare per scontato che ambedue debbano essere di alta qualità in un progetto da considerare riuscito. Certamente non è nemmeno difficile trovare una serie di altri criteri che fungano da comune denominatore per capire la validità di un progetto4. Indagare la biografia di un oggetto e magari il legame con le biografie delle relative persone richiede tuttavia qualche sforzo in più: accanto ai classici criteri che risalgono ancora alla tradizione della rivoluzione industriale e del movimento moderno bisogna immergersi nelle sfere più intime e personali dei sogni, delle ambizioni, delle esigenze, delle priorità e magari dei timori delle persone quando si trovano ad affrontare la vita di tutti i giorni. È, infatti, possibile definire il design come attività che determina in buona parte la qualità delle nostre esperienze a contatto con il mondo artificiale (e degli effetti che ne derivano per l’interazione con altre persone e con la natura). Tali esperienze, anche quando sono legate alla stessa e identica situazione, possono variare enormemente da una persona all’altra (proprio per via del principio di “coding and decoding reality”). L’insieme di queste esperienze e della loro varietà costituisce il repertorio interattivo che lega le biografie di oggetti alle biografie di esseri umani. Per ottenere maggiori informazioni su questo repertorio esiste – oltre agli ambiti di lavoro già menzionati – la tecnica del cultural engineering (Höger 2006) che mira a una estensione delle fonti e discipline a cui prestare ascolto, accostando ai classici criteri di qualità progettuale e alle ricerche in ambito sociologico e antropologico, le interpretazioni fornite da artisti, scrittori, cineasti ecc. Interpretazioni, quin4 È sufficiente, a questo proposito, dare un’occhiata ai regolamenti dei concorsi di design riconosciuti a livello internazionale, come ad esempio il Compasso d’Oro, il Premio iF, il Red Dot, gli IDSA design awards ecc. 5 Ho cominciato ad adottare tale pratica nonché il termine stesso di cultural engineering nel 2003, durante l’insegnamento nell’ambito di un corso post-graduate in Design Culture presso la Hochschule für Kunst und Design di Zurigo.
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di, provenienti dall’ambito professionale di persone creative che con i loro specifici metodi e mezzi raccontano di quei contesti di vita da cui scaturisce non solo la menzionata varietà di esperienze personali, ma anche la dinamica di quella “codificazione e decodificazione della realtà” che rende tutte le persone allo stesso tempo riceventi e progettisti delle realtà che circondano loro. Cultural engineering – tra complessità ed empatia Letteralmente si tratta di “costruire legami o possibili riferimenti culturali” tra argomenti e ambiti di lavoro a prima vista distanti l’uno dall’altro5. Per quanto riguarda la cultura di progetto, e nel caso specifico il legame tra biografie di case e biografie di persone, la giustificazione e magari anche la necessità (o comunque opportunità) dell’adozione di questa tecnica sono strettamente connesse alla definizione del progetto stesso. A che cosa si riferisce l’attività del progettista? Il teorico Victor Papanek (1972) risponde in maniera laconica: «Il design è alla base di tutte le attività umane». Ma già cinquant’anni prima di Papanek, nel 1927, l’artista e allora direttore dell’officina dei metalli presso il Bauhaus – l’ungherese László Moholy-Nagy – postulò che «tutti gli ambiti progettuali della vita sono strettamente connessi gli uni con gli altri» (Moholy-Nagy 1927, Prefazione) e che l’esperienza del mondo artificiale si estende, di conseguenza, verso tutti gli ambiti della sensibilità umana. E anche lo stesso fondatore della famosa scuola di architettura e design, Walter Gropius (1956), sosteneva che «il design abbraccia l’intera orbita di ciò che ci circonda: dalla semplice suppellettile al complesso tracciato di una città». Esistono tante altre testimonianze che stanno a indicare estensione e complessità del rapporto tra ciò che il design offre, crea, comunica e ciò che viene recepito e anche modificato quando la cultura di progetto
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entra finalmente a far parte del nostro mondo personale. «Ognuno, in fondo, sa», come afferma Jean Baudrillard, «anche quando non lo sente, di essere giudicato dai propri oggetti, secondo gli oggetti che possiede, e ognuno, in fondo, si sottomette a questo giudizio» (Baudrillard 1972, trad. it. p. 21). Lo scienziato dei processi cognitivi Donald A. Norman (2004, trad. it. p. 3) divide le qualità interattive del design in «tre diversi aspetti [...]: viscerale, comportamentale e riflessivo. Il design viscerale riguarda l’aspetto esterno […]. Il design comportamentale ha a che fare con il piacere e l’efficacia dell’uso […]. Infine, il design riflessivo affronta la razionalizzazione e l’intellettualizzazione di un prodotto. Posso raccontare una storia che lo riguardi? Posso lusingare l’immagine che ho di me stesso, il mio orgoglio?». Una suddivisione ancora più differenziata delle funzioni di un progetto in architettura (ma anche in design) propone il linguista e teorico di estetica Jan Mukařovský (1966a; 1966b), che distingue tra la funzione immediata, la funzione storica, la funzione individuale, la funzione sociale e la funzione estetica. Davanti a relazioni così ampie e anche complesse e variegate, mi pare non solo importante ma addirittura irrinunciabile che i progettisti di professione consultino il più ampio panorama possibile di fonti che possano fornire informazioni su come vivono e si comportano le persone alle quali il lavoro progettuale è destinato. Sono convinto che preziose informazioni del genere (da utilizzare anche come fonti d’ispirazione) siano contenute non solo nelle ricerche scientifiche del settore (cioè design research, sociologia, antropologia, semiotica) ma anche nei lavori di altri ambiti creativi come l’arte, la letteratura, il cinema e la musica. Chi lavora in prima persona in queste discipline di solito non conduce indagini sistematiche ma dà vita, invece, ad approcci e invenzioni individuali. Questo fatto, a prima vista, potrebbe mettere in dubbio la validità delle informazioni che i relativi lavori 6 Disponibile sul sito: www.ilya-emilia-kabakov.com (ottobre 2008). 7 Intervista riportata dal comunicato stampa del Comune di Palermo in occasione della mostra Monumento alla Civiltà Perduta. Cantieri Culturali alla Zisa – Spazio Ducrot, Palermo 1999. 8 Disponibile sul sito: www.the-palace-of-projects.net (ottobre 2008).
contengono (viene a mancare, almeno in apparenza, il carattere rappresentativo delle informazioni – per non parlare della fondatezza scientifica). Dall’altra parte, però, assistiamo a un notevole aumento dell’empatia per quanto riguarda le situazioni prescelte come argomento dagli artisti, scrittori, musicisti o cineasti – proprio perché non inseguono l’obiettivo di fornire semplicemente dei dati rappresentativi ma di entrare, invece, nel groviglio dei ragionamenti e delle emozioni che determinano singole vite umane a contatto con i più vari contesti (e oggetti) della vita quotidiana. Memorie (artistiche) per un futuro (progettuale) Un argomento importante, per esempio, per chi vuole captare possibili nessi tra biografie di case e biografie di persone riguarda il rapporto tra passato e presente in quanto commistione tra una certa storia “ufficiale” documentata nei libri di scuola e tante singole storie legate a biografie individuali. Due artisti che hanno dedicato gran parte della loro opera a questa tematica sono Emilia e Ilya Kabakov (fig. 15) 6. Fin dagli anni Ottanta lavorano a delle installazioni realizzate con ogni tipo di materiale prelevato dalla realtà riproducendo, molto spesso, spaccati di vita quotidiana (una scuola abbandonata, l’interno di un appartamento, una cucina comunitaria) che si uniscono e si fondono con la memoria del racconto biografico degli artisti stessi. I materiali poveri, le dimensioni a volte claustrofobiche, l’illuminazione fioca, il brusio di voci lontane sortiscono un effetto teatrale e coinvolgente. «Vorrei mostrare la vita quotidiana», dice Ilya Kabakov in un’intervista, «le idee, i fatti, vorrei fosse un modo per intrattenere raccontando al pubblico il punto di vista dell’arte su luoghi e periodi del passato di cui si rischia di non sapere più la verità»7. Accanto a forme molto personali di raccontare e rievocare il passato, i due Kabakov lavorano anche come progettisti del futuro, per esempio nel loro celebre progetto
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The Palace of Projects, realizzato a Londra, New York e Madrid8: una grande spirale luminosa à la Tatlin, che raccoglie una settantina di progetti a prima vista irrealistici e utopici, ma comunque ricchi di sogni e di speranza, per migliorare la vita degli altri, stimolare la creatività e cambiare se stessi. Da parte della letteratura, Bertolt Brecht raccoglie in maniera molto accentuata ed evidente l’argomento delle differenze tra storia “ufficiale” e biografia individuale nel suo racconto Cesare e il legionario (Brecht 1949), un piccolo capolavoro del 1942 che fa rivivere gli ultimi tre giorni dell’imperatore romano non solo con gli occhi e i sentimenti dello stesso Giulio Cesare, ma anche con le sensazioni ed esperienze di un semplice legionario e della sua famiglia le cui biografie rappresentano quella «prospettiva degli altri» (cfr., tra gli altri, Müller 1967) che non solo è stata ampiamente teorizzata da Brecht (e, prima di lui, da Marx), ma che costituisce una parte fondamentale del bagaglio culturale di ogni persona che si accinge a lavorare come progettista. Anche il cinema offre numerose opere che, tramite interpretazioni personali, aiutano a capire meglio le condizioni di simultaneità (e differenza) tra vita individuale e storia collettiva. Con Molière, un film cult degli anni Settanta, la fondatrice del Théâtre du Soleil Ariane Mnouchkine realizzò un affresco epico del Seicento francese che contrappone magnificamente episodi di cultura popolare alle usanze della vita di corte. Ambientati ai tempi nostri e con motivazioni più esplicitamente politiche, parlano delle molteplici difficoltà di conciliare la vita privata e il suo framework pubblico i documentari del giornalista americano Michael Moore. Oltre a praticare con successo un impegnato giornalismo di denuncia, Moore riesce a captare con grande sensibilità le storie di vita di singole persone alle prese con sistemi sociali, economici e politici che rivelano la necessità di essere, almeno in parte, ripensati e ridisegnati. 9 Sto parlando, evidentemente, solo di opere di alta qualità. In simili opere, l’avvicinamento al contesto di vita prescelto è autentico anche se l’opera è frutto dell’immaginazione.
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Conclusioni Ovviamente esistono tantissimi argomenti di design – anche correlati al rapporto tra biografie di case e biografie di persone, nelle loro valenze e nella loro psicologia – all’interno di un mix metodologico – tramite le tecniche del cultural engineering. Pensando, ad esempio, ai possibili messaggi sprigionati dalla presenza di oggetti quotidiani nella nostra vita (pragmatica e sentimentale), suggerirei di leggere L’Ode alle Cose di Pablo Neruda, vedere la pièce teatrale Made in italy di Vincenzo Cerami e assistere alla proiezione di alcuni film di Jacques Tati – per non parlare della raccolta di racconti Ho visto cose… curata da Giorgio Vasta (2008). Il valore e l’utilità di una simile lettura tematica di argomenti di progetto attraverso altre discipline creative come il cinema, la letteratura e l’arte trovano testimonianza anche da parte di altri autori di riflessioni e constatazioni circa le dinamiche e le finalità delle professioni creative (cfr., tra gli altri, Gold 2008). Vorrei sottolinere due aspetti in particolare: quello dell’esperienza personale, che considero una strada maestra verso indispensabili processi di empatia, e quello del contesto politico in senso ampio per quanto riguarda la cultura di progetto. «Se sento, dimentico; se vedo, ricordo; se faccio, imparo.» Questa celebre regola di Confucio, formulata 2500 anni fa e ampiamente confermata anche dai moderni studi sull’apprendimento umano, può essere vista proprio come un invito all’adozione delle tecniche di cultural engineering. Anche se la lettura di un racconto o di un romanzo, la contemplazione di un’opera d’arte o la visione di un’opera cinematografica non possono sostituire l’esperienza del vissuto reale in una determinata situazione di vita, riescono comunque ad avvicinarvisi in maniera autentica9. Ciò avviene – ed è questa la cosa importante – a livello sensoriale ed emotivo: si arriva a un flusso di concrete informazioni che facilita e promuove il processo di empatia,
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proprio perché scrittori, artisti e cineasti trasformano “l’altro”, “lo straniero” in qualcosa di tangibile tramite i nostri sensi e le nostre emozioni (senza escludere, tuttavia, il ragionamento). O, per dirlo con le parole di Orhan Pamuk (2007, trad. it. p. 7): «Chi scrive parla di cose che tutti conoscono ma che non sanno ancora di conoscere. […] La grande letteratura parla della nostra abilità di metterci nei panni di un altro». E David Grossman (2007) aggiunge: «Noi scrittori compiamo un lavoro di decostruzione delle personalità umane. Trattiamo i materiali più aspri, brutti e grezzi dell’anima. Il nostro lavoro ci porta a scoprire i nostri stessi difetti – come essere umani, ma anche come creativi». Per quanto riguarda, invece, il contesto politico della cultura di progetto, lo vorrei sottolineare proprio nel senso di una fortissima motivazione – oltre alle consuete necessità di portare avanti delle ricerche prima di iniziare qualsiasi opera progettuale – per adottare gli strumenti del cultural engineering. Mi riferisco in particolare a colleghi come Gianni Sinni (cfr. Sinni 2008) e Jennie Winhall10 che da anni ribadisce che «le nozioni e riflessioni dell’utente finale sono altrettanto importanti quanto quelle degli esperti» se si vuole progettare in maniera sensibile, adeguata, contestuale e magari anche partecipativa (in altre parole: democratica)11. Grazie all’avvento di numerose applicazioni autogestite degli strumenti di comunicazione e autoaffermazione offerti da Internet, questa idea non equivale solo a un pio appello alle buone intenzioni del progettista. Descrive, invece, una realtà concreta ormai in essere. Esistono già gli strumenti che occorrono perché persone possano far sentire la loro voce, stare in contatto con milioni di altre persone nel mondo, diffondere informazioni nel giro di pochi secondi, scambiarsi notizie e opinioni, mobilitare pensieri e comportamenti in società globalizzate: si chiamano blog, community, forum, special interest group ecc. Sono usati giorno dopo giorno, minuto dopo mi-
nuto, e sono disegnati in gran parte dagli stessi utenti, non da progettisti di professione. Negli ultimi anni è avvenuta niente meno che una pacifica rivoluzione della comunicazione e della gestione delle informazioni. Questa rivoluzione ha trovato molto velocemente la sua strada dentro le case di tante persone in tutto il mondo. Nei pochi anni in cui questa trasformazione epocale ha avuto luogo, le case stesse sono cambiate nel modo in cui vengono usate, percepite e sentite come “casa” da parte di molti dei loro abitanti: non nel senso di quelle tecno-elitarie proposte di carattere telematico e domotico che sono estremamente costose e quindi alla portata di solo poche persone. Le case invece sono ormai cambiate grazie alla crescente diffusione di local area network e alle sempre maggiori possibilità di comprare o noleggiare un pc con una modica spesa: sono questi i presupposti (insieme, evidentemente, a un adeguato livello di formazione) che consentono l’accesso ai nuovi strumenti di autogestione della comunicazione e delle informazioni menzionati sopra12. Questa recente rivoluzione che si protrarrà anche nel prossimo futuro comporta sfide e opportunità per i progettisti. Le sfide riguardano la capacità di comprendere le trasformazioni legate al processo di emancipazione e autodeterminazione in corso. I progettisti dovranno diventare più umili, meno autoreferenziali, più sensibili verso le reali situazioni di vita che le persone affrontano oggi e nei prossimi anni a venire, come già sosteneva Papanek (1972) ormai 35 anni fa, esortando i suoi colleghi a focalizzare la loro attività almeno in parte su ciò che lui chiamò «progettare per il mondo reale» (fig. 16). Le opportunità, invece, sono strettamente connesse alle sfide delle nuove realtà (e quindi anche delle nuove biografie) che stiamo vivendo: i nuovi strumenti della pacifica rivoluzione nei campi della comunicazione e della gestione delle informazioni offrono ai progettisti – proprio perché si tratta di strumenti
10 Is design political?, disponibile sul sito: www.core77.com/reactor/03.06_winhall.asp (ottobre 2008). 11 «Il sapere e i ragionamenti degli utenti finali sono altrettanto validi di quelli degli esperti» (J. Winhall, Is design political?, disponibile sul sito:
www.core77.com/reactor/03.06_winhall.asp, ottobre 2008). 12 È abbastanza sorprendente constatare, a questo proposito, quanto erano corrette e lungimiranti le previsioni pubblicate nell’ormai lontano 2000 da Jeremy Rifkin (2000).
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pubblici – un enorme numero di risorse a cui attingere per comprendere meglio i ragionamenti, i sogni, le emozioni e anche le preoccupazioni della gente per la quale sono chiamati a lavorare. Tornando al discorso del cultural engineering, le motivazioni di base, le techniche e le finalità rimangono invariate; ma le discipline creative si allargano. Accanto ad “antiche”
discipline come letteratura, cinema e arte – sviluppate da “maestri” creativi – emerge ora tutta una serie di new media popolari creati e gestiti, appunto, dalle stesse persone che costituiscono anche gli abitanti delle case e gli utenti di oggetti e servizi che i progettisti sono chiamati a creare. Non è questo un intreccio stimolante?
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Percorsi di vita e articolazioni di senso: approccio biografico e metodologia semiotica Introduzione «Avevo in mano la palla da baseball. Di solito la tenevo nella libreria, incuneata in un angolo, tra i libri diritti e obliqui, sotto una tenda di libri, senza tante cerimonie. Ma ora ce l’avevo in mano. Bisogna conoscerla, la sensazione di una palla da baseball nella mano, bisogna tornare un po’ indietro, collegare molte cose, prima di riuscire a capire perché si possa stare seduti in poltrona alle quattro del mattino con in mano un oggetto del genere, e stringerlo – il modo rassicurante
in cui aderisce al palmo, il centro di sughero che la rende leggera, e le zone ruvide di una palla vecchia, la pelle segnata, il piacere con cui il pollice strofina pigramente il cuoio liso. Una palla da baseball la si strizza. La si spreme, per così dire, o la si munge. La resistenza del materiale pressato fa venir voglia di stringere più forte. C’è un equilibrio, una piacevole tensione animale tra l’oggetto di pelle dura e la mano ad artiglio, con le vene gonfie per lo sforzo. E la
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sensazione delle cuciture in rilievo sulla punta delle dita, contorni di filo simili a dossi sotto le articolazioni delle nocche – il cotone ritorto che può essere visto come un’impronta di pollice ingigantita, un ingrandimento delle spirali sul polpastrello del tuo pollice. La palla era color seppia intenso, impastata di terra, erba e generazioni di sudore – era vecchia, sbattuta, pesta, intrisa di saliva al tabacco e macchiata dal tempo e dalle vite che aveva alle spalle, chiazzata dalle intemperie e personalizzata come una casa in riva al mare. E aveva una striatura verde vicino al marchio di fabbrica Spalding, aveva ancora un piccolo livido verde nel punto in cui era andata a sbattere contro un pilone, secondo la storia che l’accompagnava – vernice scrostata di un pilone imbullonato nelle tribune dell’area sinistra incorporata sulla superficie della palla. Trentaquattromila e cinquecento dollari. La mano che estrapola dalla palla da baseball ricordi che non hanno niente a che vedere con le partite abituali. Malasorte, Branca-sorte. Da lui a me. Il momento che fa la vita» (De Lillo 1997, trad. it. pp. 137-138).1 Un corpo ne avvolge un altro. La mano, ulteriore involucro, è penetrata e solcata dalle articolazioni di un primo involucro: le nervature, le cuciture, le irregolarità del rivestimento in pelle, attraverso cui la palla offre la sua consistenza. Tra i due corpi in tensione si stabilisce un equilibrio. Ma la palla, il suo involucro, la sua pelle, è attraversata da ed è ricoperta d’inscrizioni, alcune diffuse – il sudore, la terra, la saliva –, che uniformemente ne alterano il bianco originario, altre più circoscritte – la macchia verde. Insieme queste inscrizioni costituiscono quella patina che rende questo oggetto singolare. Da essa si evince la sua biografia. È da questo oggetto che Nick, il protagonista di questo brano di Underworld (De Lillo 1997), estrae ricordi e il significato che quella palla ha per lui: «la sconfitta» e 1 La traduzione è di Delfina Vezzoli, con alcune lievi modifiche da me operate.
l’attimo in cui si distribuiscono «sfortuna a una persona […] e il più soave dei destini ad un’altra» (De Lillo 1997, trad. it. p. 104). Solitamente, quando si parla di oggetti e dei loro significati si comincia e troppo spesso ci si arresta alla terza riflessione, registrando il significato che un soggetto umano attribuisce a un dato oggetto (cfr., tra gli altri, Csikszentmihalyi e Rochberg-Halton 1981). Pur dando in questa maniera valore e rilevanza agli oggetti, tale rilevanza e tale valore emergono in modo totalmente asimmetrico. All’oggetto è negato qualunque ruolo attivo, qualunque potere, qualunque competenza, qualunque disposizione, qualunque agency: l’oggetto può solo essere il passivo ricettacolo delle semantizzazioni di un soggetto umano. Ma, un oggetto – la palla da baseball, per esempio –, non solo accoglie un significato più o meno definito che un soggetto umano può attribuirgli, grazie al quale diventa simbolo di qualcos’altro – la sconfitta, in questo caso –, ma anche partecipa al dispiegarsi della significazione con anima e corpo o, meglio, con la sua pelle e la sua carne, con il suo involucro e la sua struttura interna. L’approccio biografico agli oggetti presuppone un riequilibrio dell’assimetria tra umani e non-umani (cfr. Volonté, in questo volume), grazie al quale diviene possibile (e necessario) prendere in considerazione l’agency specifica degli oggetti e, così, non solo tener conto degli oggetti, ma rendere effettivamente conto del loro contributo all’azione e alla significazione. La semiotica che, sulla scia dei lavori di Ferdinand de Saussure e di quelli di Louis Hjelmslev, conferisce tanta rilevanza al piano del contenuto quanta a quello dell’espressione e che, sulla scia dei lavori di Algirdas J. Greimas, prende in considerazione i partecipanti all’azione innanzitutto in quanto attanti, disinteressandosi inizialmente del fatto che essi possano poi incarnarsi in attori umani o non umani, ha elaborato
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modelli e categorie descrittive che, non assumendo alcuna assimetria a priori, riescono a rendere conto degli oggetti, della loro materialità e del loro contributo all’azione e alla significazione. La semiotica si propone, dunque, come una metodologia potenzialmente adeguata per rendere conto delle biografie degli oggetti. Al contempo, però, le esigenze poste dall’approccio biografico agli oggetti richiedono alla semiotica un ripensamento di alcuni suoi modelli e di alcune sue pratiche d’analisi, se essa vuole mantenere, anche in questo ambito, la sua adeguatezza e pertinenza. Questo articolo presenta un confronto di carattere metodologico tra semiotica e approccio biografico agli oggetti che si compirà mettendo alla prova gli strumenti della semiotica con l’analisi di alcune delle biografie degli oggetti presentate alla mostra Storie di cose, che compongono la seconda parte di questo volume. Descrivere oggetti «Il quotidiano quotidiano. Un signore prende il tram dopo aver comperato un giornale quotidiano ed esserselo messo sotto il braccio. Mezzora dopo scende con lo stesso giornale sotto lo stesso braccio. Ma non è più lo stesso giornale, adesso è un mucchietto di fogli stampati che il signore abbandona su una panchina della piazza. Non appena rimane solo sulla panchina, il mucchietto di fogli stampati si converte di nuovo in un giornale quotidiano non appena un ragazzo lo vede, lo legge e lo lascia convertito in un mucchio di fogli stampati. Non appena rimane solo sulla panchina, il mucchietto di fogli stampati si converte di nuovo in un giornale quotidiano non appena una vecchia lo trova, lo legge e lo lascia convertito in un mucchietto di fogli stampati. Poi se lo porta a casa e per strada lo usa per avvolgervi un chilo di bietole, cosa alla quale servo2 La traduzione è di Flaviarosa Nicoletti Rossini con alcune rilevanti modifiche da me operate.
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no i giornali dopo le suddette eccitanti metamorfosi» (Cortazar 1962, trad. it. p. 63). 2 Nel momento in cui, superata una certa ritrosia epistemologica e un certo scetticismo teorico, le scienze umane e sociali hanno iniziato a considerare il ruolo degli oggetti nell’articolazione del sociale, è emersa la questione, tutta metodologica, della descrizione degli oggetti e del loro ruolo. Come rendere conto della presenza al contempo banale e perturbante degli oggetti? Come dare un linguaggio al «feticismo metodologico» (Appadurai 1986b)? Madeleine Akrich e Bruno Latour non sono certo i soli ad aver constatato ed esplicitato la rilevanza sociale degli oggetti. Sono però tra i pochi che si sono posti il problema metodologico della descrizione degli oggetti e del loro ruolo (Akrich 1992), a cui hanno dato una risposta in termini semiotici (Akrich e Latour 1992; Latour 1992). Dato che la semiotica si occupa di oggetti fin dalla fine degli anni Cinquanta (Barthes 1957; 1964) e che, proprio per questo, non è raro vedere semiologi come Jean Baudrillard, che recupera e radicalizza le osservazioni seminali di Roland Barthes, citati nella letteratura che dalla fine degli anni Settanta si è iniziata a occupare in modo sempre più sistematico e approfondito di oggetti (cfr., tra gli altri, Appadurai 1986b; Douglas e Isherwood 1976), il fatto che anche Akrich e Latour si rivolgano a questa disciplina potrebbe non essere così rilevante. Ma Akrich e Latour si differenziano da altri studiosi non solo perché si pongono con rigore il problema della descrizione, non solo perché per risolverlo si rivolgono alla semiotica in quanto metodologia, ma soprattutto perché non si rivolgono alla riflessione semiotica di Barthes, né a quella di Baudrillard, né a quella di nessuno dei semiologi o critici e teorici del design, tra cui Gui Bonsiepe, Renato De Fusco, Umberto Eco, Giovanni Koening, Martin Krampen, Tomas Maldonado, Abraham Moles, Luis Prieto (Krampen 1979), che hanno animato il
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primo periodo della riflessione semiotica sugli oggetti. Akrich e Latour fanno riferimento alla semiotica di Algirdas Julien Greimas che, nei primi anni Novanta, non aveva ancora prodotto una sistematica riflessione sugli oggetti, sviluppatasi solo successivamente (Floch 1995; Fontanille 1995; Semprini 1995)3, dando così luogo al secondo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti. Come sottolineato da Gianfranco Marrone (2002, p. 14), da un punto di vista teorico-metodologico il passaggio dalla prima alla seconda fase di riflessione semiotica sugli oggetti è caratterizzato dall’abbandono della categoria di segno che viene sostituita con quella di testo. Non più un solo segno, dunque, ma più segni articolati – tessuti – e stratificati in un insieme. Come mostra il brano di De Lillo proposto inizialmente, il segno – l’oggetto-“palla” che sta per il qualcos’altro“sconfitta” – non è che «la punta di un iceberg di un complesso lavorio sottostante» (Marrone 2002, p. 14), dato che «un segno è la risultante manifesta di una strutturazione soggiacente di parti e […] il componente di una struttura più ampia» (Marrone 2002, p. 14). Dunque, «la vita del segno dipende in tutto e per tutto dalle strutture che lo producono e lo sorreggono, ovvero dalle relazioni che le sue parti intrattengono per porlo in essere, ma anche dalle relazioni che esso stesso intrattiene con altri segni simili entro un più generale sistema di significazione» (Marrone 2002, p. 14). Un oggetto, così come un segno – e in questa prospettiva relazionale non vi è alcuna opposizione o diversa pertinenza tra segno e oggetto4 – non è allora che un punto di intersezione tra fasci di relazioni (Hjelmslev 1943b, trad. it. p. 26), come mostrato dal brano di Julio Cortazar posto in exergo a questo paragrafo. Il passaggio dal primo al secondo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti comporta, dunque, la riscoper-
ta per la semiotica degli oggetti di un’epistemologia relazionale, secondo la quale le relazioni precedono gli elementi, che consente di analizzare gli oggetti in tutta la loro complessità (cfr. Latour 2005, p. 217). Barthes, nel tentativo di rendere conto degli oggetti, che si dimostravano alquanto refrattari a piegarsi alle categorie saussuriane, aveva sostenuto che essi partecipano sì della significazione, ma che, differentemente dai segni linguistici, la loro significazione si fonda su un “supporto”, uno strato non significante, ma funzionale. L’introduzione di questo strato non significante che, come ammesso dallo stesso Barthes (1964, trad. it. p. 33), sfugge alla «teoria saussuriana secondo la quale la lingua non è che un sistema di differenze», cioè sfugge a un sistema relazionale puro, implicava anche una sostanziale limitazione alla epistemologia relazionale5. La semiotica, dunque, rinunciando a rendere conto del supporto, della base materiale degli oggetti, riduceva il proprio lavoro alla descrizione della funzione in quanto significata e di possibili altre connotazioni a cui essa può rinviare, tralasciando così completamente l’oggetto, divenuto solo il veicolo per qualcos’altro (Latour 2000). Si produceva così una smaterializzazione degli oggetti (Dagognet 1988; Maldonado 1970) che ha portato a ignorare la loro configurazione plastica, la loro costituzione materica, nonché la loro funzione effettiva, in quanto praticata, cioè l’uso. La semiotica degli oggetti del primo periodo si concentrava, dunque, solo sul fatto che la palla da baseball posseduta da Nick significasse “gioco del baseball” e connotasse “sconfitta”. Risulta evidente che l’approccio materialistico di Akrich e Latour non trovi niente di interessante nel primo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti. Per questo si sono indirizzati verso quella teoria semiotica – quella di Greimas – che, tentando di dispiegare un’effettiva epistemologia relazionale di deriva-
3 A cui sono seguiti Deni (2002a; 2002b), Deni e Proni (2008), Fontanille e Zinna (2005), Landowski e Marrone (2002), Mangano (2009), Mangano e Mattozzi (2009), Semprini (1999), per quanto riguarda i volumi sul tema. 4 Proprio per questo tale prospettiva permette di fare saltare tutta una serie di
dicotomie a cui siamo fin troppo abituati. 5 Sull’ampiezza della riflessione di Barthes sugli oggetti, che non può essere ridotta all’introduzione del supporto, anche se è questa mossa teorica che ha poi caratterizzato il dibattito a lui successivo, cfr. Mattozzi (2006).
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zione hjelmsleviana, nonché dando rilevanza, grazie al concetto di “livello plastico” (Greimas 1984), alla dimensione sensibile dei sistemi di significazione analizzati, e approntando strumenti e categorie quali attante e programma narrativo, ha permesso di rendere conto degli oggetti, della loro materialità, dei loro possibili usi, in modo simmetrico, così da poterne cogliere l’agency6. È su queste stesse basi che si è venuto a sviluppare il secondo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti, grazie alle cui analisi è stato per esempio messo in luce il ruolo giocato da un coltellino nel creare una certa relazione con i materiali su cui agisce (Floch 1995), o il ruolo della sagoma dei rasoi o dell’arredamento dei treni nel delineare, rispettivamente, il gesto del radersi o un certo tipo di socialità (Deni 2002a), o il ruolo degli occhiali nel creare un certo tipo di identità e di relazioni sociali (Magli 2002) ecc. Coerentemente con quanto sostenuto da Hjelmslev (1943b), nel secondo periodo di riflessione semiotica sugli oggetti la significazione non è considerata un semplice rinvio tra un oggetto e un segno, mediato magari da un soggetto-interprete, ma una relazione tra forme, cioè tra configurazioni7, in cui una configurazione, che costituisce il piano dell’espressione, si traduce in un’altra, che costituisce il piano del contenuto8, che a sua volta si potrà tradurre in un’ulteriore configurazione, e così via, dando luogo a quell’articolazione del senso che è l’oggetto di studio della semiotica. È così che un mucchio di fogli stampati può riarticolarsi in un giornale o in un involucro per bietole, non tanto perché ci sia un soggetto umano che interpreta quel mucchio di fogli stampati in una maniera o in un’altra, ma perché, entrandoci in relazione in un modo o in un altro, crea un tipo di configurazione – lettura di giornale – o un altro – involucro per bietole. La significazione di un oggetto,
così come di altri sistemi significanti, si pone dunque nel passaggio da una configurazione a un’altra. Con Akrich (1990, trad. it p. 126) si può allora affermare che la significazione di un oggetto coincide con la riarticolazione che quello stesso oggetto opera della «rete di relazioni – relazioni di tutti i tipi possibili – all’interno della quale noi siamo posti e che ci definisce». Rendere conto di un oggetto vuol dunque dire descrivere queste relazioni. La semiotica, in quanto metodologia per le scienze umane e sociali, non fa che rendere questo possibile: elabora categorie, modelli e griglie per operare queste descrizioni. Se queste categorie e modelli si sono rivelati sufficientemente adeguati per rendere conto degli oggetti, lo sono anche per rendere conto delle loro biografie?
6 Spesso il principio di simmetria così come inteso da Latour è visto come una sorta di animismo in cui gli oggetti sono dotati delle stesse proprietà e poteri attribuiti ai soggetti. Ma il problema di Latour non è tanto quello di dare qualcosa in più agli oggetti, quanto quello di ridistribuire nella rete che costituisce varie istanze, siano esse umane o non umane, proprietà e competenze. Si tratta, dunque, di una simmetria che mira a un “livellamento verso il basso” e non alla promozione di una parte discriminata verso l’alto. Come dice lo stesso Latour (1999, p. 192): «L’azione che mira a uno scopo e l’intenzionalità possono non essere delle proprietà degli oggetti, ma non sono neanche
proprietà degli umani. Sono proprietà delle istituzioni, degli apparati, di ciò che Foucault chiamava “dispositivi”». Proprio per questo, il mio riferirmi all’agency degli oggetti è una semplificazione. Ciò a cui, in effetti, faccio riferimento è il contributo di un oggetto all’emergere di una certa agency dalla situazione. 7 Cioè tra sistemi di relazioni: coerentemente con l’epistemologia relazionale la significazione non è altro che una relazione tra relazioni. 8 Da questo punto di vista è possibile tracciare una forte analogia tra il pensiero di Hjelmslev (1943b) e quello di Latour (2005), cfr. Mattozzi (2009).
Descrivere biografie «Torno in cucina con la pattumiera piccola vuota, sostituisco la carta da giornale che la foderava internamente con altra carta da giornale. Questa operazione mi è particolarmente congeniale perché sono contento di dare un ulteriore uso ai giornali, di consentire loro un supplemento di vita dopo il rapido corso della loro obsolescenza. Oggetto d’un amore insoddisfatto o soltanto d’una fissazione nevrotica, il giornale viene da me regolarmente comprato, velocemente sfogliato e messo via, ma mi rincresce disfarmene subito, spero sempre che torni utile in un secondo tempo, che gli resti qualcosa da dirmi. Il momento della resurrezione viene appunto quando prendo dalla catasta dei giornali vecchi un foglio per foderare la poubelle e i titoli che affiorano stravolti si impongono nella concava prospettiva a un’istantanea seconda lettura mentre adatto la superficie quadrangolare a coprire il meglio possibile l’interno del
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cilindro e ne rimbocco i lembi intorno all’orlo. Per il secchio piccolo il formato “Monde” è l’ideale, mentre i più spaziosi quotidiani italiani finiscono di solito a rivestire la poubelle grande. Se ben fatto il rivestimento di giornali continua ad aderire al recipiente dopo lo svuotamento per mano degli ébouers, e domani, quando andrò a recuperare la mia poubelle vuota, questo gran pavese di scrittura nella lingua di Dante me la farà distinguere tra le consorelle abbandonate sullo stesso marciapiede» (Calvino 1995, pp. 90-91). Se – al di là di un suo uso generico e/o evocativo9 – intendiamo dare un significato preciso alla locuzione “biografia degli oggetti” che ci permetta di individuare uno specifico approccio allo studio degli oggetti, non possiamo non tener conto di due aspetti che dovrebbero caratterizzarlo: * la singolarità o, meglio l’individualità degli oggetti presi in considerazione, cioè, in termini semiotici, il fatto che vengano presi in conside razione oggetti in quanto occorrenze (token) e non in quanto tipi (type) (Peirce 1960, § 4.537), che, dunque, si consideri lo loro «identità nu merica» e non quella «specifica» (Prieto 1991); * la diacronia, cioè, in termini semiotici, «un in sieme di trasformazioni situate e riconoscibili tra due sistemi globalmente considerati» o di «trasformazioni situate all’interno di un sistema semiotico» (Greimas e Courtés 1979, trad. it. pp. 81-82) che siano considerate irreversibili (Grei mas 1966, trad. it. p. 120). Questi due aspetti emergono chiaramente sia dall’articolo di Igor Kopytoff (1986) dove viene coniata la locuzione “biografia culturale delle cose”, sia dal volume di Thierry Bonnot (2002) in cui si tenta di applicare tale approccio. Kopytoff valorizza in modo esplicito l’individualità e la diacronia: per formulare la sua proposta riprende
da Margaret Mead l’idea di guardare alle traiettorie di vita di singole persone considerate di successo in una data cultura al fine di capire quali sono i valori di quella stessa cultura e da William H.R. Rivers il «metodo genealogico» che consiste nel seguire i passaggi di un’eredità al fine di ricostruire le strutture della parentela e il loro effettivo funzionamento in una data società. Tale valorizzazione emerge in particolare dagli esempi da lui proposti: un dipinto di Renoir, un’automobile in Francia, Stati Uniti, Africa e le capanne dei Soku in Zaire che, pian piano che si degradano, cambiano le relazioni di cui partecipano, passando da abitazione per coppie a quelle per ospiti o vedove, a cucina, a ovile o aia fino al decadimento definitivo. Per Bonnot (2002; in questo volume) l’approccio biografico prende in considerazione le trasformazioni che, nel corso della sua esistenza, hanno investito un dato oggetto e le relazioni di cui esso partecipa. Al fine di chiarire la specificità dell’approccio biografico, Bonnot (2002, p. 5; in questo volume) lo ridefinisce come la descrizione delle successive singolarizzazioni a cui un oggetto è andato incontro, valorizzando così, anche in questo caso, individualità e diacronia. Questi due aspetti che caratterizzano l’approccio biografico agli oggetti e lo differenziano da altri possibili approcci, risultano parzialmente estranei alla riflessione semiotica e, in particolare, estranei all’attuale riflessione semiotica sugli oggetti. Senza cadere nello stereotipo della semiotica incapace di rendere conto della storia e, dunque, della diacronia10, non si può non rilevare che le analisi semiotiche finora effettuate hanno privilegiato specie di oggetti e non individualità concrete – una data specie di coltellino (Floch 1995), un data specie di rasoio (Bolchi 1999), una data specie di spremiagrumi (Mattozzi 2004; 2009), una data specie di sbattitore (Mangano e Marrone 2002) ecc. –, senza quasi mai interrogarsi
9 Penso che nessuno possa mettere in dubbio il fascino della formula “biografia degli oggetti”, che fa precipitare in un unico composto tratti semantici relativi all’umano e al non-umano. Il caso più eclatante in cui si è sfruttato il valore evocativo della locuzione è quello del titolo Biographies of Scientific Objects assegnato a un volume (Daston 2000) che raccoglie gli atti di un convegno intitolato “The Coming into Being and Passing Away of Scientific Objects”. Dato che nel volume non si fa mai accenno al titolo con cui gli atti sono stati commercializzati, né al concetto di “biografia
degli oggetti”, è evidente che si è voluto sfruttare l’evocatività del titolo per ragioni di marketing editoriale. Più spesso la locuzione “biografia degli oggetti” è usata in modo generico. Per esempio, in Riccini (2005, pp. 55-57) vi è un paragrafo intitolato, con riferimento ad Appadurai (1986b), “Le biografie degli oggetti”: tale locuzione viene usata per indicare sinteticamente ricerche di carattere etnografico e microstorico. 10 Per una problematizzazione delle questioni relative alla storia e alla diacronia in termini semiotici, cfr. Greimas (1966) e Uspenskij (1988).
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sulle loro trasformazioni diacroniche11, né in quanto tipi, né, tantomeno, in quanto individui. La semiotica del secondo periodo di riflessione ha prevalentemente analizzato gli oggetti in quanto script (Akrich e Latour 1992), cioè in quanto insieme virtuale, inscritto nell’oggetto stesso, delle relazioni che l’oggetto può intrattenere con gli utilizzatori e altri oggetti. L’analisi degli oggetti ha dunque seguito il metodo già sperimentato nell’analisi di testi verbali, visivi o sincretici, riguardo ai quali ci si è sempre concentrati sulle intenzioni del testo, piuttosto che su quelle dell’autore o del lettore/spettatore. Così come non sono generalmente prese in considerazione singole interpretazioni, anche i singoli usi di un dato oggetto non sono pressoché mai stati considerati12. Peraltro, l’analisi, per quanto possa essere focalizzata su un individuo particolare, tende sempre a produrre una tipizzazione dell’individuo: nel momento in cui tale individuo viene assunto come “testo”, l’analista da esso estrae e stabilizza, non diversamente da quanto accade in altri ambiti scientifici, un determinato assetto di relazioni (Marrone 2007), che comportano una tipizzazione dell’individuo stesso. Tale impostazione può essere considerata limitata e limitante13, tuttavia risponde a vincoli metodologici a garanzia dell’adeguatezza dell’analisi. Se in ambito semiotico si è cercato di rispettare tali vincoli e, dunque, non ci si è mai direttamente posti il problema di una “biografia degli oggetti”, ciò non vuol dire che vincoli analoghi non abbiano avuto effetto su altre discipline. In effetti, la discrepanza tra la fortuna riscontrata dal concetto di biografia degli oggetti e le rare applicazioni sistematiche che ne sono seguite segnala una generale resistenza a tale approccio. Una prima questione che l’approccio biografico agli oggetti fa emergere riguarda la rilevanza di uno sguardo così particolarizzante – in fondo, qual è l’interesse di sapere che le pagine del “Corriere della Sera”
sono utilizzate dal signor Italo per foderare l’interno del suo secchio della spazzatura? In semiotica, così come in altre discipline, si è generalmente pensato alla scienza come scienza del generale e, dunque, non dell’“identità numerica” degli oggetti, ma della loro “identità specifica” (Prieto 1998). Questa impostazione mette chiaramente in dubbio la rilevanza scientifica della biografia degli oggetti. Una seconda questione, più specificamente semiotica, riguarda la capacità di rendere effettivamente conto delle trasformazioni e, dunque, della diacronia. Dato che la semiotica s’interessa del “come” avvengono le trasformazioni e non del “perché” e, dunque, s’interessa di concatenazioni di traduzioni tra configurazioni e non di concatenazioni di causa-effetto14, l’unico strumento di analisi che essa ha per rendere conto delle trasformazioni tra due configurazioni è la comparazione. Ma, come fanno notare Greimas e Courtés (1979, trad. it. p. 81), se si assume la prima accezione di diacronia data in precedenza, cioè «trasformazione […] tra due sistemi», la comparazione tra essi non fa altro che riprodurre la comparazione tra stati adottata dal comparativismo acronico. Per Greimas e Courtés, solo il secondo approccio, che considera la diacronia come trasformazione all’interno di un sistema, riuscirebbe a rendere conto effettivamente delle trasformazioni. Come riconoscono indirettamente anche i due semiologi, la questione, però, se si tratta di trasformazioni in un sistema o tra sistemi dipende dal punto di vista dall’analista e dai criteri adottati per definire i limiti del sistema: ogni trasformazione tra sistemi può essere vista come trasformazione interna a un sistema più generale. In fondo Greimas e Courtés (1979) ripropongono, in modo più empirico, una possibile soluzione già delineata in Greimas (1966, trad. it. p. 119) in cui si faceva notare che ciò che serve per rendere conto delle trasformazioni è l’elaborazione di una metadescrizione che permette di sussumere
11 Parzialmente si discosta da ciò l’analisi dei rasoi Gillette condotta da Michela Deni (2002), anche se si tratta più di una comparazione tra stati successivi che di un’effettiva analisi delle trasformazioni. 12 Si è cercato di farlo in Mattozzi (2004, 2009), grazie all’introduzione di alcune innovazioni metodologiche di cui parlo in seguito. 13 Questo è ad esempio il giudizio di Andrea Semprini (2002). Recentemente questa impostazione è stata oggetto di un ampio dibattito interno all’ambito semiotico a partire
dalla problematizzazione del concetto di “pratiche”. Per il dibattito sul tema cfr. Basso (2006), Fabbri (2005), Fontanille (2008), Mangano (2005), Marrone (2007). 14 A cui troppo spesso si riduce la storia e la spiegazione storica. Se la storia fosse semplicemente una concatenazione di cause ed effetti, allora la semiotica non sarebbe veramente in grado di renderne conto. Per una critica alla spiegazione per cause ed effetti cfr. anche Latour (2005), che si pone nella stessa prospettiva che qui si cerca di delineare.
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sistemi e trasformazioni. Questa soluzione del problema, però, non risulta convincente, non tanto a livello di singola analisi, ma in generale, dato che sposta di livello la questione senza effettivamente risolverla. Non mi interessa prendere posizione per una parte o per l’altra delle controversie soggiacenti alle questioni menzionate – scienza del generale vs. scienza del particolare, comparazione tra sistemi vs. individuazione delle trasformazioni in un sistema – quanto mostrare che la riformulazione proposta da Bonnot (2002, p. 5) di biografia degli oggetti come descrizione delle successive singolarizzazioni di un oggetto permette di riarticolare un po’ tutta la problematica e, così, permette di delineare il possibile contributo della semiotica alla biografia degli oggetti. Prima di mostrare quale può essere tale riarticolazione, vorrei, però, evidenziare la generale rilevanza dell’approccio biografico agli oggetti, senza la quale ogni ulteriore discussione risulterebbe inutile. Come mostrato da Bonnot (cfr. anche Volonté, in questo volume), tale rilevanza si manifesta in particolare nel ripensamento radicale, che si può configurare anche come un superamento, della questione della funzione. Gli approcci tradizionali, non solo semiotici, tendono a dare una grande importanza alla categoria di funzione, che trascende usi e pratiche effettivi, e a ridurre gli oggetti a essa. L’approccio biografico permette invece di cogliere come un «programma d’azione» (Akrich e Latour 1992) – o «programma narrativo», in termini più strettamente semiotici – emerge e può trasformarsi in situazione, rispetto alla rete di cui un dato oggetto partecipa. Coerentemente con i presupposti dell’approccio biografico (cfr. Volonté, in questo volume), ciò consente di simmetrizzare ulteriormente la relazione tra umani e oggetti, ridistribuendo l’agency 15 Troppo spesso, anche nella letteratura che fa rifermento all’Actor-Network Theory, lo script viene scambiato per il “modello mentale” del designer come inscritto nell’oggetto – riprendendo così un’idea di Donald Norman, a cui pure Latour si è ispirato. Ma, per come è stato concettualizzato da Akrich e Latour (1992), lo script non è direttamente connesso all’operato del designer e mantiene una sua autonomia, propria dell’oggetto su cui è inscritto.
tra tutti gli attanti della situazione. L’agency, infatti, in approcci più tradizionali è assegnata al solo umano che è considerato l’unico responsabile della funzione di un oggetto, attraverso il suo riconoscimento (cfr. Eco 1975, p. 36) o attraverso la sua inscrizione nell’oggetto stesso. Ciò non significa che un oggetto non disponga azioni o relazioni specifiche, che possono esservi state iscritte attraverso un processo di design, tradizionalmente rilevate dall’analisi semiotica e dalla sociologia della tecnica in quanto script15. Ma ciò che l’oggetto dispone può essere dispiegato o no, totalmente o parzialmente, solo in base alla rete di cui l’oggetto stesso partecipa. Ciò è esattamente quanto accade ai giornali nei brani qui presentati: si possono attualizzare in quanto corpi con delle inscrizioni, oppure come involucri per un altro corpo, cespo di bietole o cestino della spazzatura che sia; ciò avviene in base a una serie di proprietà dell’oggetto pagina-digiornale che dispongono questi usi: una certa capacità di assorbire e, dunque, trattenere i liquidi (inchiostro o altro), una certa consistenza, una certa malleabilità che permette di avvolgere ecc. In breve, la rilevanza dell’approccio biografico risiede nella possibilità di restituire la molteplicità propria agli oggetti, negata dall’univocità della funzione e non messa pienamente in luce da approcci che colgono l’oggetto solo in un momento dato. Tale molteplicità è, però, sempre virtuale, poiché l’attualizzazione dell’oggetto, che dipende dalla situazione, opera sempre una selezione e una gerarchizzazione all’interno di essa. La piena plausibilità e rilevanza dell’approccio biografico, non solo in generale, ma anche in relazione al rilevamento di singole biografie, emerge nel momento in cui si adotta la riformulazione che di esso ha
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dato Bonnot (2002, p. 5) nei termini di descrizione delle singolarizzazioni successive di un dato oggetto. Per cogliere appieno l’interesse della proposta di Bonnot bisogna specificare cosa si intende per singolarità e singolarizzazione. Nonostante Bonnot associ il suo concetto di singolarità a quello di Kopytoff a mio parere ne differisce. Per Kopytoff la singolarità corrisponde a uno stato in cui l’oggetto non è più comparabile con nessun altro e, quindi, non è scambiabile. Per l’etnologo francese, invece, la singolarizzazione è l’acquisizione e la cumulazione di nuove proprietà – tratti, in termini semio-linguistici – che rendono l’oggetto mano a mano più peculiare e, dunque, sempre più un individuo. A mio parere è possibile riferire questa concezione della singolarizzazione al concetto di individuazione sviluppato da Gilbert Simondon e Gilles Deleuze (1988). Per Simondon, poi ripreso da Deleuze, l’individuo è costituito da più singolarità pre-individuali. Ognuna di queste singolarità, che viene a caratterizzare ulteriormente un dato oggetto, dipende da un ulteriore relazione di cui l’oggetto partecipa: più sono le relazioni godute da un oggetto, più questo sarà individualizzato. Questa concezione di singolarizzazione permette di chiarire che descrivere la biografia di un oggetto vuol dire rilevare e descrivere l’accumulazione di singolarità, cioè di nuove relazioni, e descrivere come l’emergenza di ogni nuova singolarità operi un riassetto della configurazione di singolarità costituenti l’individuo nello stato precedente. Tale concezione permette di aggirare le due questioni viste in precedenza – rilevanza scientifica di un approccio così particolarizzante come quello biografico; possibilità per la semiotica di rendere conto delle trasformazioni e, dunque, della diacronia – che sono emerse come
ostacoli a un sviluppo di un’analisi semiotica della biografia degli oggetti. Dato che l’individuazione non ha a che fare con generi e specie (Deleuze 1988, trad. it. p. 166) ma, per l’appunto, con singolarizzazioni successive, essa non ha neanche a che fare con tipi e occorrenze, con “identità specifica” e “identità numerica” e con generale e particolare, che ripropongono la dialettica del genere e della specie. Ciò che differenzia tra loro gli oggetti, e ciò che differenzia tra loro i modi di renderne conto, riguarda la quantità di relazioni di cui un oggetto partecipa e la quantità di relazioni che vengono prese in considerazione nel processo di analisi. Vi sono oggetti più individualizzati, che sono incorsi in più singolarizzazioni successive e, quindi, partecipano di più relazioni, altri meno: un oggetto usato da diversi anni è più individualizzato, un oggetto appena uscito dalla catena di montaggio lo è meno. Vi sono analisi che tengono conto di più relazioni, altre di meno. La biografia degli oggetti si caratterizza perché prende in considerazione l’accumularsi nel tempo di queste singolarità presso un unico individuo che, in conseguenza di questo processo di accumulazione, si trova a essere sempre più individualizzato16. Il problema della generalizzazione, come già nella tradizione comparativista a cui attinge anche la semiotica, non riguarda, dunque, la generalità o meno del fenomeno preso in considerazione, ma la possibilità di operare comparazioni tra fenomeni individuali, senza affidarsi a universali a priori o ad astratte medie statistiche: un fenomeno acquista generalità mano a mano che, attraverso la comparazione, si rileva la ripresentazione dello stesso fenomeno in situazioni diverse. La comparazione permette allora di verificare se tra casi individuali emergono
16 Queste considerazioni permettono anche di delineare alcuni possibili approcci allo studio degli oggetti e di mostrare come essi differiscono se vengono intesi in termini genere/specie e tipo/occorrenza o in termini di singolarizzazioni. Se si assume il primo punto di vista, l’approccio biografico agli oggetti prevede una ricerca che prende in considerazione la diacronia e l’individualità dell’oggetto.Tale approccio si oppone, allora, a ricerche, come quelle di tipo storico, che prendono in considerazione anch’esse la diacronia, ma non in relazione a oggetti in quanto individualità, ma in relazione a oggetti in quanti tipi. Vi sarebbero poi approcci che privilegerebbero la sincronia quali l’antropologia della tecnica per i tipi e l’etnografia della tecnica per gli oggetti in quanto individualità. Il problema di tale tassonomia è che necessita di essere maggiormente specificata in base a un sistema di classificazione più complesso dato che
“tipo” può essere sia la lampada, in generale, sia la “Tizio” di Richard Sapper; si tenga poi presente che all’interno di una biografia di un oggetto prodotto in serie, nelle prime fasi di vita e in quelle che le precedono – produzione in serie e progettazione – l’oggetto è molto più simile a quello che definiremmo un tipo che a un’occorrenza (cfr. Ruggerone 2000). Diversa è la situazione se si considerano le singolarizzazioni successive. In questo caso l’approccio biografico è definito in modo preciso o univoco: si tratta di considerare l’acquisizione di singolarità da parte di un individuo nel corso del tempo, sapendo che nelle prime fasi di vita un oggetto sarà caratterizzato da scarsa individualità che crescerà nel tempo. Rispetto a tale modo di considerare la biografia, la storia degli oggetti non è altro che lo studio diacronico di come un dato assetto di relazioni si ripropone su individui diversi.
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delle analogie che fanno presupporre il riproporsi di configurazioni simili o identiche in situazioni diverse. Il problema non riguarda più, allora, come operare la generalizzazione, ma piuttosto come operare la comparazione: vi è sempre il rischio di finire nell’aneddotico o nel cronachistico – nel signor Italo, nei suoi giornali e nei suoi secchi della spazzatura – che non permette comparazioni o, al limite, solo il reperimento di analogie superficiali. E qui riemerge il valore della semiotica, dato che essa, in quanto metodologia, si è sempre sforzata di elaborare categorie e modelli proprio per permettere la comparazione17. La problematica della comparazione ci riporta anche alla seconda questione, riguardante la possibilità di rendere conto della diacronia. Come si era detto, la comparazione tra stati successivi non è sufficiente a rendere conto della diacronia. La prospettiva delle singolarizzazioni successive permette di pensare la relazione tra una configurazione di singolarità e un’altra come una sorta di morfogenesi, in cui lo stato successivo dispiega le virtualità dello stato precedente che, a sua volta, dispone quello successivo. Bisogna inoltre tener presente che queste trasformazioni da uno stato all’altro, queste traduzioni, lasciano sempre delle tracce, che influenzano l’articolazione delle successive traduzioni. La presenza di queste tracce contribuisce all’instaurarsi dell’irreversibilità, caratteristica considerata rilevante per definire la diacronia, seppur con qualche titubanza, anche da Greimas (1966, trad. it. pp. 120-121). Rendere conto della diacronia vuol dunque dire rendere conto di queste traduzioni tra qualcosa che dispone e qualcosa che dispiega e delle tracce lasciate da questo movimento18. Riassumendo, l’approccio biografico agli oggetti richiede di descrivere l’accumulazione nel tempo di singolarità rispetto a un dato individuo, sapendo che: 17 La proposta metodologica di Latour (2005), che attinge non poco dalla semiotica, si pone su questo stesso piano. 18 Simile concezione di vita degli oggetti è presentata in Krippendorff (2006).
* ogni nuova singolarità riconfigura l’assetto di singolarità – l’individuo – precedente e, dunque, provoca una trasformazione, * queste trasformazioni sono pensabili come traduzioni tra configurazioni, in cui una dispone e l’altra dispiega, * queste traduzioni lasciano tracce che costitui scono ulteriori singolarità, contribuendo così a introdurre l’irreversibilità nel processo. Al fine di poter analizzare adeguatamente tale accumulazione l’approccio biografico esige dal ricercatore di: * saper operare una comparazione tra uno stato e un altro, al fine di determinare gli esiti di una trasformazione; * rendere conto dell’agency degli oggetti – di ciò che, a un dato stato, un oggetto dispone; * rendere conto del fatto che lo stato successivo si genera come dispiegamento dello stato prece dente; * tener conto delle tracce che questo processo lascia a ogni fase. Come ho cercato di mostrare la semiotica degli oggetti è in grado di soddisfare le prime due esigenze. Grazie anche al modello che, a partire da una prima proposta di Floch (1995), si è affermato come “il” modello per l’analisi degli oggetti (cfr. Deni 2002a; Pozzato 2001; Volli 2005) e che distingue nell’oggetto una componente configurativa, una tassica e una funzionale, la semiotica degli oggetti è in grado di operare comparazioni e di rendere conto dell’agency (cfr., tra gli altri, Deni 2002a; Festi 2005; Floch 1995; Marsciani 1999; 2007, pp. 151-173). Ha più difficoltà, però, a soddisfare le ultime due esigenze. Queste difficoltà non dipendono da aporie teoriche né, tanto meno, dall’impostazione metodologica generale, ma dal fatto che fino a tempi recenti non sono stati
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Come notava Greimas (1966, trad. it. pp. 116-118) riflettendo sulla diacronia, vi è una stretta relazione tra la “storia” e l’“uso”, così come inteso da Hjelmslev (1943a). In entrambi i casi si tratta di una chiusura, di una «limitazione delle virtualità» di una struttura, sia questa una struttura storica, o la struttura linguistica
– langue o, secondo la rielaborazione di Hjelmslev19, “schema” o “configurazione”20. La tematica della biografia degli oggetti fa precipitare i due termini della analogia: se si vuole descrivere la storia individuale di un oggetto, la sua biografia, non si può non tener conto degli usi che, operando quella “limitazione della virtualità”, attualizzano una data configurazione, un dato script, generando a loro volta una nuova configurazione21, dispiegando così, di singolarizzazione in singolarizzazione, la vita di un oggetto. Se queste considerazioni mi permettono di rendere pertinente la questione degli usi, la recente riflessione di Jacques Fontanille (2004) sul corpo permette di tematizzare la questione della traccia. Nell’ambito di una più generale riflessione sulla dimensione sensibile, Fontanille ha elaborato una semiotica del corpo che permette di rendere conto dell’accumularsi di singolarità, intese in quanto tracce di relazioni passate che si inscrivono sul corpo. Dato che per Fontanille il corpo è una categoria generale che riguarda sia gli umani che i non-umani22, essa è applicabile anche agli oggetti e, dunque, la sua teoria è ciò che più si avvicina a una biografia degli oggetti di impianto semiotico (cfr. Fontanille 2002). Secondo tale teoria il corpo si articola in una struttura interna – la “carne” – e in un involucro – la “pelle”. La struttura interna rende conto del “programma narrativo” del corpo stesso – ciò che il corpo può fare –; l’involucro è un’interfaccia tra il dentro e il fuori del corpo che modula le interazioni tra la struttura interna e ciò che è esterno a essa: rende conto del come un corpo fa ciò che la struttura interna dispone. L’involucro ha dunque un doppio ruolo, da un lato contiene l’interno, stabilizzandone la sagoma, dall’altro si offre all’esterno in quanto superficie d’inscrizione – proprio come il rivestimento in cuoio della palla da baseball.
19 Hjelmslev (1943a) riformula la dicotomia langue/parole in quella di schema/ uso. Per Hjelmslev (1943, trad. it. p. 144) lo schema è «la lingua come forma pura», mentre l’uso è «l’insieme delle consuetudini» linguistiche. 20 Hjelmslev (1943a, trad. it. p. 153) suggerisce di tradurre in inglese “pattern” ciò che nel francese del saggio originale chiama “schéma”. Pattern in italiano si traduce generalmente con “configurazione”. Per quanto detto finora e in relazione a quanto verrà detto in seguito, trovo questo termine più produttivo di quello di “schema”. 21 È necessario, però, tener presente alcune differenze tra ciò che qui si sta proponendo e la riflessione di Hjelmslev (1943a) ripresa da Greimas (1966): lo “schema” o, come
preferisco chiamarlo, la “configurazione” che qui si considera non è la langue, né tantomeno una “struttura storica” sovrastante, ma, per l’appunto, una configurazione che precede e dispone un’altra configurazione; gli “usi” qui considerati non sono tanto «l’insieme delle consuetudini», di cui, in parte, già rende conto lo script, ma quello che Hjelmslev definisce l’“atto”, cioè la singola concretizzazione dell’uso squalificata dallo stesso Hjelmslev (1943a, trad. it. p. 152) in quanto «testimonianza passeggera», a conferma di quanto si diceva riguardo una certa resistenza della semiotica a considerare gli usi individuali. 22 Forzo un po’ il pensiero di Fontanille in senso più latouriano di quanto esso non sia.
approntati modelli e strumenti che consentissero di rilevare e analizzare in modo sistematico dispiegamenti e tracce. In effetti, fino a tempi recenti, la semiotica degli oggetti, come si è già fatto notare, si è prevalentemente interessata delle virtualità d’uso che un oggetto dispone, senza mai interrogare approfonditamente il modo in cui tali virtualità possono essere dispiegate in situazione, senza cioè mai interessarsi degli usi effettivi. Inoltre, avendo la semiotica greimasiana – su cui si fonda l’attuale semiotica degli oggetti – prevalentemente pensato le trasformazioni in termini attanziali (cfr. Greimas e Courtés 1979, trad. it. p. 82), non si è potuta interessare alle tracce che le trasformazioni lasciano, dato che gli attanti non sono che punti, singolarità operatrici di trasformazioni, all’interno di una sintassi pura che, peraltro, non prevede irreversibilità: il loro percorso è ricostruibile solo per presupposizione, conoscendo la sintassi generale delle trasformazioni – lo schema narrativo canonico. Un modello per l’analisi degli oggetti che sia adeguato anche per l’analisi delle loro vite deve dunque tener conto degli usi e delle tracce – del fatto che una palla da baseball può essere usata anche riponendola su uno scaffale e che questo uso è disposto dalle tracce che gli usi precedenti hanno lasciato su di essa. Un modello per l’analisi semiotica delle biografie degli oggetti
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L’involucro, dunque, permette di tenere traccia degli eventi vissuti dal corpo – delle successive singolarizzazioni. Esso diviene il luogo su cui può enunciarsi la patina, che al contempo segnala il tempo che passa e il tempo che perdura, dato che, finché non si accentua intaccando la struttura interna, stabilizza la sagoma del corpo stesso. La pertinenza di tale riflessione per l’elaborazione di una semiotica degli oggetti che sappia rendere conto delle loro biografie emerge in modo anche maggiore se si considera che per Fontanille (2002, p. 72) l’involucro agisce per «ritenzione e protensione», da un lato testimoniando degli usi anteriori, dall’altro invitando a «nuovi usi, prefigurando il luogo e la forma di nuovi contatti», riproponendo così quella dinamica tra disposizione e dispiegamento, pienamente integrata della problematica della traccia, che considero a fondamento di una biografia di un oggetto. Da alcuni anni lavoro all’elaborazione di un modello di analisi degli oggetti (Mattozzi 2004; 2009) che permetta di rendere conto degli usi, superando le limitazioni in proposito del modello derivato da Floch (1995), così come quelle del concetto di script. Nel modello da me elaborato si recupera una concezione degli usi che segue la riflessione di Greimas (1966). Tale modello, inoltre, integra precedenti proposte – Floch (1995) e il concetto di script – con la semiotica del corpo di Fontanille. Ritengo, dunque, che anche se non nato a questo scopo, il modello da me elaborato possa, con qualche accorgimento, risultare adeguato a rendere conto delle biografie degli oggetti dato che si dispone a soddisfare le quattro esigenze presentate alla fine del paragrafo precedente che riguardano comparazione, agency-disposizione, dispiegamento, tracce. Tale modello, fondandosi sulla constatazione che un oggetto è un punto d’intersezione tra fasci di rela-
zioni (Hjelmslev 1943b, trad. it. p. 26), è innanzitutto una mappa delle relazioni che, per l’appunto, articolano un oggetto. Dice, dunque, cosa deve essere preso in considerazione e in che ordine, al fine di operare l’analisi di un oggetto23. Esso, poi, descrive quali sono le dinamiche24 tra un certo ambito di relazioni e un altro, a cominciare dai due ambiti principali: un ambito virtuale, inscritto nell’oggetto stesso, e un ambito attuale. Il primo ambito dispone una serie di relazioni con l’esterno dell’oggetto, il secondo ambito ne descrive il dispiegamento. Per riprendere Akrich (1992, trad. it. p. 59), il modello permette di descrivere il delicato passaggio, momento topico della significazione di un oggetto, tra «il mondo descritto nell’oggetto e il mondo descritto dal suo dispiegamento» e, quindi, anche gli usi e le pratiche effettive di cui un dato oggetto partecipa. Il primo ambito di relazioni è quello che ho chiamato relazioni oggettuali, il secondo relazioni oggettive o, meglio, relazioni inter-oggettive25.
Come risulterà anche più evidente nel seguito della presentazione del modello, esso pertinentizza l’oggetto: * in quanto articolazione tra un dentro e un fuori26 mediata dal corpo stesso dell’oggetto, * in quanto tensione tra molteplicità – le relazioni – e singolarità – l’oggetto in quanto punto d’intersezione tra fasci di relazioni e in quanto corpo –; l’oggetto, dunque, in quanto attore-rete (actor-network). Le relazioni oggettuali sono a loro volta divise in tre ambiti:
23 Non fornisce le categorie con cui descrivere le relazioni che individua, anche se, per una questione di coerenza con il modello stesso, si presuppone che per operare la descrizione si usino categorie prese dalla semiotica greimasiana, a partire dalla quale il modello è stato elaborato. 24 Dinamiche di carattere semiotico: esse tendono a mettere in atto la funzione segnica (Hjelmselv 1943b), cioè porre in relazione una forma dell’espressione con una forma del contenuto. 25 Il riferimento è chiaramente Latour (1994). Per Latour la condizione in cui gli umani
vivono è quella di interoggettività, dato che tutte le relazioni sociali sono inevitabilmente mediate da oggetti. L’inter-soggettività è, invece, una situazione rarissima, se non inesistente, che caratterizza, al limite, la vita sociale dei primati, come i babbuini. Con relazioni inter-oggettive si vuol, dunque, indicare l’oggetto inserito all’interno delle pratiche sociali, che contemplano altri non-umani e umani. Nella successiva elaborazione di Latour il concetto di inter-oggettività è stato sostituito da quello di “collettivo”. 26 Questione non nuova nell’ambito del design (cfr., tra gli altri, Riccini 1998, p. 50; Simon 1969, trad. it. p. 145).
relazioni oggettuali relazioni inter-oggettive
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relazioni intra-oggettuali corpo
relazioni oggettuali
relazioni inter-oggettuali relazioni inter-oggettive Le relazioni inter-oggettuali riguardano le relazioni che l’oggetto istituisce con l’esterno ma, a differenza di quelle inter-oggettive, sono relazioni inscritte nell’oggetto stesso che delineano una virtualità: corrispondono dunque allo script. Per esempio, la palla da baseball ha inscritto su se stessa, per le sue dimensioni, per il suo peso, per la sua sagoma e per il tipo di consistenza, la possibilità di essere afferrata da mano umana, di essere lanciata, di essere battuta da una mazza, ma anche di essere riposta su una libreria. Come risulta evidente da questo esempio l’inscrizione di un certo tipo di relazioni dipende dal corpo dell’oggetto e da come esso si viene a costituire in base alle sue relazioni interne, le relazioni intra-oggettuali. Queste sono le relazioni tra le parti che costituiscono un dato corpo. Per esempio, le parti che costituiscono la palla da baseball possono essere considerate sia il rivestimento di cuoio che avvolge e il sughero, sia il contrasto cromatico tra bianco e rosso che emerge sul rivestimento. Tra i tre ambiti di relazioni oggettuali si producono le stesse dinamiche che tra relazioni oggettuali e oggettive: le relazioni che precedono dispongono quelle che seguono e quelle che seguono dispiegano quelle che precedono, le prime ponendosi come una virtualità che viene attualizzata dalle seconde: le relazioni intraoggettuali dispongono l’emergenza di un corpo che, a sua volta, dispone l’inscrizione di relazioni con l’esterno, le relazioni inter-oggettuali.
Senza entrare troppo nel dettaglio, è necessario ancora specificare che, al fine di descrivere con più adeguatezza e precisione le varie relazioni ogni ambito di relazioni oggettuali è ulteriormente diviso in livelli, per quanto riguarda le relazioni intra- e inter-oggettuali, e sotto-articolazioni per quanto riguarda il corpo. Si deve infine tener presente che le relazioni inter-oggettuali possono essere considerate da un punto di vista paradigmatico o sintagmatico. livello plastico livello corporeo livello figurativo
relazioni intra-oggettuali
configurazione plastica – corpo – figura struttura interna/involucro livello plastico livello corporeo livello figurativo
relazioni oggettuali
relazioni intra-oggettuali relazioni inter-oggettive
Il livello plastico riguarda i contrasti tra forme, colori e qualità materiche (ruvido/liscio, duro/morbido, ecc.) che può emergere tra parti – il colore bianco del cuoio vs. il colore rosso del filo della palla da baseball –, così come nelle relazioni tra l’oggetto analizzato e altri corpi – la palla sferica si oppone ai libri che sono parallelepipedali, e che proprio per questa caratteristica possono stare “ritti e obliqui” e costruire una “tenda” sopra la palla. Il livello corporeo riguarda le relazioni tra parti considerate in quanto corpi e le relazioni tra l’oggetto e altri corpi; tali relazioni si articolano in base a dinamiche di penetrazione e avvolgimento che possono coinvolgere solo l’involucro o l’involucro e la struttura interna. Per esempio, il centro di sughero della palla da baseball è un corpo avvolto da vari altri corpi (fili di lana, spago, due pezzi di cuoio); la palla nella sua interezza
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può essere avvolta dalla mano a cui oppone una certa resistenza, tale per cui le dita non possono penetrarla. Il livello figurativo riguarda il fatto che una parte o una data interazione tra l’oggetto e altri corpi può essere riconosciuta e nominata all’interno di una data cultura o comunità di pratica. Per esempio il filo che tiene uniti i due pezzi del rivestimento in cuoio è riconosciuto come filo da cuciture; una certa interazione tra la palla e la mazza da baseball è riconosciuta come una battuta o come un “liscio”. L’oggetto in quanto corpo emerge in quanto attualizzazione delle parti che lo compongono come una configurazione plastica, una sagoma, articolabile in una struttura interna e in un involucro – costituendo il corpo effettivo –; questo corpo potrà dar luogo a una figura, riconoscibile e nominabile all’interno di una data cultura o comunità di pratica. Da un punto di vista sintagmatico le relazioni inter-oggettive sono costituite dalla rete di relazioni che si delineano
con altri corpi (umani e non-umani) in presenza; tale rete è quella che consente di portare a compimento il “programma narrativo” dell’oggetto. Da un punto di vista paradigmatico, le relazioni inter-oggettive sono costituite dalle relazioni in assenza con tutti quei corpi che possono sostituire l’oggetto analizzato all’interno della rete sintagmatica che esso delinea (cfr. Latour 1992, trad. it. pp. 113-115). Per esempio, la palla da baseball solitamente entra in relazione sintagmatica con un guantone, una mazza, la mano del lanciatore, ecc., ed è in relazione paradigmatica con una palla da softball. Per rendere conto di un oggetto è necessario descrivere tutti i passaggi tra i vari ambiti di relazioni. Per render conto della sua biografia si devono considerare le relazioni inter-oggettive che si generano in una data singolarizzazione come relazioni inter-oggettuali per la singolarizzazione successiva e, quindi, verificare se la prima singolarizzazione ha generato dei mutamenti sugli altri ambiti di relazioni.
relazioni intra-oggettuali corpo
relazioni intra-oggettuali
relazioni inter-oggettuali
corpo
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relazioni inter-oggettive
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ANALISI DI UN OGGETTO
relazioni inter-oggettive
ANALISI DELLA BIOGRAFIA DI UN OGGETTO
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Alcune biografie di oggetti
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La mostra Storie di cose (Burtscher e Lupo, in questo volume) offre un corpus di biografie di oggetti che permette di mettere alla prova l’adeguatezza del modello presentato. Si tratta inevitabilmente di una messa alla prova preliminare dato che da un lato le biografie sono già scritte, dall’altro, per ragioni di spazio, di opportunità e di pertinenza, tale messa alla prova non può essere troppo approfondita, tecnica o sistematica. Ciò nonostante, ritengo che essa possa avere una sua validità nel momento in cui riesce a rendere conto dell’agency degli oggetti protagonisti delle “storie di cose” e delle loro successive singolarizzazioni, viste come dinamiche di disposizione-dispiegamento tra configurazioni relazionali. Aggiungerei, infine, un’ulteriore condizione per valutare dell’adeguatezza del modello: la possibilità di operare comparazioni tra le diverse vite dei diversi oggetti. I designer coinvolti nella mostra Storie di cose hanno scelto degli oggetti a loro cari, che hanno incrociato e accompagnato momenti delle loro vite. Per questo, la maggior parte delle “storie di cose” sono scritte in prima persona e presentano gli oggetti come portatori di memorie ed evocazioni. Ma in ognuna delle “storie di cose” gli autori-designer non si limitano a riferire ciò che lei o lui vedono o sentono nell’oggetto – le loro semantizzazioni –, ma mettono sempre in luce la rete di eventi che ha permesso a questi oggetti di divenire oggetti cari, ponendo attenzione al contributo dell’oggetto stesso e, dunque, alla sua agency27. È proprio in virtù di tale sensibilità alle proprietà degli oggetti28, nonché della presenza degli oggetti stessi alla mostra, che è possibile ricostruire semioticamente alcune delle biografie presentate a Storie di cose, a partire dalla presa in considerazione della loro agency per come essa si delinea nei racconti stessi – che, se non lo si fosse ancora fatto, consiglio di leggere prima di proseguire questo saggio.
Proprio per la sua forza attiva l’agency del magnete (Bandeira, in questo volume) è quella più evidente. Essa gli permette «di mimetizzarsi e di occultare la propria forma in un continuo processo di trasformazioni» e, così, di entrare in relazione con altri oggetti metallici (relazioni interoggettuali) e con Manuel Bandeira (relazioni inter-oggettive), il designer che ne ha scritto la biografia. Nonostante gli altri oggetti non posseggano tale forza magnetica, ciò non implica che non siano attivi nell’articolare le relazioni di cui partecipano. La resistenza degli oggetti, cioè la capacità di mantenere la propria configurazione plastica e la propria relazione tra struttura interna e involucro e, conseguentemente, la propria articolazione inter-oggettuale, è tematizzata in molte “storie” come caratteristica che rende possibile una certa biografia. È così per il cestino della frutta (Azúa, in questo volume) – «continua a essere perfetto come il primo giorno» –, per la gondola di plastica (Damiani, in questo volume) – «è caduta tante volte ma non si è mai rotta» –, per l’apribottiglie (Electricwig, in questo volume) che, posseduto da «cinque anni», «funziona perfettamente», nonostante un leggero logoramento sui lati, per il casco da ciclista (Frey, in questo volume), per la forchetta (Gur, in questo volume) che non è «cambiata molto negli ultimi sette anni», per la maschera da scherma (Le Moigne, in questo volume) i cui materiali che la compongono «sono abbastanza resistenti», per il cesto finlandese (Manz, in questo volume). Complementarmente può essere la mancanza di resistenza a disporre un certo tipo di vita (e di morte), come accade per la stuoina (Eslava, in questo volume) le cui prime tre lettere del messaggio di benvenuto su di essa inscritto sono «state consumate dall’uso», o come accade al campanello della bicicletta (Marigold, in questo volume) la cui scocca di metallo, ormai arrugginita, cade per terra, perdendosi nell’ultimo tintinnante «rantolo di morte». In altri casi, sono le proprietà plastiche di un oggetto
27 Ciò non toglie che i racconti presentino un vettore di semantizzazione privilegiato che ordina e gerarchizza la rete di eventi e disposizioni. Tale vettore si può istituire proprio in virtù del dispositivo-racconto che richiede l’emersione di un punto di vista – o meglio sarebbe dire di un’“istanza di enunciazione”. Tale punto di vista in alcuni casi si presenta come “io” del racconto e in altri può
essere celato attraverso un effetto di oggettivazione (cfr. Polka, in questo volume; Rovero, in questo volume) o ridistribuito su più istanze (cfr. Willenz, in questo volume). 28 Questa è stata una delle ragioni che hanno portato a scegliere dei designer di prodotto per raccontare queste storie.
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che permettono di delineare una vita o un’altra. Per esempio, sono le qualità cromatiche dell’ombrello giallo (Krier, in questo volume) che, ponendolo in forte contrasto con gli altri oggetti – «così vivace e così fuori posto» –, permettono di notarlo e di usarlo al fine di dare «luminosità» al contesto in cui è posizionato. Per quanto riguarda la bottiglia dello Shampoo Blendax (Kara, in questo volume) sono la sua consistenza – «la morbida bottiglietta» che è «facile da spremere» – e le sue proprietà eidetiche che contemplano «un foro più largo di quello delle pistole ad acqua», a disporla a divenire una potente arma ad acqua, più potente delle usuali pistole, anche se, proprio per la sua configurazione plastica, per la sua sagoma, quando l’acqua contenuta al suo interno è «quasi finita bisognava […] tenerla in strane posizioni e angolature per poter sparare». Altri oggetti possono essere valorizzati in base alla loro capacità di modulare le relazioni interoggettive: un fax (Azzimonti Pigem, in questo volume), permettendo di inviare uno schizzo fatto a mano in modo rapido, può divenire il mediatore di un’amicizia e di una collaborazione professionale, anche nel momento in cui potrebbe essere sostituito da altri oggetti tecnici; similmente, una pentola a pressione (CuldeSac, in questo volume), che se usata in quanto tale permette di accelerare la cottura dei cibi, usata senza coperchio permette lunghe cotture, in sintonia con i ritmi di lavoro dello studio; infine, la maschera da scherma, nascondendo gli occhi di chi la indossa e in questo modo precludendo all’avversario la possibilità di cogliere le espressioni del viso che potrebbero tradire le intenzioni di un attacco, permette di mettere in atto un certo tipo di strategia, che altrimenti non sarebbe possibile (cfr. Magli 2002). L’agency degli oggetti può dipendere anche dalle inscrizioni che li caratterizzano e che, in alcuni casi, costituiscono degli enunciati incastonati – debrayati, in termini semiotici – nell’oggetto stesso: è il caso della
stuoina (Eslava, in questo volume) che dà, per l’appunto, il benvenuto e che, con l’uso, si riduce a dire solo «come» (entra), segnando così una “rottura” della relazione tra il tappeto e Luis Eslava, il suo proprietario. Il timbro datario (Brizio, in questo volume) è usato per inscrivere e fissare un enunciato – la data – su altri oggetti; il timbro può fare questo perché su esso stesso sono sagomati specularmene i numeri che compongono infinite date però, a differenza delle date che esso inscrive, quelle che ha inscritto non sono fisse, ma cambiano di continuo. L’arresto di questo processo di aggiornamento per un evento inaspettato porta non solo il timbro a fissare una data su se stesso, ma a divenire esso stesso simbolo di quella data e di un altro arresto. Come si delinea da queste brevi descrizioni l’agency degli oggetti gioca un ruolo in ogni momento della vita di un oggetto. Solo, dunque, rendendone conto è possibile rendere conto della biografia di un oggetto, delle sue successive singolarizzazioni. Consideriamo la storia delle T-shirt – o, meglio, delle T-shirt-stracci – di Jason Miller (in questo volume), che si presenta come una delle biografie più complete in quanto copre buona parte della vita dell’oggetto e non solo qualche momento29. Dal racconto di Miller si evince che le T-shirt-stracci passano attraverso cinque fasi: commercializzazione/acquisto, inaugurazione, uso iterato che comporta usura, selezione e esclusione dal parco T-shirt, trasformazione in stracci. Nella prima fase – quella della commercializzazione/ acquisto – l’individuo T-shirt-straccio è parte della struttura interna di un corpo più grande: la confezione. La struttura interna di tale corpo comprende tre individui impilati che godono di simili relazioni sintagmatiche – limitate dall’involucro della confezione – e, da un punto di vista paradigmatico, sono sostituibili l’uno con l’altro senza che si generi alcuna variazione – una T-shirt-straccio vale l’altra. Il corpo-confezione dispone la sua apertura (relazioni inter-oggettuali), cioè la
29 Al contempo, però, si tratta di rilevazioni generali che non riguardano la singola T-shirt, ma tutte le T-shirt bianche acquistate da Miller. Si tratta, dunque, di uno degli innumerevoli casi intermedi tra la biografia dell’individuo e la storia di un tipo di oggetto, se si assume come valida la distinzione tra tipo e occorrenza. Se invece non si dà rilevanza a
questa distinzione, si tratta della presa in considerazione solo di alcune relazioni condivise da vari individui. Così come per le case dei Soku dello Zaire citate da Kopytoff (1986), un’effettiva biografia di un oggetto dovrebbe rendere conto di come e quando ciascun singolo individuo passa per le varie fasi della sua vita che condivide con oggetti simili.
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rottura ed eliminazione dell’involucro in modo da estrarne la struttura interna. Ciò permette di desolidarizzare le tre parti, che possono ora assurgere a essere individui, potendo partecipare di relazioni interoggettive differenti, nonostante condividano, come prima, le stesse relazioni inter-oggettuali. La prima singolarizzazione, e il passaggio alla fase successiva, avviene, dunque, come acquisizione di individualità effettiva da parte di ciascuna T-shirt-straccio. La configurazione plastica si caratterizza per una certa uniformità, in particolare cromatica. È sulla base di tale uniformità, e sulla valorizzazione che di essa dà Miller, che queste T-shirt-straccio si differenziano da altre T-shirt-straccio ed è in base a essa che le T-shirtstraccio nuove partecipano di specifiche relazioni interoggettive e non di altre: «le indosso per la prima volta per uscire e non per andare a lavorare». Con l’uso e il fatto che ciò comporta la partecipazione a diverse relazioni inter-oggettive – con “deodorante e schifezze dello studio, a volte anche cibo” e con la lavatrice – le T-shirt-straccio perdono man mano la loro uniformità – “si restringono, si ingrigiscono, si ciancicano” – che riguarda non solo il loro involucro, ma anche la struttura interna – «si sfilacciano». Questa alterazione dell’uniformità dipende dalla specifica consistenza delle T-shirt-straccio che, d’altra parte, le rende anche morbide e avvolgenti – e dunque comode – in opposizione all’etichetta che, se ci fosse, pungerebbe, cioè penetrerebbe il corpo dell’utilizzatore (relazioni interoggettuali). In effetti, per le stesse ragioni per cui sono morbide esse sono anche capaci di trattenere elementi di altri corpi con cui vengono in contatto (relazioni interoggettuali). L’uso, dunque, comporta una serie di singolarizzazioni successive che gradualmente allontanano ciascuna T-shirt-straccio dallo stato di uniformità iniziale, per farle passare alla fase di vita successiva. Quando tale processo di usura raggiunge un certo stadio, questo dispone una selezione con esclusione dal parco delle T-shirt-straccio indossabili. In questa fase 30 La «pila» differisce dalla «catasta» di giornali di Calvino in quanto quest’ultima, con sagoma meno uniforme, non dispone un confronto tra le varie parti. I vari giornali che la compongono risultano indifferenziati: una pagina di giornale vale l’altra, o quasi, visto che, una volta estratta, la sua dimensione può divenire rilevante.
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si riproduce parzialmente la situazione iniziale (relazioni inter-oggettive): le T-shirt-straccio formano una «pila» (configurazione plastica), come nella confezione, anche se in questo caso l’altezza è presumibilmente maggiore – «ne ho sempre almeno una ventina». Diversamente dalle T-shirt-straccio dentro la confezione, in questo caso l’essere parte di un corpo non comporta l’equivalenza tra le varie parti. Al contrario, il far parte di un unico corpo permette di operare meglio un confronto tra le varie T-shirt-straccio e così estrarre ed escludere quelle più usurate – ormai ogni T-shirt-straccio non ne vale un’altra30. Una volta estratte dalla «pila» le T-shirt-straccio «vanno incontro a una nuova vita» per divenire effettivamente stracci usati nello studio di Miller. Esse cambiano dunque completamente le relazioni inter-oggettuali e inter-oggettive che le definiscono, modificando anche il loro programma narrativo: non più involucri per un altro corpo, ma corpi in sé usati per raccogliere e trattenere altri corpi. Se in quanto T-shirt, le T-shirtstraccio erano valorizzate per una loro uniformità, in quanto stracci esse sono ormai valorizzate per non mantenere tale uniformità. La loro vita e le valorizzazioni che ogni fase contempla sono fondamentalmente disposte dalla consistenza delle T-shirt-straccio (configurazione plastica): tale consistenza che le rende morbide ed elastiche e quindi dei buoni involucri di altri corpi (relazioni inter-oggettuali), le rende anche assorbenti, capaci, dunque, di trattenere altri corpi (relazioni inter-oggettive), cosa che comporta la perdita di uniformità, ma anche la possibilità di essere degli stracci (passaggio in cui le relazioni inter-oggettive acquisite divengono relazioni inter-oggettuali). Si può infine notare che le successive singolarizzazioni e i passaggi di fase da esse contemplati modificano le relazioni inter-oggettuali e inter-oggettive di cui le T-shirt-straccio partecipano da un ambito più “pubblico” – sono indossate «per uscire» – a un ambito sempre più “privato” – «le uso nel mio studio».
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Il passaggio tra relazioni inter-oggettive diverse implicanti diverse dimensioni sociali caratterizza anche la vita di altre “storie di cose” - anche se in direzione contraria a quella delle T-shirt-straccio. Le successive singolarizzazioni dei pantaloni della nonna (Song, in questo volume) li portano a partecipare di un ambito privato individuale31, quale può essere il «bagno», quindi di un privato non necessariamente individuale, quale può essere la «casa», a un privato collettivo, quale è la riunione di famiglia. Questo passaggio, che può essere inteso come un’apertura alle relazioni sociali, è disposto dall’agio che i pantaloni conferiscono (relazioni inter-oggettuali, plastiche e corporee) – agio che è a sua volta disposto dalla fattura dei pantaloni stessi di «cotone di ottima qualità» (relazioni intra-oggettuali e configurazione plastica). Si tratta, inizialmente, di un agio individuale, relativo al corpo dell’utilizzatore, alla sua propriocettività e sensomotricità, successivamente, si tratta di un agio che, inserendosi sul precedente, permette di condividere l’agio individuale e di creare una comunità – quella della riunione familiare (relazioni inter-oggettive) – basata (anche) su valori inscritti nei pantaloni della nonna. Simile percorso, da relazioni inter-oggettuali e inter-oggettive che prevedono un ambito privato a uno più pubblico, coinvolge il cestino per la frutta di Martín Azúa (in questo volume): in un primo momento, sottratto alle relazioni inter-oggettive – relative alla raccolta della frutta – a cui solitamente partecipano oggetti simili, viene prima sistemato in cucina, quindi in sala da pranzo, in virtù della «grande raffinatezza» che può emergere a partire dall’«intreccio» e dall’«accuratezza delle rifiniture» che caratterizzano la sua configurazione plastica. Nonostante il cambio di relazioni inter-oggettive, il cestino, proprio grazie alla sua configurazione plastica, articola le stesse relazioni inter-oggettuali: la forma concava che permette di tenere insieme più corpi e, quindi, permette di operare la raccolta della frutta, è attualizzata anche in cucina e in sala da pranzo sem31 Sul ruolo degli oggetti nell’articolare ambiti sociali tra pubblico-privato e individuale-sociale cfr. Deni (2002a). 32 È sulla base di tale configurazione plastica che può emergere una certa esteticità del cesto.
pre per tenere insieme più corpi, che sono sempre dei frutti. La differenza tra la raccolta della frutta nei campi e la sua esposizione in luoghi della casa è che nel primo caso il cestino è usato per trasportare e, dunque, far muovere, nel secondo per trattenere e mostrare. Rispetto a questi diversi programmi narrativi e alle reti che essi dispongono e presuppongono, i manici, nel primo caso, vengono effettivamente valorizzati per la loro “immediatezza e praticità”, mentre nel secondo tale valorizzazione rimane qualcosa di potenziale, che non si riattualizza, se non raramente; ciò che viene valorizzato è il loro ruolo nel creare una configurazione plastica particolare in cui le due parti rettilinee si oppongono nettamente alla circolarità che caratterizza il resto del cestino, opposizione rimarcata anche cromaticamente32 (relazioni intra-oggettuali). La vita di questo cestino è, dunque, ben differente da quella del cesto finlandese (Manz, in questo volume) che, grazie alla sua consistenza (corpo) che gli garantisce una particolare resistenza, ha vissuto «di tutto»: non solo è servito per tenere insieme corpi diversi ma, sfruttando altre proprietà quali la convessità e la sua altezza (configurazione plastica), è stato usato, per esempio, anche come sgabello. Come anticipato, la resistenza di un oggetto, cioè la capacità di mantenere la sua configurazione plastica e la relazione tra struttura interna e involucro e, dunque, di continuare a disporre un certo tipo di relazioni inter-oggettuali, può delineare un tipo di vita o un’altra, come dimostrano il caso del casco da ciclista (Frey, in questo volume) e quello del campanello da bicicletta (Marigold, in questo volume) che, pur vivendo in ambienti simili, hanno storie completamente differenti: prima di giungere alla mostra Storie di cose, il primo era divenuto un “monumento commemorativo”, il secondo un “rifiuto scheletrico” tra altri; reliquia l’uno, relitto l’altro. La vita di entrambi è stata segnata dal tipo di relazioni inter-oggettive di cui hanno partecipato e che si sono manifestate in modo violento: sbat-
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te «contro un palo» e sbatte «sull’asfalto» il primo; «si rovinava […] a contatto con il terreno», viene privato della bussola, che funzionava anche da involucro, lasciando scoperta la sua struttura interna, e, infine, sbatte «contro un muro» il secondo. Ma mentre il primo contemplava tra le sue relazioni inter-oggettuali questi contatti violenti con altri corpi, per il secondo sono solo degli accidenti dovuti prevalentemente alla sua configurazione plastica – «il campanello era a forma di bulbo, sicché quando dovevo capovolgere la bici per ripararla, il bulbo si rovinava a contatto con il terreno» – e alla sua figura – il fatto che la parte che costituiva il bulbo fosse una bussola a bolla, cioè un oggetto con una sua autonomia, che fuoriusciva dalla struttura del campanello, ha probabilmente disposto il suo furto. Il primo, quindi, pur intaccando la sua struttura interna, ha mantenuto l’involucro e la
configurazione plastica inalterata – il casco «sembrava come nuovo» – in modo da poter essere riposto su uno scaffale per divenire un «monumento commemorativo», instaurando così nuove relazioni inter-oggettive, ma mantenendo memoria di quelle precedenti – che dipendono dalle relazioni inter-oggettuali desumibili dalla sua figura; il campanello, invece, privato di una parte dell’involucro, si è pian piano usurato – «il suo interno ormai scoperto si stava rapidamente arrugginendo» – fino a che, in conseguenza di un ultimo contatto violento con un altro corpo, si è disfatto: la struttura cadeva a terra, mentre un’altra parte dell’involucro, che manteneva il campanello attaccato al manubrio della bicicletta, restava lì attaccata, mischiata ad altri relitti che adornavano la bici, come ultima testimonianza dell’oggetto che fu. È in questa veste che è giunto alla mostra Storie di cose. più individua-
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alvise mattozzi
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Biografie di oggetti — Gli autori
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Thierry Bonnot – Etnologo, ricercatore al CNRS, è membro dell’Institut de Recherche Interdisciplinaire sur les Enjeux Sociaux (IRIS) all’Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales di Parigi. Sui temi della biografia degli oggetti ha pubblicato, tra le altre cose, La vie des objets, Éditions de la MSH et Mission du Patrimoine Ethnologique, Paris 2002.
Maurizio Ferraris – Filosofo, insegna Filosofia Teoretica all’Università di Torino; è direttore del LabOnt (Laboratorio di ontologia) del Dipartimento di Filosofia della stessa università; dirige il Centre for Theoretical and Applied Ontology. Tra le pubblicazioni recenti che si occupano di oggetti: Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2005; La Fidanzata Automatica, Bompiani, Milano 2007; Sans Papier, Castelvecchi, Roma 2007; Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008.
Giovanni Gasparini – Sociologo, insegna Sociologia all’Università Cattolica di Milano. La sua ricerca verte sugli “interstizi” sul cui tema ha pubblicato, tra le altre cose, Interstizi e universi paralleli: una lettura insolita della vita quotidiana, Apogeo, Milano 2007 e Interstizi: una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma 2002. Coordina il gruppo “Interstizi e Intersezioni” dell’Università Cattolica di Milano.
Hans Höger – Storico e teorico del design, è professore di Teorie e Linguaggi del Design alla Libera Università di Bolzano. Già direttore del German Design Council,
è consulente per diverse aziende e istituzioni. Tra le sue pubblicazioni recenti: Design Research, Abitare-Segesta, Milano 2008 e Design Education, Abitare-Segesta, Milano 2006.
Harvey Molotch – Sociologo, insegna Sociologia e Cultural Analysis alla New York University. I suoi interessi di ricerca spaziano dallo sviluppo urbano alla sociologia dell’architettura, del design e del consumo. Sugli oggetti e sul design ha pubblicato Where Stuff Comes From: How Toasters, Toilets, Cars, Computers and Many Other Things Come to Be as They Are, Routledge, New York-London 2003 (trad. it. Fenomenologia del tostapane, Cortina, Milano 2005).
Michela Nacci – Storica del pensiero politico, insegna Storia delle Dottrine Politiche all’Univiersità dell’Aquila. I suoi interessi spaziano dalla storia del pensiero politico contemporaneo alle relazioni tra politica, tecnologia e filosofia. Tra le sue pubblicazioni più vicine al tema degli oggetti ricordiamo Oggetti d’uso quotidiano, Marsilio, Venezia 1998, Pensare la tecnica, Laterza, Roma-Bari 2000 e Politiche della tecnica, Name, Genova, 2005.
Francesca Rigotti – Filosofa, insegna alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana. I suoi interessi di ricerca spaziano dal pensiero filosofico-politico alla metaforologia, attraverso la quale ha incontrato il “pensiero delle piccole cose”, su cui ha pubblicato Il pensiero delle cose, Apogeo, Milano 2007, La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara 2004 e Le piccole cose di Natale, Interlinea, Novara 2008.
Biografie di oggetti — I curatori
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Alvise Mattozzi – Semiologo, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale dell’Università Iuav di Venezia, dove insegna Semiotica del Disegno Industriale. Membro del LISaV (Laboratorio Internazionale di Semiotica a Venezia), si interessa di semiotica degli oggetti e del design all’interno di un approccio strettamente legato ai Science and Technology Studies; su questi temi ha curato la raccolta Il senso degli oggetti tecnici, Meltemi, Roma 2006.
Paolo Volonté – Sociologo, già professore di Teoria dei Media e dei Consumi Culturali alla Facoltà di Design e Arti dell’Università di Bolzano, attualmente insegna Sociologia della Comunicazione al Politecnico di Milano. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia dei processi culturali (in particolare la moda e il design) e la filosofia e sociologia della conoscenza (in particolare la fenomenologia e la sociologia della conoscenza scientifica). Tra le sue pubblicazioni recenti Vita da stilista. Il ruolo sociale del fashion designer, Bruno Mondadori, Milano 2008 e La fabbrica dei significati solidi. Indagine sulla cultura della scienza, Franco Angeli, Milano 2003.
a cura di angelika burtscher e daniele lupo
Storie di cose Åbäke Martín Azúa Azzimonti Pigem Manuel Bandeira Fernando Brizio CuldeSac Lorenzo Damiani electricwig Luis Eslava Patrick Frey Alexis Georgacopoulos Tal Gur Ditte Hammerstrøm Meriç Kara Sophie Krier Kyouei Design Nicolas Le Moigne Cecilie Manz Peter Marigold Jason Miller Nòdesign Polka Adrien Rovero Wieki Somers Aamu Song / Company Tesolin e Estadieu Sylvain Willenz
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Angelika burtscher e daniele Lupo
Semiotica del quotidiano
ausgesetzt_spaesato indaga la decontestualizzazione degli oggetti di uso comune nello spazio pubblico, alla ricerca di nuove possibili funzioni e di decodificazioni inattese rispetto all’oggetto inserito in un contesto “improprio”. Per ausgesetzt_spaesato1 Lungomare ha indetto un concorso di idee con l’intento di selezionare cinque interventi da realizzare nello spazio pubblico di Bolzano. Una presa elettrica è stata posizionata in una piazza per “soccorrere” le batterie scariche degli apparecchi elettronici divenuti parte del nostro costume e dei nostri spostamenti; una scala a pioli è stata utilizzata come metro di misura della relazione tra la dimensione urbana e quella privata; una seconda scala a pioli è stata abbandonata in una fossa scavata in un parco, annullando la sua funzione originale; una presa elettrica a cui era stata collegata una cassa sonora è stata installata tra le vetrine dei negozi di alcune strade della città, per richiamare con fischi e ammicamenti i passanti scatenandone delle reazioni emotive di smarrimento e di sorpresa e richiamando la loro attenzione su un oggetto che nella vita quotidiana non rientra nella sfera percettiva attiva di chi lo utilizza; e infi-
ne un bottone è diventato il pretesto di un gioco per ricercare tracce nello spazio pubblico e per definire nuove leggende e favole urbane. Il progetto, oltre che sollecitare riflessioni inerenti al rapporto tra spazio pubblico e spazio privato, ha messo in evidenza una particolare qualità percettiva che si sviluppa rispetto ad alcuni oggetti del quotidiano. Si tratta di una tipologia specifica di oggetti che vengono utilizzati, ma la cui forma, il colore e la materialità prescindono dall’uso. Sono oggetti accomunati dal fatto di rispondere a funzioni “primarie” esterne alla sfera percettiva attiva, oggetti che vengono utilizzati quasi inconsciamente e sono combinati con gesti altrettanto inconsci. Essi compongono un alfabeto oggettuale attraverso il quale è possibile articolare la descrizione del paesaggio materiale che ci circonda e connotare la gamma di comportamenti che definiscono la relazione che lega il mondo delle cose quotidiane alle persone. Dammi una cosa a te cara2 pone invece al centro dell’osservazione gli oggetti in quanto relitti della nostra quotidianità. Si tratta di oggetti che ci circondano, che ci rimandano e che rispecchiano il nostro modo d’essere. Le cose possono rappresentare determinati periodi di vita, il tempo, il senso e la qualità dell’esistenza, possono conservare e condensare i ricordi. Durante l’evento, i visitatori di Lungomare sono stati invitati a “donare” degli effetti personali in cambio di un certificato di consegna dell’oggetto. L’attestato permetteva di portare a casa uno degli oggetti raccolti, a esclusione del proprio. I partecipanti si sono confrontati con l’idea della separazione da un oggetto affettivo e con la mutevole rete di significazioni a cui un oggetto è sottoposto in relazione alle persone che condividono un momento della sua esistenza. Storie di cose3 sviluppa un’indagine sugli oggetti quotidiani interrogandosi sull’esistenza di biografie di oggetti. Il progetto s’inserisce in una ricerca interdisciplinare affrontata a più livelli in collaborazione con
1 ausgesetzt_spaesato, 2007, a cura di Angelika Burtscher, Daniele Lupo, Heimo Prünster e Antonietta Putzu. Giuria del concorso: Fabio Bortolani, Helene Hölzl, Rainer Köberl, Marko Lulic, Peter Zoderer. Vincitori del concorso: Sissa Micheli ed Elise Mougin,
Minove, Martin Siegrist, Studio Verissimo, Gruppe Effektiv. 2 Dammi una cosa a te cara, 2007, di Ruth Geiersberger, con l’intervento di Mario Gretter (teologo) e Klaus Janek (musicista).
Storie di cose si inserisce in un percorso di ricerca che Lungomare – laboratorio sperimentale della cultura del progetto a Bolzano – sta seguendo da alcuni anni sulla quotidianità e sulle possibili relazioni che si possono generare tra questa e la progettazione. In particolare ausgesetzt_spaesato, Dammi una cosa a te cara e Storie di cose sono tre mostre che si sono occupate del tema degli oggetti quotidiani.
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la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano: una riflessione teorica svolta da antropologi, critici e storici del design, filosofi, semiologi, sociologi e storici, presentata nella prima parte di questo volume, e una sua verifica empirica. Il progetto raccoglie alcune esemplificazioni di biografie di oggetti offrendo non solo testimonianze, ma dei contributi alla più ampia riflessione sul tema. Storie di cose non produce uno scenario qualitativo completo rispetto alle possibili biografie degli oggetti, ma piuttosto un’analisi intuitiva che si affianca all’analisi sistemica prodotta dai ricercatori coinvolti, attuando un metodo interdisciplinare per uno specifico campo di ricerca. «Mi accorgo che non sono l’unica vera feticista del Blendax. Era disponibile solo in questa bottiglietta: azzurra, con zigrinature sul collo, ed era rimasta immutata negli anni fino al giorno in cui il mercato cominciò a offrirne altre. […] Questa bottiglietta, di cui un tempo ci eravamo stufati, ora ci fa pensare a come le cose possano un giorno diventare più preziose, quando ci fanno ricordare piccoli, dolci dettagli nascosti negli angoli della memoria, in attesa di essere rievocati non appena si trova una parola chiave. Quando vedo questa bottiglietta adesso, ho di nuovo otto anni e sono a I’zmir, nella vasca da bagno» (Meriç Kara, Blendax Shampoo, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 163). «Le nostre vite sono disseminate di oggetti, ed è tramite molti di questi oggetti, la loro ricorrenza, la loro familiarità, che spesso li fa apparire come scontati, che possiamo circoscrivere una dimensione quotidiana che attraverso essi si dipana. Questi oggetti, che non a caso definiamo “quotidiani”, non solo delimitano e costituiscono una grande parte delle nostre vite, ma, a volte, senza che ce ne accorgiamo, contribuiscono a trasformarle. Al contempo sono questi stessi oggetti a cambiare: si usurano, invecchiano, si
rompono, ma anche si ridislocano e si riarticolano con altri oggetti o attività prima non presenti, a volte cambiando anche radicalmente di funzione. La storia e le trasformazioni di questi oggetti non si limitano soltanto a ciò che gli accade una volta che entrano a far parte delle nostre vite. La biografia di ciascun oggetto inizia ben prima, dal momento in cui esso viene alla luce in una fabbrica, in un’officina, in un laboratorio, ed è segnata dal processo di progettazione che ha preceduto l’effettiva nascita. Essa prosegue poi attraverso i canali di distribuzione per giungere – tramite acquisto, regalo, furto, prestito – a contribuire a costruire e specificare il nostro quotidiano, grazie anche alle esperienze che un tale oggetto ha vissuto. E poi, quasi sempre, gli oggetti escono dal nostro quotidiano, ma questo non vuol dire che muoiano, per lo meno non subito: possono incorrere in un’agonia più o meno lunga che li vede andar verso la dismissione, ma che può anche dar loro una seconda vita – recuperati, riciclati, riutilizzati – fino alla consacrazione in musei o teche domestiche. Della maggior parte degli oggetti quotidiani non consideriamo neanche il fatto che abbiano una propria biografia: restano lì fino al momento della rottura, fin quando non sono troppo usurati o fino a quando non li troviamo vecchi; situazioni a cui quasi sempre segue una non problematica scomparsa, senza rimpianti né nostalgie. Altri oggetti, invece, possono assumere una certa rilevanza nelle nostre vite venendosi a intrecciare alle nostre biografie; allora ci interessiamo maggiormente a loro, stiamo più attenti alle loro trasformazioni, al loro futuro e al loro passato. In questi casi possiamo dire di conoscerne la biografia, anche se quasi mai ci capita di raccontarla, di condividerla con altri»4. Con questa introduzione sulla biografia degli oggetti Lungomare ha invitato ventisette designer a scrivere la loro storia di un oggetto. Storie di cose raccoglie in
3 Storie di cose, 2007, a cura di Angelika Burtscher e Daniele Lupo e con la partecipazione di Åbäke, Martín Azúa, Azzimonti-Pigem, Manuel Bandeira, Fernando Brizio, CuldeSac, Lorenzo Damiani, Electricwig, Luis Eslava, Patrick Frey, Alexis Georgacopoulos, Tal Gur, Ditte Hammerstrøm, Meriç Kara, Sophie Krier,
Kyouei Design, Peter Marigold, Jason Miller, Nicolas Le Moigne, Cecilie Manz, Nòdesign, Polka, Aamu Song/Company, Adrien Rovero, Wieki Somers, Tesolin e Estadieu, Sylvain Willenz. 4 Testo di Angelika Burtscher, Roberto Gigliotti, Daniele Lupo e Alvise Mattozzi
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una mostra e in una pubblicazione storie di oggetti quotidiani raccontate da designer internazionali per indagare la relazione intrinseca che lega le persone al mondo degli oggetti e per tracciare un quadro delle possibili significazioni che questi tendono ad assumere in base alle reti di relazioni di cui partecipano. Ventisette designer di diverse generazioni e provenienti da diverse aree culturali hanno redatto ciascuno la biografia di un oggetto. Le descrizioni ricostruiscono le varie relazioni e i significati attraversati dagli oggetti nel corso della loro esistenza, ne ripercorrono le tracce e i segni prodotti dal tempo, ne rivelano il valore evocativo ed emozionale. Storie di cose visualizza le note biografiche relative ad alcuni oggetti, quali testimoni reali e tangibili degli innumerevoli episodi della loro vita. Il paesaggio di biografie che ne risulta palesa le diverse aree culturali dei designer coinvolti come anche i diversi sguardi generazionali e le diverse sensibilità progettuali che li caratterizzano. La ricerca mette in luce molteplici aspetti della pratica della biografia degli oggetti. In generale dai testi della mostra si può evincere come le biografie siano parziali, circoscritte a un periodo di tempo specifico solitamente legato alla biografia della persona che la scrive e della sua rete di conoscenze. Spesso iniziano a un certo punto, nel mezzo della vita degli oggetti, e terminano quando ancora la loro vita non è finita, quando trasformazioni o nuovi utilizzi o passaggi di proprietà possono ancora determinare nuovi capitoli della loro biografia. Gli oggetti rimangono oggetti, incapaci di ricordare la loro esistenza, di raccontare. Se lo facessero, molto probabilmente ci riferirebbero tutt’altro rispetto alle biografie soggettive e incomplete che a loro assegniamo. Per questo motivo, invece di raccogliere biografie esatte, Storie di cose racconta alcune vicende documentate da chi ha condiviso con gli oggetti mo-
menti di quotidianità e ne ha osservato le mutazioni. Sono racconti di persone che hanno proiettato sulle cose l’immagine di particolari stralci della loro vita, li hanno inclusi nella loro biografia personale, talvolta li hanno scelti a testimoniare la propria esistenza. Esistono diversi tipi di informazioni che la biografia di un oggetto può raccogliere: può classificare l’oggetto rispetto a dati puramente tecnici, quali il tempo (la data di produzione, i diversi passaggi di proprietà) e lo spazio (i luoghi che l’oggetto ha attraversato); può descrivere la complessa rete di relazioni sociali di cui esso si è reso partecipe, eventi personali o legati a comunità più o meno estese; oppure ne può documentare le peculiarità culturali. In questo caso, si è scelto di chiedere a dei designer di scrivere la biografia degli oggetti per la relazione di particolare vicinanza che c’è tra essi e il mondo delle cose. I designer progettano i primi segni degli oggetti, li immaginano in relazione alla funzione, al contesto di utilizzo; ne definiscono il colore, il materiale e le dimensioni. E quando non li progettano, generalmente li guardano con occhio analitico, cercano di individuare i processi produttivi che li generano, i materiali che li compongono, le funzioni per le quali sono stati creati. Osservano il loro valore emozionale, culturale e sociale, i segni del tempo quali giudici insindacabili della qualità del progetto, del loro rapporto con il quotidiano. Allo stesso tempo sono individui sociali che vivono gli oggetti alla stessa stregua del contesto sociale a cui appartengono. È per questo che la mostra raccoglie biografie scritte da designer a proposito di oggetti che essi non hanno né creato né disegnato. Le cose raccolte in Storie di cose sono oggetti qualunque che trovano un significato particolare in rapporto alla loro relazione con il quotidiano e con chi, a modo suo, racconta la loro storia. I designer scelti dimostrano nella propria pratica lavorativa una specifica sensibilità e attenzione per gli oggetti quotidiani. Sono stati
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selezionati per coprire una geografia possibilmente varia e ampia. Gli oggetti raccontano molto della loro provenienza, la geografia è un parametro imprescindibile della biografia delle cose e delle persone, perché colloca le une e le altre in un contesto culturale e sociale specifico, in un’area semantica determinante nella logica del loro racconto. La mostra di Lungomare espone gli oggetti che i designer hanno inviato ponendoli in primo piano, installati o appoggiati su espositori diversi per ogni oggetto, come reperti del quotidiano. Vicino a ogni oggetto viene esposta la sua biografia incorniciata e impaginata graficamente, ognuna con un carattere proprio, ognuna unica come la storia che racconta. Storie di cose non è una mostra di design, ma raccontando le biografie degli oggetti evidenzia le pratiche progettuali dei designer che le hanno scritte. Ogni contributo mette in luce le modalità distinte di osservazione e le qualità della percezione di chi lo ha proposto elencando ordinatamente i passaggi principali della vita dell’oggetto, oppure descrivendo una storia particolare, personale o semplicemente evocativa; a volte, poi, vengono proposte indagini minuziose e divagazioni sulle fasi della produzione dell’oggetto o sulla sua origine. Un oggetto significa in primo luogo la sua funzione di strumento per risolvere problemi quotidiani. Allo stesso tempo è vero che esso rinvia ad altri significati, assume cioè valori simbolici di carattere sociale e culturale, valori che nelle narrazioni biografiche si riscontrano nei racconti delle relazioni che legano reciprocamente cose e persone, come riconosceva Roland Barthes (1966, trad. it. p. 40): «C’è sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto». Queste relazioni potrebbero essere definite sulla base della loro efficacia semiotica, perché la capacità evocativa degli oggetti non si limita a rivelare una memoria distinta dalle attività e dalle esperienze quotidiane, ma al contrario entra in rapporto dialettico con l’ambiente sociale che
contribuisce a plasmare e dal quale al tempo stesso è plasmata. Così, un bicchiere da vino, consacrato a testimone celebrativo di un particolare momento personale, nella quotidianità si riappropria del suo valore funzionale, pur avendo accumulato una capacità narrativa di una biografia inscindibile dal contesto sociale in cui è inserito (Nòdesign, Il bicchiere da vino, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 177). Allo stesso modo, una forchetta attraversa livelli di significazione completamente diversi: da oggetto prettamente funzionale passa ad acquisire un valore commemorativo, poi a essere l’icona di un luogo, e infine a tornare alla sua operatività quotidiana di forchetta tra tante ma con la particolarità di evocare un racconto di cui si è fatta testimone (Tal Gur, Forchetta, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 159). Entrambi gli oggetti, il bicchiere da vino e la forchetta, non modificano le loro caratteristiche materiali e formali. Mutano invece i significati, il contenuto culturale degli oggetti rispetto al contesto sociale di riferimento. Le persone amano circondarsi di oggetti: «Di fronte all’intrinseca ambiguità di tutto il reale, e alla fastidiosa sensazione di trovarsi sempre sull’orlo del disordine esistenziale, gli oggetti operano per conservare significati più o meno stabili, solidi, e accessibili agli altri così come a noi stessi» (Molotch 2003, trad. it. p. 18). Gli oggetti rispecchiano l’identità come le ambizioni, le propensioni e gli interessi di chi li possiede. Sono come vestiti cuciti addosso, raccontano chi li porta, raccontano la relazione che lega le persone alla realtà. Un campanello da bicicletta con una bussola incorporata materializza la difficoltà di orientamento che chi lo ha posseduto incontra nei suoi spostamenti metropolitani in bicicletta, rappresenta un lato del carattere di chi lo usa, prima della sua funzione. In una fase successiva della sua esistenza, il campanello degenera in un residuo materico, la biografia descrive l’azione del tempo sull’oggetto e sul suo rapporto con chi lo utilizza. In particolare si osserva il mutarsi della
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relazione tra l’oggetto e la persona: inizialmente si assiste a un’identificazione con il campanello, una volta smarrita la parte della bussola e con essa l’aspetto puramente comunicativo ed emozionale si stabilisce invece un rapporto disinteressato ed esclusivamente funzionale. Quando viene meno anche la funzione l’oggetto diventa un residuo parassitario, un catalizzatore di una narrazione ancorato alla quotidianità e niente più (Peter Marigold, Residuo di campanello, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 173). Il valore degli oggetti può essere individuato nella capacità di rappresentazione ed espressione materiale della storia, delle tradizioni e delle caratteristiche di una cultura. Ogni epoca e ogni luogo interpreta qualunque significato in modo proprio. Una confezione di shampoo trovata su uno scaffale nel bagno di una casa estiva ed esposto come souvenir descrive, attraverso la sua biografia, la complessa modernizzazione dell’economia turca. Prima unica confezione di shampoo disponibile – una volta esaurito il contenuto veniva trasformata in pistola ad acqua per i giochi dei bambini –, infine rimanenza obsoleta, sostituita con la varietà dei prodotti del libero mercato (Meriç Kara, Blendax Shampoo, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 163). Alcuni oggetti quotidiani descritti in Storie di cose hanno modificato il loro carattere funzionale: nella loro peculiarità durevole e solida trattengono e raccolgono l’esperienza temporanea di un luogo o di un viaggio. Sono entrati a far parte degli elementi che compongono il paesaggio domestico di chi li ha raccolti in veste di souvenir. Alcune biografie raccontano delle tradizioni riferite a un determinato luogo, la maestria di artigiani “in via di estinzione”, o semplicemente usanze familiari.
Alcune raccontano di un rapporto quasi dialettico, di una personificazione dell’oggetto o di particolari rituali quotidiani che non possono prescindere da essi. Altre descrivono le iconografie personali di oggetti quotidiani, le proiezioni e le aspettative a cui possono essere legati, la capacità di evocare delle emozioni, di archiviare la memoria di particolari avvenimenti. Altre ancora concorrono alla descrizione di una geografia del quotidiano, di realtà sociali e politiche. Tutte le biografie raccolte contribuiscono con spunti molto diversi a offrire particolari chiavi di lettura della realtà degli oggetti quotidiani, e in particolare della stesura di una loro biografia. Tra gli oggetti presentati viene descritta la biografia di un magnete al quale sono attaccati oggetti metallici (Manuel Bandeira, Il magnete, biografia scritta per Storie di cose, in questo volume p. 143). È un oggetto senza una reale funzione se non quella di intrattenere le mani durante le comunicazioni telefoniche del designer che lo possiede. Un oggetto “cumulativo”, in perenne trasformazione, che nel corso degli anni si è appropriato di altri oggetti metallici, di altre storie e cose che compongono la sua biografia: una comunicazione che parte dalla concreta oggettualità delle cose per relazionarsi con il mondo. L’immagine di questo polarizzatore di cose tra le mani di una persona che comunica con il mondo racconta perfettamente l’impossibilità di far prescindere la biografia degli oggetti da quella delle persone e viceversa; racconta come un oggetto acquisisca significato soltanto attraverso il racconto di chi lo ha vissuto. In fondo, se aguzziamo lo sguardo, se affiniamo la percezione delle cose quotidiane che ci circondano, ci accorgiamo di come, attraverso la loro storia, si palesi la capacità degli oggetti di narrare se stessi.
Bibliografia Barthes R. (1966), Sémantique de l’objet, in Arte e cultura nella civiltà contemporanea, a c. di P. Nardi, Sansoni, Firenze, poi in L’aventure sémiologique, Seuil, Paris 1985, pp. 249-258; trad. it. Semantica dell’oggetto, in L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1991, pp. 37-48. Molotch H. (2003), Where Stuff Comes From. How Toasters,Toilets, Cars, Computers, and Many Other Things Come to Be as They Are, Routledge, London-New York; trad. it. Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono, Cortina, Milano 2005.
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Åbäke LONDon
La minestra Campbell New York era e continua a essere un luogo eccitante da immaginare e ancor più da visitare, soprattutto vista da questa parte dell’Atlantico. Tornando da lì i nostri amici sostenevano che ci si sentiva come in un film. Poi ci andammo anche noi e al ritorno dicevamo a chiunque non ci fosse ancora stato che era come essere in un film.
Quando stavamo per partire per il nostro primo viaggio, nel 1998, un’amica ci chiese di portarle un souvenir di New York. La sua richiesta era molto precisa e anche se un po’ sconcertati dalla sua scelta tornammo con un World Trade Center in finto bronzo alto 10 centimetri. Qualunque possa essere stato il merito architettonico di Minoru Yamasaki in generale, quella sua opera in particolare non ci impressionò poi tanto, ma ci piacque automaticamente l’idea che il souvenir sia in realtà nella testa dell’osservatore.
Il nostro, invece, non era una versione in miniatura di un edificio. L’oggetto che desideravamo portarci a casa era di dimensioni reali, l’oggetto reale, la cosa vera, o perlomeno era tale ai nostri occhi: un barattolo di minestra di pomodoro concentrato Campbell del peso di 305 grammi. Non era nostra intenzione mangiarla; ci piace troppo la minestra fatta in casa, ma ci sembrava giusto tenercela senza aprirla. Adesso ha già superato da un pezzo la propria data di scadenza, sigillando così il suo destino di oggetto da guardare e a cui pensare, più che da consumare e gettare via. È solo una lattina, che contiene in sé una sorta di voodoo autoinflitto e un pizzico di Andy Warhol. Di sicuro non è un souvenir classico di New York, né un classico gadget warholiano, ma se ci si pensa un po’ è affascinante come un giocattolo di Buzz Lightyear (il personaggio di Toy Story): è un gadget che è al tempo stesso una cosa reale. O quasi. Anche di questi giocattoli dovremmo procurarcene uno.
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Martín AzÚa Barcelona
Un cestino per la frutta Spesso l’aspetto più interessante di un oggetto è il modo in cui lo troviamo.
Comprai questo cestino per la frutta nell’estate del 2002 a Peralada, una piccola città dell’interno della Catalogna. L’artigiana che lo aveva realizzato e lo vendeva aveva circa cinquant’anni. Mi spiegò che per fabbricarlo usava rami di castagno tagliati nelle notti di luna piena, in modo tale che i rami mantenessero la loro elasticità per poter essere intrecciati. Mi immaginavo quella donna nella foresta sotto la luna piena come una strega. Originariamente questo tipo di cesti serviva per raccogliere la frutta dagli alberi, ma il mio lo utilizzo come fruttiera. Per me è un oggetto di grande raffinatezza; mi piace osservarne l’intreccio e ammirarne l’accuratezza delle rifiniture. Trovo molto immediato e pratico il fatto che lo si possa tenere con entrambe le mani. Lo tenevo in cucina, ma adesso l’ho messo sul tavolo da pranzo. Anche se sono passati un po’ di anni, continua a essere perfetto come il primo giorno. È un oggetto umile e magico, ma mi risulterebbe difficile separarmene. Sicché, trattatemelo con cura!
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Azzimonti Pigem Barcelona–Milano
Peter Fax Enrico e Jordi si conoscono in un mese di luglio degli anni Novanta a Milano in Domus Academy, perché entrambi volevano incontrare Hella Jongerius e lavorare con lei e i poliuretani. Intesa, scambi d’opinione e visione della vita che li unisce inconsapevolmente per gli anni a venire, l’uno a Girona in Catalogna, l’altro a Milano in Italia.
Il filo d’unione si rafforza attraverso i primi timidi fax con saluti e brevi accenni a idee progettuali in embrione, per poi consolidarsi e crescere in una fitta ramificazione di fax giornalieri. Fax pieni di concetti, idee, visioni sul futuro e per il futuro venivano inviati e trasportavano le idee via etere a più di cento chilometri di distanza. Era un continuo scambio culturale che accresceva, modellava, tracciava, vestiva, correggeva, ipotizzava progetti di design e contestualmente riempiva scaffali di cartelle e vaschette di lavori in corso o per i mesi a venire. Peter Fax era sempre il primo a ricevere le attenzioni mattutine e l’ultimo a essere messo a riposo dopo la giornata di lavoro. Anni intensi di collaborazione e ora che Internet è entrato prepotentemente nelle vene, sempre meno viene richiesta la sua abilità. Rimane spesso a guardare lo studio da un angolo e non riceve più tutte le attenzioni fisiche di un tempo, quando fagocitava risme di carta settimanali.
Ma all’occorrenza, quando tra Enrico e Jordi nasce l’esigenza di uno scambio più umano, di scambiarsi idee in modo più diretto e meno freddo, quasi come guardandosi negli occhi, si ritorna all’antico uso che è l’unico che restituisce il vigore e la spontaneità del tratto sulla carta.
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Manuel Bandeira Salvador
Il magnete L’oggetto che ho scelto è un pezzo di magnete. Credo si tratti di uno di quei magneti che si trovano nei motori elettrici, e che non so più come né perché sia arrivato in casa mia circa vent’anni fa. Nel corso di questi anni è scomparso almeno cinque volte per poi ricomparire, portando sempre con sé qualche novità. C’è sempre un qualche ricordo che gli rimane attaccato come, ad esempio, la molla arrugginita di una pinza che avevo cercato a lungo e invano. Oppure un oggetto che sospetto sia extraterrestre, in quanto fino a oggi non sono riuscito a capire che cosa diavolo possa essere. È incredibile come un semplice oggetto sia in grado di mimetizzarsi e di occultare la propria forma in un continuo processo di trasformazione, come se fosse provvisto di vita propria. Di solito ci giocherello mentre parlo al telefono o sono immerso nei miei pensieri. Lo uso per ingaggiare una battaglia con una graffetta o attirare puntine da disegno. Ha un effetto terapeutico e a volte accade che, a seconda dell’interlocutore, la telefonata passi in secondo piano, dando la precedenza alla caccia alle altre puntine sulla scrivania o al tentativo di ricoprire la superficie nera del magnete con gli oggetti più disparati.
Il mio magnete è apparentemente un oggetto comune e non si distingue in nulla dagli altri magneti, se non per il fatto che adatta la sua forma a quella degli oggetti, solitamente di ferro, di cui in genere mi servo. Quando intraprenderà il suo viaggio attraverso l’Europa, il mio magnete assumerà irrimediabilmente nuove forme, così come facciamo noi quando ci rechiamo in un luogo che non conosciamo, portando al ritorno nuovi pensieri e nuove idee. Non mi sorprenderò, dunque, se gli mancherà una graffetta (che a dire il vero è un oggetto utilissimo), o se porterà a casa oggetti che non mi appartengono e per di più disposti secondo un ordine nient’affatto razionale, ma corrispondente al suo umore magnetico. È avvincente il divertimento che si prova nel percepire la sua forza di attrazione, una forza che, se non ci fosse la fisica, potrebbe passare per stregoneria. Il semplice gesto di catturare con la calamita un oggetto metallico per poi staccarlo diventa per me un piacere e una droga. Mi ricorda i sogni e le fantasie dell’infanzia, quando immaginavo di essere un eroe provvisto di capacità soprannaturali, come nei fumetti e nei cartoni animati. Sono convinto che, stringendo saldamente una calamita in mano e concentrandomi con tutte le mie forze, sarei in grado di attirare o di spostare gli oggetti con la sola forza del pensiero. Naturalmente ci ho già provato, anche se non ci sono ancora riuscito, forse perché non avevo raggiunto una sufficiente concentrazione o non avevo tenuto gli occhi saldamente chiusi.
Mi piace quel modo caotico con cui il magnete dispone le cose, trasformando gli oggetti in un ornamento e creando delle composizioni sempre diverse, indipendenti da criteri razionali. Mi sento sfidato, mi innervosisco e mi arrabbio, soprattutto se percepisco la bellezza di quel disordine organizzato senza però essere in grado di spiegarla e senza neppure poterne imitare il linguaggio nelle opere che io stesso creo. Forse perché cerco di individuare dei nessi o un metodo, e così facendo rovino sempre il risultato. Ho scelto questo oggetto perché è privo di marchio, è brutto e senza pretese. Non ha colore, è piccolo, ma mi ha regalato e mi regala sempre momenti di riflessione e di felicità.
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Fernando Brizio lisboa
Il datario Nella casa di mia madre c’è un enorme baule di legno. Fu spedito in Portogallo dentro una cassa più grande, anch’essa di legno, insieme con mobili, vestiti, giocattoli e molti altri oggetti, dall’Angola. Vissi in Angola fino ai sei anni, quando fummo costretti a fuggire a causa della guerra civile. Per molti, molti anni, il baule e il suo contenuto rimasero per me un mistero. Mia madre aveva sempre proibito a me e a mia sorella di aprirlo e guardarvi dentro.
Un giorno, in segreto, lo aprii e scoprii che cosa conteneva: l’abito da sposa di mia madre, insieme con strani vestiti, pezzi di stoffa, asciugamani ricamati e alcuni altri oggetti appartenuti a mio padre. Da quel primo giorno, ogni volta che restavo solo in casa, aprivo il baule e ne guardavo a lungo il contenuto, cercando di ricostruire la storia di ciascun oggetto e, insieme, di ciascuna persona che aveva vissuto con e attraverso quegli oggetti. In una di queste visite segrete, trovai un timbro regolabile per stampare la data. Anch’esso apparteneva a mio padre ed era regolato sul 5 ottobre 1974. Da allora non era mai più stato toccato. Si era fermato per sempre, l’ultimo giorno in cui era stato usato. Mio padre morì quel giorno, il giorno del compleanno di mia madre, il 5 ottobre 1974.
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CuldeSac Valencia
Pentola a pressione Nel nostro Spazio Creativo l’esperienza quotidiana di sedersi, pranzare insieme e comunicare liberamente è fondamentale.
Un oggetto che è parte integrante di questa filosofia creativa, è per ironia, una pentola a pressione. La funzione tradizionale di una pentola a pressione è di accelerare il processo di cottura. Tuttavia, nel nostro caso, la pentola a pressione è sinonimo delle lentejas di Juan o del cocido di Pepe, che sono pietanze che si preparano facendole cuocere a lungo a fuoco basso. Questa pentola a pressione ci dà la versatilità di prenderci il tempo necessario per creare un piatto elaborato, ma, all’occorrenza, di essere in grado di chiudere il coperchio e accelerare il processo senza rinunciare a una pietanza squisita.
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Lorenzo Damiani Milano
Gondola bianca Nei giorni immediatamente precedenti il Salone del Mobile del 1998, durante l’allestimento di una mostra collettiva, due strani tipi tamponarono la mia auto parcheggiata davanti a una galleria milanese d’arte e design. Dopo qualche attimo di tensione, mi dissero che anche loro avrebbero dovuto esporre alcuni progetti nella stessa galleria in cui avevo già posizionato alcuni miei oggetti, e così… siamo diventati amici.
Loro sono due architetti veneziani: Gaetano Ceschia e Federico Mentil. Successivamente, ancora oggi spero per scherzo, mi hanno spedito questa gondola che mi ha seguito nei miei vari spostamenti, forse perché mi ricorda quel periodo progettuale “arrembante” fatto di prototipi e mostre che forse, intimamente, un po’ rimpiango. Inizialmente, era un “plasticone” colorato di rosso, nero e oro e si accendevano anche le lucine: l’apoteosi del kitsch. Ma, poco a poco, questo regalo riuscì a suggestionarmi al punto che decisi di iniziare una raccolta di souvenir provenienti dalle varie città d’Italia. Questa gondola è sempre stata nel mio studio, mi ha fatto compagnia guardandomi dalla scrivania o dalla cima della libreria; è caduta tante volte ma non si è mai rotta. Tante volte è andata “in mille pezzi”, ma ha avuto sempre la forza di ricomporsi. Circa due anni fa ho deciso di cambiarle look dandole una bella verniciata di bianco. Mi sono detto: “Il bianco va con tutto!”
Così, adesso, si mimetizza abilmente nel bianco assoluto. E io con lei.
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Electricwig Manchester
L’apribottiglie Comprammo questo apribottiglie nel 2002, in occasione della nostra prima visita alla fiera del mobile di Milano. Lo trovammo in una ferramenta, perché eravamo affascinati da negozi di questo genere più che dalla fiera del design in sé. Amiamo l’idea di negozi specializzati nella vendita di cose particolari: i negozi locali di ferramenta sono un paradiso per gli oggetti di uso quotidiano.
Dopo quella volta decidemmo che saremmo tornati da ogni viaggio con un souvenir funzionale comprato in un negozio tipico della località che visitavamo. Dopo l’acquisto di questo umile oggetto, tornammo dal Giappone con pacchetti di stuzzicadenti, dalla Germania con una spazzola, dalla Francia con un cucchiaio per il miele… e l’elenco potrebbe continuare!
Ogni volta che usiamo questi oggetti nella nostra vita quotidiana ci ricordiamo di quei luoghi. Questo apribottiglie somiglia a quelli che comunemente si comprano nei supermercati, ma le apparenze possono ingannare. Il nostro è veramente ben fatto, con la giusta angolatura nel cavatappi, e funziona perfettamente. Lo abbiamo già da cinque anni e sui lati è un po’ logorato, però ci piace. Ci segue ogni volta che viaggiamo e ce lo siamo portati con noi persino in campeggio. Ci fa ricordare dei progressi nella nostra vita, dei luoghi in cui siamo stati e dei bei momenti passati a bere vino con i nostri amici.
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Luis Eslava Valencia
Stuoina: My fair lady Ero appena tornato da Londra: casa nuova, nuova stuoina davanti alla porta.
Nell’immenso negozio di oggetti da una sterlina gestito da una famiglia cinese, avevo deciso di comprare quel pezzo unico tra milioni di altri uguali. Quella stuoina era stata scelta per essere calpestata da amici ed estranei. E, a parte la mia auto, è l’unica cosa di mia proprietà che vive fuori da casa mia. L’ho battezzata “Welcome III (floor)”. All’inizio era tutto ok. Da parte mia, cercavo di renderle la vita più facile. Cercavo di non camminarci sopra nei giorni piovosi (per rispetto della sua pelle delicata), la mettevo dentro nelle fredde notti d’inverno e rispondevo al suo gentile benvenuto ogni pomeriggio al ritorno dal lavoro. Ma, giorno dopo giorno, la nostra relazione cominciò a deteriorarsi. La mia stuoina è sempre stata piuttosta snob verso le scarpe che vengono a contatto con lei, tanto che infine l’ho trovata capovolta, come se non volesse più augurare il benvenuto.
Odiava le infradito e il loro odore e non poteva soffrire i mocassini (peggio ancora se indossati con i calzini bianchi). La gente la trattava brutalmente, anche più del dovuto. A volte la sorprendevo a guardare la stuoina della porta accanto, un bel modello a scacchi di provenienza Ikea, che non era mai stata trattata rudemente e aveva vita facile, facendo la guardia a un vicino tranquillo e solitario. Credo che provasse invidia anche per il suo amico “Bienvenido”, una stuoina spagnola che vive al secondo piano. La goccia che fece traboccare il vaso fu la notte in cui due amiche vennero a casa mia: quei quattro tacchi alti conficcati senza riguardo nel suo corpo ruppero per sempre la nostra relazione. Con il passar del tempo il caloroso “welcome” dei primi giorni a Valencia si era trasformato in uno striminzito “come”, perché le prime tre lettere erano state consumate dall’uso. Il mio unico gesto di gentilezza nei suoi confronti, adesso, è che quando vado via per un lungo periodo di tempo la appoggio di lato alla parete, per facilitare il lavoro alla persona delle pulizie. Non le dedico più attenzioni. Il più delle volte, quando si va a casa d’altri, si finisce per usare la loro stuoina più della propria.
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Patrick Frey Hannover
Biografia di un casco Quando sei anni fa cominciai a dedicarmi al ciclismo, la sicurezza era un fattore secondario. Più importante mi sembrava saper scegliere adeguatamente i singoli componenti della bici da corsa. Il criterio essenziale al momento dell’acquisto era il minor peso possibile abbinato alla massima resistenza delle parti, poiché ogni singolo grammo durante un percorso in salita avrebbe significato l’impiego di maggior kilowatt di energia. Seguendo la cronaca di gare sportive di ciclismo del 2003 venni a sapere che, in caso di caduta durante una gara, si rischia di subire ferite mortali alla testa. Ciò mi indusse a riflettere con più attenzione riguardo alla sicurezza in relazione all’uso delle bici da corsa. L’acquisto più importante era sicuramente un casco che doveva soddisfare diversi criteri.
Doveva essere leggero, in modo da non accorgersi nemmeno di averlo sulla testa. Doveva essere provvisto di adeguate fessure di aerazione, per permettere il raffreddamento anche in caso di alte temperature. Ulteriori requisiti erano un’altezza ridotta e un agevole sistema di chiusura. Comprare un casco è come comprare un cappello. Deve calzare perfettamente e deve piacere allo stesso tempo. Per me il Bell Ghisallo nella versione Team Rabobank rispondeva pienamente a tutti questi criteri. A partire dall’agosto del 2004 non mancò mai durante le uscite d’allenamento. E ciò si sarebbe rivelata una grande fortuna.
Se oggi mi chiedessi in che modo questo casco ha influenzato la mia vita, dovrei rispondere che senza di esso forse non farei più parte dei vivi. Una volta, nel dicembre del 2004, mi protesse da gravi ferite alla testa quando, cadendo con la bicicletta, andai a sbattere frontalmente contro un palo a 35 km/h. La seconda volta, nel giugno del 2005, mi salvò la vita quando su una strada di campagna un’auto non mi diede la precedenza e mi investì di lato. Volai sulla strada per dieci metri, andando poi a sbattere con la testa sull’asfalto. Ne uscii incolume, a parte qualche abrasione e una commozione cerebrale. La bici era completamente distrutta, il casco invece sembrava come nuovo. Si vedevano solo alcuni graffi. In seguito a questi incidenti non ebbi più alcun motivo per mettere in discussione l’obbligo del casco nelle corse di ciclismo. È necessario sostituire il casco dopo gravi cadute, poiché anche minime crepe nel supporto di polistirolo possono comprometterne la stabilità. Un anno fa l’ho riposto in uno scaffale, perché aveva svolto con onore il suo compito. Lo tengo come fosse un monumento commemorativo, il testimone di una grande fortuna nella sfortuna. Una cosa è certa: non me ne disferò mai.
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Alexis Georgacopoulos Lausanne
Caraffa da vino in alluminio Quando mi trasferii in Svizzera, dodici anni fa, non portai con me nulla oltre ai vestiti. Tutti gli oggetti che avevo posseduto fin da bambino erano rimasti in Grecia nella casa dei miei genitori.
Ogni volta che torno in Grecia mi piace andare in una taverna per una buona cena con la famiglia e gli amici. In questi ristoranti senza pretese e spesso a conduzione familiare, insieme alle pietanze si può ordinare vino della casa. Te lo portano in caraffe d’alluminio di varie dimensioni, a seconda della quantità ordinata: ce ne sono da 125 ml, 250 ml, 500 ml e da un litro. Sono contenitori di produzione locale e ne esistono in svariati colori brillanti anodizzati: rosso, oro, giallo, verde o blu. Cinque anni fa decisi di cercarne una. Andai al mercato centrale di Atene e le trovai in un polveroso magazzino sotterraneo, accatastate tra piatti, coppe, bicchieri e altri articoli per ristoranti. Erano nuove, ma non ce n’era una perfetta o identica all’altra, tutte presentavano graffi o addirittura ammaccature. Mi sorprese molto vedere che nessuno sembrava preoccuparsene. Forse ai proprietari di ristoranti che le comprano non interessano molto. Vogliono semplicemente una caraffa, né più né meno.
Ne comprai due, una rossa e una blu, e me le portai in Svizzera. Da allora le tengo in casa mia: le uso per servire vino, acqua o succo di frutta, e a volte anche come vaso per i fiori! È sempre molto interessante vedere sulla tavola quest’oggetto dall’aspetto piuttosto “industriale” insieme con altri più convenzionali: spicca davvero! Alla gente di solito piace, anche se alcuni pensano che sia stato realizzato con qualche pezzo di macchina! Io, in verità, non posso davvero ricordare come si siano prodotti alcuni dei graffi e delle ammaccature, visto che ci sono sempre stati fin dall’inizio. È un oggetto tradizionale, umile e fatto molto semplicemente, che ha una sua strana attualità e simboleggia i momenti di festa passati in buona compagnia. Per me è un tipo d’oggetto sempre più difficile da trovare: un “souvenir” onesto, funzionale, ma anche intrigante.
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tal gur Kibbutz Gilgal
Forchetta Gli aspetti dell’unicità e della personalizzazione di un oggetto sono molto importanti per la natura del mio lavoro e sono un elemento che io ricerco sempre nel mio design. Dopo aver ricevuto la vostra e-mail, mi sono veramente sforzato di pensare a un qualche oggetto ordinario che io tengo con me, ma, sorprendentemente, sono arrivato alla conclusione che sono affetto da una maniacale “indifferenza” per gli oggetti. Ne ho parlato con la mia compagna di vita, Nirith Nelson e lei mi ha detto che sorprendentemente era arrivata alla mia stessa conclusione su di me. Tuttavia, venerdì scorso ci siamo visti con dei nostri amici e abbiamo chiesto loro se conoscevano altri “indifferenti agli oggetti”. A loro non è venuto in mente nessuno, in particolare tra i designer, che a quanto pare sono appassionati collezionisti di oggetti quotidiani. Quella sera, dopo che per un bel pezzo ci eravamo occupati di questo fenomeno, mi ricordai di un oggetto che era rimasto attaccato a me (più che io a lui).
Nel 2000 avevo ricevuto una lettera un po’ strana che mi annunciava che ero stato scelto, con altri, per ricevere un importante premio per l’impegno ecologico dimostrato, dal momento che molti miei progetti vengono realizzati in plastica riciclata. Il premio sarebbe stato consegnato solo alle persone che avrebbero presenziato alla cerimonia, che si sarebbe tenuta a Pantelleria, l’isola più meridionale d’Italia. Pantelleria ci piacque enormemente (e non certo per le cerimonie ufficiali). Ogni pomeriggio alle 17 ordinavo un Martini nel bar di fianco all’hotel in cui soggiornavamo. Un giorno decidemmo di fare un picnic e dopo aver comprato un po’ di squisitezze locali ci accorgemmo che non avevamo una forchetta per mangiarle. Pertanto, pregammo il vecchio signore che tutti i pomeriggi ci serviva il Martini di prestarcene una. Fu gentilissimo e ci prestò una grossa forchetta argentata. Fummo felicissimi della sua cortesia che aggiunse un po’ di spirito positivo al nostro intimo picnic.
Tuttavia, quando Nirith tornò in Israele, trovò la forchetta nella nostra valigia. All’inizio ci sentimmo un po’ in colpa perché avevamo dimenticato di restituirla al vecchio gentile di Pantelleria, ma dopo qualche tempo ne fummo felici perché quella forchetta è per noi un oggetto speciale carico di nostalgia. Pertanto, durante i sette anni trascorsi lontano dalla sua isola, quella forchetta è rimasta con noi. Diventò uno dei nostri utensili preferiti quando ci stabilimmo nella periferia di Gerusalemme, e dopo tre anni si trasferì con noi a Givataim, da dove può di nuovo vedere il mare. In genere, non la costringevamo a lavorare troppo, e di sicuro non tutti i giorni, ma ogni volta che la tiravamo fuori dal cassetto doveva sempre stare ad ascoltare la storia di Pantelleria. Non penso sia cambiata molto negli ultimi sette anni; secondo me, siamo cambiati molto di più noi. Probabilmente un tempo lavorava molto più duramente, a giudicare dal marchio stampato sul suo retro, le lettere SAF con lo stemma di una nave. Una forchetta coriacea (la sua forma racchiude qualcosa dei suoi doveri di un tempo, visto che è più lunga e più larga di quelle comuni). Ma lei non racconta nulla dei quei misteriosi giorni pericolosi in acque agitate. Visto che, come ho già detto, sono un “indifferente agli oggetti”, sono veramente contento della vostra richiesta perché mi ha dato l’opportunità di restituire quella forchetta al suo vero Paese (almeno questo, anche se non al suo proprietario).
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Ditte Hammerstrøm København
Teiera Tè, io bevo sempre tè. Qualunque cosa io stia facendo, c’è sempre una tazza di tè a portata di mano. Bevo ogni tipo di tè: nero, verde o bianco, ma sempre tè. Al lavoro mi preparo il tè direttamente in una tazza, ma a casa uso la mia teiera. La porto in giro con me di stanza in stanza. Mi segue ovunque nelle mie faccende quotidiane. Me l’hanno regalata cinque o sei anni fa, forse a Natale o per il mio compleanno, non ricordo più, ma da allora l’ho usata ogni giorno. So che era stata comprata in un negozio di usato a Copenaghen. Secondo alcuni questo tipo di teiera era in uso sui traghetti che facevano la spola tra le isole di Sjaelland e di Fyn prima che fosse costruito il ponte. Ma non ne sono sicura. Il coperchio è un po’ scentrato e a volte s’incastra; è sempre stato così. Amo usare questa teiera. Penso che abbia una bella forma, contiene proprio la giusta quantità di tè e per qualche strana ragione lo mantiene caldo a lungo.
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Meriç Kara ISTANBUL
Shampoo Blendax Questa bottiglietta azzurra ormai non esiste più. Negli anni Ottanta in Turchia era l’unico shampoo presente in ogni casa, l’unica marca che si poteva trovare sul mercato. È una cosa che la mia generazione conosce perfettamente, il suo profumo e il suo colore sono scolpiti nella memoria. In verità faceva bruciare gli occhi. Penso che è forse per questo che ne ricordiamo così intensamente il profumo. Dimenticata su uno scaffale della mia casa estiva dove non ero più andata da alcuni anni, era nascosta là in un angolo. Fui così felice di rivederla, anche se ero stata tra quelli che l’avevano tradita e ne avevano preferito altre più sofisticate. La presi e la portai a casa mia a Istanbul e la misi nel mio bagno, non nella doccia, ma su uno scaffale come decorazione. Gli amici, quando vengono a trovarmi e la vedono, escono dal bagno con un sorriso, chiedendomi dove e come l’ho trovata e mi raccontano piccole storie legate a questo shampoo.
Quando finiva, noi ragazzi riempivamo d’acqua la bottiglietta e la usavamo come una pistola ad acqua. Chiunque poteva facilmente procurarsi un’arma del genere. La morbida bottiglietta era piuttosto facile da spremere e ciò rendeva più semplice colpire il bersaglio. Non essendo però stata disegnata a questo scopo, quando l’acqua dentro era quasi finita bisognava tenerla in strane posizioni e angolature per poter sparare. Comunque, non era una cattiva pistola, aveva un foro più largo di quello delle pistole ad acqua e ciò rendeva molto più facile e veloce bagnare il bersaglio. Adesso so che una mia amica, quando va a casa di una coppia anziana, si infila furtivamente nel loro bagno sperando di trovarvi questa bottiglietta lasciata in un angolo. Mi accorgo che non sono l’unica vecchia feticista del Blendax. Era disponibile solo in questa bottiglietta: azzurra, con zigrinature sul collo, ed era rimasta immutata negli anni fino al giorno in cui il mercato cominciò a offrirne altre. La gente era felice di avere più scelta e di poterla abbandonare. Fu scaricata. Per reggere la concorrenza, il Blendax cambiò gli ingredienti rendendo lo shampoo più sofisticato, il profumo cambiò, il colore da miele che era si trasformò in un giallo crema bianchiccio. Quando il minimalismo nelle forme diventò di moda, anche se quelle zigrinature la rendevano maneggevole nella doccia, impedendo che scivolasse di mano, trasformarono la bottiglietta in un morbido prisma ellittico, dandole un look scintillante. Prima, la sua silhouette femminile era facilmente riconoscibile, ma nella nuova versione era diventata una delle tante.
Questa bottiglietta, di cui un tempo ci eravamo stufati, ora ci fa pensare a come le cose possano un giorno diventare più preziose, quando ci fanno ricordare piccoli, dolci dettagli nascosti negli angoli della memoria, in attesa di essere rievocati non appena si trova una parola chiave. Quando vedo questa bottiglietta adesso, ho di nuovo otto anni e sono a I’zmir, nella vasca da bagno… Che strano che una scena possa rievocare un profumo, che strano che un profumo possa rievocare una scena. Ma la cosa più strana? Dover indicare un valore quando arriva il corriere a prenderla per portarla a una mostra.
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Sophie Krier ROTTERDAM
Le parasol jaune de bonpapa et marraine Le parasol jaune de bonpapa et marraine (il parasole giallo del nonno e della nonna) arrivò in modo triste nella mia vita. La casa dei miei nonni doveva essere svuotata – bonpapa e marraine non potevano più vivere da soli e dovevano trasferirsi in una casa per anziani. Era l’anno 2000. Ricordo la tensione e la vergogna nell’esporre alla luce del giorno, nel grazioso giardinetto davanti alla casa in mattoni di Chaussée de Bruxelles a Enghien, in Belgio, alcuni dei loro oggetti quotidiani.
Per esempio, un tappeto persiano che fino a quel giorno era stato una parte invisibile dello “studio” – una stanza sempre in penombra, con una pesante scrivania coperta da pile di carte che occupavano gran parte della sua superficie, un grande televisore, tenuto sempre a volume basso quando era acceso, e, nell’angolo, una stufa a carbone che non si usava più da un pezzo. Adesso il tappeto persiano aspettava che io lo caricassi per portarlo a casa mia a Rotterdam. E così avvenne per molti altri oggetti: la lampada a stelo verde, la bambola con la sua carrozzina; un ombrello antico di pizzo nero; un delizioso servizio di tazzine, teiere e piatti; una sedia da cucina di formica; e il parasole giallo. Ricordo che lo avevo scoperto nella cantina-garage. Così vivace e così fuori posto. Lo ricordo anche in alcune foto di bonpapa e marraine nel loro giardino, negli anni Settanta. L’ombrello giallo si è trasferito con me, dal loft di Fodor (un ex laboratorio fotografico di mille metri quadrati) alla mia casa attuale, al terzo piano di Bergweg, a Rotterdam.
In qualche modo, è uno degli oggetti che spacchetto per primo, perché ovunque io lo appenda dà sempre immediatamente un po’ di luminosità. Attira il mio sguardo ogni mattina. D’estate lo appendo alla ringhiera del mio balcone e bevo acqua e limone sotto la sua minuscola ombra. Quando fuori piove lo appendo al tavolo di legno da picnic, a uno sgabello a gradini o al vetro della finestra. Di solito vi metto vicino dei libri, sicché diventa il mio angolo di lettura preferito. A volte mi piace chiuso, a volte aperto. La gente spesso ride quando lo vede per la prima volta, aperto, dentro una casa. Per me è una maniera di dare un po’ di vivacità alle cose. Tra l’altro, una volta mi è anche servito da albero di Natale alternativo, decorato con rami disposti attorno in vasi. Questo ombrello è per me sinonimo di ottimismo. Non sembra invecchiare o perdere colore con gli anni. Non ha macchie né graffi. Potrebbe esser stato disegnato ieri. Resta così vivace e fuori posto come quel giorno in cui lo scoprii nel garage di Enghien. È un oggetto che non avrei associato automaticamente a bonpapa e marraine. Mi fa ricordare quanto poco sapessi di loro e quanto cari mi siano entrambi anche se adesso non sono più vivi. Penso che sarebbero felici di sapere che il loro ombrello sta per andare in viaggio. Loro giravano per l’Europa con un caravan (a bonpapa piaceva considerarsi un uomo moderno, e in un certo senso lo era). Forse questo ombrello è già passato da Bolzano qualche altra volta.
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Kyouei Design SHIZUOKA
Questo è un corallo Che cos’è questa cosa dalla forma strana? Una roccia? Un fossile? È un corallo.
Quindici anni fa andai in autostop fino all’isola più meridionale del Giappone. Dopo la laurea desideravo viaggiare. Nessun giapponese può prendersi vacanze per un lungo periodo. Anche le vacanze estive durano solo da tre giorni a una settimana! Sicché pensai che dovevo approfittare di questa opportunità e partire. Decisi la destinazione: l’isola di Yoron, vicinissima a Okinawa. C’è una città molto piccola, con una popolazione di 6000 abitanti. Partii da Shizuoka (nel centro del Giappone): 2000 chilometri solo l’andata. Molta gente mi aiutò, mi diede da mangiare, un posto dove dormire, mi offrì ospitalità. Così potei arrivare all’ultimo porto per andare all’isola di Yoron. Ormai non avevo molto denaro, e dovetti prendere la nave più economica. Un’imbarcazione molto angusta. Non riuscivo a dormire e salii in coperta. C’era già un uomo. Sembrava che stesse meditando, sotto il cielo che brillava di stelle, era uno spettacolo fantastico, ma non riuscii a parlare con lui. Al mattino presto ero nel porto dell’isola di Yoron, tutti erano andati via in fretta, mentre io non avevo idea di dove avrei potuto alloggiare. In quel momento, un uomo mi rivolse la parola, ero molto sorpreso, perché era la persona che stava meditando in coperta! Era un oceanografo e mi invitò a casa sua. Nel tempo in cui restai da lui, sentii parlare del mare, delle creature marine…
Ero rimasto particolarmente affascinato dal corallo, è un insieme di organismi viventi molto delicati e ha uno stretto legame con la terra. Quella storia è rimasta profondamente impressa nella mia memoria. Il corallo è semplice e bello, gli elementi organici sono contenuti all’interno di una forma dalle connessioni ben precise. Se ci penso, è probabilmente questa la base del mio design. Il corallo è composto da un materiale e da una forma che non possono essere riprodotti manualmente. Inoltre, quella forma ha ragioni ben precise. La sua esistenza è importante per mantenere l’equilibrio dell’ambiente globale. In questi giorni e in quest’epoca “ecologia” e di “ambiente globale” sono parole familiari. Che dire di ciò che produciamo? Vedere questo corallo mi fa pensare al ruolo del designer e alle sue responsabilità nei confronti dell’ambiente.
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Nicolas Le Moigne LAUSANNE
La mia maschera da scherma Pratico la scherma da ormai più di vent’anni. Per molte ragioni, questo sport, il cui obiettivo è di “toccare senza essere toccati”, mi ha sempre affascinato. Mio padre era l’allenatore della squadra nazionale ai giochi olimpici di Seul e di Barcellona, e ovviamente avrebbe voluto fare di me un campione. Questa maschera me la regalò lui dieci anni fa. Da allora mi ha sempre accompagnato nei viaggi che facevo in giro per l’Europa per partecipare alle gare internazionali. Devo dire che mi piace indossarla perché ho sempre l’impressione di trasformarmi in una persona differente. Impedendo all’avversario di guardarti negli occhi e di prevedere le tue mosse, questa maschera ti fa sentire avvolto da un’aura di mistero! La Federazione Internazionale della Scherma ha cercato di ridisegnarla, aggiungendo una parte in plexiglas all’altezza degli occhi. Di quelle di nuovo tipo non ne ho mai indossata una e non mi piacerebbe. Penso sia meglio mantenere questo elemento di mistero.
I pochi segni sulla mia maschera derivano dalle stoccate ricevute dai miei avversari. Con la spada si guadagna un punto ogni volta che si tocca una qualche parte del corpo, e la testa è probabilmente la parte in cui si vorrebbe meno essere toccati! Ma per fortuna i materiali usati sono abbastanza resistenti. Gli incidenti sono rari! Sette anni fa, decisi di smettere con le gare internazionali e iniziai una nuova carriera: design di prodotto. A volte mi manca la pratica regolare di questo sport, ma quando ho ancora tempo vado al club, indosso la mia maschera e comincio a tirare di scherma!
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Cecilie Manz København
Un cesto finlandese Questo cesto è stato con me per una parte della mia vita, durante gli ultimi dodici anni da quella frizzante mattina di settembre in cui lo comprai in un mercato contadino a Helsinki, in Finlandia. Da quando ha iniziato la sua vita come “mio cesto” è sempre stato in costante uso – aveva appena due minuti e io già lo avevo riempito di funghi, pesci e calze di lana comprati nelle bancarelle vicine – fino al giorno in cui, la scorsa settimana, l’ho svuotato di vecchi giornali, l’ho avvolto con cura nella plastica a bolle e l’ho messo in una scatola di cartone, pronto per la sua destinazione in Italia. In realtà, suscitava una tenerezza in un certo senso insolita e strana – visto che è stato chiaramente ideato per essere in grado di badare a se stesso e al proprio contenuto e ha resistito a ogni genere di trattamenti rudi. L’uomo che mi vendette il cesto lo aveva fatto personalmente, come mi spiegò, in parte a gesti. Era fondamentale per lui far capire la maestria di questa antica arte.
Gli ci vollero venti minuti per vendere un cesto, ma il suo orgoglio di artigiano era più forte del tempo, della lingua, del freddo. È un tipico cesto finlandese, intrecciato con stecche ricavate da rami di pini che crescono lentamente. Le stecche hanno uno spessore di un millimetro circa, e quando vengono tagliate, a mano, con un coltello, il taglio segue le venature del legno, e questo rende le stecche resistentissime. Le fibre non sono spezzate come nelle più economiche stecche tagliate nelle segherie, che non sono neppure lontanamente così robuste. Il manico è fatto con tre sottili rami di betulla, intrecciati in modo da mantenere la loro forma. Di tanto in tanto lo “annaffio”, e allora il manico si tende, il corpo ridiventa flessibile, e il cesto torna come nuovo. I suoi particolari dettagli tecnici contribuiscono a renderlo così straordinariamente bello e perfetto in tutta la sua semplicità. Tutto si combina nel modo più naturale, oggi come cento anni fa. Un cesto appartiene a una famiglia di oggetti molto speciale: gli oggetti universali. Utensili basilari, come cucchiai, scale, vasi, sgabelli ecc. sono cose esistite da sempre, in milioni di differenti versioni in tutte le culture, in tutti i tempi, modellati e adattati a bisogni, tradizioni e materiali specifici, in un processo gigantesco che si evolve lentamente. Anonimo nel suo design originario, continua a essere uguale a se stesso, anche se costantemente modificato nei dettagli. Il mio cesto era il più giovane discendente della sua stirpe, e da allora non sono più riuscita a tornare dalla Finlandia senza portare con me sull’aeroplano almeno un cesto nuovo di zecca.
L’ultima volta è capitata in agosto, il fabbricante di cesti era più giovane e mi disse che ormai erano rimasti solo due uomini a conoscere l’arte di tagliare e intrecciare questi cesti in modo perfetto. Mi chiedo se uno dei due non possa essere il padre del mio cesto. Ma che cos’è che ha vissuto il mio primo cesto finlandese? Di tutto. È stato letteralmente trascinato in tutta la mia vita, in giorni di lavoro e in momenti di festa, riempito praticamente di tutto ciò che si può immaginare. Ci si è saliti su in piedi, ci si è seduti sopra, ci si è seduti dentro, lo si è fatto pendere da corde, è andato in bicicletta, in barca a vela, in macchina. È stato d’aiuto in innumerevoli picnic ai giardini reali di Copenaghen, ha trasportato mele avvizzite, bacche, pane delizioso, modellini di cartone in scala 1:5, giornali, bottiglie vuote, bottiglie piene, mattoncini Lego, vestiti. È stato lasciato fuori sotto la pioggia, è caduto dalla mia bicicletta un’infinità di volte, ha fatto un buco nei miei pantaloni preferiti, ha smagliato un’infinità di calze di nylon appena arrivati a una festa, è stato fissato da gente che pensava che fosse una cosa strana, è stato accarezzato per strada da vecchie signore, nostalgiche ma compiaciute, è stato anche usato come fermaporta, qualcuno una volta lo ha usato come cappello, altri si sono addormentati tenendolo in grembo. Senza dimenticare il bucato. E non mi meraviglierei se tutto questo e ancor di più dovesse avvenire nei prossimi quarant’anni. Dopo tutto, è stato fatto per essere usato. Non è certo una cosetta da finto romanticismo bucolico.
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Peter Marigold LONDon
Residuo di campanello Questo accessorio sulla mia bici è uno dei pezzi di spazzatura con cui mi è capitato di vivere nel tempo. Rappresenta piuttosto bene il modo in cui funziona la mia testa. La mia bici, somigliando molto a un paguro bernardo che vive nel mare accumulando pietruzze, sabbia e altre creature semiparassitarie, è ricoperta di pezzi di plastica rotta, resti di oggetti fisici un tempo utili, ma ora ridotti a rifiuti scheletrici. La loro presenza minimale li porta a svanire dalla mia sfera percettiva, finché non riappaiono di colpo: in questo caso, solo quando vado in bicicletta – ma ciò significa in genere che sto andando da qualche parte, e solitamente di fretta. Pertanto, non appena smonto dalla bici me ne dimentico di nuovo. Ero molto entusiasta quando trovai questo campanello in un negozio. Se non ricordo male, avevo sentito dire che stavano per rendere obbligatori i campanelli per le biciclette. Era un campanello nero relativamente semplice – soltanto un martelletto con un levetta da azionare con il pollice – ma sopra era stata inserita una bussola a bolla sferica, per me fantastica, visto che ho un pessimo senso dell’orientamento.
L’intero apparecchio sembrava però piuttosto vecchiotto: stava su un ripiano polveroso accanto ad analoghi modelli per bambini con sorridenti faccine gialle fluttuanti. Perciò non mi meravigliai troppo quando il commesso mi informò che tutto lo scaffale era a metà prezzo. Non era certo il tipo di roba che si vede sulle riviste patinate di biciclette (a proposito, ci sono campanelli su quel tipo di bici?). Montai il campanello e girai con la bici per un bel po’. In questo periodo capii quanto fosse terra-terra la mia attività di ciclista. Di fatto, molto raramente andavo in bicicletta in una zona che non mi fosse familiare. Se sbagliavo a svoltare non era poi un dramma – e cominciai a capire che la bussola era più che altro una trovata. Per di più, il campanello era a forma di bulbo, sicché quando dovevo capovolgere la bici per ripararla, il bulbo si rovinava a contatto con il terreno, e la plastica si ricoprì rapidamente di graffi permanenti. Nonostante tutto, ero molto legato al mio campanello – diceva qualcosa di me e dei miei gusti – e così mi sentii davvero sconvolto quando uno studente del Royal College of Art rubò la bolla. Fu l’inizio della morte di questo oggetto. Non essendo più un campanello con bussola, adesso era semplicemente un campanello – e per di più il suo interno ormai scoperto si stava rapidamente arrugginendo.
Dopo averlo usato per un altro anno semplicemente come un campanello, probabilmente lo feci sbattere contro un muro. Non saprei ricostruire la dinamica esatta dell’accaduto, ma ero nel complesso dove ha sede il mio studio e udii un “ding” finale quando la parte di metallo cadde al suolo. Sembrava il rantolo di morte del campanello. Come ho già detto, me ne ero disamorato dopo che la bussola era sparita. A essere sincero, avrei potuto cercare per terra i pezzi appena caduti, ma non lo feci. Il campanello era ormai ridotto a un semplice supporto di plastica fissato alla bici. È entrato a far parte di una famiglia di simili inutili sostegni di plastica che servivano a sorreggere vari tipi di lampade e di impianti e di cui non mi sono più curato una volta che hanno smesso di funzionare. La mia bici è diventata una sorta di cimitero mobile. Anche se vado in bici piuttosto lentamente e sono in grado di gridare o persino di parlare con la gente che sto superando, il campanello era diventato la mia voce. Adesso, ogni volta che una folla con istinti suicidi mi si lancia contro (perché? che cos’è questa fretta?), il mio pollice istintivamente sfiora l’aria nel punto in cui c’era la levetta, finché la mia coscienza capisce che devo davvero interagire con questi altri umani. Il gridolino – una sorta di “ohi” – sembra stranamente primitivo quando esce dalla mia gola, ed è sicuramente ben lontano dal “ding” che fa parte della memoria di questo campanello.
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Jason Miller new york
T-shirt Hanes a girocollo senza etichetta Le compro da Target in confezioni di tre per circa dieci dollari. Compro solo le Hanes. Solo a girocollo. E solo bianche.
Stampare la marca sulla maglietta invece che cucire l’etichetta al collo è stata una grande innovazione. Le etichette pungono. Di magliette ne ho sempre almeno una ventina. Più sono nuove e più sembrano belle. Pertanto le indosso sempre direttamente dopo averle tirate fuori dal sacchetto, senza lavarle prima. Dopo non saranno mai più così bianche. In genere le indosso per la prima volta per uscire e non per andare a lavorare. Dopo averle usate, le t-shirt non ricevono alcun trattamento speciale. Le indosso, si sporcano un po’, vengono lavate. Il lavaggio non le pulisce mai completamente. La mia ragazza era capace di lavarle meglio, ma visto che non faccio da me il bucato, invecchiano più rapidamente. Quando le indosso, si sporcano e si macchiano: macchie di deodorante o dello sporco nello studio, a volte anche cibo, o qualsiasi altra cosa, perché le porto sempre. Anche il lavaggio lascia il suo segno. Si restringono, si ingrigiscono, si sformano e si sfilacciano. Alla fine diventano troppo sbrindellate e sporche per poter essere indossate. E così, di tanto in tanto, passo in rassegna la pila e ne tiro fuori le più logore.
A partire da questo momento vanno incontro a una nuova vita. Come stracci sono eccezionali. E così le uso nel mio studio. Dato che sono di cotone e sono state indossate e lavate così spesso, sono morbide e non lasciano pelucchi. Alcune le ho usate per anni come stracci. Ovviamente, ogni volta che decido che alcune delle mie t-shirt sono diventate stracci, è tempo di comprarne altre. Allora è il momento di andare da Target.
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NÒdesign São Paulo
Il bicchiere da vino È stato un regalo di quella che allora era la mia ragazza, e che adesso è mia moglie: una sorpresa per il nostro primo anniversario, nell’ottobre del 2002. Mia moglie fa la trovarobe per la pubblicità e per il cinema. Il suo lavoro consiste nel cercare, individuare e ottenere gli oggetti che faranno parte di una scenografia. A causa di questa sua professione possiede un immenso repertorio di oggetti di ogni genere, epoca e area geografica. È così che ci siamo conosciuti, perché prendeva in affitto da Nòdesign oggetti per le sue produzioni. Utilizzando la sua competenza nel creare scenografie e di montarle velocemente, per il nostro primo anniversario creò e realizzò una scenografia esclusiva nel nostro soggiorno.
Affittò diversi mobili e oggetti per creare un’atmosfera intima per la nostra festa. Nella stanza c’era un tatami, una vasca da bagno antica piena d’acqua, un paravento pieghevole davanti alla finestra, un tavolino da caffè, petali di rosa, una lampada con la luce smorzata ecc. C’erano anche i bicchieri da vino. Erano stati scelti con cura da mia moglie per brindare alla nostra relazione. Erano di un elegante e raffinato cristallo verdognolo, in tinta con gli altri accessori di quella serata. Di tutti gli oggetti, i bicchieri erano i soli che erano stati comprati per restare con noi dopo la festa. Visto che rappresentavano il nostro legame, non aveva senso brindare a quel momento e restituirli insieme con gli altri oggetti. Da quel giorno, quei due bicchieri da vino sono stati parte dei nostri momenti speciali. Non solo di quelli di coppia, ma anche di altri momenti da celebrare, come per esempio i successi professionali. Mi ricordo che una volta in cui concludemmo un accordo importante nel nostro studio io presi quei due bicchieri per brindare con i miei soci. Divennero una sorta di suggello per le occasioni speciali. Durante una festa a casa nostra un amico ruppe uno dei due bicchieri. Non avevamo bicchieri a sufficienza per tutti gli ospiti sicché avevamo dovuto usare anche i nostri bicchieri da vino. Sfortunatamente uno dei due non ha resistito, e fino a oggi non è stato sostituito. Quello sopravvissuto, visto che non lo usavamo quotidianamente, lo tenevamo nella credenza, in genere sugli scaffali più alti.
Recentemente la sua storia ha iniziato a cambiare. Io ho cominciato ad apprezzare il vino più intensamente dopo il nostro viaggio di nozze a Mendoza, in Argentina, una magnifica città ai piedi delle Ande, in una delle principali regioni vinicole dell’America Latina. Visitammo molte aziende vinicole e vedemmo il processo di produzione dei vini, degustandone parecchi e imparando qualcosa delle loro infinite combinazioni. Queste conoscenze suscitarono in me un maggiore interesse in materia e quando sono tornato a San Paolo ho cominciato a bere vino più frequentemente. Il bicchiere, prima tenuto in alto nella credenza, adesso sta nel ripiano più basso e più vicino ai bicchieri di uso quotidiano. È diventato il mio compagno, un importante oggetto rituale con cui apprezzare questa bevanda, un oggetto ormai così fondamentale che, senza, anche il vino ha un sapore differente. Almeno, questo è ciò che io provo. La sua ampiezza, la sua leggerezza, il suo spessore, la sua altezza sono tutti elementi che ne fanno un pezzo unico, difficile da sostituire. Questo bicchiere è stato presente in una parte della mia vita e ha scritto la sua storia durante questo tempo. Avendolo ricevuto per il primo anniversario di fidanzamento, dopo le nozze ha acquistato una nuova importanza: testimone dell’inizio della mia relazione e dell’inizio del mio matrimonio, come pure di tutti i momenti importanti festeggiati tenendolo nelle mie mani. È un oggetto veramente prezioso.
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Polka Wien
Un metro avvolgibile
2005 Produzione di un metro avvolgibile. 3 ottobre 2006 Acquisto da parte di Marie Rahm di un piccolo metro avvolgibile, maneggevole e di forma piacevole nel negozio Technik Modern, nella Mariahilferstrasse a Vienna. 6 ottobre 2006 Consegnato come regalo di compleanno a Monica Singer. Accettato con entusiasmo, in quanto era da un pezzo che le mancava una cosa così chic da portare in giro che finora non aveva mai avuto. Dall’ottobre 2006 accompagna dovunque Monica Singer, che lo porta sempre in tasca. Introvabile nel periodo da agosto a settembre 2007, se ne sente terribilmente la mancanza. Ritrovato in settembre in un’altra tasca. Invio del metro avvolgibile alla mostra Storie di cose di Bolzano.
Stazioni di misurazione: Fiera di Colonia; Fiera di Francoforte; rilevazioni di controllo nella cucina dello studio Polka; discussione sui prototipi nella fabbrica di mobili Wittmann; ricerca d’archivio nella Manifattura del vetro Lobmeyr; prove di misurazione di diversi sedili nello studio Polka, nell’appartamento di Franzensgasse, nel locale Lutz; misurazione di vari formati di carta per un menu; misurazione di una superficie espositiva nel museo Hofmobiliendepot di Vienna; misurazioni per il confronto di diversi astucci per cosmetici; aiuto per appendere un quadro nella Franzensgasse; misurazioni per la concezione di modelli di pentole Reiss nel deposito del materiale di produzione.
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Adrien Rovero renens
Dati: Cliente: Storia di cose Nome dell’oggetto: Sgabello di Péclard Produttore: Horgenglarus Data del grafico: 21 settembre 2007 Periodo studiato: 1960-2007 Autore: Adrien Rovero
Dettagli: d1: Il designer di questo sgabello si chiamava Michel Péclard (1911-1996). Questo sgabello è l’unico oggetto da lui disegnato; era un artista, ma anche uno sportivo (vinse parecchie gare). Nacque in Madagascar e morì a La Sarraz (Svizzera). La Sarraz è a 3 km da Eclépens dove questo sgabello trascorse 38 anni. Il proprietario 2 (André Berger) conosceva la famiglia Péclard, ma questo non è in relazione con l’acquisizione dello sgabello. La storia dell’acquisizione è che il proprietario 2 (André Berger) lo trovò nella spazzatura e lo diede al proprietario 1 (Yvonne Berger) per il suo bagno, perché era utile e non fragile.
d2: Il proprietario 1(Yvonne Berger), essendo una donna anziana, usava questo sgabello nel suo bagno come piccolo aiuto dopo aver fatto il bagno. Ciò spiega lo stato dei piedi. d3: La prima volta che un proprietario si è trasferito con lo sgabello. d4: In una piccola stanza dietro la finestra lo sgabello funge da sostegno a un vaso di fiori, dandogli l’altezza giusta per ricevere la luce del sole. Questo spiega la macchia rotonda sul ripiano dello sgabello.
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Wieki Somers Rotterdam
Sedie cinesi – fatte in Cina e copiate da olandesi Per reazione a una metropoli che cresce in modo estremamente rapido, in cui tutto sembra temporaneo, quando stavo a Pechino concentrai la mia attenzione sulle piccole cose della vita quotidiana nelle strade.
In tutti gli angoli della città trovavamo delle sedute personalizzate usate da guardie, venditori di strada, conducenti di risciò. Queste vecchie sedie erano spesso appena riconoscibili come tali, avendo subito tante riparazioni e modifiche improvvisate. Ero colpita dai molti affascinanti dettagli che connettevano i vari materiali e le varie parti e li collegavano ai loro rispettivi creatori. Quelle sedie, probabilmente tenute care per tutta una vita, erano testimoni di una lunga storia in cui produttore e utente avevano entrambi lasciato le loro tracce. Quando cominciai a comprarne alcune, i vicini notavano la mia ammirazione e cercavano di vendermene altre, invitandomi a casa loro, dove venivo a conoscenza delle molte storie legate a queste sedute.
Alla fine decisi che qualcuna l’avrei replicata in una fusione di alluminio. In quel processo le sedie originali sparivano, ma in tal modo potevo preservarne la memoria dai danni del tempo e al contempo rendere omaggio ai loro creatori. I colori di queste nuove sedute si riferiscono all’altro aspetto di Pechino (alcuni lo definirebbero il suo lato moderno): la pubblica esibizione di prosperità e orgoglio che porta a rivestire auto e prodotti di scintillanti strati extra di vernice.
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aAmu song / Company Helsinki
Mummo Housut 1 Mummo Housut 2 Quando mi regalarono questi pantaloni mi sentii in grande imbarazzo e andai a provarmeli di nascosto in bagno. Ma una volta che ero a casa e stavo cercando qualcosa di comodo da mettermi, ecco che mi sembrarono la cosa giusta.
Dagli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta, mia nonna (You Jung-Ae) si era messa a confezionare varie cose con la sua preziosa macchina per cucire Singer. L’aveva dovuta seppellire in una buca quando i nordcoreani attaccarono Seoul e lei fu costretta a scappare a Pusan (città portuale meridionale della Corea del Sud). Quella macchina era troppo pesante e la nonna non poteva certo portarsela dietro in un viaggio simile, ma appena tornata a casa, la dissotterrò e ricominciò a cucire. Faceva per esempio copertine per il frigo, foderine per la cornetta del telefono, centrini da mettere sul televisore. Insomma, elementi decorativi, ma anche capi funzionali come l’Ibul-po (lenzuola tipiche coreane). La stoffa degli Ibul-po è cotone di ottima qualità che si può lavare un’infinità di volte. Ogni volta che cuciva un paio di Ibulpo restavano sempre ritagli di stoffa, che lei utilizzava per farne pantaloni per tutti i suoi nipoti. A quei tempi eravamo sei (oggi siamo 9 + un pronipote). Quei pantaloni erano sempre a motivi vivaci, ma semplici nella forma, con l’elastico. Non sapevo che tutti noi avevamo finito per indossarli quotidianamente e che non avremmo più potuto farne a meno, finché durante una vacanza in campagna scoprii che tutti portavamo gli stessi pantaloni a fiori! La nonna ovviamente era molto soddisfatta della sua opera.
Nel 1998 mi trasferii con due paia di pantaloni della nonna a Helsinki, in Finlandia, per studiare furniture design. Ancora oggi li indosso quotidianamente in casa per sentirmi a mio agio. Ho già paura di mandarli a Lungomare e di dover passare il mio tempo in casa senza i miei pantaloni comodi.
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Tesolin e Estadieu helsinki
Mental power Noi creiamo una relazione molto stretta e intima con gli oggetti che ci circondano. Una categoria per la quale gli oggetti hanno un impatto forte e distintivo per il successo è lo sport. Noi crediamo che alcuni oggetti ci portino fortuna e ci diano potenza fisica. Biancheria intima, rituali, segni, cibi, abitudini, portafortuna, se usati o eseguiti correttamente, ci daranno le condizioni migliori per vincere.
Balsamo di tigre “Mi mette nell’animo giusto per gareggiare! Ho bisogno di sentirne il profumo prima di montare in bicicletta, il suo odore mi dà la forza mentale che mi aiuta a vincere, lo so!” Calzettoni di calcio “Quando li indossai per la prima volta, giocai così male che decisi che non li avrei usati mai più!” Come designer comprendiamo che queste credenze non si possono pianificare, sono un’esperienza unica che pone un oggetto banale in una posizione elevata ed esclusiva.
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sylvain willenz BRUXELLES
Selene Chair 1969 Trovai questa sedia di Vico Magistretti (1920-2006) nel 2002, quando vivevo a Londra e studiavo al Royal College of Art. La sedia era stata abbandonata sotto il ponte dietro il mercato di Portobello. Ne riconobbi il design famoso e me la portai a casa. Da allora ci ho sempre vissuto insieme.
Capii che era qualcosa di speciale per l’effetto marmo del materiale in cui era stata realizzata. Trovo che sia un po’ bruttina, ma io la amo e ho sempre pensato che debba essere stata un prototipo o una prova della ditta produttrice. Quando Lungomare mi ha chiesto di scegliere un oggetto per la sua mostra, ho deciso che era un’opportunità per saperne di più sulla sedia Selene e su come questa in particolare fosse stata prodotta. Per scoprirlo, ho scritto a Heller, che attualmente produce i classici degli anni Settanta, e poi ad Artemide, l’ex produttore di questa sedia, che adesso produce soltanto lampade. Qui di seguito, riporto le e-mail scambiate con le due ditte produttrici di design. From: info@sylvainwillenz.com Subject: Information needed for special rare SELENE chair Date: Thu 16 Aug 2007 10:35:11 GMT+02:00 To: info@helleronline.it Egregi Signori, potreste, per favore, inoltrare questa e-mail all’amministratore delegato di Heller, o a qualcuno che sia in grado di rispondere alla mia richiesta? Il mio nome è Sylvain Willenz, sono un designer belga che lavora a Bruxelles. Sono stato invitato da Lungomare di Bolzano, in Italia, a partecipare ad una mostra intitolata Storie di cose. L’esposizione si terrà dal 18 ottobre al 7 dicembre 2007. Per questa mostra, a ogni designer invitato è stato richiesto di presentare un oggetto della propria casa e di scriverne la biografia. L’oggetto in questione sarà presentato a Lungomare insieme con il mio testo.
Ho scelto questa sedia Selene di Vico Magistretti che ho a casa mia a Bruxelles. Penso che sia molto speciale, dal momento che non è stata realizzata in un unico colore. In effetti, è grigia, rossa e bianca. È ancora un’edizione Artemide. Non l’ho mai vista altrove prodotta in questo mix di colori a effetto marmo. La mia teoria su questa sedia è che sia stata prodotta nel momento in cui si cambiavano i colori nel processo di stampa a iniezione e che ciò le abbia conferito questo effetto marmo di colata. Pertanto, mi piacerebbe sapere se qualcuno da Heller può confermare questa mia teoria, o se può darmi altre informazioni riguardo alla sedia qui riprodotta, dettagli tecnici o qualsiasi altra notizia che possa essere utile e interessante. Grazie in anticipo. Cordiali saluti, Sylvain
sylvain willenz BRUXELLES
From: ---@helleroline.com Subject: Re: Information needed for special rare SELENE chair Date: Mon 20 Aug 2007 16:04:56 GMT+02.00 To: info@sylvainwillenz.com
From: ---@ARTEMIDE.com Subject: R: SELENE Chair: Historical Information Date: Thu 23 Aug 2007 16:06:44 GMT+02:00 To: info@sylvainwillenz.com
Caro Sylvain, grazie per la sua interessante e-mail e per averci consultati! Sinceramente, presumiamo che la sua teoria sia corretta, ma, d’altra parte, non possiamo assicurarle che lo sia. Nel periodo in cui la Selene in suo possesso era prodotta, la si realizzava con “stampaggio a compressione”. La nostra Selene adesso è prodotta con “stampaggio a iniezione” – sicché usiamo una tecnologia completamente differente da quella usata allora da Artemide. Forse i tre colori hanno dato questo risultato perché nello stampo c’era una lamina di poliestere. Le suggerirei di rivolgersi ad Artemide per saperne di più. Questo è tutto ciò che possiamo dirle.
Gentile Signor Willenz, ho effettuato una ricerca e posso confermarle che la sedia Selene (che oggi non è più una produzione Artemide), era prodotta in SMC (sheet moulding compound). Fu prodotta da Artemide a partire dal 1969 fino alla fine degli anni Ottanta circa. Il designer era Vico Magistretti, che nella stessa linea ideò il tavolo Stadio e le poltrone Gaudì e Vicario. In allegato, troverà una breve descrizione del “Reglar”, il materiale con cui era prodotta. Nel caso specifico, la particolarità della sua sedia dipende dal fatto che nello stampo bollente erano state introdotte due parti di lamine di materiale di diverso colore (bianco e rosso). L’effetto marmo è il risultato della fusione tra la lamina rossa e la parte principale bianca dello stampaggio. Penso che il suo sia un prototipo o una edizione molto limitata, prodotta per qualche evento speciale. I colori ufficiali erano bianco, marrone scuro, rosso cina laccato e verde, come potrà vedere nell’acclusa pagina del catalogo Artemide del 1981. Nel 1984, in occasione dei giochi olimpici di Los Angeles, la Selene fu anche prodotta in rosso magenta, blu e giallo.
Cordiali saluti, Stefan Müller Marketing & Sales Heller
Questa sedia fa parte della Twentieth Century Design Collection del Metropolitan Museum of Art di New York e della Design Collection del Museum of Modern Art di New York ed è esposta al Victoria and Albert Museum di Londra e all’Israel Museum di Gerusalemme. Fu selezionata al premio “Compasso d’Oro” nel 1970. Spero che le suddette informazioni possano esserle utili per l’organizzazione della sua prossima mostra. Non esiti comunque a contattarmi se le occorrono altri dettagli. Cordiali saluti, Cristina Costanzi Artemide S.p.A. Direzione Marketing
Storie di cose — Gli autori
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Åbäke – Åbäke è uno studio di design grafico con sede a Londra, composto da quattro soci provenienti dal Galles, dalla Francia e dalla Svezia: Patrick Lacey, Benjamin Reichen, Kajsa Stahl e Maki Suzuki. Åbäke dirigono e disegnano la rivista d’architettura “Sexymachinery” e sono condirettori di Kitsune, un marchio che produce abbigliamento e dischi. Fra i loro clienti: The Cardigans, la Maison Martin Margiela, Peter Jensen, Bookworks e il British Council.
Martín Azúa – (Paesi Baschi 1965) attualmente Martín Azúa vive e lavora a Barcellona. Si è laureato in design alla Facoltà di Belle Arti di Barcellona. Insegna storia del design alla Scuola Superiore di Design Elisava. Collabora con varie aziende come designer, un’attività che combina con il suo lavoro di ricerca. Quest’ultimo è stato esposto in numerose mostre personali e collettive a Barcellona, Milano, Berlino, Vienna, Parigi. Alcuni suoi progetti sono stati pubblicati su prestigiose riviste internazionali. Sue opere fanno parte della collezione permanente del MoMA di New York.
Azzimonti Pigem – dopo una comune esperienza presso Domus Academy nel 1998, Enrico Azzimonti (Busto Arsizio 1966), architetto, e Jordi Pigem (Banyoles 1968), interior designer, hanno iniziato a collaborare progettando a distanza tra Milano e Barcellona. I loro lavori sono stati pubblicati su importanti riviste del settore, hanno ricevuto premi e menzioni in concorsi e sono stati presenti in importanti eventi internazionali di design.
Manuel BandEIra – (Salvador, 1973) dopo la laurea in architettura all’Università Federale di Bahia Manuel Bandeira ha conseguito un master in design industriale alla Domus Academy di Milano. Di recente, la rassegna &Fork lo ha inserito fra i cento designer di prodotto più interessanti del mondo.
Fernando Brizio – (Angola 1968) vive e lavora a Lisbona. Dal 1999 ha ideato numerosi progetti di design di prodotto, come anche scenografie e opere da esposizione per Details, Droog Design, il coreografo Rui Horta, Intramuros, Fabrica, Experimenta Design, Cor Unum e Galerie Kreo, tra gli altri. È professore e preside della facoltà di industrial design della School of Art and
Design in Caldas da Rainha in Portogallo e docente alla ECAL, Ecole cantonale d’art de Lausanne. Ha partecipato a numerosi congressi e giurie, le sue opere sono state esposte e pubblicate internazionalmente.
CuldeSac – nasce nel 2002 dalla volontà di superare il concetto di studio di design passando all’idea di uno spazio creativo. Ogni progetto di CuldeSac ha un carattere multidisciplinare, grazie al coinvolgimento di professionisti provenienti da campi differenti e da differenti nazioni che lavorano insieme con i membri permanenti della compagnia.
Lorenzo Damiani – (Milano 1972) si è laureato in architettura presso il Politecnico di Milano e ha conseguito un master presso la Scuola Politecnica di Design. Ha esposto i suoi progetti in numerose mostre collettive, in Italia e all’estero, e ha partecipato, ottenendo premi, a vari concorsi. Ha collaborato con diverse aziende tra cui Campeggi, Cappellini, Montina, Acqua di Parma, Abet Laminati, Erreti, Omnidecor, Coop, Illy Caffè, IB Rubinetterie, BBB EmmeBonacina.
Electricwig – uno studio creativo avviato nel 2001 da Johanna Van Daalen (Lourdes 1974) e da Tim Denton (Basingstoke 1979). Ciò che li ha uniti è la passione per il loro lavoro e il comune senso dell’umorismo, da cui deriva il nome scelto. Secondo la calzante definizione di un giornalista del “Guardian”, questo studio, oltre a essere funzionale, mira a coinvolgere emotivamente.
Luis Eslava – (Valencia 1976) ha studiato grafica e design del prodotto all’Esdi-Ceu di Valencia. Nel 2002 ha iniziato a lavorare nel reparto design di Camper dove ha ideato vari progetti di calzature. Nel 2005 ha conseguito il master in design products presso il Royal College of Art di Londra. Sempre a Londra ha aperto un suo studio, che ha successivamente trasferito a Valencia, dove attualmente, insieme con il suo team, crea prodotti e arredamenti di interni per varie società.
Patrick Frey – (Seul 1973) ha conseguito la laurea di industrial design alla Facoltà di Design e Media
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della Fachhochschule di Hannover. Nel 2004 apre uno studio di design industriale con il tedesco Markus Boge a Hannover, in Germania. Dal 2007 ha avviato la Patrick Frey Industrial Design.
Alexis Georgacopoulos – (Atene 1976) nel 1999 ha conseguito la laurea in design industriale presso l’Ecal, Ecole cantonale d’art di Losanna. Nel 2000 è stato nominato preside del dipartimento di design industriale dell’Ecal. Il suo studio di design collabora con importanti ditte di produzione e a oggetti di serie limitate; i suoi progetti sono stati esposti in importanti fiere e istituzioni.
Tal Gur – (Kfar Yehoshua 1962) risiede e lavora nel Kibbutz Gilgal, in Israele. Laureatosi nel 1996 presso il dipartimento di design industriale della Bezalel Academy of Art and Design, Gur espone i suoi lavori in Europa, in America, in Estremo Oriente e nei paesi del Pacifico. Nell’estate del 2007 ha tenuto una personale al Tel Aviv Museum of Art.
Ditte Hammerstrøm – (Glostrup 1971) vive e lavora a Copenaghen. Ha studiato alla Danmarks Designskole di Copenaghen e al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra. Si è laureata nel 2000 e nello stesso anno ha aperto il suo studio. I suoi lavori sono ampiamente esposti a livello nazionale e internazionale. Dal 2006 è rappresentata dalla Køppe Gallery di Copenaghen.
Meriç Kara – (Izmir 1977) ha studiato design industriale e ha collezionato qualunque oggettino colorato che le sia passato per le mani. Dopo il master alla Domus Academy di Milano ha ottenuto una borsa di studio presso Fabrica, il Centro di ricerca e comunicazione di Benetton, dove ha sviluppato il progetto “b-sides”. Dal 2006 vive e lavora a Istanbul. Nel 2007 &Fork l’ha inclusa nell’elenco dei cento giovani designer di prodotto più interessanti del mondo. Ha una bella collezione di fiammiferi, anche se è felicissima di non essere una piromane.
Sophie Krier – (Halle 1976) vive e lavora a Rotterdam. Nel 1999 si è laureata cum laude alla Design Academy
Eindohoven, presso il dipartimento Man and Identity. Dal 2005 è direttrice del dipartimento designLAB della Rietveld Academie di Amsterdam. Con i collaboratori del suo studio privato indaga i confini del campo del design, impegnandosi principalmente in ricerche e lavori editoriali per spazi pubblici, mostre ed eventi culturali, come anche libri di design. In sette parole, Sophie Krier elabora “strumenti per la narrazione e la riflessione”.
Kyouei Design – Kouichi Okamoto (Shizuoka 1970) inizia la sua carriera come sound designer. Nel 2006 avvia lo studio Kyouei Design, iniziando a realizzare progetti di design per diverse ditte del settore. I progetti sono una ricerca, un processo di riduzione al minimo necessario e s’ispirano a elementi che il designer riprende dai ricordi della sua infanzia. Kyouei Design è uno studio che fa della semplicità e dell’innovazione il proprio stile.
Nicolas Le Moigne – (Fontainebleau 1979) ha conseguito il master in design industriale all’Ecal, l’università di arte e design di Losanna. Anche prima della laurea erano già in produzione svariati suoi oggetti, alcuni dei quali sono diventati dei must nei negozi di design. Molti dei suoi progetti nascono da un’approfondita ricerca dei processi di produzione e delle proprietà intrinseche dei materiali.
Cecilie Manz – (Sealand 1972) vive e lavora a Copenhaghen, e dal 1998 ha un suo studio di design. Ha studiato alla Danmarks Designskole di Copenhaghen e all’University of Art and Design di Helsinki, in Finlandia. Alcune sue opere sono al MoMA di New York e al Vitra Design Museum di Basilea; ha esposto alla MDS-G Issey Myake Gallery di Tokyo, al Museum of Decorative Arts di Copenhaghen, al Third Design for Architecture Symposium della Alvar Aalto Academy, in Finlandia. Collabora tra gli altri con Fredericia Furniture, Nils Hoger Moormann, LightYears, Holmegaard, PP Møbler, Muuto.
Peter Marigold – (Londra 1974) ha seguito studi di scultura al Central Saint Martins e nel 2005 ha ottenuto un master al Royal College of Art, tenuto da Ron Arad. Ha vinto una borsa di studio della fondazione Esmee Fairbairn per una mostra al Design Museum di Londra. Nel 2007 ha esposto in una mostra a Milano
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in collaborazione con il British Council e ha realizzato un’installazione per Paul Smith a Milano. I suoi lavori vengono esposti sia in Gran Bretagna sia all’estero (tra gli altri: Design Miami, Stavanger 2008 in Norvegia, MoMA di New York).
Jason Miller – (New York 1971) ha avviato il suo studio di design nel 2001. È stato definito “versatile e tuttofare”. In effetti disegna di tutto, dai mobili agli accessori e all’arredamento di interni, e lavora con una molteplicità di mezzi. Il design di Jason attinge ad aspetti quotidiani della cultura americana per creare oggetti di design contemporanei.
NÒdesign – sono Leonardo Massarelli (San Paolo 1979), Marcio Hulk Giannelli (San Paolo 1979) e Flavio Barao Di Sarno (San Paolo 1979). Da sette anni il collettivo Nòdesign realizza progetti in varie aree del design del prodotto, progetti multifunzionali e interattivi, nuovi modi di soddisfare i bisogni umani. Sono convinti che un oggetto, più che rispondere con perfezione e razionalità a una specifica funzione, debba interagire con il suo contesto, creando un ecosistema nel quale sia in grado di autoregolarsi nel mercato.
Polka – un collettivo dei designer Marie Rahm (Monaco di Baviera 1975) e Monica Singer (Salisburgo 1975) fondato a Vienna nel 2004. Entrambe laureate all’Università di Arti Applicate di Vienna, hanno sempre lavorato in coppia, creando progetti di prodotti e di mobili, e più recentemente di arredamento di interni. Il lavoro di Polka è incentrato su esperienze e storie di vita quotidiana, i loro progetti amano sorprendere e rivelare punti di vista mutevoli.
Adrien Rovero – (Pompaples 1981) vive e lavora a Renens, in Svizzera. Dopo la laurea in interior design e il master in disegno industriale all’Ecole cantonale d’art di Losanna ha aperto il suo studio nel quale ha realizzato progetti per DIM, Tisca Tiara, Gallery Kreo, Hermès, Suck UK, Droog, Domestic e Nanoo. Osservando la vita quotidiana con senso dell’umorismo e distacco, coglie situazioni o processi iconici e li trasfonde in modo arguto per creare progetti industriali inventivi.
Wieki Somers – (Sprang-Capelle 1976) dopo la laurea alla Design Academy Eindhoven nel 2000 ha aperto lo studio Wieki Somers, in cui collabora con Dylan van den Berg (Eindhoven 1971), anch’egli laureato alla Design Academy Eindhoven. Wieki Somers collabora con società internazionali, laboratori artigianali, industrie, gallerie e musei, tra cui il MoMA di New York, Boijmans van Beuningen a Rotterdam e la Galerie Kreo a Parigi.
Aamu Song / Company – (Seul, 1974) lavora insieme a Johan Olin come designer, produttore e gestore di un negozio a Helsinki, nella società di design Company. La sua collezione di design include “tree stool” (sgabello di legno) per parlare con gli alberi, “dance shoe” (scarpe per la danza) perché il padre possa ballare con la sua piccola figlia, e “Redress” per ascoltare e cantare. Attualmente, Company ha aperto un Secret Store nel centro di Helsinki, che distribuisce collezioni di Top Secrets of Finland e Made in Korea.
Tesolin e Estadieu – Jeremiah Tesolin (Toronto 1977) e Alex Estadieu (Parigi 1976) hanno iniziato a lavorare insieme dopo essersi laureati e aver conseguito un master in arti applicate presso la University of Art and Design di Helsinki. Durante questo periodo hanno curato vari progetti incentrati soprattutto sulla creazione di design di prodotto e di design strategico. I loro lavori hanno ottenuto vari riconoscimenti, il littala Care al premio littala, Lack Lamps al premio Ikea, e St8ls realizzato in collaborazione con Artek.
Sylvain Willenz – (Bruxelles 1978) ha studiato design products al Royal College of Art di Londra, dove si è laureato nel 2003. Dal 2004 ha aperto un proprio studio, con sede a Bruxelles. Il lavoro di Sylvain va dalla progettazione di spazi allo sviluppo di lampade, dall’industrial design all’arredamento. Le sue opere sono prodotte da Vlaemsch (BE), Established and Sons (UK), Freecom (NL, DE) e Areaware (USA).
Storie di cose — I curatori
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angelika burtscher – (Schruns 1979) vive e lavora come designer e curatrice a Bolzano. Ha studiato a Bolzano conseguendo il diploma all’Accademia di Design Bolzano e la laurea in Design e Arti alla Libera Università di Bolzano. Dal 2003 è curatrice del laboratorio per la cultura Lungomare, Bolzano. Nel 2004 fonda lo studio di design Lupo & Burtscher. Nel 2006 pubblica assieme a Thomas Kager il libro Pre Visioni del giovane Sudtirolo (Edition Raetia), e nel 2008, con Manuela Demattio e Roberto Gigliotti Sogno Città Noi – Esercizi di percezione urbana (Studienverlag). Dal 2009 è ricercatrice alla Jan van Eyck Akademie a Maastricht.
Daniele lupo – (Heidelberg 1976) vive e lavora come designer e curatore a Bolzano dove in seguito al diploma all’Accademia di Design Bolzano e alla laurea in Design e Arti alla Libera Università di Bolzano ha aperto Lupo & Burtscher, uno studio di design e di comunicazione visiva. Lo studio collabora con diverse aziende per la progettazione di prodotti e di serie limitate, realizza allestimenti di mostre, progetti di design di interni e progetti di comunicazione visiva. Dal 2003 è curatore di Lungomare.
Lungomare – laboratorio indipendente per la cultura del progetto inaugurato nel 2003 da Angelika Burtscher e Daniele Lupo. Lungomare propone progetti in forma di eventi, di pubblicazioni e di mostre che favoriscono pratiche dialogiche e partecipative su temi ispirati al rapporto tra la cultura del progetto e i contesti socioculturali e geopolitici di riferimento.
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Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseritit in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonchè per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effetttuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail segreteria@aidro.org e sito web www.aidro.org
Progetto grafico di Lupo & Burtscher
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Volume pubblicato con il contributo della Libera Università di Bolzano, Facoltà di Design e Arti e della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano
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