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Mario Savio e il Free speech mo

Politica e Storia

Mario Savio e il Free speech movement

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Il 2 dicembre 1964, nel campus dell’Università di Berkeley in California, lo studente Mario Savio lanciò il movimento per il libero discorso, il Free speech movement. Quel giorno uno sceriffo lo raggiunse alle spalle e lo afferrò per il collo. La folla cominciò a urlare. Il punto fondamentale del discorso che Savio stava pronunciando davanti agli studenti californiani era che arriva un momento in cui l’operato della macchina, anche di una macchina di cui si fa parte, diventa così odioso che biso-

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gna letteralmente lanciare i propri corpi contro di essa e impedirle di continuare a funzionare. La protesta degli studenti di cui si fece interprete Savio era indirizzata contro il Rettore Claude Kerr che aveva vietato ogni attività politica e di volantinaggio all’interno del campus. Quegli studenti bianchi e privilegiati di Berkeley iniziarono a protestare perché, pur essendo cresciuti nel benessere materiale degli anni ’50, avevano avuto tutto il tempo di crescere con la paura della bomba atomica e della guerra nucleare e, al momento del discorso di Mario Savio, avevano ormai simpatizzato con il movimento per i diritti civili degli afroamericani. Dalla metà degli anni ’50 in poi la battaglia per i diritti civili era ormai al primo posto dell’agenda della politica interna americana e la stessa Corte Suprema iniziò a emettere sentenze favorevoli all’acquisizione di una vera uguaglianza di diritti per tutte le componenti dell’ampio mosaico etnico degli Stati Uniti. I ragazzi di Berkeley, pur essendo felici di essere americani e timorosi come tutti di un eventuale attacco sovietico, realizzarono ben presto che la vita non poteva essere solo consumo ma doveva essere corroborata da un impegno civile e sociale per diminuire le disuguaglianze economiche e giuridiche della società americana. Avendo ormai acquisito l’età per votare e interessarsi ai temi sociali, percepirono il divieto di fare attività politica all’interno dell’Università, imposto dall’autorità rettorale, come ingiusto e anacronistico. Stavano studiando per diventare classe dirigente, ma non volevano per questo smettere di pensare e parlare ed ecco l’idea di ribellarsi, scolpita icasticamente nella frase di Mario Savio, pronunciata quel 2 dicembre, di dover lanciare i propri corpi contro quella macchina di studio, di produzione, di consumo rivolta solo all’efficienza senza il diritto di pensare e di contare. Già i Presidenti Jefferson e Madison avevano affermato che una cittadinanza infor-

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mata, messa in grado di avere opinioni, e una stampa libera sono la garanzia di un governo libero e democratico. Il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, ratificata nel 1791, riconobbe ai cittadini la libertà di parola e di stampa e il diritto di inviare petizioni al Governo. Partendo da questi presupposti storici di una partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e istituzionale, Mario Savio e i suoi compagni di lotta di Berkeley chiesero niente di più di quello che era stato uno dei diritti riconosciuti fin dal XVII Secolo nella nuova Nazione sorta in America, cioè esprimere liberamente le opinioni politiche e ideologiche anche all’interno di una istituzione tecnocratica come l’Università. Parlando con i giornalisti in quei giorni di dicembre del 1964, Savio affermò con convinzione e forza che l’Università poteva e doveva essere un luogo di espressione e di scambio di libere opinioni e di partecipazione alla vita pubblica e non solo una fabbrica e un tempio del sapere come affermato dal Rettore in un suo saggio. Se l’Università fosse stata solo la fabbrica del sapere, allora il Senato accademico sarebbe stato il Consiglio di amministrazione, il Rettore il Direttore generale, il corpo dei docenti solo un mucchio di impiegati e gli studenti niente più che materia prima grezza da lavorare e plasmare, semplici rotelle dell’ingranaggio di una macchina utile alla produzione di beni e servizi. Mario Savio era balbuziente, ma nella foga dei discorsi e delle interviste di quei giorni, trovò la forza di superare anche quel difetto. Era un idealista ma non un ingenuo. Si era reso conto che l’operato di una macchina diventa a un certo momento così triste e odioso che ci si deve buttare sopra col proprio corpo per fermarne gli ingranaggi disumanizzanti. Il concetto della società americana come simile agli ingranaggi di una macchina disumanizzante non era nuovo, anche se Savio lo pose all’attenzione di tutta l’opinione pubblica in un’epoca che cominciava a essere influenzata dai grandi

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mezzi di comunicazione di massa. L’aveva già utilizzata il sociologo Leo Marx nel suo libro “La macchina nel giardino. Tecnologia e ideale pastorale nella società a- mericana”, uscito in libreria poche settimane prima di quel 2 dicembre 1964. Il sociologo affermava che negli Stati Uniti si erano collegate le macchine all’ideale di una società pastorale e tutte due avrebbero dovuto camminare perfettamente all’unisono. Ma ovviamente non era così semplice, e Leo Marx aveva sottolineato che artisti come Melville, Twain, Thoreau, Hawthorne avevano espresso le notevoli contraddizioni della cultura americana, mostrando come le aspirazioni rappresentate un tempo dal simbolo di un paesaggio ideale non erano state e probabilmente non sarebbero mai state realizzate e che gli ancestrali simboli americani di ordine e bellezza erano stati privati di ogni significato; era il battello a vapore che rovesciava la zattera di Huckleberry Finn, era il treno che entrava di prepotenza nell’idillio del Walden di Henry David Thoreau. Quegli artisti non offrirono soluzioni ai problemi da loro evidenziati, avevano solo mostrato le contraddizioni ma non proposto le nuove possibilità di soluzione, che secondo Leo Marx sarebbero dovuto essere chieste con spirito critico dai cittadini alla politica. La disobbedienza civile, il frapporsi tra gli ingranaggi e fermare le macchine, era un concetto che aveva radici lontane negli Stati Uniti. L’aveva inaugurata già lo stesso Thoreau in un discorso del 1849 in cui aveva invitato i cittadini a non pagare più le tasse a un Governo che tollerava la schiavitù e in quegli anni aveva appena invaso il Messico, uno Stato vicino e sovrano. Aveva invitato tutti a resistere quando la tirannia e l’incompetenza dello Stato arrivano al massimo. A Thoreau non interessava che i coloni americani avevano disobbedito e fatto la rivoluzione contro gli inglesi per impedire la tassazione di alcune merci, ma interessava, e come, che in quegli anni ’40 del XIX Secolo, quello stesso Stato nato dalla Rivoluzione aveva strutturato una macchina giunta al colmo dell’oppressione, che teneva in schiavitù

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un sesto della popolazione e che aveva appena invaso un Paese sovrano. Thoreau fu il primo che inventò la metafora del Governo come una macchina da fermare. Era necessario infrangere la legge, trasformarsi in un attrito che fermi la macchina, non diventare parte delle ingiustizie che gli stessi americani condannavano. Mario Savio era di New York, nato in una famiglia di immigrati italiani di prima generazione, dalle condizioni economiche niente affatto brillanti. Aveva potuto studiare grazie a borse di studio e si iscrisse alla facoltà di filosofia all’Università californiana. Era appena arrivato a San Francisco nel 1963 quando vide il sit in davanti allo Sheraton Hotel di studenti che protestavano contro le politiche di discriminazione razziale contro gli afroamericani che non potevano essere assunti come impiegati di concetto. Fu allora che iniziò a prendere coscienza della necessità di lottare per i diritti delle persone. Cominciò a far parlare di sé quando, nell’estate del 1964, prese parte nel Sud al Freedom Summer project, organizzazione umanitaria del Mississippi che aiutava gli afroamericani a ottenere la possibilità di votare. Nel mese di luglio, mentre camminava lungo una strada di Jacksonville con un altro attivista e un amico afroamericano, fu aggredito da due bianchi. A differenza di altri attivisti per i diritti civili che erano anche stati uccisi, a Savio andò bene, perché se la cavò con qualche lividura e gli aggressori furono identificati e denunciati. Invece, non era andata affatto bene ad altri due attivisti che erano scomparsi il 21 giugno di quell’anno nel Mississippi e poi ritrovati morti. Il caso fece scalpore e ne nacque una famosa inchiesta, definita Mississippi burning, che scoprì che i due erano stati assassinati dal Ku Klux Klan. In effetti, in quel periodo gli elementi reazionari del Sud reagivano alle lotte per i diritti civili con una violenza brutale e la sorte tremenda dei due sarebbe potuta toccare anche a Savio e ai suoi amici.

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Quando nell’autunno tornò a Berkeley con l’intenzione di raccogliere fondi per la lotta, fu il momento in cui scoprì che l’Università aveva vietato ogni forma di attività politica. Allora organizzò la rivolta studentesca nel campus per protestare contro la guerra in Vietnam e le autorità accademiche. La rivolta iniziò il primo ottobre 1964 quando un ex studente e amico di Savio, Jack Weinberg, fu arrestato dalla polizia perché lavorava per il Congresso per l’uguaglianza razziale. Quando lo fecero salire sull’auto della polizia, Savio si tolse le scarpe e salì sul tetto dell’auto pronunciando un appassionato discorso concluso con la frase “io vi chiedo di andarvene in silenzio e con dignità a casa”. Diventò così il leader del movimento Free Speech. E arrivò così quel momento del 2 dicembre in cui nella sede della Sproul Hall del campus pronunciò il suo più famoso discorso, quello della “Operation of the machine”, da cui siamo partiti. Fu pronunciato in piedi su una scalinata davanti a 4.000 persone. Il brano saliente fu quello in cui affermò che “C’è un tempo in cui il lavorio della macchina diventa così odioso , vi rende così scoraggiati, che non potete più parteciparvi. Non potete più partecipare passivamente. E dovete lanciare i vostri corpi sugli ingranaggi, sulle ruote, sulle leve, su tutto l’apparato, e lo dovete fermare. E dovete dire alla gente che la fa funzionare e a quella che ne è proprietaria che, fino a quando non sarete liberi, quella macchina non dovrà mai più funzionare”. Subito dopo il discorso di Savio, Joan Baez intonò il canto “we shall overcome” che sarebbe diventato il simbolo delle lotte degli anni ’60. Il discorso del 2 dicembre e il sit in davanti allo Sheraton di San Francisco dell’ottobre precedente da parte degli studenti convertiti alla politica dalle marce e dall’esempio degli afroamericani nel profondo Sud, furono il prodromo delle lotte studentesche che di lì a poco avrebbero infiammato le Università di tutti gli USA

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contro la guerra in Vietnam, contro la violenza del Governo e le ineguaglianze della società americana. Mario Savio continuò la lotta ma ben presto se ne allontanò, vedendo il sempre maggiore scollamento tra la base studentesca e la politica. Nel 1967 fu condannato a 120 giorni di carcere in un penitenziario statale. Uscito dalla prigione, disse ai giornalisti che avrebbe continuato la sua attività di disobbedienza civile. Dopo aver scontato la condanna, lavorò come commesso in un supermercato di Berkeley e poi fu assunto come docente alla Sonoma State University. Intraprese un viaggio di studio in Gran Bretagna e prese una laurea in fisica nel 1984 e un master nel 1989. Dal 1990 fu docente di filosofia e preside della Sonoma State. Morì giovane nel 1996 per problemi cardiaci. Oggi, le scale dell’Università di Berkeley, dove pronunciò il suo discorso del 2 dicembre 1964, sono a lui intitolate.

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