Mai amato abbastanza

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Narrativa inclusa 12



Alessio Biagi

Mai amato abbastanza romanzo

M.G.E.

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MELIGRANA GIUSEPPE EDITORE E

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Alessio Biagi Mai amato abbastanza Narrativa inclusa. 12 Copyright © Meligrana Giuseppe Editore, 2010 Copyright © Alessio Biagi Tutti i diritti riservati Meligrana Giuseppe Editore Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV) Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041 www.meligranaeditore.com info@meligranaeditore.com I edizione: dicembre 2010 ISBN: 978-88-95031-77-4 Copertina © foto di Matteo Mazzoni www.noidea.it


a Sara Ester



Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita. Sandro Penna Abramo seppellÏ Sara, sua moglie, nella caverna nel campo di Malpela di fronte a Mamre, cioè Ebro, nel paese di Canaan. (Genesi 23:19)



Prima parte

Le mani di lui sul viso di lei. I baci di lui sono fiamme sparse; il sottile sorriso di lei è fiore di melo. Lui ha bisogno d’aver fretta. Lei è una voce nata dal sole e accordata fra i profumi dei cedri.

Il sole era così caldo da venirci a bruciare la pelle nuda. Io e Sofia sopravvivevamo all’ombra di una vecchia quercia, affannando, sdraiati su un lenzuolo oramai sporco. Sudati, accaldati da quell’estate anomala e sfiniti da un pomeriggio d’amore. Avevo rubato la macchina di mio padre dopo pranzo, ero passato a prenderla e insieme eravamo scappati dalla città il più in fretta possibile. La calura sembrava sciogliere le statue e i cornicioni dei palazzi, perciò decisi di portarmela in campagna e cercare un posto al fresco per rimanerci fino a tarda sera. Lungo la strada c’eravamo fermati a una bottega per fare provvista d’acqua e comprare qualcosa da mangiare. Eravamo eccitatissimi e felici: era il nostro momento. Avevamo abbassato i finestrini e il vento era venuto a spazzarci la faccia. La radio cantava a tutto volume mentre noi due non smettevamo un momento di sorriderci. Chilometro dopo chilometro i confini si allontanarono, le case si sfoltirono, l’orizzonte si sgombrava dal cemento. Sofia aveva pitturato sugli occhi la libertà che c’eravamo presi con la forza dopo un mese intero di separazione, respirando a fondo come chi si conquista la libertà 9


coraggiosamente, senza sentire ragioni. Io al contrario ero più teso: rimuginavo già su cosa ci aspettasse al nostro ritorno, la rabbia dei nostri genitori. Eppure nonostante questo, non sarei tornato indietro per niente al mondo. Gli effetti positivi della fuga li avvertimmo soltanto dopo pochi chilometri: non vedevamo limiti a quello che potevamo fare, anche se confinati a quel solo pomeriggio. - «Lo hai spento il cellulare?» – le domandai. - «No, ma tanto non prende» – mi rispose. Sorridemmo complici, come due ladri in fuga che si nascondono dai loro inseguitori. La città era oramai a quasi un’ora di macchina, l’ultimo casolare abitato a una decina di minuti. Sofia vide un boschetto con quella meravigliosa quercia secolare e me la indicò entusiasta. - «Fermiamoci lì!» – disse. Rallentai e voltai per una straducola solcata delle ruote di un trattore. Mi accostai il più possibile all’albero piazzando metà macchina all’ombra. Sofia balzò subito fuori, ridendo. L’aria era più fresca, la temperatura all’ombra sopportabile. Sofia si mise a fare grandi salti di felicità, e io ero più contento ogni qual volta i suoi piedini ritoccavano terra. *** «Si muore di caldo oggi» – aveva brontolato mio padre qualche ora prima, slacciando i bottoni della camicia – «Ci saranno 50 gradi!». Mia madre non diceva niente, lavava i piatti e boccheggiava. Era domenica, e chi poteva s’era alzato presto, s’era incolonnato sulla Via Aurelia verso Grosseto ed era andato al mare, tentando di salvarsi da quell’estate spietata. Noi Alberti, invece restavamo a Siena, a mangiare riso freddo con la maionese e consumando litri e litri d’acqua minerale. Mio padre aveva appena finito il giro della casa per chiudere finestre e persiane. 10


«Così non entra il caldo!» – spiegò, ma io mi sentivo come in gabbia: avrei tanto voluto uscire, avrei tanto voluto baciare Sofia. M’ero alzato tardi, svegliato dalla voce mostruosa di lui che urlava contro mia madre. «Non sei mai contenta tu!» – berciava. Il suo solito tono grezzo mi fece capire che era quel giorno del mese: lui le metteva i soldi in una busta sigillata, sperando che mia madre aspettasse che se ne fosse andato prima di aprirla. Invece mentre lui faceva il giro della casa, mia madre la apriva per contare i soldi, aspettando che lui tornasse in cucina per lamentarsi che non erano mai quelli che le doveva. Quando uscii dalla doccia avevano appena smesso di discutere e m’aspettavano seduti a tavola. Mio padre non fece nemmeno un cenno con la faccia: si limitò a guardarmi un momento con fastidio, come se stesse pensando: «Eccola la mia croce!». Mi odiava e si vedeva bene. Pure io odiavo lui, ed era anche più evidente. Mangiammo in silenzio. Lui si riempì il piatto di maionese: ne prendeva a cucchiaiate dal vasetto, la mescolava col riso e non contento se ne riprendeva ancora. Quando presi il barattolo, la maionese era tutta impastata con i chicchi di riso. M’irritava ogni cosa facesse: come mangiava, come beveva, come parlava. Il suo mento squadrato, i suoi capelli sempre unti, la barba ispida. I segni dei suoi pugni sulla mia faccia erano già guariti, ma la ferita sul mio cuore era ancora aperta e traboccante. Sarebbe rimasto fino alle quattro e mezzo del pomeriggio, come ogni domenica, seduto davanti alla televisione accesa. Da quando il caldo era aumentato, aveva preso l’abitudine di levarsi la camicia, sfilare la canottiera da dentro i pantaloni e stendersi sul divano pancia in su. Molto spesso si addormentava. Mia madre gli si sarebbe seduta accanto, vegliandolo come un morto, pregando che il tempo passasse il più velocemente possibile. Lo odiava anche lei adesso, perché s’era convinta che farci vi11


sita era diventato una sorta di secondo lavoro del fine settimana. Solitamente verso le quattro di pomeriggio lo svegliava, senza però toccarlo. Lui andava in bagno a sciacquarsi il collo e le ascelle e tornava dall’altra sua famiglia. Alle due di quel pomeriggio già dormiva profondamente: lo sentivo russare fin da camera mia. Sofia mi aveva mandato un messaggio tenerissimo. Ero sdraiato sul letto a pensare a cosa risponderle quando entrò mia madre con una pila di lenzuola tra le mani. «Puoi metterle nell’armadio?» – chiese. Le annuii nascondendo veloce il telefono sotto il sedere. Lasciò le lenzuola sulla scrivania, si sistemò i capelli e prima di uscire mi diede uno sguardo compassionevole. Non ero stato così veloce come credevo. Lei come mio padre non approvava quello che stavo facendo, ma tentava lo stesso di appoggiarmi, a suo modo, consapevole che eravamo rimasti soli, io e lei, uno la spalla dell’altro, come due carte in un castello. Quando richiuse la porta tornai a scrivere il mio messaggio. Sofia mi rispose che non ce la faceva più, che voleva vedermi e stare con me. Provai rabbia e battei i pugni sul materasso al ritmo del respiro di mio padre che dormiva nella stanza accanto. Fissai la parete come se potessi vedere attraverso i mattoni potendo spingermi fino al soggiorno per guardarmelo steso sul divano. La mia infelicità portava il suo nome e puzzava come il suo fiato pesante. Scrissi un messaggio a Sofia ordinandole di prepararsi che presto sarei passato a prenderla: ero deciso a fuggire via con lei. Mi rispose chiedendomi cosa avessi in mente, assicurandomi che ci saremmo sicuramente messi nei guai. Le scrissi di non preoccuparsi, che ci avrei pensato io, avrebbe solo dovuto dirmi se veniva o no. Rispose di sì. Presi una coperta e un lenzuolo dalla pila sulla scrivania, frugai nelle tasche e contai i pochi spiccioli che avevo. Andai in camera di mia madre e silenziosamente cercai nella sua borsa una banconota da venti euro, la presi e ri12


misi tutto al suo posto. Andai verso l’ingresso. Il respiro grosso di mio padre era il segnale che tutto era tranquillo. La Panda mia e di mia madre s’era spenta per sempre in Via Angiolieri. Rovistai nella giacchetta cercandogli le chiavi della macchina, le misi in tasca e uscii senza fare rumore, senza nemmeno salutare mia madre. Scesi le scale di corsa. Quando uscii in strada fui investito da un muro di calore mai sentito. Effettivamente in casa faceva più fresco. L’afa non l’aveva spuntata sul mio vecchio che le aveva impedito di entrare. Affannavo ma almeno ero libero. Cercai con lo sguardo la macchina di mio padre ma non la vidi. Cominciai a correre avanti e indietro. Non avevo tempo da perdere: magari s’era già svegliato o lo aveva svegliato mia madre, sudato nella sua canottiera bianca di cotone e pronto a darmi due legnate con gran gusto. D’altra parte i suoi occhi mi ricordavano sempre la stessa cosa: alla prima occasione me le avrebbe date tutte quante, con qualche sovrappiù che tanto non mi avrebbe fatto male. Continuai a fare avanti e indietro, attraversando la strada ma senza trovare la sua scalcinata Punto nera. Mi ero quasi arreso quando provai a girare l’angolo e me la trovai di fronte. «Fanculo!» – digrignai tra i denti. Infilai le chiavi nella portiera, aprii e saltai dentro. La macchina era una sauna: il calore aveva scaldato la plastica del cruscotto e del volante. Tutto bruciava. Misi in moto e partii senza mettere la cintura e tirare giù i finestrini per la troppa fretta. Sofia era sotto casa, rintanata all’ombra del suo portone. Quando vide la macchina di mio padre scendere verso Piazza d’Ovile ebbe un sobbalzo, quasi scappò dentro. Suonai il clacson, allungando una mano fuori dal finestrino così che potesse riconoscermi. Il suo splendido viso era indeciso se sorridere di felicità o schiantarsi dalla paura. - «Monta!» – dissi frenandole davanti. Non ci pensò su troppo a lungo: lanciò solo uno sguar13


do verso le finestre di casa sua, poi salì in macchina. Partii sgommando, lasciando sulla strada i segni della nostra voglia di stare insieme. - «Ma sei matto?» – sbraitò – «Lui che ha detto della macchina?». - «Niente, dormiva». Sofia infilò le mani tra i capelli: era bella anche quando si disperava. Guidavo concentrato, provando per un momento ad immaginare la faccia di mio padre che svegliandosi e frugando nella tasca della giacca non trova le chiavi della sua macchina. Di sicuro gli sarebbe preso un colpo per la paura d’averle dimenticate inserite nel quadro e si sarebbe messo a correre. Lo immaginai affannato giù per le scale, rampa dopo rampa, con la pancia a saltellargli in alto e in basso. Una volta arrivato nell’atrio, sarebbe uscito per strada, spossato ma spinto ancora dalla paura a non frenare la corsa. Si sarebbe scapicollato verso l’an-golo con Via Cavour e non trovando la sua vecchia utilitaria, si sarebbe fermato un momento per riprendere fiato, poggiando le mani sulle ginocchia. Avrebbe lasciato che l’ossigeno tornasse lentamente ad arieggiargli il cervello e si sarebbe concentrato per organizzare una soluzione. Dov’era la sua macchina? Chi gliela aveva rubata? Poi d’improvviso lo avrebbe percorso un’ipotesi balorda da fargli cambiare l’espressione del viso. Le sue sopracciglia lanose sarebbero scattate verso l’alto accompagnate da uno stridio di denti. Lui si sarebbe voltato e sarebbe corso di nuovo verso casa, annaspando e soffocando decine di bestemmie tra le labbra umide di bava. Sofia guardava la strada, sempre meno preoccupata man mano la campagna si slargava all’orizzonte, come se la natura la stesse accogliendo tra le sue amorevoli braccia. Io intanto continuai ad immaginarmi mio padre mentre risaliva le scale fino al portone di casa ancora aperto, mentre filando in corridoio ignorava la faccia stranita di mia madre che gli chiedeva: «Cosa succede?». Sarebbe arrivato davanti alla mia camera aprendo la porta con una manata, 14


e trovando il mio letto vuoto, avrebbe finalmente lasciato sfogare tutta la rabbia trattenuta fino a quel momento, e strappandosi la gola avrebbe urlato: «Brutto figlio di puttana!». *** Non siamo sempre stati in guerra io e mio padre, ma non siamo nemmeno mai stati in pace. La colpa di questa situazione è soprattutto di mia madre e del loro strano modo di stare insieme. Si sono sposati che ancora non conoscevano le tabelline, e si sono rovinati la vita ritrovandosi genitori troppo giovani. La vita li ha caricati d’un peso spropositato, e loro si sono sfaldati lentamente come un panetto di burro al sole. Mio padre ha fatto mille lavori ma nessuno sembrava andargli bene, forse lui non andava bene. Mia madre ha lavorato finché non è rimasta incinta, poi è diventata la classica casalinga che stira, cucina e sopporta. Eppure non è sempre stato questo completo disastro, ci sono stati tempi durante i quali potevamo descriverci felici. Da giovane mio padre era un ragazzo atletico, con i capelli ben sistemati sulla testa da chili e chili di brillantina, e un look sempre aggiornato nonostante i pochi spiccioli che guadagnava. Mia madre invece era molto chiusa e spinosa come un riccio, magrissima e con un paio d’occhiali spessi come fondi di bottiglie. Mio padre la corteggiò per mesi prima di riuscire a strapparle il primo bacio. Nemmeno un anno dopo, lei rimase incinta e si dovettero sposare di tutta fretta per rimediare alla stupidaggine che avevano fatto. Mio padre si cercò un lavoro con una paga decente e mia madre mi tirò su da classica donna di casa, sempre sporca di pappa, vomito e merda. I primi anni non ci andarono poi così male: ricordo anche lunghe passeggiate, regali a Natale, feste di compleanno, ma poi arrivò il buio del fondo della caverna. La prima volta che li vidi litigare pesantemente ero a let15


to con il morbillo e avevo paura a guardarmi allo specchio tant’ero orribile. Mi convinsi di essere il bambino più brutto del mondo. Mia madre era in cucina che si lamentava di qualcosa. Lui viceversa non le rispondeva. Poi sentii la sedia miagolare sul pavimento e rotolare per terra, subito dopo uno schianto secco come quello di uno schiaffo in piena faccia. Immaginai le mani di mio padre, grandi come guanti da portiere, sul faccino troppo piccolo di mia madre. Spostai le coperte e scesi dal letto. Il pavimento era freddo, io invece prendevo fuoco. Attraversai la stanza e mi affacciai sulla porta della camera. La casa era buia. In fondo al corridoio solo la luce accesa della cucina. Silenzio tutt’intorno. Mentre camminavo verso la luce, le piante dei piedi mi si appiccicavano alle piastrelle di grès porcellanato. Camminai lentamente, dosando ogni passo, cercando quanto possibile di non fare rumore, scivolando lungo la parete del corridoio per non inciampare o cadere. Infilai la testa in cucina e li trovai entrambi seduti per terra: mia madre si teneva il viso con entrambe le mani e stringeva le gambe contro i gomiti. Mio padre la teneva stretta con le sue grandi braccia da catena di montaggio, e con il mento piantato sulla spalla di lei. Il naso tuffato dentro i suoi capelli scompaginati e sporchi. «Luca!» – disse mia madre alzando gli occhi, trovandomi in piedi sulla porta. Si tirò subito su. La sua guancia era già gonfia. «Vai a letto!». Avvicinandosi vidi perfettamente le cinque dita grassocce di mio padre timbrate sulla sua guancia, con il medio che le arrivava fin sotto l’occhio sinistro. Mi spinse indietro e mi riportò a letto. Mi carezzò la fronte e uscì dalla stanza chiudendo la porta. Nessuno di noi parlò più di questa cosa. *** I capelli di Sofia spazzavano l’aria, e con il vento appena fresco che tirava a singhiozzi, era la cosa migliore di quel16


la giornata; fino a quel momento. Ci sistemammo per bene sotto la quercia. Tirai fuori la coperta e il lenzuolo che mia madre aveva lavato e stirato e aprendoli una sopra l’altro, poi ci buttammo sopra contenti. La tenni stretta e lei si lasciò incartare dentro le mie braccia. Ero felice. - «Luca?» – disse. - «Si?». - «Ti amo tantissimo». - «Anch’io». Chiuse gli occhi e sorrise contenta. Rimanemmo abbracciati per molto tempo, sdraiati sull’erba, all’ombra della quercia. Attorno c’era la pace, acri di terra coltivata, oliveti, un casolare diroccato e, a parte noi due, nessun altro essere umano. Sofia fece scivolare la mano sopra la cerniera dei miei pantaloni e mi carezzò più volte. Io le baciavo la fronte lasciandola fare. Cominciò a lavorare sulla cintola e sui bottoni con due sole dita. Il sangue defluì rapidamente fuori dal cervello. Spostò la testa dal petto alla pancia mentre io le spostavo quella valanga di capelli tutta da una parte. Infine sentii un calore intenso avvampare su dallo stomaco. La presi per la sua piccola testa e la carezzai finché non si tirò di nuovo su e iniziò a spogliarmi. Mi levò le scarpe, mi sfilò i pantaloni e le mutande. Mi aprì la camicia un bottone alla volta, e poi mi si buttò addosso facendo saettare la lingua dentro la mia bocca. L’afferrai per i fianchi e la spogliai molto più in fretta e con molta meno delicatezza di quanto avesse fatto lei con me. Le srotolai la maglia da dosso, le tolsi le scarpette di plastica e tela, e infine le sfilai i pantaloni come fossero la carta di un gelato. Sofia era bellissima: aveva un corpo magro, sodo, lucido. Ogni volta che potevo me l’ammiravo nuda. Aveva un seno importante anche se non eccessivo, ben delineato e con l’aureola d’un color viola intenso, quasi marrone. I fianchi stretti e la pancia piatta come una tavola. Le carezzai le gambe e la baciai sulle ginocchia e sulle cosce. Quando piantai la bocca sul suo sesso, inarcò indietro la 17


schiena facendo perno sulla testa. Lavorai per diversi minuti, poi tornai sul seno e sul collo con la mia bocca. Ci abbracciammo forte mentre dolcemente le entravo dentro. Lo facemmo fino a quando non sentii arrivare l’onda; mi buttai indietro, svuotato e soddisfatto. Sudavo, affannavo e per un momento ripensai ancora alla faccia che avrebbe fatto mio padre non trovando la macchina, alla sua bocca sudicia che mi dava alla gola, alle sue scarpe sfaldate che puzzavano di gomma e di piedi e alla sua rabbia. I pensieri mi cominciarono a girare in testa come le palline in un flipper, ma li scacciai tutti guardando Sofia che si era appisolata accanto a me. Le levai delicatamente qualche capello dalla faccia. Il mio cuore era in pace, inconsapevole di quello che sarebbe accaduto da lì a poche ore. *** Mancava una settimana al Natale del 1987 e giravo per casa cercando il mio regalo, convinto che fosse nascosto da qualche parte. Sognavo il Commodore 64 che avevano tutti i miei amici. Avevo già comprato qualche cassetta sicuro che avrei passato le feste chiuso in casa a smanettare con il joystick. Guardavo sotto i letti, dentro gli armadi, nei cassetti, ma niente. Il mio regalo non c’era e nemmeno ci sarebbe stato. Mio padre quella sera tornò nervoso e mia madre lo rimproverò di aver fatto tardi come tutte le ultime sere. I toni si alzarono e mio padre cominciò ad inveirle contro. Lei aveva una certa rabbia nel cuore e gliela sfogò tutta addosso. Si mandarono a quel paese e mio padre uscì di nuovo. Mia madre rimase in cucina a piangere, e io solo nella mia cameretta con gli occhi rivolti al soffitto e con una gran voglia di piangere. Quando tornò a casa saranno state le tre o le quattro di mattina. Era ubriaco. Entrò fischiettando, fece cadere qualcosa che si ruppe in mille pezzi sul pavimento, borbottando frasi sconclusionate e ciancicando le parole. Si 18


trascinò fino in salotto e si buttò pesantemente sul divano. Dopo pochi minuti si mise a tossire e a vomitare, poi ancora a tossire. Infine il silenzio. Il mattino dopo mi alzai prima di tutti. Scesi dal letto e andai a vedere se il mio vecchio era ancora vivo o se era affogato nel suo stesso vomito. L’odore nauseante m’investì la faccia già a metà corridoio, secco come uno schiaffo. Mi tappai il naso con due dita e continuai verso il soggiorno. Lui era lì, ancora vestito, con il naso a pochi centimetri dal lago che aveva rigettato dallo stomaco. Un rivolo di bava gli gocciolava dalla bocca. Aveva le labbra unte e i baffi appiccicati al grugno con qualcosa che sembrava gelatina. Mia madre m’arrivò alle spalle senza che me ne accorgessi tirandomi indietro. - «Vatti a preparare che ti porto a scuola» – disse seccamente. Non diede nemmeno una sbirciata dentro. - «Devo fare colazione» – le dissi. - «La facciamo al bar. Vatti a vestire». Mi spinse via e chiuse la porta. I suoi occhi erano fermi, la sua mascella contratta. Capii che per quella mattina sarebbe stato meglio darle retta. Uscimmo a piedi, entrammo nel bar dietro casa e presi un bombolone alla crema e del latte caldo. Mia madre sembrava stesse elaborando un piano: era distratta, assente. Mi portò a scuola e se ne andò senza nemmeno salutarmi. La immaginai tornare a casa, tuffarsi in quello schifo melmoso, ripulire, raccogliere, cercare di togliere il cattivo odore dal pavimento e dalle pareti impestate dal tanfo dello stomaco di mio padre. Infine tirarlo giù dal divano, litigare come sempre, scannarsi, quasi uccidersi. Ricordo che quella mattina alla scuola elementare di Via delle Fragole feci un bel disegno colorato di un orso con le braccia alzate verso l’alto, e una bocca piena di denti appuntiti che digrignavano sputando fuori rabbia e bava. Davanti a lui un cacciatore con un’uniforme grigia dai bordini gialli che lo impallinava con un fucile a canna lunga. La maestra mi fece una bella faccia soddisfatta e 19


scrisse un “Bravissimo” proprio sotto il mio disegno, con la sua famosa matita rossa. Mia madre mi aspettava fuori dal cancello della scuola, fumando nervosamente. I finestrini erano abbassati da entrambi i lati nonostante il freddo. Cercava di scaldarsi la faccia ad un tiepido sole di dicembre. Salii sulla nostra Panda color vinaccia e lei mise subito in moto, stringendo la sigaretta tra le labbra. - «Sei stato bravo a scuola?» – disse. Le feci di sì con la testa. - «Dove andiamo?» – domandai con un filo di voce, per non disturbare. - «Mangiamo dalla nonna». - «E papà?». - «Tuo padre ha da fare» – rispose cercando di essere definitiva. Non disse nient’altro. Inserì la prima, tolse il freno a mano e partì piano, con gli occhi spenti, quasi morti. Immaginai mio padre a sguazzare nella sua stessa merda, a giocare col suo vomito come se fosse cioccolata al latte. Per niente addolorato. Avevo ancora nel naso l’odore acre del suo vomito: mi si era intasato nella gola e ogni volta che respiravo lo sentivo arrivare come se l’avessi ancora sotto il naso. - «Amore mio!» – disse mia nonna. La baciai su una guancia e lei mi strinse come un sacco. Era piccolina, con i capelli sempre legati in una cipolla e gli occhi incavati dentro due fosse enormi. Il mento leggermente pronunciato e la voce che sfiatava sempre un poco, ma con quella piccola luce intorno che non si spegneva mai. Dopo avermi baciato tornò subito a pulire la tavola da pranzo, mentre una casseruola era già a rosolare in forno. Andai a sbirciare da dietro il vetro appena appannato: la storica teglia rossa bruciata sui bordi e consumata sul fondo, cuoceva per bene delle fantastiche lasagne. Sul marmo della cucina, c’era ancora il barattolo aperto del sugo fatto in casa, vuoto per metà. C’infilai dentro un dito e ciucciai. Quella prodigiosa alchimia di pasta, sugo di 20


carne, besciamella e prosciutto cotto, infornata a 200 gradi era quasi pronta. Mamma e nonna mi sistemarono davanti un piatto fumante mettendosi subito a confabulare fitto. Lei le parlava tra i denti mentre nonna rastrellava le briciole sulla tavola, raccogliendo i pensieri. Io m’insugavo per bene e tendevo le orecchie facendo finta che m’importasse solo delle lasagne. - «Non ce la faccio più!» – le confessava mia madre battendo i pugni sul tavolo. Sembrava determinata, ma dovettero passare altri tre anni prima che le cose cambiassero davvero, e fu comunque mio padre ad andarsene. Lei se lo sarebbe tenuto anche così com’era: ubriaco, assente, inutile, adultero. «Lascio Luca qui, io vado a casa per vedere cosa ha combinato quell’altro!». Mia nonna le annuì alzandosi da tavola senza dire niente. Aveva fatto sfogare la figlia senza azzardare una parola, tanto lei pensava la stessa cosa da anni: quell’uomo non le era mai piaciuto. Quel broncio perennemente stampato sul muso le aveva sempre dato i brividi, poi da quando aveva cominciato a perdere i capelli e a farsi crescere i baffi, lo trovava ancora più orripilante. Venne a carezzarmi la testa e si compiacque nel vedere che avevo già finito tutto. Mentre leccavo il piatto infilandoci dentro la testa, mia madre prese la sua borsa e uscì da casa. Niente sarebbe stato uguale al giorno prima. *** Sofia mi baciò sul collo appena uscita dal torpore di quel breve riposo. Mi fece venire i brividi lungo la schiena. Sapeva bene come farmi sorridere. La spinsi dolcemente indietro e le dissi ridendo di smetterla. Lei era tutto quello che volevo. - «A cosa pensi?» – disse. - «Niente in particolare». - «Stai bene?». 21


- «Benissimo». La guardai negli occhi e li trovai così uguali ai miei che il cuore si perse qualche colpo. Il suo viso era di una bellezza armonica a differenza del mio completamente sproporzionato. La strinsi tra le braccia e cercai di dimenticare chi fosse, da dove arrivassero quegli occhi e da dove arrivassero i miei. A volte mi sentivo rovistare dentro: sentivo che prima di cercare il perdono da mia madre o da chi non accettava questa nostra scelta, avrei dovuto perdonare me stesso per quello che stavo facendo. Sofia però sembrava non pensarci, o almeno non quanto ci pensavo io. Lei era candida come un fiocco di neve, immacolata, e io invece il mostro che aveva circuito una minorenne, che aveva dato scandalo, che aveva procurato ai genitori il più grande dolore della loro vita. Ma la mia era soltanto rabbia e amore, nient’altro. Desideravo solo di essere lasciato in pace, con Sofia accanto, come in quel momento sotto quella quercia. Presi le sigarette dalla tasca dei pantaloni e ne accesi una. Sofia mi chiese un tiro e glielo lasciai fare. Strizzò le labbra e prese un po’ di veleno. La adoravo anche quando faceva qualcosa di sbagliato. «Come si sta bene qui!» – sospirò, buttando fuori tutto il fumo. Presi un tiro e pensai a cosa sarebbe stato il giorno dopo. Fare l’amore con lei mi aveva scaricato, indebolito nello spirito, e il mio cervello ora andava a briglie sciolte. Sofia si alzò andando verso la macchina. Le guardai la linea della schiena che si tuffava dentro il suo piccolo sedere perfetto. Fece il giro attorno alla portiera aperta e accese la radio. Cercò una stazione ma la radio non dava segnale: continuava a frusciare o a starsene zitta. Guardavo Sofia da dietro al parabrezza, piegata in avanti con un ginocchio che affondava sul sedile e l’altra gamba allungata fuori dalla macchina. I capelli le cascavano in avanti, e il seno le penzolava morbido. Per la radio non ci fu niente da fare, eravamo troppo lontani e troppo isolati da tutto. Sofia allora cercò una delle cassette di mio padre, una a 22


caso. Quando partì la musica con un rullo di tamburi che saliva da lontano, si tirò fuori dalla macchina sinuosa come una biscia. La voce di Caterina Caselli ramazzò l’aria e si fece largo per tutta la campagna senese. Sofia sorrise contenta mentre cantava: «Insieme a te non ci sto più! ». Sorrisi guardandola stringere la mano in un pugnetto che usò come fosse un microfono. I peli neri del sesso furoreggiavano marcandole la pelle come un livido su un occhio. Il suo pancino stretto e piatto brillava di piccole gocce di sudore. Si riavviò i capelli cantando: «Cercavo in teeee e-e-e-ee, la tenerezza che non ho, la comprensione che non so, trovare in questo mondo… stupido!». “Finisce qua”, comincia così il verso successivo, esattamente quello che mio padre non riuscì a dire mai a mia madre, in nessun’occasione. Vigliacco! Tutto mi ritornò fuori in quel preciso momento: l’odio, il rancore, l’astio che avevo covato nei confronti dell’uomo che aveva rovinato la mia vita con una sconcertante insensibilità e costanza. Quella collezione di tormenti che io soprannominai: “il mio cancro” si risvegliò d’un tratto. “Chi se ne va che male fa? ” cantava Sofia sopra la voce più intonata della Caselli. Fa male, invece. - «Pensi che possa fare la cantante?» – mi chiese interrompendosi un momento e tornando a sedersi vicino a me. - «Certo» – le risposi – «Se trovi una pizzeria con il karaoke!». - «Che str…» – disse prima di saltarmi addosso provando a farmi il solletico. *** Mio padre era seduto disfatto sulla stessa poltrona dove aveva passato quella notte di castigo. Mia madre era tappata in cucina a far soffriggere qualcosa. Il pavimento del salotto era pulito anche se alcune mattonelle si erano inesorabilmente opacizzate: l’acido gastrico le aveva corrose spegnendole per sempre. Un po’ com’era successo con 23


loro due. La tv era accesa e mio padre guardava la Zanicchi e il suo “Ok il prezzo è giusto”. Si stringeva nelle braccia, illuminato solo dalla luce lattiginosa della tv e da una piccola lampada dietro la sua testa spulciata. - «Luca?» – mi chiamò mentre tentavo di scappare in cucina. Gli andai incontro senza voglia: il tanfo di vomito non se n’era ancora andato del tutto dalla stanza. - «Cosa hai fatto oggi?». - «Sono stato dalla nonna». - «Ti sei divertito?». - «Sì». Gli avrei volentieri sputato in faccia. I suoi occhi investigatori e vuoti mi fecero rigirare le budella. In testa avevo stampato la fotografia di lui demolito su quello stesso divano, come un vagabondo alla stazione centrale, e sotto di lui quella marea verde e gialla che s’era levato dallo stomaco. - «Bravo!» – disse carezzandomi – «Lavati le mani che si mangia!». La sua faccia tosta faceva spavento. M’infilai in camera e chiusi la porta. Avevo la nausea. Tappai una narice e soffiai fuori cercando di sfrattare quell’odore acido di cibaglia che non voleva andarsene; ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni. Mi sedetti sul tappeto e presi la mia scatola di Lego. Avevo lavorato tutta la settimana su un progetto interessante di “carro armato volante” che mi stava dando non poche soddisfazioni. Avrei dovuto soltanto mettere a punto gli ultimi dettagli e poi sarebbe stato pronto. Rovistavo in cerca di un mattoncino bianco a due elementi, quando sentii il rumore di un vetro in frantumi provenire dal corridoio. Rimbalzai sul sedere per lo spavento. Aprii la porta e sentii i miei genitori scannarsi come due cani per lo stesso osso. - «Sei un bastardo schifoso!» – gridava mia madre. - «Sono io che pago i conti in questa casa!» – le rispose mio padre. Fiancheggiai la parete del corridoio in direzione della cu24


cina. Buttai un occhio dentro e vidi che la padella con i miei Sofficini era volata dalla stufa fino alla portafinestra, rompendo il vetro e arrestandosi contro la ringhiera della terrazza. L’olio si era rovesciato un po’ dappertutto sfrigolando ancora sul pavimento, mentre i miei Sofficini al pomodoro e mozzarella con la crosticina annerita sui bordi, non avevano più niente per cui sorridere. - «Cosa pretendi? Che me ne stia a casa a raccogliere il tuo vomito?» – gli urlava in faccia mia madre. - «No, basterebbe che non rompessi più i coglioni!». - «Non sei buono a niente!» – berciò più forte. - «Sono buono a pagare i conti!» – ribadì mio padre. - «Non sei l’unico che lavora, Cristo!». - «No, ma sono l’unico che ha te come moglie!». Lei si zittì sgranando gli occhi. Quella frustata la sentii arrivare anche io. Mia madre non riuscì a rispondergli niente. Afferrò uno dei piatti che erano sulla tavola e glielo lanciò di taglio. Mio padre si scansò evitandolo di un niente. Il piatto si frantumò sul muro mentre si divorarono con gli occhi, poi mio padre venne dalla mia parte. Io ero in piedi davanti alla porta della cucina, con addosso un pigiama caldo e i miei sette anni, gli occhi imbevuti dalle lacrime e il mento ballerino. Non fece una sola mossa: svicolò di lato e uscì da casa sbattendo la porta. Quando tornò la sera tardi era di nuovo ubriaco. Questa volta non ruppe niente ma soprattutto non vomitò niente. Riuscì a trattenersi. Venne nella mia stanza e s’infilò giù per il letto. Puzzava come una distilleria. Io mi girai su un fianco cercando di muovermi il meno possibile. Si prese tutto lo spazio, tutte le coperte e fece quello che voleva. Ruttava, scoreggiava, mi respirava in faccia quel saporaccio di bocca impastata dal sonno, dall’alcool e da chissà che altro. Fu una notte terribile durante la quale continuai a macerarmi, chiedendo a me stesso perché stesse succedendo tutto questo? A quale scopo? In quel momento capii che non è vero quando si dice che ai propri genitori si vuole bene per sempre; io smisi di 25


volergliene quella notte, senza neanche un solo senso di colpa. *** - «Amore? Vieni qui!» – dissi a Sofia che aveva cambiato cassetta e adesso cantava una canzone di Gaber – «Come fai a conoscerle tutte?». - «Il mio papà» – disse sorridendomi, convinta che fosse una buona cosa. Me la strinsi addosso e sentii smuovermi dentro. - «Cantami una canzone» – pretese dolcissima. - «Sono stonato!» – l’avvertii. - «Che m’importa, mica devi cantare a Sanremo». - «Non mi viene in mente niente» – le risposi senza crederci. Sofia si tirò su mettendomi i gomiti sulla pancia. Sorrise maliziosa. - «Se canti qualcosa per me, poi io faccio una cosa per te». Allargai un sorriso scemo sulla mia faccia terribile. - «Non mi viene in mente niente, adesso». - «Io penso di sì» – disse. Mi grattai la testa e provai a pensare a qualcosa, ma con Gaber di sottofondo non riuscivo a radunare le idee. Cercai di fare uno sforzo. Potevo tirare su una strofa da una qualsiasi delle centinaia di canzoni che conoscevo, ma il sangue stava velocemente sgombrando dal cervello, e non mi veniva in mente niente di niente. Gaber smise di cantare e la cassetta saltò fuori dallo stereo con un colpo secco. Sofia aspettava ancora e avrebbe aspettato chissà per quanto. - «Allora, vediamo» – dissi tossendomi nel pugno e raschiando la voce. L’unica che riuscii a pensare fu una canzone di uno dei miei cantanti preferiti, Luigi Tenco. Quando cominciai a canticchiarla, capii perché avevo scelto proprio quella: - «Mi sono innamorato di te, perché… non avevo niente da fare» 26


– intonai imbarazzato con una vocina lieve e senza nemmeno guadarla negli occhi. Mi vergognavo come un ladro. Sofia annuiva contenta non capendo che inconsciamente le stavo cantando una verità. Mi sentii un po’ male per questo, come quando mio padre mi alzò le mani per la prima volta. *** Ho ancora negli occhi e nelle orecchie quello schiaffo potente che mi fece girare come una trottola e mi scaraventò per terra. La guancia mi bruciava come se l’avessi poggiata sul ferro da stiro. Mi formicolava fin sotto l’occhio e a metà orecchio. Il labbro superiore perse una goccia di sangue e sentivo i denti spinti in dentro. Sono sicuro di aver pianto finché non restai completamente disidratato. La mia colpa era stata quella di essere un disordinatissimo bambino di quasi otto anni. Le mie Lego erano sparse in giro un po’ per tutta la stanza, ma il mio era un caos organizzato: ogni mattoncino aveva la sua posizione cosmica all’interno della stanza e tutto doveva essere inserito in un rigorosissimo disordine. Mio padre non lo sapeva e non era così d’accordo. In realtà non gliene fregava assolutamente niente: né che la mia stanza fosse in ordine, né che stesse bruciando con me dentro. Voleva solo rompere il cazzo. Non mi diede nemmeno il tempo di dire qualcosa: aprì la porta e visto il disordine mi piazzò una manata sgraziata sulla mia faccia stupita. - «Quante volte ti ho detto di mettere a posto?» – si spolmonò. “Mai” avrei dovuto rispondergli se solo non avessi avuto una pentola a pressione che mi bolliva sulla guancia. Se ne andò subito. Prese la porta e uscì di casa. Mia madre sentendomi urlare e piangere lo rincorse fin sul pianerottolo e si sgolò giù per la tromba delle scale: - «Sei un bastardo!» – urlò esasperata. Quando venne in camera ad abbracciarmi, ancora schiumava dalla bocca 27


come un cane rabbioso. Di quel periodo non ho un solo ricordo di lui sorridente o sereno. S’aggirava per casa inasprito dalla situazione. Lui e mia madre parlavano pochissimo: quattro parole al giorno solo per organizzare la giornata: prendi te Luca da scuola? Prendi tu il pane? Mi dai i soldi per fare la spesa? Quando mio padre era a lavoro mia madre sembrava impegnata a pensare come rendergli la vita impossibile. Quando erano insieme viceversa, mio padre sembrava interessato solo a farla incazzare: le cambiava canale appena entrato in casa, le spostava tutte le cose, metteva confusione dove lei aveva appena messo in ordine. Piccole indelicatezze fatte di proposito che le facevano perdere la pazienza, anche se lei non aspettava altro per rovesciargli addosso il suo disprezzo. Eppure lo amava, nonostante tutto. Ci crediate o no lei lo amava. Sono convinto che una parte di lei vedeva in quell’uomo in disfacimento, il ragazzo che l’aveva presa con sé quando tutti invece la reputavano soltanto una ragazzina secca dai capelli stopposi e gli occhialoni pesanti poggiati sul naso. Lui l’aveva fatta sentire speciale e bellissima, e da questo lei non riusciva a affrancarsi, nonostante adesso non avesse più di fronte quel giovane con i capelli ben apparecchiati, ma un uomo di mezza età che prendeva un chilo al giorno, che aveva ingiallito gradualmente tutti i denti, e che aveva scoperto un’area di servizio proprio in mezzo alla testa. Eppure, Dio santo, lo amava. *** Era davvero una giornata fantastica: il sole era alto e caldo, l’aria non troppo pesante, spazzata di quando in quando da un venticello tiepido. Quel casolare lontano e abbandonato aveva su di me un richiamo caratteristico. Gli dedicai cinque minuti, immaginando che potesse essere mio. Ci avrei abitato con Sofia ovviamente, e con i nostri quattro figli e persino un paio di cani. Anche se lei 28


non aveva per niente i fianchi da madre e preferisse i gatti. Era così smilza, con un vitino talmente stretto che potevo stringerglielo tra le mani riuscendo quasi a toccarmi la punta delle dita. Le carezzai i lunghi capelli e lasciai scivolare le mani sulla sua schiena nuda e appiccicosa, mentre la sua lingua stendeva uno strato di saliva. Le carezzai le clavicole che le sporgevano dalla pelle come due maniglie. Chiusi gli occhi e lasciai andare le braccia lungo i fianchi. Sofia si tirò su con la testa e mi afferrò per il collo. Sedette sopra i miei fianchi divertita come se stesse girando su una giostra. *** C’era qualcosa che non andava nei miei genitori, oramai avevo sviluppato una certa sensibilità per queste cose, nonostante la mia giovane età. Mia madre si contorceva le budella per la rabbia, e le trovavo negli occhi qualcosa che se ne stava lì a bollire. Mio padre diceva di fare dei turni allucinanti in fabbrica: usciva di mattina presto e tornava alla sera tardi. Poi si buttava sul divano con addosso una sola coperta pesante e dormiva come un sasso. Niente cuscino. Si coricava sempre vestito stando tutto rannicchiato a morire dal freddo con il culo sempre scoperto. La sua faccia somigliava a qualcosa di tremendo alla quale avrei volentieri sparato. La domenica si svegliava di buon’ora e si buttava sotto la doccia. Si rasava la barba e si pettinava fino a quando tornava come nuovo. Si annaffiava completamente di quella colonia da due soldi che gli avevano regalato per Natale. La stillava goccia per goccia dalla boccetta quasi vuota, poi si schiaffeggiava sulle guance e sul collo. Lo prendeva subito un vivace rossore. Quell’odoraccio dozzinale mi dava alla gola, eppure lui sembrava avere un’aria tutta soddisfatta. Metteva una camicia pulita e usciva. Tornava, mangiava, digeriva, cagava e usciva di nuovo. Sembrava fare una gran fatica a rientra29


re a casa perché la sua faccia si appannava sempre un poco. Oltre a questo, il suo odore sembrava si fosse miscelato ad un aroma più dolce e meno ordinario. Mi domandavo sempre dove lo prendesse. Mia madre invece evitava di stare nella sua stessa stanza: sopportava, sapeva e non diceva niente. Mio padre mangiava sempre da solo, dormiva da solo e guardava la tv ancora da solo. Usciva contento, tornava abbacchiato. Qualcosa di migliore lo teneva fuori casa, qualcosa lo chiamava. Non si dissero niente per un anno anche se era evidente come un naso sulla faccia quello che stava succedendo. Questo loro tacito accomodamento era la sola cosa sulla quale erano riusciti a non farsi a pezzi. Io rimanevo da parte, tentando di orientarmi dentro quella metastasi maligna che gonfiava, che ingrassava e che avrebbe trangugiato tutto, me compreso. *** Giuliana era una bella donna, con i capelli appena ricci e appena biondi. Con un buon profumo di frutta e due occhi stretti in una fessura rilucente. Era una brava donna: gentile e amorevole, nonostante tutto. Per mia madre viceversa che la soprannominava “puttana”, la “vacca” e persino la “schifosa”, era solo la donna che le stava portando via il marito. Mio padre non provava nemmeno a difendere la sua amante, bastardo fino in fondo. Ascoltava e basta. - «Vai da quella puttana?» – si sgolava mia madre mentre lui non le rispondeva niente. Continuava a lavarsi la faccia, ad abbottonarsi la camicia senza guardarla mai in faccia, nemmeno una volta. Indifferente. Lei lo amava ancora, in qualche strano modo lo amava ancora. Cercava di tenerselo, di lottare per lui e allo stesso tempo lo odiava per quello che le stava facendo. Mio padre aveva smesso anche di sentirsi responsabile per lei e per me. Aveva trovato una donna amorevole che lo trattava come voleva, 30


che gli aveva riattizzato un fuoco che gli sembrava oramai estinto. Lui era caduto dentro quel brodo caldo e lì dentro sarebbe voluto rimanere. «Non andare» – lo supplicò un giorno con un tono di voce insolitamente zuccheroso. Mi affacciai fuori dalla camera e la vidi entrare nella loro accostando la porta. Andai a vedere curioso. Aprii appena la porta con due dita e sbirciai dentro. Mio padre era in piedi di fronte al grande specchio, con un’anta dell’armadio ancora aperta. Mia madre stava seduta sul letto. «Cosa c’è?» – gli chiedeva – «Non ti piaccio più? Non mi ami più?». - «Smettila» – le rispose gelido. - «Guarda che io so scopare meglio di lei. Vuoi vedere?». Dalla bocca di mia madre usciva di tutto: era disperata al punto che si sarebbe tirata sotto un treno pur di tenerselo a casa. Mio padre infilava la camicia dentro i pantaloni e faceva finta di non ascoltare. Allora mia madre lo prese per le tasche e lo fece girare dalla sua parte. Gli fece scendere i calzoni a metà coscia, gli tirò giù le mutande e glielo prese tra le mani tirandoselo verso le labbra. - «Smettila» – sbottò lui infastidito. Mia madre glielo prese in bocca ancora moscio, cercando di succhiargli fuori un po’ d’amore. Lui però tentava di allontanarla spingendole indietro la fronte. Lei resisteva e si faceva sotto come un sub a corto d’ossigeno che cerca con tutte le forze di raggiungere il respiratore. - «Scopami!» – gli diceva menandoglielo – «So fare la puttana anch’io se voglio!». - «Ora basta» – sbottò mio padre dandole uno strattone secco e rimettendoselo nelle mutande. Si abbottonò i calzoni e chiuse la cintola. Sistemò il colletto della camicia inamidata e venne verso la porta. Sgattaiolai via appena in tempo per non essere visto. Prese le chiavi dal mobile all’ingresso e uscì da casa dando un colpo secco alla porta. Mia madre cominciò a piangere e non smise prima di un’ora. Provai un qualcosa di diverso dalla tristezza. La settimana successiva avrei compiuto otto anni, e quello 31


sarebbe stato in assoluto il giorno più triste della mia vita fino a quel momento. Per mio padre era un normalissimo mercoledì, per mia madre il giorno che mio padre le preferì un’altra donna. Giuliana appunto: la “puttana”, la “fetida”, “l’usurpatrice”. Mi aspettavo qualcosa di buono almeno per il giorno del mio compleanno: otto anni sono una tappa importante per la vita di qualsiasi bambino. Lui entrò e filò direttamente in bagno per farsi un bidè e lavare via l’odore della sua amante. Andò in camera e preparò un borsone con parte della sua roba: qualche pantalone, qualche camicia, tutta la biancheria pulita. Fece tutto di gran fretta. Mia madre mi chiese di raggiungerla in cucina e mi sistemò davanti una bella crostata di fragole, la mia preferita. Otto candeline e una bottiglia di Coca-Cola tutta per me. - «Vado a chiamare il babbo!» – disse senza subodorare niente. Non tornò più indietro. Lui uscì di casa quasi correndo: per la fretta o per la vergogna credo. Mia madre si chiuse a chiave in camera da letto e non uscì fino al mattino dopo. Mangiai da solo metà della torta e vuotai tutta la Coca-Cola. Non spensi nessuna candelina e non potei esprimere il mio desiderio. Tanto non ne avevo nessuno decente. Il tentativo di mio padre di rimediare per essersi dimenticato del mio compleanno, fu squallido e deprimente anche per un uomo che aveva toccato il fondo del pozzo, e non contento si era messo a scavare. Mi piazzò in macchina di nascosto a mia madre e mi portò a conoscere l’altra sua donna, Giuliana. Lei era alta, molto più alta di mia madre e sorrideva sempre; un’altra cosa che mia madre non faceva più. Era ben truccata, ben vestita, con un anello al dito grande come un popcorn. - «Ciao Luca» – disse con in bocca un vero teatro di denti – «Io sono Giuliana». Ci stringemmo la mano. La mia era molle, la sua decisa, 32


anche troppo. Passeggiammo per il centro storico di Siena, e dovetti ascoltare mio padre raccontare a Giuliana che mia madre era impazzita, e si stava rendendo ridicola. Come se lui invece stesse combinando qualcosa di meglio. Mi comprarono un gelato: stracciatella e cioccolato. Un pacchetto di patatine al formaggio e un’aranciata fredda. Giuliana di tanto in tanto mi carezzava la testa, tenera. Io la osservavo ma non mi diceva proprio niente. Mi sorrideva, bellissima, e spesso mi lisciava le guance con le sue mani profumate alla crema di mandorla, ma sempre fredde come un morto. Era gentile, senza sapere che molti anni dopo le avrei fatto tanto male, colpendola sulla cosa più importante che possedeva a questo mondo. Era dolce, ma solo perché ancora non conosceva il nostro destino comune. Mio padre mi comprò una nuova scatola di Lego e mi riportò a casa. Mia madre ci stava aspettando sul pianerottolo di casa. - «Dove sei andato con mio figlio?» – inveì. - «Da quando è solo tuo figlio?» – gli rispose lui sarcastico. - «Da quando scopi con un’altra». - «Ora non cominciare!» – disse rimanendo stranamente calmo – «Entriamo un attimo in casa». - «No, tu non entri in questa casa e non c’entrerai mai più!» – disse mia madre rognosa, digrignando i denti e con gli occhi infuocati dall’astio. Mio padre non disse niente, mi guardò un momento poi scese le scale, senza voltarsi nemmeno una volta. Io me ne andai di corsa in camera con un groppo in gola: avrei tanto voluto urlare, disperarmi, tirare calci contro qualcosa. Aprii il mio regalo, l’ultimo che ricevetti da mio padre in vita mia. Perfezionai il mio “carro armato volante” piazzandoci sopra qualche missile e un alettone bello grande per facilitarne la stabilità in volo. Un altro paio di ruote che, con quelle che già aveva, facevano otto in totale. Avrei tanto voluto averne uno vero, tutto mio, allora si che le persone ci a33


vrebbero pensato due volte prima di spezzarmi il cuore. *** Sofia mi stava seduta sopra spingendomi i seni contro la faccia. Ridendo come pazzi, ci stendemmo uno accanto all’altro e lei mi prese per una guancia per darmi un bacio. Le sue mani sapevano ancora del mio sperma. - «Quanto ti amo?» – disse. Alzai le spalle e le ficcai la lingua in bocca. La sua sapeva di sesso, la mia invece del suo sudore salato che era un po’ anche il mio. Sotto al sedere e al lenzuolo, potevo contare uno per uno i fili d’erba: un soffice cuscino che mi cullava appena. Sofia mi si era stesa accanto, nuda, magnifica, lucida di sudore, rossa, con la pelle baciata dal sole. Teneva gli occhi chiusi e respirava piano. Era una donna meravigliosa nonostante i suoi sedici anni. - «Hai fame?» – le dissi. - «No». La sua fronte gocciolava leggermente, i suoi capezzoli fiorivano appena. Si avvicinò per darmi un altro bacio, sfiorandomi con la lingua. Ci abbracciammo appiccicandoci pancia contro pancia, petto contro petto, guancia contro guancia. Erano quasi le quattro del pomeriggio e non si sentiva nient’altro che il canto battente dei grilli, e il vento che talvolta ramazzava le fronde degli alberi. Mi alzai e andai alla macchina. Presi una bottiglia d’acqua e le sigarette. Allungai la bottiglia a Sofia che ne succhiò subito mezza. Io accesi la sigaretta e presi un lungo tiro. Me ne stavo in piedi sotto quell’albero, con il sesso che si stava lentamente spegnendo. Umido del sesso di Sofia e appena vischioso. Arrivò una sferzata di vento che mi spannò la schiena madida di sudore regalandomi un leggero sollievo. Sofia mi restituì la bottiglia d’acqua e chiese un tiro di sigaretta. M’attaccai all’acqua e annaffiai la bocca, la faccia, il collo e il petto. Lei si tirò giù girando un braccio dietro 34


alla testa. Era bella come una cartolina di Parigi sotto la neve. Mi andai a stendere accanto a lei togliendole la sigaretta dalle dita. Fumai piantando i gomiti nel lenzuolo. Mi sentivo le gambe pesanti e la testa leggera, come tutte le volte che avevo appena finito di fare l’amore con la mia Sofia; tutte tranne l’ultima a casa mia, nella mia camera, il mese precedente. *** Mia madre si era trovata un lavoro, e io ero appena tornato a casa con un’aria rilassata e felice. Non ero a lavoro perché avevo un braccio rotto: una barra di ferro mi ci era finita addosso cinque minuti prima della fine del turno. Erano gli inizi di giugno e Sofia venne da me col suo motorino parcheggiando sotto le mie finestre. Andai alla porta, feci scattare il portone e l’aspettai sul pianerottolo. Quando fece capolino dalla tromba delle scale, le fischiai. Lei alzò gli occhi e mi aprì un sorriso che mi torchiò il cuore. Salì gli ultimi gradini puntando velocemente i piedini sul marmo e facendo stridere la gomma delle scarpe da ginnastica. Mi saltò al collo e mi baciò con voracità. Le presi lo zaino dalle spalle e la feci entrare in casa. - «Sicuro che tua madre non torna?» – disse. - «Sì, sì tranquilla». Andammo spediti in camera da letto, ci sdraiammo e cominciammo subito a baciarci. Non perdevamo mai tempo, noi due. Io la volevo intensamente, nonostante tutto, nonostante sapessi perfettamente che era l’errore più grande che potessi fare tra tutti i grandi errori. Eppure il mio era amore: autentico, vorace, intenso, e Sofia la donna fatta apposta per me. Il resto non era importante. Quando la strinsi con vigoria, Sofia fece un mugolio mordendomi il labbro che mi stava succhiando. La spogliai subito dei calzoni e delle mutandine. Facemmo l’amore allacciandoci per le mani, prendendoci per le cosce, graffiandoci le schiene, mordendoci, ma35


sticandoci e mischiando gli odori. Saliva con saliva, fiato dentro fiato. Un’ora dopo il traffico si affrettava per strada con il suo solito casino, mentre io e Sofia ci davamo pace un momento. Avevo perso un rigagnolo di sangue dal labbro inferiore che Sofia mi aveva morso ferocemente. Le dissi di non preoccuparsi, che bruciava solo un poco ma chiazzai di rosso il copriletto pulito. Non lo so: forse furono le nostre stupide risate sguaiate ad impedirci di sentire le chiavi che infilavano nella toppa, a coprire il cigolio del portone che si apriva. Sono anche convinto che quella volta il grassone entrando fece la sua solita sarabanda, eppure non lo sentimmo arrivare. Io e Sofia avemmo solo il tempo di sorprenderci quando si spalancò la porta e i suoi occhi sbalorditi presero fuoco all’istante. Lasciò cadere per terra la busta con i soldi che doveva a mia madre, venne dritto dalla mia parte senza badare a Sofia che usciva da sotto le coperte completamente nuda, con i seni che ballavano appena. Feci solo in tempo a mettermi in piedi, poi lui mi afferrò per il collo spingendomi contro il muro. Cominciò a sganciarmi cazzotti a ripetizione sulla testa. Sofia gli urlava di smetterla e piangeva, io mi coprivo la faccia con il gesso. Tentai di allontanarlo con un piede stando sempre molto attento a non prendere un cazzotto sul naso o dritto in bocca. Lui intanto schiumava rabbia. - «Brutto bastardo!» – si spolmonava – «Io ti ammazzo!». Da dietro quei destri e quei sinistri, riuscii a vedere Sofia che indossava velocemente le mutandine e la maglietta. Poi venne ad arrischiare una difesa nei miei confronti, cercando di trattenere le braccia di mio padre che, come un pugile arrivato fortunosamente all’ultima ripresa, dà tutto quello che gli è rimasto per vincere l’incontro. Mi colpì forte sul gesso un paio di volte provocandomi una leggera scossa elettrica lungo il braccio, fin oltre la spalla. Appena si fermò per prendere fiato, spompato e col fiatone, Sofia si sgolò fino a strapparsi la voce cercando inu36


tilmente di sedarlo. Niente da fare. Si rivoltò contro di lei afferrandola per i polsi e spingendola indietro. - «Tu stai lontana! Non sono cazzi tuoi!». Lasciai cadere le braccia indolenzite dalle cannonate, tentando di strappargliela dalle mani. Quando gli arrivai vicino, lui si voltò improvvisamente con un guizzo agile, inaspettato e mi centrò in piena faccia con un pugno duro come un secchio di mattoni. Pesante, in piena mascella. Sentii uno “stock” di ossa. Precipitai a terra come un corpo morto, rimbalzando con la testa, un paio di volte sulle mattonelle sentendomi il cervello palleggiare nel cranio. Dalla bocca mi traboccò un tazzina di sangue appiccicoso e denso che macchiò il pavimento. Ricordo soltanto gli scarponi antinfortunistica di mio padre e i piedini nudi di Sofia che uscivano in corridoio. Le loro voci ovattate si dissero qualcosa d’incomprensibile. La testa mi sembrò pesare tre volte di più. Alla fine mi parve di sentire il tonfo del portone che si chiudeva, e un fischio lancinante nelle orecchie che accelerava fino a spegnersi nel momento in cui persi i sensi. *** - «Come?» – dissi soprappensiero. - «Ti ho chiesto a cosa stai pensando?» – disse Sofia. - «A niente. Hai fame?». - «Sì, adesso sì». Cercai di sorriderle nonostante lo sfarfallio dello stomaco. Andai verso la macchina: nudo, con le natiche abbrustolite dal sole. Sembrava di stare nella beatitudine eterna, se non fosse stato per i panini alla mortadella e la bottiglia di birra brodosa che tirai fuori dalla busta di plastica. Stappai la bottiglia facendo leva con l’accendino e la buttai giù così com’era, calda da vomitare. Diedi uno dei panini a Sofia che lo addentò famelica. Qualche briciola le rimase sull’angolo della bocca, qualche altra le rimase intrappolato tra i peli pubici. Mi sedetti davanti a lei to37


gliendogliele con due dita per poi lanciarle in bocca. Il pane non era mai stato così buono. - «Tu non lo vuoi?». - «Come no!» – dissi prendendo un panino dalla busta. Lo scartai e diedi un bel morso. Finii il panino con quattro grandi morsi, poi mi riattaccai alla birra sempre calda come una zuppa. - «Che schifo!» – dissi, poi presi ancora un altro sorso. Sofia sorrise carezzandomi una coscia. Finì il suo panino e si stese lunga sul lenzuolo. - «Vuoi qualcos’altro?» – le domandai. Rispose di sì con la testa e allungò le braccia cercandomi un abbraccio. Mi tuffai sopra di lei. Ci pigiammo l’uno sull’altra. Sofia si addormentò quasi subito, io al contrario ero troppo nervoso per riposare. Mi continuava a tornare in mente mio padre su tutte le furie, che bestemmiava contro Dio e tutti i santi. Lo immaginai fare avanti e indietro per Siena, provando a telefonarmi, con le ascelle segnate, i capelli unti e appiccicati sulla fronte, la bocca schiumante di rabbia e i denti fatti stridere gli uni sugli altri.

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