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Valtellina e Grigioni Bregaglia

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CANTINA

CANTINA

Palazzo Castelmur e il suo popolo di pasticceri

Ci sono luoghi che ti stupiscono per i contrasti. Custodiscono una loro poetica degli spazi che inaspettatamente riesce a coniugare l’inanimato con la storia dell’uomo. La Val Bregaglia è uno di questi. Un confine di Stato separa i 10 chilometri della parte italiana dai 30 di quella svizzera. All’intera vallata la storia ha da sempre affidato il compito di congiungere nord e sud della catena alpina. Il lago di Como dista meno di un’ora d’auto dall’aristocratica Chiavenna e, subito dopo, verso nord-est, la valle inizia a disporre le carte dei suoi contrasti. Guglie di granito, affilate e taglienti, conoidi di dolci declivi e una chioma di castagneti che scende a lambire un fiume, la Maira. Sostantivo maschile, battezzato al femminile, la Mera, anche quando diventa italiano, tanto per rimanere in tema di contrasti. Una dialettica che mette insieme verticalità e dolci pendenze, durezza e morbidezza, ma soprattutto luci e ombre che si contendono la valle nello srotolare del gomitolo delle stagioni. Proprio questo dialogo, questi contrasti, questo interrogarsi tra inanimato e animato, hanno rese feconde le menti di artisti e scrittori che in questi luoghi hanno intinto la loro ispirazione, transitandovi, fermandosi, lasciandoli, per poi ritornarvi con gli occhi gravidi di altri luoghi, di altre esperienze. Uno fra tutti il grande Alberto Giacometti, nato in Bregaglia e vissuto a Parigi, nume tutelare di questo luogo di confine e di arte. Altri da questi luoghi sono partiti per farvi ritorno con le menti e le mani formate da altri mestieri che non erano quelli della povertà contadina, unica eredità che queste montagne potevano consegnare in dote. Nella parte elvetica della vallata vi è un palazzo che custodisce tante di queste storie di contrasti, di andate e ritorni, di emigrazione. Porta il nome di un’agiata e nobile famiglia bregagliotta, i Castelmur. Per raggiungerlo basta superare di qualche chilometro il confine di Castasegna. Lasciarsi accompagnare dalla strada che si avvolge tra i castagneti, mentre lo sguardo, innalzandosi, inizia a sentire la soggezione verticale del granito. Lambire poi il piccolo nucleo di Bondo con la sua deviazione che porta alla meravigliosa terrazza di Soglio e arrivare a Promontogno. Il suo naturale sperone di roccia lo si può aggirare seguendo la vecchia strada della valle, mentre la strada cantonale si inchina al territorio e un tunnel supera il promontorio, confermandoci che la toponomastica è il vero vocabolario dei luoghi. Di fatto questo passaggio nasconde alla vista, salendo al di sotto della montagna, un luogo iconico della valle, dei suoi contrasti e della sua storia. Superata la galleria, conviene fermarsi e volgere indietro lo sguardo. Una piccola strada lastricata risale lo sperone che per secoli ha fatto da dogana naturale e da linea di difesa, dividendo la valle tra Sottoporta e Sopraporta. In cima vi è una chiesa dedicata a Santa Maria, ma che la storia ha battezzato come “Nossa Dona”. Poco sopra, ma quasi unita alla vista, un’imponente torre fa da ultimo testimone della medievale residenza dei Castelmur e delle loro fortificazioni difensive. I contrasti ci accompagnano. La strada prosegue lambendo sulla destra il bosco e sulla sinistra i prati che scendono verso l’alveo del fiume. Un altro varco la attende. Si transita sotto due rocce. Quella che è aggrappata al versante della montagna sembra baciare l’altra, prima di lasciarla andare al suo destino di gravità. La meraviglia è che quel distacco non è ancora avvenuto e quel bacio se ne sta lì sospeso. La natura se lo trattiene ed a nessuno è mai venuto in mente di contraddirla. Poco oltre questo geologico esempio di affetto, ad un passo da Stampa, paese natale dell’artistica famiglia dei Giacometti, un piccolo ponte in granito supera il fiume, introducendoci in un’ouverture alberata che ci fa scorgere il profilo turrito del Palazzo di Castelmur. Per accedervi si aggira il perimetro del giardino e, giunti in una minuscola piazzetta del piccolo abitato di Coltura, con le sue case abbracciate le une alle altre, ci attende la soglia del palazzo. L’ingresso è nella sua parte settecentesca ed ora la nobile dimora è sede dell’Archivio storico della Bregaglia. Ma ciò che più conta è che le sue mura sono di fatto una pagina dell’emigrazione che nei secoli è stata necessità e risorsa di tutte queste vallate Retiche. Per coerenza con il genius loci della valle, il palazzo è esso stesso un contrasto, unendo una no -

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In queste pagine, Palazzo Castelmur e immagini della Bregaglia; nella pagina successiva fotografie storiche tratte dalla mostra “Quasi un popolo di pasticceri?”

In these pages, Palazzo Castelmur and images of the Bregaglia; on the next page historical photographs taken from the exhibition “Almost a people of confectioners?” bile casa settecentesca con un’ottocentesca struttura turrita. Questo contrasto di stili lo volle Jean (Giovanni) di Castelmur (1800-1871), che ne divenne proprietario nel 1848. L’aristocratico bregagliotto, erede dello storico casato e di altrettanti guerreggianti antenati, come tanti altri suoi conterranei era emigrato in Francia ed a Marsiglia possedeva una rinomata pasticceria. “Era persona ricca. Aveva fatto soldi e fortuna e fu anche azionista della ferrovia di Algeria” mi dice Gian Andrea Walter, che con sua moglie Ivana è curatore di Palazzo Castelmur ed anche dell’Archivio storico della Bregaglia. Sta di fatto che l’agiato proprietario, un po’ per la sua capacità imprenditoriale, un po’ per le buone amicizie e relazioni intrattenute in terra di Francia e forse anche per la bontà delle preparazioni della sua pasticceria, ottenne da Napoleone III il titolo di barone. Ricevuto il desiderato quarto di nobiltà, da buon figlio della dolce arte, mise insieme gli ingredienti. Miscelò rango, relazioni, insieme ai denari lievitati negli anni di lavoro dolciario e non solo, e se ne tornò in Bregaglia. Acquistò la settecentesca dimora di Giovanni Redolfi (1658-1742), Zuane pronunciato alla veneziana. Anche lui figlio della stirpe di emigranti che da qui se ne andarono a Venezia a cercar lavoro. Non a caso la facciata del suo palazzo la volle con un disegno di mattoni a contrasto che richiamasse quella del Palazzo Ducale della Serenissima Repubblica. Ma la volontà del nobile nuovo proprietario era quella di mostrare al mondo la sua fortuna. Detto fatto fece letteralmente tagliare in due la storica dimora, proprio come si taglia una torta, e ve ne fece attaccare una nuova. In barba agli ottocenteschi stili architettonici, la volle con tanto di due torri e muro merlato, proprio come un castello medievale. Gli interni, come ben voleva Jean de Castelmur, vantano potenza e nobiltà. Sale e saloni, volte rococò dall’illusione dipinta, vetri colorati, tappezzerie damascate, trofei e armature ovunque. Proprio dove gli abili ingegneri avevano affondato il coltello per tagliare in due l‘aristocratica masone, il barone volle una doppia scala, nobile approccio ai piani superiori. Con in dote tutti questi trascorsi, il secondo piano del palazzo ospita una mostra permanente sull’emigrazione che, dalla Bregaglia, dall’Engadina, dalla Valposchiavo e dalle altre vallate grigionesi, portò la gente di queste montagne a cercare fortuna all’estero. In cima allo scalone un grande schermo touch screen gestisce saggiamente il contrasto con l’ottocentesca tappezzeria. In alto vi si legge una domanda: Quasi un popolo di pasticceri? É lo stesso interrogativo che fa da titolo all’intera mostra. Sullo schermo illuminato compare una grande carta dell’Europa, del nord Africa e di buona parte del mondo conosciuto. Basta appoggiare il dito su una qualunque nazione e vi comparirà un reticolo di luoghi, città e borghi, più o meno famosi. In ognuno di loro, questo popolo di emigranti pasticceri, ma non solo, vi aprirono bar, pasticcerie, negozi, distillerie e ogni altro commercio che potesse addolcire o inebriare la vita delle nazioni che li avevano accolti. Quel punto di domanda nel titolo della mostra non sta lì a caso. Dire che questi emigranti fossero tutti pasticceri è infatti riduttivo. La maggior parte di loro lo diventarono, ma in realtà i mestieri che andarono a imparare, i commerci che intrapresero e le aziende che fondarono erano varie, pur se collegate al “gusto”, come si direbbe oggi. Furono zuccherieri, confettieri, gelatai, caffettieri, cioccolatai, birrai, mesci - tori di vini e produttori di liquori e grappe. Gli ingredienti di questa emigrazione stanno nella credenza della storia. Tutte queste vallate, che ora definiscono il Cantone dei Grigioni, furono nei secoli un piccolo Stato indipendente, chiamato Repubblica delle Tre Leghe. I suoi domini si estendevano anche a sud, comprendendo Chiavenna e tutta la Valtellina fino a Bormio, confinando quindi con i territori della Repubblica Veneta. I veneziani per i loro commerci avevano interesse a valicare i passi alpini del Septimer e dello Julier per raggiungere i mercati del nord e così stipularono nel 1512 un trattato con la piccola Repubblica che permettesse loro libero transito. In cambio concessero alle popolazioni delle Tre Leghe libero accesso alle città della Serenissima, Venezia in primis. Tra calli e canali, questi emigranti fecero i garzoni, impararono l’arte dell’uso delle spezie, fecero i panettieri e dell’arte bianca ne diventarono “maestri”. A Venezia lo stesso Zuane Redolfi divenne capo della corporazione dei pasticceri, “scaleteri” come venivano chiamati in laguna. Tutto finì con il 1766. Le Tre Leghe iniziarono a dialogare con gli Asburgo che, governando Milano, non disdegnavano i transiti alpini. Questo non piacque affatto ai veneziani che degli Asburgo erano acerrimi nemici e quindi cacciarono tutti questi emigranti che nel frattempo erano diventati loro cittadini. “Impara l’arte e mettila da parte”, re - cita un noto proverbio e questo “popolo di pasticceri” esportò così la propria maèstria in giro per il mondo. Seguirne i viaggi, le loro imprese e i loro commerci, vuol dire fare il giro del mondo: Italia, Francia, Spagna e Portogallo, Baviera, Austria, Prussia, Polonia, Ungheria. Russia, Inghilterra, Danimarca, Americhe, Africa, fino nelle Indie. Vi aprirono pasticcerie, caffè alla moda che divennero punti di riferimento per il bel modo di allora. A Parigi, Rudolphe Salis, figlio di pasticceri arrivati nella capitale francese dalla Bregaglia, aprì il primo caffè-teatro di cabaret intellettuale. Lo chiamò “Thèatre du Chat Noir” ed ai suoi tavoli vi sedevano con assidua presenza Touluse-Lautrec e Verlain, per citarne solo alcuni. Non c’è da stupirsi se tutta questa assiduità sia poi finita nelle pagine dei romanzi di celebri scrittori. Si narra che a Palermo, Giuseppe Tommasi di Lampedusa, seduto al tavolo del Caffè Caflisch, dell’omonima famiglia grigionese, abbia scritto più di una pagina del suo ben noto “Gattopardo”. Come sempre, però, si parla più volentieri di chi fece fortuna o di chi riuscì a tornare tra queste montagne portando a casa la pelle e non solo una tortiera. Non tutti ebbero la fortuna dei Castelmur, dei Redolfi, dei Salis o dei Caflisch. Anche in tutto questo popolo di pasticceri c’è chi ha conosciuto le luci del successo, mentre altri l’ombra del destino. Ai contrasti, in Bregaglia, ci sono abituati.

Palazzo Castelmur 7605 Stampa-Coltura

palazzo-castelmur.ch/it/ info@palazzo-castelmur.ch

+41 81 822 15 54

Informazioni turistiche www.bregaglia.ch

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