Fanny Goldrose
Dark Angel
una ragazza ....e la sua vita normale al centro dell’eterna lotta tra bene e male un angelo e un demone se la contendono
2010 n.3
Mammaeditori
ISBN 978-88-87303-40-7 1° edizione maggio 2010 Copyright © 2010 Mamma Editori Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini - Parma telefono 0521.84.63.25 mamma@mammaeditori.it www.mammaeditori.it
Collana
In fatto di vampiri, ed esseri soprannaturali vari la magia dell’epica sembra più che mai rinnovarsi. Nella koinè letteraria, migliaia di fans di ogni paese, continuano a immaginarne e a leggerne avventure fantastiche. La collana A cena col vampiro intende dar conto del fenomeno, con l’avvertenza, che non tutte le storie mantengono il profilo adolescenziale e romantico, alcune autrici hanno voluto narrare in modo più crudo le passioni, altre più attratte dal titanismo degli esseri mitologici, ne hanno descritto dettagliatamente la violenza. Altre ancora tornano in puro stile Brontiano, al momento magico in cui sboccia l’amore impossibile. Vai alla collana “A cena col Vampiro” http://www.mammaeditori.it/pages/ACenaColVampiro.htm Chatta con l’autrice http://edwardandbella.forumcommunity.net/?t=32934695 http://edwardandbella.forumcommunity.net/?t=28909437 Vai nel sito Bloody Roses Secret Society http://www.myspace.com/bloodysocietyofficial
FINITO DI STAMPARE e rilegato NEL MESE DI MAGGIO 2010 presso MAMMA EDITORI
A mia figlia Simona, che piÚ di chiunque riesce a farmi amare la vita Al piccolo Christian che ancora non sa, ancora non vede, ma che già può far conto su tutto il mio amore, A Francesco che come un alito di vento inaspettato ha cambiato la rotta del mio futuro. E a Monica Montanari, che non so come faccia, ma riesce sempre a farmi raccogliere la penna dalla scrivania.
Non posso essere sola, mi viene a visitare una schiera di ospiti, non sono registrati, non usano la chiave, non han né vesti, né nomi, né climi, né almanacchi, ma dimore comuni, proprio come gli gnomi, messaggeri interiori ne annunciano l’arrivo, invece la partenza non è annunciata, infatti non sono mai partiti. Emily Dickinson
Prologo
Piume bianche. Tante. Una sopra l’altra come calca che sgomita fra le bancarelle di una fiera di paese. Nascevano tutte dal medesimo punto, nel centro esatto della sua schiena. Niente di artificiale a sorreggerle, a tenerle incollate. Erano parte integrante della sua pelle. Le prime più corte, e comunque superavano le due spanne di lunghezza. Le seconde, ma non per ordine di grandezza, erano grigie come il fumo che esce dai comignoli in inverno. Poi dietro, le più lunghe, sembrava superassero il metro. Morbide. Certamente lo erano, anche se, pur allungando la mano non potevo toccarle. Quelle ali attaccate alla schiena dello sconosciuto, procedevano davanti a me, ondeggiando lievemente, lisce come la seta e inquietanti come il sangue che a gocce ne macchiava il manto leggero. Non riuscivo a capire dove stesse andando né potevo immaginare cosa fosse accaduto a quella creatura strana. Avevo paura ma non riuscivo a non seguirla affascinata dal suo mistero senza storia. Camminavo leggera per non farmi sentire, ma qualcosa attirò la sua attenzione e si voltò. Quasi mi sentii soffocare quando negli occhi stanchi dell’angelo riconobbi lo sguardo di Dan. Daniele Di Maggio il ragazzo più idiota e insignificante della scuola. 5
Capitolo 1
Il sogno
Sassi e scogliera. Il mare d’inverno sembra una pozza. Ed eccomi lì. Un punto sciapo dentro un panorama sciapo: io in un treno. La noia poi. Insopportabile e impalpabile come un fazzoletto di seta. Come se non bastasse avevo pure un freddo cane. Mi stringevo nel giubbotto ma sembrava un vestitino di carta da ritagliare per bamboline. Dannata moda e dannata io che mi lasciavo convincere da Lisa amica e rovina della mia salute fisica. L’iPod gracchiava nelle orecchie note R&B, un genere preferito da Liz e detestato da me. Ad occhi chiusi, ciondolava la testa tenendo il ritmo a modo suo mentre la costa ligure scorreva veloce oltre i finestrini del regionale del mattino. C’era in sottofondo lo sferragliare delle rotaie, fatto di contraccolpi sonori e familiari. Era ancora febbraio. Il secondo quadrimestre era cominciato e i miei voti erano parecchio sopra la sufficienza. Non era una fatica studiare per chi come me, non aveva nessuno per la testa. Liz invece l’avevo persa. Ale l’aveva ingoiata nel vortice dell’amore e tutto il resto era svanito dalla sua vita. Tutto tranne me, la musica R&B e la mania per gli abiti leggeri come carta. Le volevo bene, anzi la odiavo a morte. Quella mattina soprattutto, mentre il freddo mi aggrediva il cervello e l’ombelico. Per forza! Indossavo pantaloni a vita bassa e un giubbotto che scendeva di una sola spanna sotto l’incavo delle ascelle. Il cellulare nella tasca prese a vibrare. Chissene. Nulla che mi potesse far battere il cuore. «Rose, il cellulare.» Mi voltai verso Liz, incredula. «Miseria! E come avresti fatto ad accorgertene?» 7
«Mi vibrava il braccio!» Io seguitai a guardare il mare lasciando che le vibrazioni sul cellulare si spegnessero. Sulla barra grigia del finestrino fiammeggiava la scritta “Vietato Sporgersi”: qualcuno l’aveva trasformata in “Vietato orge” cancellando un po’ qua e un po’ là. Il buio mi colse di sorpresa. Un’altra galleria aveva oscurato la visuale. Luci artificiali, messe in fila come soldatini. «Che fai non leggi il mes?» Liz mi guardava dal basso della sua idea di posizione rilassata che sospettavo fosse solo “posizione da pantaloni stretti”. «Tanto chi vuoi che mi scriva?» Masticava la gomma a labbra aperte, sbattendo i denti: stava pensando. «Beh! Che ti frega. Incomincia a leggere no? Magari è una mega offerta per Sms o Mms gratis.» Cercai qualcosa da guardare nel buio. Già per mandarli a chi? La nipote mancata di Dolce e Gabbana dimenticava che lei era l’unico elemento della mia vita sociale. Non che non amassi la compagnia maschile ma mi annoiavo a sentire discorsi che non potevo capire, se non riferendomi a pochi e insignificanti episodi che risalivano alla scuola media. Ero stanca di sentirmi incitare a buttarmi tra le braccia del primo cretino. Avevo qualche tizio che mi ronzava intorno, anche se Liz diceva che li attiravo come le api il miele. Esagerava. Il fatto era che non volevo sprecare le emozioni. In più sentivo di dover prima superare la mia eterna goffaggine. Mi capitava di tutto. Cadute pericolosissime in prossimità di spigoli letali, macchine che passavano con il rosso e che mi scansavo sempre per stratosferiche botte di culo che il più delle volte non riuscivo nemmeno a spiegare. E, manco a farlo apposta, tutte le volte che mi accadeva qualcosa mia madre era nel rag-
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gio di due metri. Così, oltre la strizza, seguiva puntuale pure la ramanzina. «Allora?», tornò alla carica Liz. Sbuffai. «Ok, ma come sei insistente.» Mi regalò un mezzo sorriso da star, mentre abbassava l’iPod, quasi il messaggio si potesse ascoltare. “So che mi hai visto. Devo parlarti. DAN” Rimasi con il cellulare fra le dita. Sul Display quel messaggio era senza senso. «Chi è Dan?», chiese Liz guardandomi con fare malizioso. «E io cosa ne so.» «Scusa, dai il numero di cellulare a uno e poi nemmeno ti ricordi chi è?» Mi fermai un istante a pensare chi fosse questo Dan e non mi venne in mente niente di interessante che potesse chiarire il mistero. Mi sforzai di ricordare, la mente rimase in silenzio assoluto, una voragine aperta sul nulla. Liz mi guardava aspettando. «Allora?» Masticava la gomma come se le stessi nascondendo chissà quale segreto. «Senti Liz, mollami ok?! Sarà un deficiente che ha sbagliato numero.» Le mie parole rimasero sospese a mezz’aria. Mentre le pronunciavo mi sentivo a disagio, come se stessi mentendo. Rimasi in silenzio e cercai di sforzarmi. Ripetevo quel nome nella mente, lentamente, scandendolo lettera per lettera come se il segreto ci fosse nascosto dentro. Poi scossi la testa, lasciai scivolare il cellulare nella tasca e ritornai ad ascoltare la musica. Non poteva certamente trattarsi di quel Dan. Tre minuti. Solamente tre miseri minuti trascorsero prima che un nuovo Sms facesse vibrare il mio cellulare. Cercai 9
di non dargli peso. Mi concentrai sul ritmo, cercando di perdermi in quelle note che assordavano orecchie e cervello. Dal sedile accanto al nostro un ragazzo mi fece segno. Lo guardai interrogativa, ma senza parlare. «Senti per favore puoi leggere il messaggio. Il “bip” è insopportabile.» Levai la cuffia rimasta nell’orecchio. «Si, scusami. Avevo le cuffie e...». Non terminai la frase che già avevo abbassato lo sguardo per la vergogna. «Già…». Mi squadrò e tornò a fissare il panorama oltre il finestrino. Contro voglia avevo raccolto il cellulare. Mi affrettai ad aprire, prima di un altro “bip”. “Non provare ad ignorarmi Rossella Biondi. Dimmi ora e punto preciso in cui vuoi incontrarmi o verrò a prenderti in classe durante la prima ora. Non credo che il professor Boni gradirà. DAN”. Trasalii. La precisione e la sottigliezza di quelle informazioni, sgretolavano ogni dubbio. Non poteva trattarsi di un errore. Liz allungò lo sguardo. Figurati! Pettegolezzi e particolari erano il suo pane. «E quindi?» Sospirai. Perché mentirle? «Sempre questo Dan. – mi lagnai - Non riesco proprio a capire chi sia però. L’unico che mi viene in mente è Daniele Di Maggio», deglutii. Dovevo contemplare quella eventualità. Che cioè un tizio che avevo sognato sapesse di essere stato sognato da me e ora volesse incontrarmi. Rimase in silenzio qualche istante prima di sganasciarsi in una risata che attirò gli sguardi di tutto il treno. «Oddio! No! Che tristezza. E perché mai quello sfigato dovrebbe scriverti?» 10
«Niente. Dice se posso passargli certi appunti di matematica.» Rise di nuovo. «Ma chi? Mister “secchione” che chiede a Miss “becco fisso il debito di matematica” degli appunti?» «E da me cosa vuoi? Si vede che è stato assente.» «Certo e gli appunti del quarto anno li viene a chiedere a te che sei al terzo.» Improvvisamente si fece seria, quasi minacciosa. «Ti giuro che se stai frequentando quello sfigato ti levo il saluto.» Le rivolsi un’occhiata dura e feci per spegnere il telefonino. Un nuovo segnale me lo impedì. Liz mi guardò facendo segno di vomitare ed affondò di nuovo nel sedile. A momenti non disintegrai il cellulare per riuscire ad aprirlo. Invio. “Ok scendi dal treno. Ti aspetto alla fermata di Lavagna. Bada che se non scendi salgo io e vengo a cercarti fino al sedile. DAN”. Un brivido mi percorse la schiena. Senza neppure poter dire di averlo propriamente deciso mi tolsi le cuffie e mi alzai, rischiando di rovinare addosso a Liz. «Dove vai?» «In bagno. Torno subito.» «Bleah! Che schifo!» Accennai un sorriso di resa, abbastanza convincente da far tornare Liz nella sua posizione di, come dire, confort. I miei occhi saettarono a destra e a sinistra come se qualcuno potesse leggermi nel pensiero. Non avevo ancora fatto niente e già mi sentivo una clandestina. Non avevo mai saltato le lezioni deliberatamente in vita mia e scendere dal tre11
no ora, mi avrebbe fatto certamente perdere quelle di Boni. Cercai di non fermarmi a pensare. Avrei ricevuto decine di telefonate di Liz non appena avesse realizzato che me l’ero squagliata, così preparai un Sms di scuse che le avrei inviato non appena il treno fosse ripartito dalla stazione di Lavagna. Il panorama scorse oltre i finestrini sempre più lento, man mano che la destinazione si approssimava. La tensione pungeva la pelle ed era cessata ogni salivazione. Sudavo ora sotto il giubbotto, nonostante gli spifferi che filtravano dalle porte scorrevoli e che congelavano i piedi. E se Daniele Di Maggio era un maniaco? Mi avrebbero ritrovata a pezzi da qualche parte. In poche ore mi sarei trasformata in un articolo di cronaca. Mia madre sarebbe morta pochi minuti dopo. Daniele di Maggio avrebbe causato la scomparsa della famiglia Biondi. Il treno era quasi fermo. L’adrenalina aumentò, così come i battiti del cuore. Il retropensiero si trasformò in paura. Mi chiesi se qualcuno o qualcosa mi obbligasse davvero a scendere da quel treno per incontrare il serial killer ma qualcosa dentro spinse i miei piedi verso la scala. Quando il treno si fermò, feci un lungo sospiro e un sorriso comparve sulle mie labbra: ma piantala Rose. È solo Daniele Di Maggio. L’idiota. Scesi svelta e mi acquattai passando radente il treno sotto i finestrini per evitare che Liz mi vedesse, intanto lo sguardo cercava Daniele. La stazione di Lavagna era affollata a quell’ora. Superai il vagone nel quale avevo viaggiato, superai anche la carrozza successiva e finalmente mi staccai dal treno, cercando di assumere un atteggiamento naturale, nonostante la tensione fosse palpabile. Mi guardai di nuovo intorno e finalmente i dubbi svanirono. Daniele era appoggiato a un palo adiacente l’uscita e guardava nella mia direzione.
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Le gambe erano di piombo, i pochi passi che ci separavano sembravano non voler terminare. Eppure non avevo alcun motivo di temerlo. Mancavano solamente pochi metri a raggiungerlo quando una mano mi afferrò il braccio. «Rossella Biondi.» Smisi di respirare e mi voltai lentamente: «Alessandro…» Feci una pausa e deglutii: «Clerici.» Un’altra pausa. «Conosci anche il mio codice fiscale?» Lui sorrise perfettamente a suo agio, mentre il mio viso diventava paonazzo. Alessandro Clerici era il ragazzo più bello, quello più ambito e sognato della scuola e per questo era irraggiungibile. Non aveva mai cercato compagnia nel panorama femminile che riempiva i corridoi dell’istituto statale d’arte di Chiavari . Era sempre pedinato da ragazze che sembravano appena uscite da una rivista patinata, lo si vedeva passeggiare per il lungomare di Sestri il sabato pomeriggio sempre con macchine costose e abiti firmati. Rimasi in silenzio. Lanciai un’occhiata rapida a Daniele, senza voltarmi per non rischiare che Alex se ne accorgesse. Lo osservai solamente per un paio di secondi, ma mi bastarono per notare che portava il cellulare all’orecchio. “Evvai, chiamata provvidenziale”, pensai. Questo l’avrebbe tenuto occupato per qualche minuto, giusto il tempo di liberarmi di Clerici. Appena terminai il pensiero mi parve di aver bestemmiato. Liberarsi di quel figo: inconcepibile ma, per stavolta, necessario. «Dove stavi andando se non sono indiscreto?» La bugia mi salì spontanea alle labbra: 13
«Fuggivo dall’ora di matematica. Oggi sarebbe stato il mio turno d’interrogazione e proprio non posso permettermi un altro tre.» «Posso invitarla in un bar per un cappuccio e una brioches madame?» Morta. Sicuramente ero morta e quello era il paradiso. Daniele Di Maggio doveva essere stato rapidissimo ad uccidermi. Alessandro mi prese la mano nella sua, come per scortarmi. «Sono anch’io un fuggitivo. Per me è il compito d’inglese il mostro, quindi… Se ti va possiamo svignarcela insieme.» Lo guardai frastornata. Cercai di scuotermi dal torpore. Avevo dimenticato dove fossi e perché ci fossi andata. Stentavo persino a ricordare chi ero. Non mi accorsi nemmeno che il cellulare vibrava nella mia tasca. Subito collegai. Nessuno stava chiamando Daniele Di Maggio: lui stava chiamando me. Maledetto guastafeste! Alessandro sorrise di nuovo. «Ti chiamano.» Serrai le palpebre desiderando di scomparire. Mi domandai se potevo ignorare Daniele l’angelo guerriero o Daniele l’idiota. Buona la seconda, ne ero certa. Feci per raccogliere il cellulare dalla tasca, controvoglia e rassegnata a perdermi quell’occasione meravigliosa con il più fico degli essere viventi. Alessandro si avvicinò. Avvertii un soffio sulla fronte, forse il suo respiro. In quel preciso istante nella mia mente esplose un grido acutissimo, come il verso di un uccello morente, ma non potei badarci. Un senso di tranquillità mi pervase e dimenticai ogni cosa. Le mie dita lasciarono il cellulare. Non vibrava più. Alessandro mi fissava e sorrideva. Gli sorrisi anch’io e gli strinsi le dita: tiepide nonostante il freddo che gelava le narici. Lo seguii senza fiatare, leggera proprio come il tocco di 14
qualche istante prima. Daniele Di Maggio non c’era più ed io comunque nemmeno mi ricordavo di essere scesa per incontrarlo. Affondai nel sedile in pelle della Bmw serie 3 Coupè, tranquilla come se ci fossi salita un milione di volte, a mio agio, come se avessi passato con lui intere giornate. «Dimmi Rose… È così che ti chiamano, giusto?» Lo guardai sorridendo. «Già. Ma scusa se te lo chiedo. Mi conosci? Sembra che le ragazze dell’istituto d’arte ti passino davanti come tanti fantasmi privi di interesse.» Rise forte, buttando indietro il capo, ma senza staccare gli occhi dalla strada. «Veramente siete voi ad evitarmi.» «Noi?» «Già…» Abbassò un attimo lo sguardo, come imbarazzato. In quel momento mi sembrò di vederlo per la prima volta. Lui, la leggenda. Lui che tutte desideravano da lontano, così sicuro di sé, così irraggiungibile. Lui, proprio lui, incredibilmente appariva l’essere più tenero e indifeso. «Perché mai dovremmo evitarti Alex?», feci una pausa per cercare le parole giuste, poi decisi di usare quelle più semplici. «Dico, ma gli specchi in casa tua esistono?» Improvvisamente s’irrigidì ed io mi sentii morire. Ecco avevo detto la cosa sbagliata e me lo ero giocata. «Cosa intendi dire?» Non era arrabbiato, solo dubbioso. «Che sei molto…», mi vergognavo, ma decisi di dirlo lo stesso «…desiderabile, ecco.» Lui si girò a guardarmi mentre il motore della Bmw ruggiva impaziente al semaforo rosso. «E allora sai spiegarmi perché nessuna ha mai provato ad avvicinarmi? Tu per esempio…» 15
Sospirai, ma non mi andava di mentire. Decisi di essere spudorata. «Tu sei un mito Alex, uno di quelli che tutte sognano e che danno per scontato di non poter avere. Ecco, insomma…», presi fiato. «Sei sempre circondato di bellissime ragazze che vengono da chissà dove. Vesti sempre alla moda, guidi macchine… Come questa. I ragazzi dell’istituto d’arte si possono permettere un motorino al massimo. Quelli come te non frequentano…», mi fermai. Lui mi guardò. «Non frequentano?...» Presi fiato e la buttai: «Quelle come me, per esempio.» Rimase un attimo a pensare, poi sorrise: «Beh! Il posto dove sei seduta fa cadere tutte le tue teorie.» La mano scattò sicura sul volante e la Bmw entrò nel parcheggio con una manovra soltanto. «Dove andiamo di bello?» «Pensavo al “Conte Max” se ti va. C’è una bella vista.» «Non ci sono mai stata.» Sorrisi della mia goffaggine. «Meglio. Sarà una doppia prima volta. Io non ho mai preso un caffé con una compagna di scuola.» Sembrava contento e sereno. Mi avvolse le spalle con un braccio. Un’ondata di brividi mi scosse. Incredibile. Non potevo crederci e quindi non mi fermai a pensare. L’unica riflessione fu il motivo che mi aveva spinto a non andare a scuola. Non riuscivo proprio a ricordarlo. Frugai nella mente: Il treno, Liz, il bagno, Liz. Benedetto il cielo! Liz! Mi divincolai dall’abbraccio di Alex e pescai nervosamente il cellulare dalla tasca. Lui s’irrigidì improvvisamente. «Cosa c’è?» «Scusami. Devo chiamare la mia amica. Sono scesa dal treno, stavo andando a scuola e… Sì insomma, non le ho det16
to che sarei scesa. Starà diventando pazza a cercarmi. Non vorrei che chiamasse mia madre. Sarei fritta.» Delicatamente mi tolse il telefono dalle mani. «Non osare. Io ti ho rapita, io pago la telefonata.» Dalla tasca del giubbotto estrasse un telefonino di ultima generazione e me lo porse. «Non ci pensare nemmeno. Figurati se ti scrocco la telefonata. E poi nemmeno saprei fare il numero su quel mostro.» Lui rise e mostrò di non avere nessuna intenzione di cedere. «Ti prego Rose. Non fare i capricci. Lasciami fare il cavaliere.» Sospirai e mi arresi agli occhi magnetici e penetranti. Erano neri come la notte, ma lucidi come una goccia di opale. «Ok, però la colazione la pago io.» «Scordatelo.» Entrammo e il ragazzo dietro il banco ci salutò con un cenno del capo. «Non voglio violare la tua privacy, mormorò Alessandro - ascoltando le balle che inventerai per tranquillizzare la tua amica. Fai pure con comodo. Io intanto mi accomodo al tavolo e comincio ad ordinare. Cosa prendi?» «Un cappuccino chiaro e una brioches liscia.» «Subito signorina» Si allontanò mentre stavo già componendo il numero.
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Capitolo 2
Grida lontane
Ero eccitata all’idea di raccontare a Liz con chi ero, ma decisi di rimandare il racconto al pomeriggio, quando avrei avuto a disposizione tutta la storia. Il telefono di Elisa fece un paio di squilli. «Pronto?» «Liz, sono io Rose» Silenzio. «Liz mi senti?» «Rose… Ma che numero è questo?» «Tieniti forte! Ti sto chiamando dal cellulare di Alex Clerici.» «Dal cellulare di chi?» «Sì, hai capito bene. Lascia stare, non me lo spiego nemmeno io cosa ci faccio qui con lui. Poi ti racconto.» «Ci puoi scommettere che mi racconti. Stronza, mi hai fatto credere di dover incontrare… Va Beh! Lasciamo perdere!» Fece una pausa, quasi stesse rivisitando il ricordo del fico con il quale dicevo di essere. «Ma quell’Alex Clerici?» «Lui.» «E come cavolo hai fatto? Quello non degna nessuna… e tu addirittura ci esci e durante le ore di scuola! Non mi hai raccontato niente. Non ho parole. Non sei l’amica che credevo.» «Frena. Non ho fatto sega per vedermi con lui. Sono scesa dal treno perché mentre ero in bagno mi è venuto un attacco di panico a pensare all’ora di matematica. Mi veniva da vomitare, ma la tazza era intasata, così sono saltata giù
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per fiondarmi al bagno della stazione. Non sono riuscita ad avvertirti.» «Certo sì, e Alex Clerici era giù che ti aspettava con un sacchetto di carta pronto in mano.» «Scema! Quando sono scesa, l’aria fresca ha fatto passare la nausea e mentre camminavo per tornare sul treno lui mi ha avvicinata. Mi ha chiesto di fargli compagnia per colazione, tutto qui! Potevo rifiutare?» Liz rise dall’altro capo. «Certo che no, amica. Entrerai nella storia.» «No, Liz. Muta come un pesce.» «Ok. Ricevuto. Con i prof. ti copro io. Divertiti stronzetta. Aspetto i particolari.» «Contaci.» Liz riappese per prima, mentre io ero ancora incredula ripensando alla scioltezza con la quale la bugia era defluita dal mio cervello e dalle labbra. Mi trovavo ancora al bancone nell’ingresso e feci per raggiungere Alex che doveva già essersi accomodato al tavolo, ma ritenni fosse il caso di avvertire anche mia madre. Riposi il telefono nella tasca e frugai nell’altra per cercare il mio. Non potevo approfittare così del suo credito, anche se ero sicura che lui ricaricasse in una volta quello che io riuscivo a ricaricare in un anno intero. Cercai bene, ma la mia mano non trovò che stoffa laddove solitamente tenevo il cellulare. Cercai dappertutto, senza risultato. Forse l’avevo lasciato nelle mani di Alex. Trasalii. E corsi a cercare il tavolo dove aveva preso posto. Magari mi sbagliavo, ma il pensiero che potesse frugare fra i piccoli segreti salvati tra gli Sms mi infastidiva. Come per un presentimento alzai lo sguardo e vidi in lontananza, al tavolo, Alex premere alcuni tasti su un cellulare. Fu un istante e una fitta mi trafisse la mente, di nuovo. Dovetti fermarmi a respirare. 20
«Tutto bene?» mi chiese il ragazzo al bancone. Mi osservava con aria preoccupata. Doveva aver notato la mia frenata improvvisa. «Sì, sì, tutto bene.» Sorrise annuendo. Il tavolo che Alex aveva scelto era all’interno, ma con una piacevole vista sul lungomare. Mi osservava mentre arrivavo trafelata. «Cos’è successo? Ti ho vista fermarti di colpo.» «No niente. Una fitta ma è passata subito.» Sorrise lasciando cadere il discorso. Il mio cellulare era accanto ad una tazza fumante di cappuccino chiaro. L’aroma che riempiva le narici era davvero piacevole, ma nulla a confronto della compagnia di un viso tanto dolce ed armonioso. «Tu niente cappuccio?» Cercai di rompere il ghiaccio. «Non ne vado pazzo. Preferisco un buon caffè nero e bollente.» «Io allora faccio la figura della golosa. Niente che si addica meno a una ragazza giusto? Attentissssime alla linea. Soprattutto quelle cui sei abituato.» «Io…»s’interruppe un istante abbassando lo sguardo come imbarazzato. Poi lo risollevò riempiendo il mio e togliendomi il fiato. «Io trovo più carina te. Mille volte di più.» Sicuramente era pazzo. Scoppiai a ridere. Lui non mi imitò. Sembrava serio, anche troppo per essere il primo giorno in cui mi rivolgeva la parola. «Non prendermi per pazzo.» Merda, mi legge nel pensiero. 21
«So che non ti ho mai dimostrato alcun interesse, ma in realtà sono settimane che ti ammiro da lontano.» «Non esagerare adesso.» Mi stava mettendo in imbarazzo. «Non sono certo una da ammirare.» «Questo lascialo decidere a me.» Mi prese la mano che tenevo appoggiata al tavolo. Un brivido mi percorse la schiena. D’istinto mi sciolsi dalla presa. Il colore del mio viso stava cambiando di nuovo. «Scusami, non volevo…» «No scusa tu, solo permettimi: è tutto davvero molto strano. Fino ad oggi non hai dato nemmeno segno di esserti accorto che esistessero altre persone nella tua stessa scuola. Non hai mai filato nessuna, non esci con i tuoi compagni. Frequenti solo locali di lusso e ragazze da capogiro. Permettimi un po’ di scetticismo.» Mi riprese la mano. «Rose sono un ragazzo come tutti gli altri. Te lo dimostra il fatto che mi sia informato su di te. Volevo conoscerti, ma non mi piace pubblicizzare gli affari miei. Per questo ho sempre evitato di frequentare qualcuno sotto gli occhi e sulla bocca di tutti.» Mentre parlava le sue dita si stringevano al mio palmo. «Mille volte mi sono fermato a guardare il tuo quadro appeso giù in palestra per il concorso. Mi affascina quello che hai dentro, quello che la tela trasmette raccontando quello che sei o che prometti di essere.» Questa volta lasciai la mano nella sua. «Ho dipinto un diavolo, Alex.» «Già. È meraviglioso.» «E cosa ci trovi di tanto meraviglioso?»
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«Trovo meraviglioso il tuo senso delle cose, la tua ribellione interiore. Il tema erano gli angeli e tu hai rappresentato l’esatto opposto.» «Non volevo dimostrare niente a nessuno.» «Lo so.» «Solo non amo che di un argomento, qualunque sia, venga raccontata solo la parte comoda, mentre quella scomoda viene sempre censurata.» La mia mente tornò indietro a quando avevo realizzato il dipinto di cui Alex parlava. Era stato solo un mese prima, in occasione di un concorso fra classi in cui esprimere il concetto di anima. La palestra era gremita di angeli dipinti in ogni forma e genere. Solamente il mio rappresentava l’esatto opposto. La pecora nera insomma. Tutti mi avevano guardato storto, come se ci fosse in me qualcosa che non andava, come se fossi una specie di satanista o giù di lì. O almeno, quasi tutti. «Io ho letto proprio questo dentro i colori di quella tela. Il tuo essere vera e diversa. Il tuo rifiuto per i compromessi e la tua consapevolezza che esiste anche il lato oscuro delle cose e che non è terribile al punto di doverlo rifiutare.» «Io non nego mai il polo negativo. Esiste. Altrimenti quello positivo non avrebbe ragione di essere.» Alex rimase in silenzio guardandomi fisso. Immediatamente distolsi lo sguardo, incapace di reggere la sua bellezza. Il cellulare al mio fianco prese a vibrare. Sul display la scritta “mamma” mi richiamava all’ordine. «Merda, non ho avvertito mia madre.» «Ma non sei fuori scuola di nascosto?» «Non lo faccio mai. Non so mentire.» Raccolsi controvoglia il telefono e risposi senza spostarmi dalla sedia. «Pronto.» 23
«Ehi! Dove sei?» «Sono in stazione mamma. Sto tornando a casa.» «E posso sapere come mai hai deciso di saltare la scuola?» Il tono era decisamente bellico. «Mi sono sentita male mamma. Un po’ di nausea, forse qualche linea di febbre.» «Ah! E adesso come stai? Ce la fai a tornare? Ti vengo a prendere?» Il suo tono era già cambiato: l’apprensione era evidente e già le mordeva le corde vocali. Mi sentii in colpa. Mia madre era un’ individualista, poco avvezza alle smancerie, ma profondamente innamorata dei propri affetti. «Non preoccuparti mamma. Mi sento solo un po’ debole, ma un mio compagno si è offerto di accompagnarmi. Scusami per non averti avvertito, ma non volevo spaventarti.» «Non preoccuparti piccola. Chiamami appena arrivi a casa. Vuoi che chiami la nonna per prepararti qualcosa di caldo?» «No mamma ti prego. Mi sento solamente un po’ debole, nulla di grave. Appena arrivo mi metto a letto e dormo un po’.» «Se vuoi rientro prima.» «No mamma, sto bene. Se poi i sintomi peggiorano ti chiamo.» «Ok, mi raccomando. Ma chi è quello che ti accompagna?» «Non lo conosci mamma, ma non preoccuparti. Mi riporterà sana e salva.» Alex mi fece segno di passargli il telefono. Io rifiutai con un cenno della testa. «Dài, solamente un attimo.» «No.»
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Lui si allungò e mi rubò l’apparecchio, veloce e preciso come un fulmine. «Pronto signora Biondi?» «Sì, pronto. Chi parla?» «Buongiorno signora sono Alessandro Clerici, un compagno di scuola di Rossella.» «Buongiorno Alessandro! Piacere di conoscerti…». Fortunatamente mia madre urlava nel microfono tanto da permettermi di ascoltare. «Il piacere è mio Signora. Volevo rassicurarla sulle condizioni di Rossella. Secondo il sottoscritto è un po’ di mal di matematica ma con il suo permesso volevo accompagnarla a casa e mentre si riposa, assillarla con formule e numeri.» «Non mi sembra una cattiva idea caro, a patto che vi mettiate a studiare però…». Lasciò l’affermazione a mezz’aria, colmandola di sottintesi e raccomandazioni. «E con che cosa l’accompagneresti?» «Con la mia auto signora. Non ho mai preso una multa, nemmeno per divieto di sosta.» Mia madre fece una pausa. Probabilmente stava soppesando e considerando tutti gli aspetti della questione. «D’accordo allora. Mi raccomando Alessandro. Mi fido e ci conto.» «Non stia in pensiero. Non ce n’è motivo. Le ripasso Rossella allora.» Lui mi sorrideva soddisfatto. Io gli avevo riempito il braccio di pugni, soprattutto quando aveva accennato al “mal di matematica”. Schifoso traditore. Mia madre mi salutò sprecandosi in avvertimenti e rimproveri che ascoltai appena. Ero troppo impegnata a incenerire il mio accompagnatore con lo sguardo. Quando riappesi, lui si alzò e mi offrì il braccio. Io mi sollevai dalla sedia spingendola con tanta irruenza da farla quasi 25
cadere sul pavimento lucido e lo scansai fingendomi offesa. Rise e mi seguì salutando il barman anche per me. «Sentiamo signor so tutto! Com’è che ti è venuta la brillante idea delle ripetizioni? E senza nemmeno chiedermi se ero d’accordo?» Lui rise di nuovo senza rispondere e mi cinse le spalle. Era bellissimo stargli accanto ed era bellissimo lui. Era come se lo conoscessi da sempre. Di nuovo la Bmw e di nuovo sprofondai nel comodo sedile di pelle, accoccolandomi perfettamente a mio agio. «Rossella dove abiti?» «A Deiva Marina, in corso Italia.» Subito la mano scattò sul navigatore satellitare. «Non ce n’è bisogno sai. Mi ricordo dove abito e posso spiegartelo strada facendo.» «No. Voglio chiacchierare. Inutile perdere tempo quando la tecnologia ci semplifica il lavoro.» Lo guardai inarcando le sopracciglia, ma il suo sorriso meraviglioso mi fece morire in gola qualunque obiezione. «Alex non mi hai detto che ci facevi in macchina alla stazione di Lavagna.» Abbozzò lo sguardo e arrossì leggermente. «Volevo…Darti un’occhiata attraverso il finestrino.» Lo fissai senza replicare. «Lo so ti sembrerà strano tutto questo, ma erano davvero settimane che cercavo l’occasione per fermarti, ma a scuola non mi va, te l’ho già detto. Volevo guardare un attimo il tuo viso e tenermi l’immagine con me fino a domani all’intervallo.» «Non esagerare.» «Non esagero sai. I tuoi occhi raccontano un’anima molto limpida e pulita. Mi piaci. Tutto qui. Non è un delitto giusto?» Arrossii paurosamente senza trovare le parole per rispondere. 26
«Scusami, non volevo metterti in imbarazzo.» Presi un po’ di fiato, cercando il coraggio. «Non mi conosci nemmeno.» «Appunto. È quello che sto cercando di fare: conoscerti.» Abbassai di nuovo lo sguardo sempre più in imbarazzo. Il tunnel di Moneglia era davvero buio e poco rassicurante. Un doppio senso alternato regolato da semafori posti all’inizio e alla fine di ogni galleria. Lungo dodici chilometri e illuminato soltanto da una fila di grosse luci applicate sulla volta, collegava Sestri Levante a Moneglia e Moneglia a Deiva Marina. Alex viaggiava a velocità controllata, guidando con sicurezza. Non appariva poi tanto imbarazzato dalla situazione. Chiacchierava delle proprie intenzioni, di quanto fosse interessato a conoscermi e di quello che pensava di me, senza porsi il minimo problema. Naturale e stranamente tranquillo, quasi ultraterreno. Vicino a lui mi sentivo rilassata e protetta, una sensazione che non mi era mai capitato di provare. Mi fermai a pensare a quello che mi stava accadendo, ponendomi mille domande alle quali non trovai nessuna risposta. Rinunciai. «Cos’hai?» Lo guardai sorpresa. «Sei silenziosa. È da quando abbiamo imboccato il tunnel che non dici niente.» Solo in quel momento mi resi conto di non aver nemmeno guardato la strada. Quando sollevai lo sguardo eravamo di fronte a casa mia. «Siamo arrivati, madame.» «Vedo. Ma come facevi a sapere qual’era il palazzo. Non te l’ho detto.» Mi rivolse uno sguardo sbilenco sorridendo colpevole. «Non mi avrai seguita?» 27
«Scusami non prendermi per un maniaco. Avevo pensato che il modo più sicuro per avvicinarti fosse fare una puntata sotto casa tua.» Sorrisi dissentendo a capo chino. «Sei incredibile.» Gli rivolsi il medesimo sguardo di sbieco che mi aveva regalato poco prima e scesi dalla macchina. Lui rimase al proprio posto. «Che fai non scendi?» «No Rose. Non voglio disturbarti ancora.» «Non mi disturbi. E poi hai promesso a mia madre le ripetizioni.» «Sarà più contenta nel trovarti sola quanto verrà a controllare.» «Non verrà!» «Sì che verrà.» Tacqui e sorrisi. «Sì verrà.» «Allora ci vediamo domani a scuola?» Formulai la domanda senza riuscire a capire se stavo sperando in un sì o in qualcos’altro. «Veramente pensavo di invitarti per una pizza stasera. Tanto ormai tua madre mi adora.» «Smetterà di farlo quando non ti troverà.» «Invece comincerà a farlo proprio quando verrà a controllare e scoprirà che non approfitto delle case libere.» Sorrisi. «Ti chiamo dopo principessa, ok?» «Ok!» Mi staccai dal finestrino controvoglia. Lui mi mandò un bacio mentre il vetro automatico saliva, concludendo quella meravigliosa mattinata. 28
Un vento leggero si sollevò improvvisamente. Intravidi all’ultimo secondo un ragazzo con la felpa nera e il cappuccio tirato su fino quasi a coprire gli occhi. Le mani in tasca, la cartella sulla spalle. Passò vicinissimo al finestrino di Alex che era ancora abbassato dalla parte del guidatore. Lo sconosciuto incappucciato masticò qualcosa dal suono minaccioso al che Alex chiuse il finestrino e fece inversione, ripartendo senza voltarsi. Lo vidi oltre il parabrezza, in lontananza, accostare un cellulare all’orecchio. Istintivamente estrassi il mio e fu allora che me ne accorsi. Il mio Nokia nella sua tasca, il suo nella mia. Quando era avvenuto lo scambio? Un nuovo grido di uccello ferito mi perforò la mente.
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Capitolo 3
Dubbi
Decisamente il soffitto era da tinteggiare. Non avevo fatto altro che studiarlo centimetro dopo centimetro, incapace di rilassarmi. Avrei dato qualunque cosa perché Liz non si trovasse nell’aula dove peraltro avrei dovuto essere anch’io proprio in quel momento. Avevo bisogno di parlare con qualcuno o mi sarei messa a urlare. Passai in rassegna i possibili candidati. La prima fu mia madre. Quanto mi piaceva. Allegra, briosa, innamorata della vita più di chiunque altro avessi mai conosciuto. Era una madre perfetta e la migliore amica che una persona possa desiderare d’incontrare. Io mi ero sempre divertita con lei. In inverno andavo a scuola. Il pomeriggio un po’ di compiti e poi l’aiutavo al negozio. Quasi sempre, se non c’erano clienti, ci infilavamo nel retro bottega e creavamo piccoli capolavori liberando la fantasia. D’estate invece, soprattutto il lunedì, giorno di chiusura, fuggivamo a Monterosso e ci immergevamo nelle acque cristalline per catturare con gli occhi, decine di pesci dalle forme e dai colori diversi. A volte nuotavamo fino alla scoglio che si trovava a pochi metri dalla spiaggia vicino alla stazione, per guadagnare un po’ di tintarella mentre l’una intratteneva l’altra con pettegolezzi e battute che finivano quasi sempre in un mal di stomaco da troppe risate. Mi prestava il vestito di organza verde mela, quello che le soffiavo tanto spesso da non darle quasi il tempo di ritirarlo dalla lavanderia. Lei invece rubava jeans tagliati e infradito dai miei armadi perché le sembrava che la ringiovanissero di un decennio. L’adoravo. Leila Biondi era decisamente la mia preferita, sotto ogni punto da vista. Ma ora. 31
Ora non potevo raccontarle nulla. Troppe spiegazioni, troppi particolari scomodi. Le raccontavo tutto sì, ma senza violare i confini della sessualità. In fondo la mamma è sempre la mamma. Mi sarei vergognata nel rivelarle quanto mi sentissi compiaciuta e attratta dalle attenzioni improvvise del ragazzo più ambito della Liguria e di quanto la mia mente rischiava di rimanerne coinvolta. Il secondo candidato fu Ronny il mio gatto persiano color carota. Ottimo ascoltatore non c’è che dire, ma certamente poco utile nello scambio di opinioni. Mi sforzai. Purtroppo non mi fidavo di nessuno all’infuori di Liz. Con chiunque altro, la minima notizia avrebbe rischiato di diventare argomento di tutte le conversazioni e di tutti i pettegolezzi, esattamente ciò che Alex voleva evitare. Sbuffai e mi girai su un fianco. Non avevo scelta, dovevo aspettare. Il suono del citofono mise fine all’agonia. Mia madre non ci mise molto a salire. Abitavamo al primo piano di una vecchia casa con le persiane azzurre scolorite. Sala, due camere da letto, un cucinino. Non era molto grande ma chiunque entrasse non poteva che rimanere a bocca aperta. Su alcune pareti avevamo dipinto enormi quadri di paesaggi marini e su quelle lasciate volutamente bianche avevamo appeso piccoli capolavori in gesso: cappelli da marinaio, vecchie barche e pesci colorati con maestria. Mi sentivo in una favola quando varcavo la soglia. Non c’avevo mai fatto l’abitudine. Avevo sempre continuato a considerarlo un luogo magico. La mia camera poi, era arredata come se si trattasse della cabina di una nave: mobili in legno color ciliegio e tessuti a righe bianche e blu. Intorno alla finestra avevo modellato un grosso cerchio per farla somigliare ad un enorme oblò. Sulla parete di fronte alla porta, c’era un timone e su quella accanto, uno specchio rotondo incorniciato in un tipico salvagente bianco e rosso come quelli che si vedono nei cartoni animati intorno 32
alla pancia di Paperino. Quello era il mio regno personale, il posto dove adoravo rifugiarmi da piccola, quando immaginavo di salpare per chissà quali mete. «Ciao amore!» Mia madre mi chiamava così sin da bambina. «Ciao mamma. Scusami non ho ancora preparato niente. Non ho fatto caso all’ora.» Mi baciò sulla guancia. «Non preoccuparti piccola ci penso io. Dimmi solo che cosa ti va di mangiare e lo preparo in un baleno.» «Per la verità non ho molta fame. Basteranno un po’ d’insalata e una mozzarella.» «Che ne dici di sogliole e patate? Il pesce l’ho comprato stamattina. Gianni mi ha detto che è freschissimo.» «Vada per le sogliole, ma preferisco un po’ d’insalata alle patate.» Sorrise mentre indossava il grembiule. «Agli ordini madame.» Quell’espressione mi ricordò improvvisamente Alex. «Mamma, hai provato a chiamarmi prima?» «Si l’ho fatto, ma mi ha risposto il tuo amico. Come si chiama? Alex mi pare…» Storsi le labbra pronta a dare spiegazioni. «Mi ha detto che per errore gli era rimasto il tuo cellulare nella tasca e che a te era rimasto il suo. Dice che forse è successo quando te lo ha prestato per chiamare Elisa.» Bugiardo. Se lo ero ripreso. Ci avevo ripensato e ora n’ero certa. Rimasi in silenzio a riflettere. Perché me lo aveva fregato? Ecco che il principe azzurro mi si trasformava in cleptomane. E se l’avesse fatto per sbirciare fra i miei segreti? Niente cleptomane, solo ficcanaso. E se voleva prendersi i numeri delle mie amiche per ottenere informazioni su di me? Ok, niente ficcanaso, ma pericoloso maniaco. Rabbrividii scuotendo il capo per cancellare l’ultimo pensiero. Stavo diven33
tando paranoica. Non mi restava che interrogarlo quando me lo avrebbe restituito. «Ma perché ti ha prestato il suo cellulare? Sei di nuovo senza credito?» «Veramente no. È che si sente cavaliere e ha voluto risparmiarmi la chiamata.» Leila sorrise maliziosa. «Quanto approvo un po’ di sano ritorno alle buone maniere. Poi ti dirò… Sembra un ragazzo molto saggio. Mi ha dato un buon consiglio…» «Ah sì? Tipo…» Abbassò lo sguardo. «Siamo finiti a parlare del negozio e…» «E?» «E…Beh Ecco… Sì…Mi ha consigliato di comprare un’arma. Sai per le rapine… O i malintenzionati che potrei incontrare la sera mentre torno a casa.» «Rapine? In un colorificio? Malintenzionati a Deiva Marina?» S’indispettì alle mie parole. «Oh Rose! Sei sempre così ingenua, abitiamo solo al primo piano. Credi sempre che la gente cattiva non esista o che non possa arrivare anche qui. Deiva non è immune alla malvagità… Io davvero non capisco.» S’infervorò e il cucchiaio di legno che stringeva fra le dita picchiò contro il top della cucina. «Mi sembri un po’ troppo agitata per un argomento che scommetto non ti aveva mai sfiorato prima.» «Ok non ci avevo mai pensato, ma gli argomenti del tuo amico mi hanno aperto gli occhi… E comunque aveva ragione sul fatto di non dirti nulla per non spaventarti.» «Certo…Io sono troppo bambina o stupida…» «Non ho detto questo…» 34
Mi passò vicino con troppa veemenza. Urtò la sedia e io rovinai sul pavimento sfiorando lo spigolo aguzzo del tavolo. «Oddio amore…Scusami! Non volevo.» Mi risollevai un po’ dolorante. «Non preoccuparti mamma. Non mi sono fatta niente.» Un po’ mi doleva la gamba sinistra ma non glielo dissi. Mi rimisi a sedere e il pensiero tornò sul suggerimento di Alex. Ah! Se mi avrebbe sentito. Mia mamma ritornò ai fornelli. «Ascolta amore: non dire nulla al tuo amico di questa discussione. In fondo ha solo voluto darmi un consiglio…È un bravo ragazzo…» Annuii poco convinta ma passai oltre mentre mi massaggiavo la gamba sotto il tavolo. La mente ritornò alle immagini della mattina. Lui che mi offriva il braccio, che mi prestava il cellulare, che pagava la colazione e che mi apriva lo sportello. Effettivamente erano attenzioni che un ragazzo di diciotto anni solitamente non ti riserva. Tornai a guardare mia madre. Lo screzio era passato, il sorriso malizioso era ricomparso dal suo volto. «Beh?! Cos’è quel sorrisetto? Cos’altro ti ha detto d’altro?» Leila si muoveva veloce in cucina. Prendeva sicura gli ingredienti per riporli subito dopo. Un colpo di spugna, uno di straccio, un giro alle sogliole con la pala forata. Tutto era in ordine come se dietro i fornelli ci fosse la fata turchina. Mentre mi rispondeva era quasi tutto pronto per essere servito. «Nulla di particolare. Mi ha spiegato dello scambio dei cellulari; ha detto che alla fine non è rimasto perché non gli sembrava il caso di assillarti con la matematica e…» «E?» Rise e seguitò a tacere. Le piaceva farmi impazzire. «Dài mamma!» 35
Partii con il solletico, quasi sempre convincente visto che era uno dei suoi punti deboli. In effetti non resistette che pochi secondi, tra una smorfia e un balletto improvvisato per sottrarsi al mio attacco. «Ok, ok mi arrendo.» Alzò le mani. «Mi ha avvertito che se ti fossi sentita meglio ti avrebbe invitata per cena.» «Ehi! Piano. Alla fine non c’è niente tra di noi. Non è che adesso, me lo trascini in famiglia...» Rise forte mentre mi stritolava in uno dei suoi abbracci affettuosi. «Ma figurati, amore. Dimmi solo se è carino.» «Più bello di quanto tu possa immaginare. È il ragazzo più ambito della scuola. Infatti non capisco perché si interessi a me. Per te sono bellissima mamma, ma cerca di essere obiettiva. Non sono certo una che può attirare l’attenzione di uno così.» Si fece seria ma senza perdere la naturale dolcezza nell’espressione. «Rose non c’è bisogno di essere appariscenti. A volte basta essere particolari, diversi dagli altri perché qualcuno ci noti. I tuoi occhi parlano, le tue mani creano meraviglie e il tuo cuore è sincero. Forse è proprio la normalità a distinguerti.» Mi soffermai a pensare ma non potei dire di essere sicura di aver capito. Guardai fuori dalla finestra. Il cielo era assolato, anche se il freddo non accennava a mollare. Mancava ancora un mese all’inizio della primavera e allora le vie di Deiva avrebbero cominciato a colorarsi degli oleandri rosa, bianchi, rossi e gialli. Avrebbero riempito le strade di allegria e di aromi inebrianti. Il tepore avrebbe reso più piacevoli le passeggiate sul lungomare. M’immaginai a sfiorare il tubo blu che faceva da 36
ringhiera lungo la sabbia, camminando accanto ad Alex che mi sorrideva con il suo viso meraviglioso. Scrollai subito il capo allontanando l’idea. Meglio non illudersi. Le sogliole volarono nel piatto. Una terrina di ceramica bianca era al centro del tavolo colma fino all’orlo di scarola riccia, trevisana e cuori di lattuga, le mie preferite. Avevo una fame da lupi dal momento che la nausea di poco prima era stata solamente una menzogna. Mi sentii di nuovo in colpa. Raccontare a mia madre delle bugie: non mi ero mai comportata così. Forse era colpa della vicinanza di Alex. Mi faceva un effetto! Per quanto mi sforzassi ancora non ero riuscita a ricordare quasi niente dei momenti che avevano preceduto il mio incontro con lui. Soprattutto non riuscivo a capire cosa mai mi avesse spinto a scendere alla fermata di Lavagna e perché Liz non fosse con me. Non ci separavamo mai nel tragitto da casa a scuola e viceversa. Anche lei abitava a Deiva, vicino alla chiesa di Sant’Antonio Abate. Ci incontravamo tutte le mattine sugli scalini della stazione e ci lasciavamo sotto il mio citofono al ritorno. Non riuscivo davvero a realizzare il motivo di quella strana separazione. Cercai di lasciarmi il mistero alle spalle. Forse mi stavo fissando. Però perché non riuscivo a ricordare? Magari Liz lo sapeva! Peccato non avere il mio cellulare e poterglielo chiedere. Sospirai e mi rassegnai ad aspettare. Più tardi avrei fatto una puntatina a casa sua per domandarglielo di persona. Di nuovo stesa sul letto, di nuovo a studiare il soffitto. Lo stomaco pieno non aveva cancellato l’ansia. Improvvisamente il cellulare di Alex prese a suonare. Lì per lì non lo riconobbi. Il mio aveva una suoneria del tutto diversa, ma poi me ne resi conto. Controllai sul display il numero. Era il mio. «Pronto.»
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