NuooPiroInterni

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eugenio Lombardo

Le pietre di giannuzzo

2011


ISBN 978-88-87303-XX-X 1° edizione giugno 2011 Copyright © 2011 Mamma Editori Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini - Parma telefono 0521.84.63.25 mamma@mammaeditori.it www.mammaeditori.it FINITO DI STAMPARE e rilegato NEL MESE DI giugno 2011 presso MAMMA EDITORI officina delle stampe


L’autore devolve interamente alla parrocchia Santi Pietro e Paolo di Catania i propri diritti di vendita sul presente volume. L’autore dedica il libro al ricordo di Santo Damigella, e ad un amico scomparso che gli fu maestro di vita: Turi Lanzafame. L’autore, esclusivamente per i più antichi veterani della comunità Santi Pietro e Paolo, rivendica il diritto di poter firmare queste pagine con uno pseudonimo che gli fu caro e che, fra gli amici di un tempo, fu universalmente noto: ZAC (onomatopeico dell’onorevole buonanima Benigno Zaccagnini, uomo giusto).

C A Z


“La vita ha un senso soltanto se la si spende per gli altri�...

Giovanni Piro


incipit

Perchè questo titolo, “Le pietre di Giannuzzu”? È presto detto: l’espressione pietra contempla le uniche conoscenze teologiche che io abbia. E scrivendo su un uomo che scelse di fare il prete, il nostro Giovanni Piro, un minimo di rudimenti catechistici occorre pur averli: con la simbologia della pietra, l’aspetto divino è pur salvo, forse. La pietra è un’effigie che ricorre in pagine del Vangelo che ho amato sempre, tantissimo. Vado a memoria, non avendo molta pratica con versetti ed evangelisti: essa ricorre nel racconto di Lazzaro, quando Gesù ordina di levare la pietra, contro ogni logica, per risvegliare il suo amico defunto, Lazzaro. È il segno di una storia che permea l’identità cristiana: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”; certo, ciascuno aspetta il responso, su come, nei secoli, quella pietra è stata modellata. Almeno, lo aspetta chi non crede nel dogma dell’infallibilità: chi ha sognato una chiesa diversa, chi si impegna, ogni giorno, per costruirla. Poi c’è la pietra del sepolcro, che Maria di Magdala con le sue amiche Giovanna e Maria di Giacomo, vedono rotolata all’ingresso della tomba di Gesù, e l’angelo che si stupisce e domanda 5 loro: perchè cercate tra i morti colui che è vivo?


E, ancora, c’è la frase più bella, mi pare tuttavia di ricordare che sia sugli Atti, quella che ho più a cuore, perchè ho conosciuto un uomo, un prete anch’egli, che l’amava infinitamente ed ha vissuto la sua intera esistenza aderendo a tale enunciato evangelico. La frase è “La pietra scartata è divenuta testata d’angolo”, ed il prete si chiamava don Leandro Rossi, lodigiano, raccoglitore degli ultimi, drogati, ammalati di Aids, accolti nella sua comunità, Famiglia Nuova, quando le altre, anche le più specializzate, chiudevano le porte, perchè gli irrecuperabili erano dannosi per gli altri, per i malati, e per i sani. Alla parola pietra, inoltre, più prosaicamente, più laicamente, è legata l’immagine del lavoro, della costruzione, dell’essere operaio, muratore. Proprio come è stato Giovanni nella vita: un uomo a cui piaceva costruire; un uomo che armeggiava con calcestruzzo, cazzuola e cestello: per riparare un intonaco, per rabberciare le mura della sua casetta di Nicolosi, per costruire dal nulla la sua parrocchia, la Santi Pietro e Paolo, in via Siena, a Catania. Aveva sempre apprezzato il lavoro manuale, sin da quando era bambino, e per la sua mamma, lui era, semplicemente, Giannuzzu. Ecco perchè, allora, “Le pietre di Giannuzzu”. Giovanni questo era: un uomo semplice. Uno che ha sempre pensato a costruire, e che è andato in crisi, autentica e vera, profondamente umana, 6


un’impennata di fragilità, quando gli è apparso che ai suoi progetti non corrispondessero efficaci ritorni. Era così il nostro Giovanni. Uomo dissacratore, talvolta ostico, irruento, facilmente irritabile, ma dotato di un’umanità immensa, grazie alla quale pretendere da se stesso capacità di riflessione, di pensiero, di meditazione e di analisi. E di scrittura: indimenticabili le lettere che, per un settimanale diocesano, era solito indirizzare, idealmente, agli uomini ed alle donne che aveva incontrato nel cammino della sua esistenza. Le pietre di Giannuzzo rivelano ciò che lui ha costruito negli anni: in particolare, la parrocchia Santi Pietro e Paolo, luogo aperto a tutti, dai rivoluzionari con la falce e martello, alle devotissime pie donne di Maria Ausiliatrice, dagli uomini ligi ai comandamenti della Sacra Scrittura, che nel porgere la particella dell’ostia andavano in mistica e commovente estasi, ai profeti delle nuove avanguardie cristiane. Una comunità sempre aperta: che, nelle intenzioni di don Piro, non doveva esacerbare giudizi, ma accogliere. Riuscì davvero in tutto questo, il nostro Giovanni? Questo libro, scritto in suo ricordo, vuole essere soltanto un momento di condivisione per la comunità di amici della parrocchia Santi Pietro e Paolo, per chi lo ha conosciuto ed apprezzato. Paradossalmente, l’augurio è che suddetto libriccino termini, dimenticato, a prendere polvere, sugli scaffali delle librerie delle nostre case. E che un giorno, le nuove generazioni, quelle che ancora 7


devono arrivare, nello sbarazzarsi delle cose vecchie, ripassino il libro tra le mani, e possano cosÏ leggere di Giovanni Piro. E richiamino allora alla memoria l’eco di questo nome, che fu il parroco fondatore della parrocchia del proprio quartiere: e, leggiucchiando qui e là , sappiano amare Giovanni, e condividerlo, come lo abbiamo voluto bene noi, suoi contemporanei.


Prefazione di Grazia Giurato

Intorno alla fine di luglio 2010, ho ricevuto una telefonata dalla città di Lodi. A cercarmi era Eugenio Lombardo, che mi chiedeva un mio personale ricordo per questo suo libro, dal titolo “Le pietre di Giannuzzu”, con il quale intendeva ripercorrere, pur se a grandi linee, la vita di don Giovanni Piro. Conosco Eugenio da tantissimi anni. Abitavamo nello stesso condominio, in via Imperia, al numero 13, un palazzo bianco quasi al centro della sua strada, attigua alla parrocchia Santi Pietro e Paolo; lui era coetaneo del mio primogenito, Franz. C’era già un’antica amicizia, datata da lontano, tra le nostre famiglie: Nuccio Lombardo, il papà di Eugenio, e Turi Lanzafame, mio marito, erano colleghi, medici, che oltre a condividere la professione, avevano realizzato la scelta di abitare in quello stesso condominio quando ancora era solo in costruzione. Eugenio, dunque, ha trascorso il periodo della sua infanzia in parrocchia. Da tempo, però, vive a Lodi. La sua richiesta, pur sapendo di questo libro in preparazione, mi ha colto di sorpresa. Un ricordo, una riflessione su Giovanni Piro? Per me che ho vissuto e continuo ad intendere la parrocchia, o meglio la comunità Santi Pietro e 9


Paolo, come una casa, e dunque gli episodi i ricordi gli avvenimenti sono stati e sono davvero tantissimi, non è semplice fare riferimento ad un aneddoto particolare. Tra l’altro, essendomi occupata di recente della sistemazione e catalogazione delle corrispondenze di Giovanni Piro, le quali sono state pubblicate in un libro dal titolo «Lettere» e sottotitolo «ricordi e riflessioni di un prete che per oltre 40 anni ha determinato il volto concreto della chiesa a Catania», preferisco concentrarmi e soffermarmi sull’ultimo periodo della vita di Giovanni Piro. Infatti, ho avuto il “privilegio” di stargli vicino in quei mesi che per lui sono stati un vero e proprio calvario. Giovanni Piro, lo sapevano tutti, era molto sofferente da tempo; il diabete…..diceva mio marito (diabetologo): “quando il diabete si manifesta i danni li ha già fatti…”. Ora, Giovanni non era particolarmente attento alle terapie, per esempio alla dieta, che doveva essere scrupolosissima…., e dunque le conseguenze negative aumentavano di giorno in giorno: la vista che gradualmente perdeva, le gambe pesanti per la flebite che incalzava, l’impossibilità di muoversi, persino il bastone non gli era più sufficiente. Dalla sua stanza, dove trascorreva i pomeriggi ascoltando musica, occorreva accompagnarlo e sostenerlo sino all’ascensore. Poi a luglio 2009 cominciò la vera e propria via crucis di Giovanni: il primo ricovero….poi una caduta dal letto e la frattura della spalla…il momentaneo rientro in parrocchia….il secondo ricovero ospedaliero e le complicazioni con i reni che alla fine 10 hanno smesso di funzionare…..la dialisi prima a


giorni alterni poi tutti, e quel continuo avanti-indietro-avanti-indietro di ambulanze verso e dal centro dialisi. Di questo periodo ricordo che ciò che mi colpiva maggiormente erano il desiderio e la voglia di Giovanni, il quale voleva scrivere i suoi pensieri, ed intendeva dettarmeli, e mi diceva di tenermi pronta perché lui stava mettendo ordine nelle sue riflessioni…. Non vi fu il tempo, perché alla fine subentrò il periodo di rianimazione in ospedale. Le visite dovevano essere brevi; con don Alfio Carciola ci si metteva d’accordo: chi la mattina, chi il pomeriggio, prestavamo se non assistenza, conforto a Giovanni….. Ti stavamo vicini, Giovanni…..Ti parlavamo, anche se tu non avevi più forze per rispondere; qualche volta aprivi gli occhi e sorridevi….bisbigliando qualcosa. Anche senza necessità di aprire gli occhi, sorridevi, quando sentivi una presenza vicina, quando ti si parlava. Poi, il pomeriggio della fine. Era l’undici settembre 2009. Alfio Carciola mi chiama dall’ospedale: vieni subito, mi dice…..ed io corro….Giovanni ancora respirava: il tempo per l’ultimo saluto. So bene, e lo rammento ogni giorno, quanto Giovanni Piro ha fatto per la comunità Santi Pietro e Paolo. Per me, la parrocchia è stata ed è la mia seconda casa. La prima, forse. Dove i miei tre figli, Franz, Riccardo e Federico, hanno iniziato il cammino di socialità nel gruppo Scout.


Ringrazio ancora padre Piro; lui è stato un faro, un uomo illuminante. Soprattutto nei miei momenti difficili, l’ho avuto accanto come padre, fratello, amico. Per questo, lo ricorderò sempre, per il resto della mia vita.

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Introduzione di padre Michele Rapisarda

Mi è stato chiesto di contribuire ad una raccolta di ricordi e di testimonianze sul compianto sacerdote Giovanni Piro, parroco della Santi Pietro e Paolo; cosa che faccio ben volentieri. Quasi coetaneo - sono appena cinque anni più giovane di lui - gli sono diventato amico perchè, entrambi vice parroci in realtà differenti, facevamo comunque esperienze in comune con i ragazzi delle rispettive parrocchie. Ero in piena sintonia con il suo carattere cordiale, il suo stile di vita semplice ed umile, e la sua visione di Chiesa, aperta al mondo ed alla gente nonchè il suo vivissimo desiderio di voler contribuire al suo rinnovamento al quale del resto ci esortava il Concilio Ecumenico, che si stava celebrando a Roma negli anni Sessanta del secolo scorso. Mi trattenevo spesso a parlare con lui, tra escursioni in montagna, campeggi, viaggi anche all’estero, per aprirci al mondo in senso concreto; mi raccontava i suoi progetti pastorali e mi diceva del suo desiderio di creare un cenacolo di preti amici che volessero vivere momenti di vita comunitaria; cosa che di lì a poco si andò realizzando. Tra “cene di lavoro” da lui preparate, perchè era un ottimo cuoco ed una buona forchetta, tra 13


riflessioni sui documenti conciliari e letture di testi di Sacre Scritture in comune, si parlava ed anche si sparlava di certa chiesa che non sapeva rinnovarsi, di certi vescovi, preti e laici alquanto bigotti. Si pensava di potere, noi poveri piccoli untorelli, fare scomparire dalla santa romana chiesa molte macchie e rughe per renderla giovane e bella come suggeriva a suo tempo san Paolo. Intanto i Padri Conciliari (altoparlanti dello Spirito Santo), elaboravano le grandi sintesi o definizioni sulla chiesa nel mondo contemporaneo: “La Chiesa è comunità e deve vivere in mezzo alla gente, la Chiesa è missionaria e deve vivere povera tra i poveri; la chiesa deve in umiltà condividere le gioie e le speranze le tristezze e le angosce del mondo dal quale non deve sentirsi diversa perchè la chiesa è nel mondo, anzi la chiesa è il mondo amato tanto da Dio da abitarlo con gli uomini ed a morire per gli uomini”. Questa sintesi di chiesa fu accolta con entusiasmo da tutti specialmente dai preti giovani e da quelli che i tradizionalisti chiamavano preti rivoluzionari perchè andavano controcorrente. Giovanni si distinse tra quelli che condividevano, confermandosi su ciò che già operava nella sua parrocchia. Lo sforzo suo fu quello di far capire alla gente come diventare chiesa rinnovata Erano generalmente espressioni ardue ed esplosive, per quei tempi, che papa Giovanni XXIII mitigò con quella singola e più dolce, che vedeva “la Chiesa come una fontana del villaggio, dove tutti vanno per estinguere la loro sete di verità e di amore”, di cui ha tanto bisogno il mondo. Questa sintesi di Chiesa fu accolta decisamen14 te da Giovanni Piro e, sollecitati da lui, da alcuni


altri preti che si attirarono critiche da tanta parte di cristiani tradizionalisti, di cui era ricca certa cultura catanese. Ma Giovanni Piro non mollò. E fece due piccolissimi gesti nella sua aula ecclesiale, cioè nella chiesa della sua parrocchia: posizionò i banchi per la messa domenicale a semicerchio e sulla volta della chiesa a giro espose delle sagome in cartone bianco, raffiguranti i parrocchiani a messa uniti attorno all’altare del Signore ed al suo parroco celebrante come chiesa/famiglia di Dio. Ma non solo. Anche gli incontri sulla parola di Dio, che settimanalmente si tenevano, si allargarono con tante presenze significative di credenti della propria parrocchia, di altra parte della città, e quindi di alcuni gruppi di altre religioni. L’incontro diventò di fatto ecumenico, quell’ecumenismo pratico che anticipò quello di Giovanni Paolo II ad Assisi, quando il pontefice pregò con i capi religiosi del mondo! Il papa Giovanni Paolo II, infatti, aveva detto con insistenza “il dialogo interreligioso è una sfida per un impegno di tutte le chiese nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora dippiù impegnati nella linea indicata dal Concilio Vaticano II” (numero 55 della Lettera Apostolica del papa al termine del giubileo dell’Anno Santo). E venne il momento in cui Giovanni Piro, collaborato da don Alfio Carciola e don Salvatore Resca, volle aprire la comunità all’azione missionaria, e decise di tentare di convertire il mondo della politica, il palazzo comunale. Tutti sapevano come fosse impresa ardua tale progetto. Fu aiutato da monsi15 gnor Bommarito, vescovo della città di Catania, che


spesso con forti accenti spronava sindaco e giunta e consiglio comunale in occasione delle feste Agatine a lavorare contro il degrado della città di cui anche le cronache italiane parlavano. Monsignor Bommarito diceva: “La politica non è una professione pura e semplice, ma l’arte di promuovere l’interesse dei cittadini; è servizio, vocazione a cui Dio chiama per un nobile impegno, una chiamata d’amore per un progetto di comunione!” (incontro con i politici catanesi in Arcivescovado nel 1990). Faceva sua la voce del Concilio, che Giovanni parroco attento e diligente aveva già memorizzato; si ebbe così da tanti laici della parrocchia, sensibili al problema politico, l’idea di costituire come un “Osservatorio Permanente” delle riunioni del Consiglio Comunale. Capitanati dal battagliero don Salvatore Resca un bel gruppo di laici assistevano dal luogo riservato al pubblico a tutte le sedute ai dibattiti, prendevano atto di quanto si decideva (ed il più delle volte non si decideva) e lo pubblicavano nel proprio giornale parrocchiale “Costruiamo la Pace”. Ma non si ottenne quasi nulla. Giovanni Piro per l’occasione si guadagnò il titolo di prete rosso, assoldato dalla Russia e dai comunisti. Le solite critiche dei soliti benpensanti cattolici, ai quali si univano anche alcuni parroci. Quando la politica si convertirà all’uomo? E’ una domanda! Si dice che Giovanni Paolo II che ha elevato tanti credenti agli onori degli altari desiderasse tanto, prima di morire, proclamare santo qualche uomo politico, ma non fu esaudito. Io penso però che se anche l’impresa è ardua non bisogna mollare. Le città hanno sempre la necessità che profeti come Amos sorgano per gridare contro le ingiustizie del mondo. Tuttavia, 16


malgrado l’impegno politico, la parrocchia di Giovanni non trascurò i poveri, che come sempre bussano alle nostre porte. E siccome Giovanni non era come il ricco Epulone, che non notava il povero Lazzaro, non trascurava di organizzare gli aiuti possibili per tutti loro. La Caritas parrocchiale si attivò per leggere e soddisfare i bisogni del quartiere, non limitandosi a gestire il cosiddetto banco alimentare, ma motivando e muovendo la solidarietà locale, i suoi parrocchiani, che rispondevano generosamente ai bisogni mirati. Degno di rilievo è la raccolta di fondi per installare in Africa, Burkina Faso, pozzi per la raccolta di acqua piovana, di cui quella popolazione aveva estremo bisogno insieme al suo bestiame, per contrastare la siccità dei propri campi; quei pozzi erano condizione essenziale per non morire. Questi sono alcuni ricordi del mio amico prete Giovanni Piro e di alcune sue attività, semplici ma significativi, di pastore e guida, ma anche di padre, fratello, di tanta gente che nel nome di Gesù ha amato e servito per più di mezzo secolo. Con il suo stile umile e buono, mai nervoso od isterico, col suo sigaro cubano sempre in bocca, e con la radiolina all’orecchio per gustarsi la musica classica, ha saputo programmare e costruire la dimora di Dio tra gli uomini: una bella, agile, accogliente e moderna parrocchia. Quanti sono stati impegnati con lui, innamorati del suo metodo, ed educati alla sua scuola non possono non continuare l’opera da lui iniziata in cordiale rapporto di comunione fraterna con don Alfio Carciola e don Salvatore Resca. 17



Frammenti, miei e di altri



H

o amato la parrocchia Santi Pietro e Paolo... Ne ho amato le mura, freddissime d’inverno, e le stanze più nascoste. Ho atteso che la porticina degli uffici parrocchiali aprisse nei solleoni dei pomeriggi estivi, quando la calura picchiava e l’androne della canonica era un rifugio per tutti; ci sedevamo lì, e parlavamo di nulla: Enrico Raspagliesi, Vincenzo Giuffrida, io, padre Alfio, nominato pastore del gruppo, ironicamente chiamato, la “setta dei Vincenziani”. Giovanni ci guardava perplessi, ma lasciava fare. In parrocchia, vi ho frequentato il teatro, e gli ambienti della canonica dabbasso, dove si facevano le riunioni dei lupetti, ed ho visto in funzione pure un ambiente sotterraneo, ai piedi della scalinata centrale, sulla sua sinistra, che poi andò in disuso. Non c’è stato metro quadrato che, sotto la guida di don Franco, lo storico sacrestano, non abbia pulito, lavato, lucidato. Vi ho fatto il chierichetto, e portato la candela grande durante la Via Crucis. Ho letto i brani dell’antico testamento. Ho sposato una ragazza del Nord, ma le ho chiesto di celebrare le nozze non nel suo paese della bassa Padana, dove ho scelto di vivere, ma alla comunità Santi Pietro e Paolo: perchè questa è stata la mia casa, e continua ad esserlo. Vi era un angolo, lì in parrocchia, che consideravo il mio rifugio. Lì, ragazzo, studente universitario, ritrovavo me stesso, in momenti di malinconia che sembravano pozzi senza fine, e che invece 21 poi passavano.


Ho amato la parrocchia perchè vi ho trovato persone che hanno saputo farne un luogo dove ciascuno potesse ritrovarsi. Quando vi ritorno non conosco più quasi nessuno. Ma ho il mio angolo segreto. E mi sento a casa, come in nessun altro posto.

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ualche tempo addietro, era un giorno del suo compleanno, in settembre, chiamai Giovanni. Lo immaginavo via etere dentro il suo ufficio, il sigaro fumante poggiato nella circostanza sul posacenere, il volume della radio smorzato, l’andirivieni dei parrocchiani nel corridoio una volta tanto ignorato; Giovanni era lì, a Catania, in via Siena, mentre io guardavo dal balcone della mia casa di Lodi la sera tingersi di oscurità: una sintesi perfetta, nel mio cuore. Giovanni rimase molto sorpreso dal sentirmi. Non perchè lo cercassi, ma in quanto mi fossi ricordato della sua data di nascita. Sino a quell’ora - ed era ormai tardi - era riuscito a nascondere a tutti che quello fosse il giorno del suo compleanno, meno che a sua sorella Santuzza che puntualmente lo aveva cercato al mattino. Parlammo a lungo. Quando era nel dire, cioè quando i fastidi del diabete non gli tormentavano l’umore, Giovanni non si saziava mai di domande. Voleva sapere, conoscere, capire; negli ultimi anni c’eravamo visti anche poco: eppure lui mi chiedeva di Ilaria, mia moglie, e di nostra figlia, Chiara, ricordandone perfettamente i nomi, e le sue domande erano at22


traversate da un entusiasmo che - malgrado l’ormai ampio arrotolarsi dei minuti - sembrava non conoscere affievolimenti. Giovanni mi chiese del mio impegno nella parrocchia del mio quartiere di Lodi. Scarso, risposi. Non mi ritrovo. Semmai la frequentazione incrementa la nostalgia per la realtà della santi Pietro e Paolo, gli dissi, quasi convinto di compiacerlo. Giovanni se ne rammaricò moltissimo. E mi chiese, e si fece promettere, con una delicatezza ed un’insistenza che non gli conoscevo, che avrei preso a frequentare maggiormente gli incontri e le attività parrocchiale: perchè nulla può cambiare se non quando arrivano nuovi fermenti, mi disse. Il resto delle cose che scambiammo, in quella telefonata, appartiene ancora oggi e per sempre allo scrigno dei ricordi.

Q

uand’ero bambino restavo colpito dal modo con cui Giovanni rispondeva al telefono. La voce era un rimestio di pensieri inespressi, come se, rispondendo, si fosse appena svegliato da un sonno radicale, e non vedesse l’ora di tornare a dormire. Insomma, l’interlocutore lo disturbava. Seppi farmene una ragione. Molta gente chiamava per conoscere soltanto l’orario delle messe, lasciando intendere che la presenza alla funzione fosse soltanto un mero atto di precetto. Lo stesso fatto che non si conoscessero gli orari era indice di scarsa partecipazione alla vita della comunità. Giovanni se ne rattristava. Per questo aveva la voce piena di brontolii. 23


non amava le apparenze e i giochi di potere


Il ricordo di don Biagio Apa

Quello che mi ha dato Giovanni come uomo-prete: ci siamo trovati insieme in seminario; è stato mio assistente: io adolescente, lui giovane studente al primo anno di Teologia. Non amava le regole, le norme per essere un buon seminarista; non le amava ma ci stava alla sua maniera. Il dono che ha qualificato la sua personalità è stato la sua umanità, che si è sempre più affinata attraverso la storia della sua vita; aveva una capacità critica notevole, che manifestava con umorismo, senza acredine. La sua generosità e disponibilità non avevano limiti. Anticonformista invincibile, non amava le apparenze ed i giochi di potere. Per la sua saggia umanità ha tirato accanto a sè persone “diverse”, era ecumenico per natura e grazia.

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Il ricordo di Pina Salomone

Giovanni aveva doti naturali straordinarie: intelligenza acuta e brillante, profondità di pensiero, spessore emotivo, ampiezza di prospettive e di vedute, originalità e genialità. Egli ha investito ed amministrato tutte le sue caratteristiche nella realizzazione del Messaggio Evangelico. L’incontro con Giovanni ha tracciato nella mia vita un sentiero profondo ed indelebile. Vivere un contatto con lui è stato un privilegio ed un enorme dono del quale ringrazio Dio ogni giorno. La sua presenza ha trasformato il mio modo di comprendere la vita. Il suo esempio, riferimento costante per me, ha stimolato il coraggio delle mie azioni e la realizzazione che l’umiltà è componente fondamentale della dignità umana. Giovanni aveva il dono di tradurre contenuti complessi e difficili in parole semplici e chiare alla portata dell’interlocutore. Ma soprattutto la comunità Santi Pietro e Paolo ha avuto in lui il padre attentissimo e pieno d’amore che riesce, per i propri figli, a superare i suoi stessi limiti. La sua capacità d’amore, la sua forza sono stati il lievito della solidarietà, del rispetto, dell’accoglienza rivolti al prossimo. 26



In ogni momento della mia giornata, in relazione ad ogni mia iniziativa, a qualunque evento conflittuale, nel pericolo, per ogni mio dubbio, mi confronto con il suo esempio. E trovo la risposta.


Il ricordo di monsignor Mauro Licciardello (già edito su un periodico etneo, e di cui se ne riportano alcuni stralci a beneficio di chi non lo lesse, e dove inizialmente si fa riferimento agli inizi della parrocchia Santi Pietro e Paolo)

.....Una nuova parrocchia che, però, era stata solo istituita su un pezzo di carta. In parole più semplici, il povero don Giovanni Piro fu inviato allo sbaraglio, missionario in terra di missione. Infatti dovette cominciare dal nulla. Proprio come un esperto agricoltore, iniziò a zappare, a seminare, a rassodare, a innaffiare. Fortunatamente era pieno di forze, giovane allora, esuberante di vita, sprezzante delle difficoltà. Si arrangiò alla meno peggio, sulle prime, affittò qualche stanzetta, poi un garage. L’interesse di padre Piro non era quello di avere un locale di pietra, bello o brutto che fosse; il suo desiderio era quello di formare piuttosto una comunità di anime......I ragazzi gli andavano dietro a frotte, perchè, con i suoi modi, riusciva a galvanizzarli, anche se (è inutile negarlo)....puzzava di sigaro, un passatempo che gli fece sempre dolce compagnia..... ....Ne venne fuori una bella chiesa, di stile moderno...una sola armonica navata, un presbiterio ampio, l’altare rivolto al popolo, un ambone ben esposto.... Ma “de gustibus non est disputandum”, i gusti di don Piro non collimavano proprio con quelli dell’archi29 tetto e nemmeno con le prescritte norme liturgi-


che. Padre Piro andava avanti con le proprie regole e, quel che gli premeva, era per lui accontentare la sua “gentuzza” umile e semplice. La sontuosità architettonica non gli andava giù e, detto fatto, mise in pensione il grande altare centrale ed, al suo posto, ne approntò un altro di legno semplice e nudo, quasi al centro dell’edificio e sistemò a semigiri concentrici tutte le panche: perchè - diceva - il prete deve stare allo stesso piano dei fedeli. ....Padre Piro era da molti considerato “prete scomodo”, un presbitero che cantava, qualche volta, fuori dal coro, per le sue prese di posizione, chiaramente anticonformiste ed intransigenti e, non di raro, contrastanti con le direttive ufficiali. Era un suo modo particolare di vedere e di giudicare le varie realtà del momento storico. Andare contro corrente poteva sembrare il suo motto. Ciononostante in lui brillava la lucentezza della sua anima, l’integrità della vita sacerdotale, la fedeltà alla sua missione.

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Il ricordo di Luigi Sanzo

Conobbi padre Giovanni Piro molti anni fa, in occasione del battesimo del mio piccolo Antonio, “Nino”, purtroppo all’età di sette anni volato in cielo. La parrocchia attuale non c’era ancora e celebrammo il battesimo in un garage di via Vincenzo Giuffrida. Facemmo amicizia. E lui mi coinvolse subito nella costruzione della chiesa, sensibilizzando la comunità degli abitanti del quartiere. Facevamo incontri, riunioni, ed in quelle occasioni girava una lettera, a firma appunto del parroco, in cui si chiedeva di sostenere le spese per la realizzazione dell’edificio. Ma più che quel suo scritto, funzionava un imponente passaparola. Padre Piro era, in ogni caso, molto discreto nelle sue richieste. Era un uomo coinvolgente, senza mai essere invadente. Lo ricordo come un uomo buono e caritatevole. Di lui mi colpiva la capacità di partecipare ai problemi dei suoi parrocchiani. Si commuoveva in modo sincero, profondo, quando veniva a conoscenza degli altrui dolori. Era anche un prete molto accogliente. Sapeva fare festa quando ritrovava un suo parrocchiano a distanza di tempo. 31


Mi ricordo quando armeggiava con il disco per il suono delle campane delle messe domenicali: gli piaceva la tecnologia. A volte era intransigente. Tutti dovevano stare nello stesso medesimo piano. Non faceva eccezioni e sconti per nessuno. Non c’erano differenze per lui. Tutti uguali. Ed in questo a volte poteva apparire rigido, esagerato. Dettata una linea era quella, e non si scostava di un millimetro. Non ho mai capito perchè non volesse che durante il matrimonio si effettuassero fotografie. Era un vero spauracchio per i fotografi e molte coppie preferivano per questo sposarsi altrove. Il giorno del matrimonio, è pur sempre un giorno di festa, e nelle feste le foto sono importanti....Ma padre Piro la pensava diversamente ed anche questo, insieme alle altre tante doti, lo rendeva unico.....

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Il ricordo dei Domina

Dalla scomparsa di Giovanni Piro, la sua presenza in mezzo a noi si fa sempre più viva. Lo rivediamo giovane prete nel lontano 1967, quando venne a benedire, dopo le festività pasquali, la casa di noi nuovi parrocchiani. Con molta semplicità chiese di entrare in cucina a bere un bicchiere di acqua e ringraziando ci parlò del significato simbolico dell’acqua nei vangeli. Ci salutò con un sorriso dicendo che benedire altro non significava che potere dire-bene della nostra casa. Alla fine degli anni 60’ ebbe inizio un rapporto cordiale con Giovanni grazie anche ad un comune caro amico: Nino Di Salvo, che, unitamente alla madre Maria, diedero una impronta significativa alla vita parrocchiale. Dopo il battesimo di nostro figlio Ottavio, i rapporti con Giovanni Piro si intensificarono tanto da essere pienamente coinvolti nelle varie attività della parrocchia, compresi i campeggi estivi a cui, da pionieri come famiglia, partecipavamo con grande entusiasmo. La famiglia Domina in tutte le sue componenti resterà sempre grata a Giovanni per il contributo dato, con le sue profonde riflessioni, a comprendere meglio il messaggio evangelico. La sua umanità, il suo sorriso, la sua capacità di ascolto, il suo umorismo, la sua essenzialità, la sua determinazione nel fare anche scelte di rottura, hanno segnato il 33 nostro cammino di fede.


Il ricordo di Santo Di Nuovo

La dote essenziale di Giovanni Piro era senza dubbio la sua profonda umanità, che si manifestava al massimo quando trattava con bambini e giovani. Ricordo nei periodi in cui ancora non c’era la chiesa e il suo cortile interno, l’organizzazione del carnevale definito dei “cuori in festa”, in via Brancati. La strada, che allora era senza sbocco, veniva occupata interamente da cacce al tesoro, tavolini per i quiz, bandierine e paletti per le corse ad ostacoli e coi sacchi. Dopo la costruzione della chiesa, Giovanni ci convinse ad organizzare nello spiazzo antistante un vero e proprio campionato di calcetto, con tanto di porte e strisce per terra, arbitri e guardalinee. Le partite attiravano giocatori e tifosi dai quartieri limitrofi, e turbavano il riposo della domenica pomeriggio degli abitanti della zona, che non poche volte protestarono animatamente. Giovanni rispondeva sereno “sono gli adulti che devono adattarsi ai bisogni dei giovani, non il contrario”. E nessuno come lui sapeva attrarre i giovani a gite e campeggi, assicurando un’avventura anche quando si trattava di salire sui vicini Monti Rossi o di montare le tende nei boschi appena sopra 34


Pedara o Trecastagni. Appassionava tutti con i suoi intrattenimenti sotto le stelle o guidando – e spesso sbagliando clamorosamente strada – truppe di ragazzini per sentieri poco battuti o lungo impervi canaloni di montagna. Tutti si sentivano piccoli esploratori, e tutti tornavano stanchi e sporchi ma rafforzati nel corpo e nello spirito. I successivi campeggi ammisero alcuni genitori, e poi ospitarono principalmente intere famiglie, come avviene ancora adesso, ma in Giovanni la predilezione per i ‘piccoli’, come amava chiamarli, non è mai venuta meno fino all’ultimo.

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Il ricordo di Aldo Toscano

Autentico rovescio della medaglia di una Chiesa che appare ma non è. Ci prese per mano, negli anni che lo abbiamo conosciuto e frequentato, e ci ha condotti sempre verso scelte chiare di essenzialità. La verità era il suo verbo, la verità come semplice visione della vita. La diversità era l’attribuzione che assegnava alla persona, la diversità come ricchezza. Il Cristo che suggeriva era un compagno di strada che richiedeva la tua presenza al suo fianco, passo dopo passo. Catania ha perso l’uomo che parlava al cuore della gente, anche la più sorda, ma non perderà mai la sua memoria, e questa è la sua presenza per sempre.

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Il ricordo (tre momenti nel tempo) di Eugenio Ciancio

Ero ancora sudato e stordito dal rumore di un pallone scagliato con tiro violento su una saracinesca di un garage, che fungeva da porta in improvvisate partita di calcio, vedevo allontanarsi di corsa mio cugino Eugenio; siamo stati sempre omonimi, e sempre lui “Eugenio il grande” ed io sempre Eugenio il piccolo”. Mio cugino, scappando, quasi una fuga, gridava: “Venite, andiamo a trovare il parroco buono”. Arrancando cercavo di stargli dietro, mentre mio fratello Nicola mi porgeva affettuosamente una sguardo vigile, affiancandomi nella corsa. Attraversavamo la campagna, che altro non era che quei lati che costeggiavano la via Vincenzo Giuffrida. Da lì si vedeva quella struttura nuova, l’edificio di Santi Pietro e Paolo, che tutto sembrava meno che una chiesa: e poi mancava persino la cupola! La partita di pallone riprendeva nel piazzale antistante la parrocchia. Quando eravamo esausti, mio cugino Eugenio, con sguardo serio, ci diceva: “Zitti, non ci facciamo sentire”; di soppiatto entravamo in sacrestia. Lì, in un cassetto dentro un grande 37


armadio, c’era l’oggetto della nostra marachella: un involucro con le ostie non ancora consacrate. Nicola ed Eugenio ne pigliavano alcune e, tutti insieme, scappavamo alla vista del buon parroco che con un vocione grosso ci gridava dietro: “Bricconcelli che cosa state combinando…”. Mentre Gabriella parlava su come impostare il nuovo anno di catechismo, porgevo lo sguardo in quelle mattonelle del muro, le une così diverse dalle altre. Non era quella la prima occasione in cui ero ospite di Giovanni Piro, a Nicolosi, ma ogni volta mi faceva lo stesso effetto: quella era una casa messa assieme da tante mani e con tanti materiali. Ma forse proprio quella sua peculiarità dava all’ambiente un tocco familiare; mi suscitava il pensiero che forse anche io, un giorno, avrei potuto aggiungere una mattonella per abbellire un ambiente della nostra comunità. Gabriella, forse rendendosi conto che non la stavo ascoltando, volgeva lo sguardo verso di me ed a bruciapelo m’interrogava: “E tu, Eugenio, cosa ne pensi? Come imposterai questo nuovo percorso per la preparazione della cresima?”. Per conto mio avevo pensato a lungo a questa domanda; mi ero pure confrontato con la mia fidanzata Rosangela ed il nostro amico Michele su cosa avremmo fatto quell’anno con il nostro nuovo gruppo di catecumeni di cresima. Ormai erano sette anni che facevamo catechismo e ci sentivamo, con orgoglio, bravi e preparati. 38


In quell’occasione sentivo gli occhi puntati addosso da parte degli amici catechisti e volevo formulare una risposta che attirasse pure l’attenzione del buon parroco Giovanni, che sembrava sonnecchiare su una sedia. Esordii dicendo che “il catechismo non può essere formato da sole parole. È importante che i giovani si appropriano della celebrazione eucaristica, la animano con canti e letture. Non solo. E’ essenziale esprimere un impegno forte e serio sul sociale, certo rapportato all’età dei ragazzi. Magari basterebbe qualche visita ad anziani, o raccolte di fondi finalizzate a precise necessità od altre idee che si possono concordemente decidere”. E proseguii così: “Lo so che questo implica un nostro maggiore impegno, ma assieme possiamo farcela. Le sole parole, in ogni caso, non servono per formare un buon cristiano”. Il silenzio e le espressioni degli amici catechisti mi facevano capire il loro disappunto. Ma avevo ottenuto una cosa: l’attenzione del buon parroco Giovanni; che sorridendomi mi diceva: “Eugenio, le tue parole sono belle, le tue azioni sono lodevoli, ma trascuri una cosa importante. Tu sei un solo un piccolo strumento nelle mani della cosa più importante della nostra fede: lo Spirito Santo. Ai ragazzi tu mandi un messaggio, che maturerà in essi nei tempi e nei modi a noi non conosciuti. Perciò è sbagliato dire che le parole non sono importanti, anzi senza le parole non avrebbe significato la nostra fede.” Quante volte passo vicino all’ingresso della chiesa e penso a quando eri seduto, in compagnia degli amici, a fumare il sigaro. 39


Quante volte ho desiderato di mettermi a sedere accanto a te per godere di quel calore umano. Ma una vita sbagliata ci porta a correre, a pensare al lavoro, trascurando la famiglia e gli affetti importanti. Quel giorno, però, era diverso. Ero in parrocchia proprio per te... Mi ero già messo d’accordo con Alfio Carciola per invitarvi a pranzo; avevamo deciso la data. Ma Alfio voleva che fossi io a comunicartela. Mi avvicinai alla tua sedia e con tanto amore ci salutammo con un abbraccio. Tu mi guardavi con gioia. “Giovanni - andai per le spicce - mi farebbe immenso piacere che, domenica prossima, tu con padre Alfio e padre Salvatore veniate a casa mia.” “Grazie Eugenio...ma mi raccomando un pranzo leggero”, e poi proseguendo i tuoi discorsi con la gente, mi coinvolgesti nella conversazione. Quella domenica, dal balcone della mia abitazione, guardavo con attenzione a quando chiudevate la chiesa; tu, abbracciato ad Alfio, ti avvicinavi verso casa. La gioia di quel pranzo, le frasi di affetto verso mio zio Nicolò e nei confronti della mia famiglia sono ancora impresse nel mio cuore. Ma la cosa più stupenda, rara, e frutto di un amore veramente fraterno, e che non scorderò mai più, era lo sguardo vigile di Alfio, che controllava ogni tuo movimento. Grazie, Giovanni; grazie per avermi seguito nella mia crescita, per essermi stato da guida, e tante volte da insegnamento, per la mia vita. 40


Il ricordo di Paolino Mangano

Giovanni, l’ho conosciuto proprio all’inizio della mia ‘breve’ avventura sacerdotale. E’ stato un incontro (qualche volta anche scontro) alla cui base, oltre agli ideali comuni di Fede e di obbiettivi pastorali, c’ erano un grande affetto umano e grandissima lealtà. Lo scambio culturale tra le nostre due diverse formazioni (la sua un po’ tradizionale anche se sicuramente non bigotta, la mia già pervasa dalla stagione conciliare) non sono state di ostacolo per una profonda intesa volta a dare alla Comunità un tratto originale e missionario. La nostra comune simpatia per le esperienze ispirate alla Teologia della liberazione, maggiormente rafforzate dal vento impetuoso del Concilio Ecumenico Vaticano II, fecero della parrocchia Santi Pietro e Paolo un centro di aggregazione e di esperienza di fede «originale e intensa» finalmente libero da tutte le scorie che nella Chiesa avevano preso il sopravvento. Di Giovanni Piro il merito e la spinta. Naturalmente quello che avveniva alla Santi Pietro e Paolo strideva con il resto della Chiesa catanese e ci creò qualche incomprensione: anche dolorosa. La sua saggezza e la sua pazienza evitarono rotture traumatiche. E il cammino proseguì. 41


Il ricordo di Nuccio Lombardo

Sono di qualche anno più anziano di Giovanni Piro e, poiché abitavamo in strade adiacenti, al quartiere Borgo, lo ricordo bambino. Era taciturno, timido, e molto riflessivo. Fu un adolescente vivace ed al tempo stesso di straordinaria umiltà. Tutte caratteristiche che ha mantenuto anche da adulto, aggiungendovi la dote della riflessione, spesso accompagnata da atteggiamenti ora estroversi, ora introversi. Possedeva una capacità d’accoglienza senza limiti, e verso tutti. Aspirava a realizzare una comunità che fosse veramente aperta a chiunque: senza bandiere, senza colori politici, senza ghettizzazioni culturali. Era, infatti, un uomo tollerante. Fu considerato un comunista. Credo, più prosaicamente, che sia stato uno che ha saputo accogliere i comunisti, nel tempo in cui questi venivano esclusi e ghettizzati. Ricordarne la figura è giusto. Tuttavia, di fronte alla morte che rende veramente uguali, così come occorrerebbe essere già in vita, penso che Giovanni avrebbe preferito il silenzio, l’unico che desse spazio alla testimonianza, alla vita concreta, fatta di gesti, non di parole. Ma nell’era della comunicazione ricordarlo attraverso scritti e parole è doveroso 42


perchè proietta il suo ricordo nel futuro ed il suo esempio può essere di stimolo.

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L’INFANZIA

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iovanni Piro nacque a Catania il giorno 18 settembre 1929. Il padre si chiamava Giuseppe, originario di Acireale, dove era nato nel 1880, e la mamma era la signora Concetta Magri, catanese purosangue. Oltre a Giovanni, i coniugi Piro avevano avuto altri due figli: il primogenito, nato nel 27, che si chiamava Salvatore, ma era per tutti Turiddu, e la terzogenita, Santuzza, del ‘31, ormai l’unica vivente della famiglia, e che per Giovanni fu una presenza importante. Il primo ricordo della sua infanzia, Giovanni lo raccontò, in modo ironico e divertente, in una delle tante lettere che scriveva ai suoi cari, e indirizzata, ovviamente postuma alla morte di lei, alla sua mamma: “Fui nutrito nei primi giorni di vita con il latte d’asina, e questo spiega la mia congenita «somaritudine», e successivamente con quello più idoneo e meno costoso di Tudda, una giovane balia, che arrivava da Mirabella Imbaccari”. Giuseppe Piro era un commerciante di tessuti, ed il suo negozio, nella centralissima via di Garibaldi, al numero civico 203, a Catania, era frequentato dall’alta borghesia cittadina; il piccolo Giovanni era però convinto che il padre facesse un altro mestiere: quello del falegname. La domenica mat45


tina, infatti, il signor Giuseppe si dilettava con l’hobby del fai da te, e costruiva oggetti in legno di ogni genere. La costruzione del presepe, ad esempio, cominciava già sul finire di agosto, ed ogni anno vi erano nuove capanne, e pozzi, e ruscelli d’acqua. uesta passione per la falegnameria, il signor Giuseppe l’aveva avuta anche quando era un ragazzino; in quell’epoca costruiva soltanto un paio di rudimentali oggetti: tabernacoli ed altarini religiosi. Tanto che un suo zio pensò che potesse nutrire, nell’inconscio, un sentimento religioso, e convinse i genitori a spedirlo in seminario, ad Acireale. Lo zio era abbastanza facoltoso, e poteva permettersi di pagare le rette più salate; ma l’improvvisa sua morte, e la mancanza di liquidità della famiglia, fecero sì che Giuseppe Piro lasciasse il seminario prima ancora di avere riflettuto sulla sincerità della sua vocazione. Rientrato a casa, Giuseppe Piro proseguì gli studi commerciali, quindi partì per la prima guerra mondiale, ma senza mai raggiungere il fronte bellico perchè l’esercito lo trattenne a Napoli. Quando rientrò ad Acireale, gli fu proposto il matrimonio con Concetta Magrì, appartenente ad una famiglia benestante di Catania. Le nozze si celebrarono dopo un breve fidanzamento. Giuseppe Piro era a quel punto un uomo sereno: aveva avviato il negozio di commercio di tessuti, arrivava la prole, e lui, nei momenti liberi, quelli almeno in cui non si dava alla falegnameria, cantava. Romanze bellissime, che se un passante fosse transitato nei pressi di via Filocomo, dove i Piro avevano casa, 46 senza sapere che vi abitasse un commerciante,

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avrebbe pensato che un cantante lirico fosse lì a provare il suo repertorio, in attesa di andare alla prima del teatro Massimo Bellini! Il quartiere Borgo, dove la via Filocomo era una strada importante, che lambiva lateralmente la cintura esterna dell’agglomerato, era sorto per l’emigrazione degli abitanti di Misterbianco, che qui avevano trovato, dopo la più vicina zona di Cibali, un luogo non troppo distante dalle campagne in cui lavoravano, spesso a giornata, qualcuno a mezzadria. E, all’interno del quartiere, la parrocchia Sant’Agata al Borgo, era un punto di riferimento per tutte le famiglie. I Piro la frequentavano con assiduità, anche se il signor Giuseppe e la signora Maria non erano certamente bigotti, pur se devoti e praticanti. Giovanni si integrò subito nelle attività dell’oratorio della parrocchia, che aveva due fondamentali pilastri: un teatro ed una eccellente squadretta di calcio, denominata Società Sportiva Excelsior. E, forse, se è vero che c’è un destino inconsapevole nella vita di ciascun uomo, Giovanni ebbe la fortuna di incontrare, proprio nella parrocchia Sant’Agata al Borgo, una delle prime persone che seppe toccargli le corde del cuore. D’altra parte, anche da bambino, lui era così: timido, impacciato, ma sempre riflessivo, e capace di cogliere le altrui sensibilità. Molti dei gesti, tanti degli atteggiamenti che vide negli altri, gli ritornarono da adulto: i germogli più lontani misero frutto, nell’animo di Giovanni. 48


Accadde così che il parroco, la bellissima figura di padre Francesco Mascali, lo esortasse a fare la prima comunione quando Giovanni non era che un moccioso. Ma non era questo il fatto più importante, bensì la sollecitazione fornita da padre Mascali ai primi gesti di indipendenza, di libertà, lontani dagli schemi, dalle convenzioni, dai riti, scelta che Giovanni ha poi mantenuto per tutta la vita; scriveva egli stesso nell’ideale lettera indirizzata a padre Mascali: “Mi desti - era una splendida domenica di maggio del ‘35, non avevo compiuto ancora i sei anni - la prima comunione e mi incoraggiasti a masticare tranquillamente il pane eucaristico, sollevandomi dal trauma che avevo provato il pomeriggio precedente, quando quasi soffocavo nel tentativo di ingoiare l’ostia senza masticarla, come mi aveva raccomandato insistentemente, durante questa prova, la signorina Anna, mia catechista”. Ed ancora da padre Mascali, Giovanni Piro prese probabilmente una certa ritrosia verso la confessione, non dubitando mai della forza della riconciliazione e del perdono, ma trovando sempre esagerato il senso di colpa e di oppressione che spesso inutilmente condizionava i fedeli, addirittura allontanandoli dalla possibilità della gioia dell’eucarestia: “La domenica, mentre indossavi in sacrestia i paramenti per la messa solenne, radunavi noi

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ragazzi, ci facevi dire l’atto di dolore e ci impartivi l’assoluzione comunitaria, sollevando noi dall’imbarazzo di cercare i peccati da dirti e te, forse, dal fastidio di ascoltare le nostre solite tiritere che tu ben conoscevi”. La vita di Giovanni, dunque, scorreva serena. Anche se tra i cinque ed i sei anni ebbe il trauma di una malattia, che stava portandoselo all’altro mondo: la difterite, infezione batterica che, nel passato era molto pericolosa. La famiglia Piro ne era stata pesantemente colpita e sarebbe stata più numerosa se non avesse patito la morte di tre figliole, di cui Giovanni ricordava - con un flash improvviso alla memoria - l’ultima, “baciata, sul letto grande di casa, fredda e pallida”. Sul finire dell’estate del ‘35, allora, mentre i Piro villeggiavano in una villa della pedemontana etnea, anzi, in una modesta casa ma con una bella scalinata d’accesso, il piccolo Giovanni fu colto dallo stesso male: “Per fortuna il dottor Pasteur aveva scoperto il vaccino ed il medico di famiglia, per giunta nostro parente, salì da Catania appena in tempo con un enorme siringa che mi incusse terrore, ma mi salvò”.

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L’episodio della malattia era ricordato in una lettera ad una bambina, di cui neanche Giovanni


ricordava più il nome, figlia del mezzadro della campagna in cui i Piro villeggiavano; questa bambina rappresentò il suo primo amore ed il suo primo fidanzamento ufficiale: la lontananza poi sconfisse le reciproche promesse di amore eterno. Rimessosi dalla malattia, ripresa la vita di ogni giorno, la scuola e l’oratorio, Giovanni tornò ad essere il bambino di sempre: pacioso, taciturno, con l’inseparabile compagnia di un gattino nero; spesso era coinvolto dal fratello maggio-

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re nella più ristretta cerchia dei suoi amici, più grandicelli. Allora, il gioco maggiore era quello di addentrarsi nelle vie più isolate e distanti del rione, quelle che confinavano con il quartiere della Consolazione, e che si diceva fossero abitate da un fantasma, denominato lo “Spiddu”. I bambini ne erano così soggiogati, che qualcuno era arcisicuro di averlo visto, prima di scapparsene, terrorizzato, a gambe levate, e sapeva descriverlo pure nei particolari. Durante la guerra, Giovanni seguì per un periodo la madre ed il resto della famiglia a Valverde. La madre, infatti, soffriva di improvvisi attacchi di cuore, e l’ansia dei bombardamenti bastava di per sè a mettere a rischio le proprie coronarie. Si pensa che la prima chiamata vocazionale Giovanni Piro potesse averla avuta durante questa permanenza, frequentando il Santuario della Madonna di Valverde e la chiesa di Sant’Anna che si trovava tra Valverde ed Aci Sant’Antonio. È difficile credere, tuttavia, ad una crisi mistica, anche se lui non chiarì mai del tutto il momento della consapevolezza della sua propria scelta sacerdotale, a maggior ragione configurandosi essa come un percorso coerente ed articolato. Tanto più che dopo un’estate, Giovanni tornò a Catania, andando a vivere a casa dei nonni materni. Quando poi la famiglia si riunì, Giovanni ne fu contentissimo. Egli, infatti, era molto attaccato al padre, così come alla madre, verso la quale nutriva un sentimento di sincera ammirazione, per la sua forza, la sua dedizione, ed il suo coraggio. 52


Accadde che il padre, subito a ridosso della guerra, attraversasse nella gestione del negozio un momento di difficoltà : gli affari non andavano per il verso giusto, e non c’era

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l’estro di riprendere la spinta. Fu data in affitto la casa di villeggiatura, e anche la casa di Catania subì alcune variazioni. In quella circostanza avvenne che il signor Giuseppe si smarrisse nel suo potere decisionale, e che toccasse alla consorte signora Maria darsi da fare per garantire certezze e fiducia nelle prospettive future. La signora si inventò geometra e ridusse gli spazi della casa. Una stanza fu data in affitto per arrotondare le entrate, che scarseggiavano. In quell’anno Giovanni Piro entrava in seminario. Durante i permessi per rientrare in famiglia, Giovanni non trovò più la sua stanza; dormiva su una brandina pieghevole in soggiorno. Questa condizione perdurò per tre anni. Ma insegnò tantissimo all’aspirante sacerdote Giovanni: i gesti della rinuncia, di non far mai pesare i disagi, e, in particolare, la profondità della solidarietà.

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LA VOCAZIONE

Si è già chiarito che Giovanni non ebbe alcuna crisi mistica. Ma come mai decise di farsi prete? Quale fu l’intuizione più profonda nel mettere a fuoco la propria vocazione? E’ stato detto e scritto da alcuni amici: Giovanni ha saputo modificare la chiesa catanese; meglio ancora: la chiesa catanese avrebbe perso un riferimento essenziale, in termini di riflessioni, di ricchezza, senza l’abito talare, inteso come sostanza, del sacerdote Piro. Giovanni non spiegò mai l’origine della propria vocazione, perchè avrebbe reso razionale una scelta, che invece era di fede: una vera chiamata, un modo autentico di lasciare la propria barca, e seguire quella di Gesù, per divenire pescatore di uomini. Anni dopo ad un gruppo di fratelli africani, durante una calda notte che sembrava non indulgere mai alle prime luci dell’alba, Giovanni spiegò: la vita ha un senso solo se la si spende per gli altri. Era probabilmente in quest’affermazione la radice più profonda della sua vocazione. In ogni caso, ho letto e riletto le sue lettere, ho ascoltato tante persone che lo conoscevano, ho ripassato tantissime 55


conversazioni avute con lui, e mi sono fatto una mia, personalissima idea. Giovanni sentì l’urgenza di essere padre, di farsi sacerdote, per l’appoggio totale che le persone che più contavano nella sua vita mostravano di richiedergli. C’era bisogno della sua presenza. E lui, davanti a situazioni complesse, difficili, che forse potevano apparirgli anche più grandi delle proprie responsabilità e capacità, trovava la soluzione nel rimedio più semplice e più profondo possibile: nel sorriso, nell’accoglienza, nell’amore. Quindi, per un cristiano, per un uomo di fede, nel Vangelo, nella capacità di abbandonare padre, madre, fratello, sorella, per amare incondizionatamente e totalmente il proprio prossimo. La scelta maturò subito dopo la guerra. Era l’anno 1946. Giovanni ne parlò, per primo, al padre. Andò a trovarlo nel negozio di via Garibaldi e glielo comunicò, con parole semplici e dirette. Poi lo disse alla madre: voglio essere sacerdote. Il padre, che pure aveva provato egli stesso un periodo in seminario, ne rimase molto turbato. La madre pure, ma per motivi opposti a quelli del coniuge. Il signor Piro, commerciante di tessuti e conoscitore del mondo, pose il figlio davanti alle prova del nove: lo portò al Cine Teatro Diana per assistere ad uno spettacolo di rivista, con ballerine mezze nude. Il numero delle soubrette sul palco s’assottigliava via via che passava il tempo, in quanto sparivano dentro i camerini con spettatori del pubblico in vena di spendere soldi per il piacere del proibito. 56



Il signor Piro guardava il figlio, come a dirgli: sai che, divenendo prete, dovrai rinunciare a tanta bella grazia che offre madre natura? Giovanni guardava il genitore, e sembrava volergli rispondere: ammetto la loro procacità e la loro bellezza, ma il sacrificio della rinuncia ai piaceri terreni è nulla rispetto ad un amore più ampio, tutto disegnato su misura sui voleri di Dio. La madre, più che terrorizzata per la dichiarata vocazione del figlio, era impaurita che questa potesse rivelarsi fragile, ferendo il suo Giannuzzu e, soprattutto, la chiesa: fece allora il fioretto di non mangiare più dolci e frutta, affinchè il suo ragazzo portasse a compimento la vocazione. Nel 1946, allora, Giovanni entrò in seminario, dove rimase per sette anni. Si ambientò immediatamente, malgrado come primo impatto fosse uso proporre agli studenti una settimana di assoluto silenzio, per staccarsi dal mondo e riflettere sul senso della propria vocazione. A Giovanni non dispiaceva la solitudine del prete, la capacità romantica di non essere di questo mondo: già da ragazzino gli era balenata l’idea del sacerdozio, che lui faceva coincidere con l’ideale della povertà, della lontananza dai beni materiali. Ma il seminario non era un carcere. Anzi. Era molto praticata l’attività sportiva, e Giovanni era un ottimo calciatore, un difensore arcigno, che si adattava anche al centrocampo. Per il suo primo periodo di permanenza, e comunque sino al maggio 1950, il seminario fu retto da monsignor Giovanni Pennisi, poi vescovo di Ragusa. Monsignore era un maestro di filosofia, 58 e sopratutto un educatore. Insegnò a Giovanni la


libertà di coscienza e lo instradò verso quella lealtà che può obbligare a dire anche cose sgradevoli. Dissuase immediatamente Giovanni dal desiderio di partire missionario in Africa. Gli spiegò che la cura delle anime è importante anche in luoghi meno esotici e lontani. E’ probabile che intuisse, dietro quell’aspirazione, soltanto una grande voglia di viaggiare e di conoscere il mondo. In una delle sue lettere-ricordo, riferendosi proprio alla figura di monsignor Pennisi, Giovanni commentava: “Gli scritti che hai lasciato sono testamento spirituale sul tuo sacerdozio e, anche se datati, sono sempre vivi ed attuali. Il seminario aveva le porte aperte e vi si respirava aria di ideali umani e cristiani. Ci conoscevi personalmente e molti di noi ti aprivano il cuore con fiducia senza restare delusi”. Monsignor Pennisi era un appassionato di teatro e di musica romantica. E’ probabile che si avvide di certe capacità teatrali di Giovanni, i cui semi erano stati dati negli anni della sua fanciullezza alla parrocchia Sant’Agata al Borgo, tanto che nel 1950 monsignore gli diede l’incarico di curare alcune regie teatrali. Era un uomo arguto e di spirito, ed aveva insegnato a Giovanni la regola principale della confessione; a tal proposito, ricordava ancora Giovanni: “Mi confessai ancora una volta con te..... Ascoltasti con pazienza la litania dei peccati, delle trasgressioni e delle imperfezioni, delle piccole e grandi infedeltà, poi, prima di tracciare sul mio capo il segno della croce per rassicurarmi del

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perdono del buon Dio, mi chiedesti a bruciapelo: «Hai fatto almeno qualcosa di buono?!» E’ una domanda che mi faccio spesso e che pongo agli altri...” Rettore successivo fu monsignor Carlo Vota, una persona molto valida, di evidente sensibilità, attento ai ragazzi, e figura di riferimento per Lucia Mangano, quale direttore spirituale della Casa delle Orsoline. Uomo dotato di spirito, cercava di sdrammatizzare le situazioni più ingarbugliate. Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, il prefetto del seminario corse, assai scandalizzato, da monsignor Vota, per avvisarlo che Giovanni con un suo amico si trovavano al campetto di calcio e giocavano, uno contro uno, una partita di pallone, divertendosi un mondo. Il prefetto considerava tale situazione, alla vigilia dell’ordinazione dell’indomani, davvero incresciosa. Ci sarebbero volute, al contrario, preghiere e penitenze. Monsignor Vota gli disse: lascia tranquilli i ragazzi, si vede che hanno la coscienza a posto. Un cruccio soltanto, per il quale rimaneva molto turbato, aveva afflitto Giovanni durante l’ultimo periodo del seminario: la consapevolezza che non avrebbe potuto contare su una discendenza diretta, che non avrebbe potuto procreare una vita che avrebbe così prolungato la propria. Fu don Guglielmo Giocchino a tranquillizzarlo, e a illustragli la paternità non come un vincolo di sangue, ma come un’esperienza senza confini.

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IL SACERDOZIO

Giorno 21 giugno 1953, Giovanni Piro fu ordinato sacerdote dal vescovo Bentivoglio. Era questi un monaco benedettino, lontano dalla mentalità secolare, quindi non sempre in sintonia con i preti. Più che un buon pastore, era considerato un principe, un nobile distante dai problemi dei preti comuni, e dalla gestione concreta della vita di una diocesi, che veniva seguita invece da monsignor Nicolò Ciancio, prete comprensivo e severo nei giusti modi, e sempre capace di dare gli ispirati suggerimenti. Purtroppo la storia della chiesa catanese di quel periodo non è stata ancora approfondita da nessuno, e spesso i giudizi sono contrastanti. Basti leggere quanto scrisse nel suo


interessantissimo libro “Catania” (edizioni Laterza, 1986), il professore Giuseppe Giarrizzo: “Dal 1952 è arcivescovo di Catania Guido Luigi Bentivoglio. Il congresso eucaristico del 1959, celebrato a Catania, rimarrà il momento più significativo di un pur lungo episcopato. Erede di un prelato politico come Patanè, monsignor Bentivoglio appare una figura grigia ed autoritaria, più attento ai problemi strutturali e organizzativi della chiesa che alla ricerca di nuovi ruoli e di un’identità non tradizionale”. La chiesa catanese, come quella siciliana, esibiva un’evidente atonia e lo storico Giarrizzo non mancava di sottolinearne la pochezza di contenuti, evidenziando il forte ritardo, e la mancanza di interesse rispetto alla forza innovatrice del Concilio: “....La chiesa catanese subisce, non senza sconcerto, gli esiti e le speranze del Vaticano II; prende atto di una lenta ma irreversibile riduzione della scuola cattolica, in strutture e frequenza; appare incerta sulla crisi di vocazioni e sulla riforma del seminario. La cultura cattolica non conosce a Catania nessuna delle tensioni che attraversarono, anche per la sua tormentata personalità, il pontificato di Paolo VI. Spira invece, come reazione al ‘68, un’aria di tradizionalismo difensivo, che riapre antiche difficoltà tra clero regolare e clero secolare....”. 62


All’interno di questi confini, anche Giovanni Piro stentò a trovare la propria collocazione. Gli fu chiesto di insegnare alle classi medie del seminario e gli diedero anche un incarico in amministrazione. Ma nei compiti svolti non si evidenziavano particolari sue qualità. Celebrò messe in varie parrocchie di Catania. In quel periodo viveva con altri confratelli in una casa, vicina alla Cattedrale. L’esperienza gli fu utilissima, tanto che, nella sua vita sacerdotale, desiderò sempre privilegiare una dimensione comunitaria. La prima assegnazione, come coadiutore, gli fu affidata, nell’ottobre 1953, presso la parrocchia Divina Maternità di Cibali, che era stata edificata soltanto qualche anno prima al posto di un’altra più piccola chiesetta, dedicata alla Madonna delle Grazie, semidistrutta dei bombardamenti delle navi alleate proprio nell’ultimo periodo del secondo conflitto bellico. Ogni mattina, all’alba, Giovanni Piro lasciava la propria abitazione, nei pressi della Cattedrale, ed a bordo di un ci-

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clomotore raggiungeva il quartiere di Cibali e la sua parrocchia. Più tardi acquistò una Cinquecento. Quello fu un periodo molto importante; Giovanni si prodigò come coadiutore, una volta si diceva sotto-cappellano, e fu l’anima dell’oratorio parrocchiale. Giovanni si sentiva pienamente realizzato perchè il quartiere era popolato da una maggioranza di persone povere, con tanta dignità, ma senza mezzi. Nella consueta lettera postuma al suo parroco, don Matteo Torresi, Giovanni Piro ricordava quei suoi esordi lontani, in mezzo al popolo: “.....Mi guidasti fino alle povere case che sorgono di fronte alla chiesa, proprio dietro i palazzetti che si affacciano sulla piazza Bonadias. Era il quartiere chiamato Gelsi Bianchi, o più comunemente «casbah» per le strette e tortuose stradine. Mi presentasti alla gente che ben conoscevi e chiamavi per nome, incurante della puzza di piscio degli animali e dei bambini che facevano insieme festa. Un’esperienza che ha accompagnato gli anni che ho trascorso a Cibali ed ha segnato tutta la mia vita”. Proprio dal parroco Torresi, Giovanni apprese alcune basilari lezioni: innanzitutto, il dono della semplicità. Inutile usare paroloni di dotta sapienza, se le persone mostrano di non capire, rimanendo così distanti dalla parola di Dio. 64


Poi imparò che il comando della guida non può essere disgiunto dalla forza dell’amore: l’uno è imprescindibile all’altra. Comprese che la tonaca non dava diritto ad avere sempre ragione e che il prete deve sapere chiedere scusa ed agire con umiltà. Di lui condivise immediatamente l’urgenza di non gestire i sacramenti come assicurazioni per il conto in banca della parrocchia: “....Personalmente vivevi con semplicità e parsimonia, donando ai poveri che si presentavano dopo la messa ogni venerdì, sempre più numerosi. Ho saputo che a tanti giovani coppie non solo non chiedevi niente per la celebrazione del matrimonio, ma piuttosto donavi sempre qualcosa per fare festa. Una carità, la tua, discreta e nascosta che solo Dio ha conosciuto”. Lo stesso senso di carità che aveva Giovanni Piro. Quando morì don Torresi, nel 1960, Giovanni non c’era: si trovava a Roma, nella parrocchia Santa Maria degli Angeli, dove sostituiva un prete. Si precipitò immediatamente a Catania, ma giunse quando i funerali erano stati già celebrati. Giovanni pianse per lo sconforto, la rabbia, e la solitudine. Trovò un inaspettato regalo da parte di monsignor Torresi: 65


“....I tuoi fratelli mi consegnarono la tua tunica, quella buona e nuova che, filettata di rosso, i parrocchiani ti avevano regalato - ed io avevo terminato di pagare alle Suore Pie discepole - in occasione della tua nomina a monsignore. Avevi chiesto che sul letto di morte ti rivestissero dell’altra logora e sdrucita, destinando a me quell’altra. Non saprò mai se per compensarmi in qualche modo del magro stipendio che potevi darmi o per ideale testamento”. A Giovanni Piro, il Vicario diocesano chiese di dormire in canonica, e gli fu attribuito l’incarico di amministratore sino alla nuova nomina di un parroco. Quella parrocchia, improvvisamente, gli apparve troppo grande. Giovanni si sentì debole, oberato di una responsabilità più grande di quella che potesse sopportare. Così, nominato il nuovo parroco, chiese di poter fare un altro viaggio, per rilassarsi e trovare il suo consueto equilibrio interiore: si mise a bordo della sua Cinquecento e partì, e quando scaricò la tensione, e decise finalmente di fermarsi, scese dall’auto e si accorse di essere arrivato a Parigi.


La stoffa di Giovanni

In quegli anni Giovanni Piro cominciò a rivelare il suo spirito ribelle, contrario agli ordini delle gerarchie, ed a mostrare la propria indole: schietta, sincera, e all’occorrenza polemica. Alcune cose, viste con gli occhi di oggi, sembrano persino assurde. Ma in quegli anni erano veri scossoni dentro le mura di una chiesa catanese sonnacchiosa e disciplinata. Ad esempio, molte tensioni suscitò la scelta di smettere la tunica a beneficio dell’abito laico: Giovanni fu tra i primi ad indossare gli «abiti civili». Allora, intervenne il vescovo monsignor Bentivoglio, che gli intimò di rimettere immediatamente la tonaca. Monsignore era un monaco, figura austera, ben lontano dall’interpretare gli umori dei suoi preti: egli era ad un livello diverso, più alto, una sorta di principe, sarebbe stato l’ideale nell’episcopato del passato. Giovanni Piro fece orecchie da mercante. La reazione di monsignore fu durissima: ma invece di affrontare direttamente il ribelle, cominciò a strepitare ai quattro venti che nessuno in Diocesi poteva permettersi di disubbidirlo, e che l’abito laico sarebbe stato autorizzato soltanto quando lo avrebbe indossato il proprio segretario. 67


Accadde che, all’indomani di questi proclami, urlati ad una riunione di alti prelati e di intimoriti parroci, monsignor Bentivoglio dovesse andare in aeroporto, e che avesse ordinato, al suo segretario, padre Concetto Greco, di farsi trovare puntualissimo alle otto, con l’auto già in moto nel cortile dell’Arcivescovado. Padre Greco, che era un prete molto affabile, e molto solidale con il clero di base, fu puntualissimo: ma con grave imbarazzo del suo superiore, si fece trovare con indosso l’abito laico. Sua eccellenza vescovo divenne rosso di rabbia come un peperone, ma non profferì parola, perchè quello era un segnale forte; e non era stato proprio egli stesso a dire che la nuova moda sarebbe stata autorizzata solo quando il suo segretario avrebbe indossato il clergyman? Un altro caso dove Giovanni non ebbe alcun timore nel manifestare la propria solidarietà ad alcuni preti in contrasto con la maggioranza del clero catanese avvenne nella metà del 1970, quando già da qualche anno era parroco alla comunità Santi Pietro e Paolo. E l’occasione fu data da un episodio legato al Seminario della città. Il fatto - come fu magistralmente trattato da Nino Indelicato, in un numero della rivista «Cataniadue», un periodico legato alla realtà parrocchiale di Villaggio Sant’Agata che raccoglieva le maggiori vivacità intellettuali e cattoliche di quel periodo - era relativo all’avvicendamento del rettore del Seminario. Inaspettatamente il vescovo Bentivoglio aveva scelto di sostituire monsignore Rocco Rapisarda, che per sedici anni aveva retto le fila dell’istituzio68


ne. Se inopinata era apparsa la sostituzione, ancora più inverosimile appariva la scelta del sostituto, individuato in don Ventorino, che aveva chiamato con sè alcuni collaboratori, capaci di essere profondamente vicini ai giovani, di capire le loro esigenze, di spronarli, rincuorarli o dissuaderli dai propositi vocazionali con sincera fraternità; facevano parte di questo gruppo ristretto padre Greco, don Pippo Gliozzo, don Politi, don Di Giovanni, don Pappalardo, don Perni, don Zappalà, e monsignor Scalia. Chi erano queste persone e quale svolta rappresentavano? Nino Indelicato, nel citato suo saggio, ne tratteggia questo profilo: “Ancora una volta bisogna dire che quasi tutte avevano lavorato nella costruzione della pastorale giovanile diocesana, ambito questo che si rivelava quindi decisivo per l’aggregazione del nuovo gruppo dirigente. Essi, a quel tempo, rappresentavano senza dubbio le esperienze ecclesiali giovanili più dinamiche e interessanti, le più aperte ed attente ai nuovi fermenti che il Concilio, da pochi anni finito, andava immettendo anche nel sonnolento ambiente catanese; molti avevano esperienze specifiche in ambito studentesco. Non si può certo dire che avessero tutti la stessa mentalità o gli stessi progetti, certo avevano in comune, almeno in questo momento, la stessa intuizione ecclesiale”. Riguardo allo specifico avvicendamento, le cose sembra fossero andate in questo modo: monsignore Rapisarda avvertiva qualche critica sui suoi metodi di gestione, reprimende che arri-

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vava dall’esterno, e mugugni che s’avvertivano dall’interno; e aveva chiesto in più occasioni al vescovo di essere sostituito: Bentivoglio lo aveva difeso a spada tratta; una prima, una seconda, ed una terza volta. Probabilmente il prelato, sentendosi rassicurato da queste difese d’ufficio, con ancora maggiore frequenza chiedeva di essere cambiato. Ma, l’ultima richiesta, invece che rassicurarlo, gli fu fatale: il vescovo, in una giornata che non doveva essere delle migliori, lo prese alla lettera, e lo congedò. La scelta del successore fu altrettanto estemporanea: uomo vivace, polemista raffinato, don Ventorino sapeva stare accanto ai giovani, essendo stato, a quei tempi, assistente di Gioventù Studentesca. A seguito di questo avvicendamento vi furono numerose polemiche: innanzitutto, fra gli stessi protagonisti, ma almeno tra loro in punta di fioretto, con disquisizione dotte, citazioni paoline, su ciò che fosse costruito sulle fondamenta altrui, o se le fondamenta riuscissero a reggere il peso di costruzioni concrete, o si rivelassero, diversamente, di cartapesta. Un confronto pesantissimo, dunque, tra passato e futuro. Don Ventorino ed i suoi collaboratori cambiarono radicalmente fisionomia al seminario. Mentre prima questo era una sorta di vero e proprio collegio, che accoglieva quasi tutti i richiedenti, nella speranza che germogliassero vocazioni, con il nuovo corso si puntò ad una crescita spirituale degli studenti, a condizione però, per il loro ingresso, che avessero buone basi e la sincera speranza di divenire uomini di Chiesa. 70


Cambiò allora il rapporto tra l’istituzione del seminario e le comunità ecclesiastiche: il primo non era più un universo a sé stante, ma un luogo d’approdo per coloro che, all’interno delle parrocchie, avessero manifestato una sincera attitudine al sacerdozio. Ancora una volta è prezioso il contributo di Nino Indelicato: “E’ affermato, in altri termini, il ruolo sussidiario del seminario rispetto alla comunità, alla quale viene addirittura affidato il giudizio di ammissione. Si voleva dunque far uscire il seminario dal suo sacrale isolamento: si chiedeva ai sacerdoti di considerarlo come la loro casa, lo si metteva a disposizione per ritiri ed incontri, lo si voleva far diventare il fulcro di quel lavoro sulla pastorale giovanile che già era iniziato in maniera così promettente”. Don Ventorino ed i suoi collaboratori presero immediatamente atto di una situazione drammatica: la vocazione era rasente lo zero. Gli aspiranti erano più interessati a finire il percorso di studio - la parificazione con gli istituti scolastici rivelava in tutto il suo intrinseco limite - che a verificare la propria fede. I ragazzi, insomma, vivevano una situazione di comodo. Il nuovo gruppo di responsabili del seminario si adoperò subito per far comprendere, soprattutto ai ragazzi più adulti, quelli che già frequentavano i corsi di Teologia, le ragioni più profonde della propria fede. E se ai seminaristi di tutte le età fu 71


proposto uno stile di vita comunitario, con il prete che non doveva più essere visto come un superiore, ma come un adulto che sta a fianco del più giovane, agli studenti più adulti fu proposta addirittura un’esperienza fuori dal seminario: essi furono mandati a vivere per un periodo in uno dei sobborghi all’epoca più disagiati della città di Catania: il Pigno. Qui, i ragazzi dovettero interrogarsi a fondo sulle proprie intenzioni: perchè un conto era immaginarsi acriticamente preti, perchè sin dall’inizio, più per volontà dei propri genitori che per una scelta autonoma, così ci si era visti; un altro era comprendere e capire uno stile di vita sacerdotale una volta abbandonate le mura sicure del seminario. Le proposte di don Ventorino e dei suoi collaboratori erano, senza dubbio alcuno, validissime. Ponevano i giovani davanti alla propria autenticità: spiegavano loro il sacerdozio quale scelta di libertà e non di costrizione. Eppure queste intenzioni finirono nel mirino delle contestazioni da una parte del clero di base catanese. Ciò avvenne per vari motivi: qualche prete, valutando l’esperienza esterna, immaginò persino che si volesse chiudere il seminario. Insomma l’analitico Nino Indelicato rappresentò un quadro molto chiaro: “In effetti, quello che si crea è un clima di sospetti e di pregiudizi, mentre cominciano a scattare meccanismi di autodifesa e di ostilità: il malcontento diventa ben presto fenomeno di massa”. 72


Intanto, del tutto incidentalmente, ma per quelle casualità che sembravano dettate dalle circostanze, a Catania veniva nominato un coadiutore dell’Arcivescovo: si trattava di monsignor Domenico Picchinenna. Egli cominciò subito ad operare nell’ambito più difficile, proprio quello del contenzioso tra preti che originava appunto dalle dispute sul seminario. In pochi fecero sentire il proprio sostegno al gruppo dirigente del seminario. Ma fra questi c’era Giovanni Piro, che animatamente cercava, nei colloqui che aveva con altri sacerdoti, di difendere le novità apportate in seno al seminario.


Giovanni fece sentire sopratutto ai colleghi più vicini, come don Pippo Gliozzo, tutta la propria stima e solidarietà. Con le più nobili e buone intenzioni fu promosso, su coordinamento e indirizzo di monsignor Picchinenna, un Convegno pastorale vocazionale affinchè si potessero confrontare le due differenti posizioni. Furono organizzati gruppi di studio, in momenti partecipati, e davvero utili e costruttivi, così che i preti potessero approfondire tematiche e suggerire proposte relative alla crisi del seminario; Giovanni fu uno fra i più attivi e propositivi. Tuttavia, già all’apertura dei lavori circolava un documento, firmato da ben duecentotrentatre prelati, in cui si chiedeva il ripristino in seminario dei precedenti metodi educativi, sconfessando così l’operato degli attuali responsabili, che prescindendo da quelle richieste, fiutato il clima, si erano già presentati dimissionari al Convegno. E’ probabile che il documento fosse stato letto solo superficialmente da molti sottoscrittori, senza neppure arrivare alle righe finali dove il gruppo di don Ventorino veniva proprio messo alla berlina. Altrimenti difficilmente avrebbe avuto tanti firmatari. Fu quello un definitivo crollo delle speranze di cambiamento e della riscoperta della vocazione più autentiche.

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La Santi Pietro e Paolo

La panoramica così ampia delle pagine immediatamente precedenti, rispetto alle quali la figura di Piro è rimasta tanto sullo sfondo, è spiegabile per due ragioni. La prima. Inquadrare il tempo della chiesa catanese: fatto di restaurazioni, di reciproche ostilità fra i propri uomini, e comunque di generale appiattimento. La seconda. Comprendere come Giovanni Piro, sempre ribellandosi all’uniformità degli altrui comportamenti, seppe rendere la propria comunità, quella della San Pietro e Paolo, quale luogo speciale e diverso della diocesi etnea, tanto da far dire a più persone che la stessa chiesa catanese aveva mantenuto una propria originalità, e sopratutto autenticità, grazie proprio a Giovanni, e - non sarebbe corretto sostenere il contrario - grazie a pochi altri preti, da contarsi sulle dita di una mano. Giovanni Pirp era stato nominato parroco da monsignor Bentivoglio, con provvedimento datato 13 novembre 1965. Il nuovo quartiere aveva iniziato ad espandersi rapidamente già dal dopoguerra, ed a metà degli anni Sessanta le sue dimensioni apparivano molto consistenti: l’area era quella a nord est del quartiere Monserrato, in particolare nel tratto sopra piazza Abramo Lincoln, e la diocesi etnea comprendeva quanto fosse urgente costruire un nuovo edificio di culto. 75


Giovanni Piro sembrava essere l’uomo adatto per fronteggiare una situazione tutta nuova, da avviare completamente da zero. Non c’era assolutamente nulla in questo nuovo quartiere. Paradossalmente Giovanni coronava un sogno: era come andare in terra di missione, lui che missionario voleva farsi davvero, prima che i superiori gli chiarissero che forse a lui piaceva più viaggiare che essere apostolo in terre lontane. Ma nel nuovo agglomerato catanese, che si sviluppava rapidamente, aveva un compito assai simile a quello dei missionari: gli toccava realizzare una comunità di anime, fra gente che per lo più non si conosceva e proveniva dalle zone più diverse non solo della città, ma dei paesi limitrofi. Per la costruzione dell’edificio sacro della Santi Pietro e Paolo la Diocesi etnea aveva acquistato un terreno appositamente. La presa di possesso avvenne il 21 novembre 1965. Era sera e tantissima gente si strinse attorno al proprio neo parroco. Sino al gennaio 1969 gli ambienti della parrocchia furono ovunque si fosse ospitati: in una stanzetta di via Vincenzo Giuffrida al numero civico 160 e nei garage di via Siena si celebravano le messe; gli incontri di catechismo si svolgevano inizialmente all’interno di una stalla e successivamente ci si spostò in un appartamento di una casa popolare sita in via Pirandello, che aveva reso disponibile la signorina Domenica Marino, una nubile - come ricordava Giovanna Piro in una sua lettera - che teneva tantissimo all’appellativo “signorina”, perchè rendeva l’idea di verginità, e quindi di mag76 giore vicinanza al Signore.


La signorina Domenica Marino fu una protagonista molto attiva in parrocchia, alla quale voleva addirittura donare questa abitazione dove si era svolta per qualche tempo la catechesi; fu proprio Giovanni ad insistere affinchè questo immobile finisse - più correttamente - ai nipoti della signorina Domenica, alla fine ottenendo il suo assenso. Quei cinque anni necessari alla costruzione della parrocchia furono epici ed esaltanti: Giovanni Piro seppe coinvolgere i nuovi parrocchiani, conosceva quasi tutte le famiglie, frequentava le loro case, si soffermava sopratutto verso chi - meno abbiente - necessitasse di aiuto, sostegno, anche solo conforto. Certo fremeva per cominciare un’effettiva comunità. Ed ancora di più fremeva sua madre, che desiderava ardentemente accompagnarlo nella canonica di via Siena ed accudirlo come avrebbe fatto una qualunque brava perpetua. Giovanni seppe essere irremovibile con la madre; e le fece comprendere, con quella sua caratteristica mitezza accompagnata da modi altrettanto spicci, che non l’avrebbe portata con sè. Tra l’altro la madre non vide neppure l’inaugurazione ufficiale della parrocchia in quanto morì qualche settimana prima. Quando comprese che la mamma stava per andarsene, Giovanni antepose, al dolore umano del figlio, l’umanità del prete: le somministrò l’olio santo, ma non volle darle l’eucarestia. Ritenne infatti che ad una donna ormai semi morente, e probabilmente già priva di conoscenza, pur se propria madre, l’ostia non suggellasse la vera ed autentica comunione con Dio, vissuta invece nella quotidianità e nell’opero77 sità di tutta una vita.


La vita comunitaria in parrocchia, sullo stile di quella che aveva intrapreso immediatamente dopo il sacerdozio in una casa del clero vicina alla cattedrale, si avviò tra alcuni preti provenienti da realtà diverse. C’erano, fra gli altri, don Paolino Mangano, che successivamente rinunziò al sacerdozio; don Vincenzo Romè; padre Franco Longhitano, poi parroco della chiesa Santa Maria della Salute; padre Di Martino, che apparteneva alla diocesi di Ragusa, e che in quegli anni studiava Matematica all’Università di Catania. Nell’autunno del 1971 giunse don Alfio Carciola. E qualche tempo dopo, nel 1976, don Salvatore Resca. L’idea di Giovanni era quella di proporre un’autentica vita comunitaria: bella da immaginare, ma difficilissima da realizzare. Le circostanze individuali dei singoli preti portarono poi alla graduale frantumazione di questa ipotesi e nella comunità rimasero a tempo pieno soltanto in tre: Giovanni, Alfio, e Salvatore. Le attività parrocchiali erano caratterizzate da alcuni chiari indirizzi: c’era l’impegno dell’Agesci, lo scautismo, con la straordinaria figura di Nino Cannata, indimenticabile voce nel coro della parrocchia, che visse i suoi ultimi mesi di vita da sacerdote. Nino, amico, parrocchiano, uomo fragile e fortissimo allo stesso tempo, fu una risorsa inaspettata per Giovanni, che talvolta ripensava ai suoi vecchi parroci, maestri di vita e di pastorale, che speravano sempre di fare una buona semina e di coltivare nuove vocazioni. 78


Giovanni era un uomo moderno, ma gli capitava pure di pensare alle vocazioni delle giovani generazioni, e si crucciava - un po’ per celia, a dirla tutta - che nella propria parrocchia non fosse mai fiorita alcuna vocazione. Nino Cannata fu una risposta ritardata e magnifica, dolorosa e commovente. C’erano poi numerosi incontri fra i quali, quello centrale, costituito dall’incontro del venerdì, rivolto all’approfondimento della parola del Signore. Non erano quelle soltanto conversazioni dove il prete indottrinava ed i fedeli ascolta-

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vano: Giovanni Piro era un fautore del Concilio Vaticano II, e credeva fortemente nel ruolo e nell’impegno dei laici; essere ministro non lo poneva un gradino sopra gli altri. Da qui nacque l’invenzione di rinunciare al grande altare maggiore dell’unica navata centrale, per realizzare una forma esagonale delle panche confluenti tutte in un altare di più piccole proporzioni, di poco sopraelevato rispetto ai posti a sedere dei fedeli: era quello, appunto, un modo per fare maggiormente comunità, per abbattere le distanze, per rendere la liturgia più “democratica”. Altri impegni parrocchiali erano svolti in collaborazione con la Caritas per fronteggiare le emergenze del quartiere. Un’attività più laica, invece, era quella concernente le attività politiche della circoscrizione, almeno prima che sorgessero i Consigli di Quartiere: a questo proposito era stato costituito, giusto appunto nell’edificio di via Siena, un Comitato che presiedeva le zone Borgo, Sanzio, e Picanello, ed a capo, almeno ufficialmente, vi erano i preti delle tre aree urbane. Il gruppo si riuniva settimanalmente ed affrontava vari problemi sociali: ad esempio, il sostegno del dopo scuola ai bambini, le carenze delle infrastrutture e delle problematiche legate alla viabilità. Divenne, quindi, una meta significativa per molta gente: vi si approdava per i motivi più diversi. La parrocchia, fatta eccezione per la siesta pomeridiana delle prime ore pomeridiane, era sempre aperta: sino a notte fonda. La comunità “Santi Pietro e Paolo” fu, per definizione, il luogo dell’accoglienza. Se non per tutti, per tantissimi. Vi trovavano dimora, religiosa, intellet80 tuale, politica, umana, tutti quelli che pagavano lo


scotto della diversità, della non omologazione, dell’alternativa, del non avere altrimenti dove andare, o dell’esserci già stati, da qualche parte, ed essere stati respinti. Alla Santi Pietro e Paolo questo non accadeva: la parrocchia funzionava come una calamita nell’accogliere chi non sapesse dove andare. Ovviamente, questa tendenza ebbe svolte importanti in ambito religioso: molto clamore, ad esempio, suscitò l’ospitalità a don Giovanni Battista Franzoni, più noto come dom Franzoni, allora monaco benedettino, di orientamento progressista, promotore delle Comunità di

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Base, abate dell’abbazia di San Paolo Fuori le Mura, carica dalla quale fu ben presto costretto a dimettersi per forti pressioni delle gerarchie vaticane. Nel 1974 Dom Franzoni prese posizione per la libertà dei cattolici al referendum sul divorzio, sottolineando che il matrimonio non poteva essere, obbligatoriamente, un sacramento per i non cattolici. La polemica era sin troppo moderna per quei tempi, anche perchè presupponeva prime forme di dialogo tra comunisti e cattolici, che sino ad allora erano sempre stati abituati a fronteggiarsi in radicale contrapposizione; tale posizione gli costò la sospensione “a divinis”: gli fu cioè comminata una sanzione, dal Vaticano, con l’espresso divieto di amministrare i sacramenti, compresa la celebrazione della messa e la confessione. Due anni dopo, durante la campagna elettore nazionale del 1976, dom Franzoni dichiarò di sostenere il Partito Comunista e fu dimesso dallo stato clericale. Il clamore della visita in parrocchia di un personaggio che, a torto o a ragione ancora oggi continua a far discutere di sè, fu pretesto per molti cattolici benpensanti catanesi di apporre etichette sulla comunità Santi Pietro e Paolo, attribuendole il ruolo di parrocchia rossa, di sinistra, e sovversiva. Era realmente così? Giovanni Piro fu un comunista insieme agli altri due preti della comunità? Al di là delle simpatie personali per un partito o per un altro, della convinzione che più uno schieramento di un altro potesse farsi carico del problema dei poveri, dei disoccupati, degli sfruttati, la definizione della par83 rocchia rossa fu più una trappola che una verità.


Giovanni Piro, più che alle beghe della politica, pensava alla Chiesa ed al ruolo che doveva assumere nella tutela dei diseredati della terra. Da sempre sostenitore degli indirizzi del Concilio Vaticano II e, considerati gli altrui tentativi di restaurazione, non era facile esserlo, Giovanni era rimasto affascinato dalla Teologia della Liberazione, ed era profondamente convito che l’impegno cristiano chiamasse alla promozione degli emarginati, alla ribellione ed alla valorizzazione del popoli oppressi, alla lotta contro le diseguaglianze sociali. Per anni, nel suo ufficio parrocchiale, rimase affissa una fotografia del santo Padre mentre guardava l’orologio e, non capendo che ora fosse, quale tempo si vivesse, diceva: Boffh?! Il riferimento era al francescano Leonardo Boff, teologo ed uno fra i più vivaci sostenitori della Teologia della Liberazione. Fu anzi a causa del suo intenso impegno a favore del popolo latinoamericano che il frate fu più volte ammonito dal Vaticano, in particolare dalla “Congregazione per la dottrina della Fede”, a quel tempo - siamo nel 1984 presieduta dal cardinale Jopseph Ratzinger. I continui richiami e, dopo essere stato costretto al silenzio ossequioso, la minaccia di ulteriori provvedimenti, lo convinsero che era meglio abbandonare l’abito. Il pensiero di Boff, ridotto all’essenziale, era che la povertà non nascesse come condizione irrevocabile, e che la missione della Chiesa fosse appunto quella di sovvertire il destino degli ultimi, aiutandoli ad avere una coscienza di sè per modificare la loro condizione sociale; quello che dice Boff, e che continua 84 a scrivere, è che la Chiesa è un modello di facciata


per i poveri ma non vive con i poveri e per essi. Al contrario la sua struttura piramidale le fa perdere i contatti con le realtà umane, soprattutto quelle più degradate, mentre le Comunità di Base, sottratte ad una gerarchia feudale, sono in grado di rispondere ai bisogni del prossimo, ponendo in essere autenticamente il messaggio liberatorio di Gesù Cristo. Ma i pensieri di Giovanni Piro erano, in questo senso, un’utopia romantica: per promuovere una Teologia della Liberazione, a Catania, non mancavano di certo i poveri; e vi erano anche sufficienti discriminazioni economiche. Vi era, inoltre, la gente più emarginata; intere fasce di popolazione più deboli, dove i più giovani venivano reclutati dalla malavita locale o dalla mafia. Le condizioni di povertà e di diseguaglianza sociale, alla fine, anche a Catania, quella che definivano la Milano del Sud, per dare importanza a chi vi speculava arricchendosi, potevano starci. Ma mancavano le condizioni più generali: immaginare una Chiesa, quella etnea appunto, o quella stessa italiana, pronta ad interpretare un nuovo ruolo. In America Latina alla fine degli anni Sessanta vi era stata un’apposita conferenza dell’episcopato locale, e la scelta era stata forte, univoca, magari variegata e frammentata nelle proposte, ma pressante: la Chiesa assumeva il compito di liberare i poveri dall’oppressione, promuovendo un’azione d’avanguardia nella difesa dei diritti umani. Inoltre manifestava la propria coerenza organizzandosi collegialmente, attraverso le Comunità di Base, ed aprendo un ruolo significativo per i laici, delegati 85


dalle guide ufficiali ecclesiastiche a coordinare le attività di catechesi e quelle sociali. Poteva essere mai possibile, a Catania? Intanto Giovanni aveva costruito una prima zona d’isolamento attorno a sè. La parrocchia Santi Pietro e Paolo aveva aperto un varco sociale e religioso profondissimo nel tessuto della città, ma alla fine era rimasta isolata, perchè tanta gente, all’interno del quartiere (ed i quartieri nella Teologia della Liberazione non erano forse i primi capisaldi della rivoluzione?), aveva finito per prendere le distanze da quei sogni, rivelatisi poi una mera utopia. Nel frattempo, la comunità Santi Pietro e Paolo si impegnava su un altro fronte, in quegli anni notoriamente gestito, a livello nazionale ed internazionale, dalle forze di sinistra: quello del pacifismo. Il Movimento della Pace era costituito da un nutrito gruppo di parrocchiani, da componenti della chiesa valdese e da quella battista, e da gruppi protestanti. L’acme delle iniziative pacifiste avvenne durante il periodo dell’installazione dei missili Cruise nella base Nato di Comiso, in provincia di Ragusa. Tutto il mondo pacifista si schierò contro questa soluzione, ed invase Catania, quale tappa di avvicinamento, di una straordinaria marcia verso la provincia iblea. Si organizzò una veglia di Natale con ragazzi provenienti da tutto il mondo. Il problema, a pensarci col senno del poi, era veramente enorme, e questo gruppo di pacifisti, nel tenere alta l’attenzione, ebbe pure qualche merito. Il rischio era infatti che non solo Comiso, ma l’intera Sicilia divenisse base di dislocamento eterogeneo 86


di questi missili, e che l’isola potesse letteralmente affondare se posta sotto attacco. E la funzione della comunità Santi Pietro e Paolo era stata fondamentale nel riunire i pacifisti perchè i siciliani, in realtà, svelavano il loro consueto disinteresse; a questo proposito, sul periodico I Siciliani, lo scrittore Giuseppe Fava aveva scritto, nel 1983, parole amarissime e, come sue stile, di grande acume psicologico: “L’estate che volge al termine è infatti l’ultima estate che i siciliani vivono senza i missili atomici, cioè ancora con la speranza che, nel caso di guerra fra le grandi potenze, la Sicilia possa essere esclusa dai bersagli nucleari. La prossima estate sarà diversa: nella coscienza di tutti i siciliani, ricchi o poveri, geni o imbecilli, onest’uomini o lazzaroni, ci sarà la certezza dell’olocausto atomico in caso di conflitto. […]La prossima estate i bambini che ora hanno cinque, otto, dieci anni, acquisiranno l’incontestabile diritto, fra quindici, venti o trent’anni, a sputare in faccia ai loro padri, chiedendogli: e Tu, quando decisero di installare i missili a Comiso e quindi - per qualsiasi futura guerra mondiale - di offrirci al sicuro sacrificio atomico, Tu dov’eri? […] Questa è la cronaca e quindi il documento di una sconfitta! È inutile che stiamo ancora qui ad ingannarci con cose vecchie e inutili: il generoso slancio delle popolazioni siciliane, la passione di migliaia di giovani accorsi da tutta Italia, la coscienza civile della gente di Comiso, le veementi polemiche in Parlamento, ed altre inutili e sapute cose. Se vogliamo valutare

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la tragica vastità della sconfitta, bisogna avere l’onesto coraggio di guardare le cose come veramente accadono. Nella realtà l’opinione pubblica siciliana, quella erede dei Vespri e dei picciotti garibaldini, è rimasta inerte e sonnolenta dinnanzi all’evento. […] La buona gente di Comiso ha accettato i missili in casa. Taluni sono insorti ma sono stati sbeffeggiati, se avevano un partito spesso rinnegati dal loro stesso partito. I più hanno pensato a quanto sarebbe cresciuta di valore la terra, e quali potevano essere le aree fabbricabili, e quanti alberghi, motel, ristoranti, macchinette di war-game, bettole, botteghe di pizzicagnoli, appalti di trasporti, servizi, pulizie, potessero abbisognare agli americani, e quale dunque l’affare più lucroso, e come farsi pagare in dollari, qualcuno certo avrà persino riflettuto che l’ottanta per cento degli americani saranno giovani, e il cinquanta per cento scapoli, e segretamente sta già radunando ragazze per case d’appuntamento”.

L’interesse tornò poi su Catania grazie ad un movimento, fortemente voluto da uno dei preti della comunità: Salvatore Resca; questo gruppo, che costituisce ancora una realtà significativa all’interno della comunità, s’interessò delle vicende della città, contrastandone l’asservimento alle logiche ed agli interessi della mafia. Ciò che contribuì ad etichettare come rossa la comunità Santi Pietro e Paolo fu una serie di circostanze, non legate ovviamente a Franzoni, nè ai pacifisti, nè ai gruppuscoli di sinistra che vi gravitavano attorno o all’interno, e neanche agli eletti nelle varie realtà istituzionali, Pippo Bellomo, Rosario 88


D’agata, Grazia Giurato, militanti nelle fila del PCI e delle sue evoluzioni, e parrocchiani di ferro. Piuttosto, fu un clima. Gli stessi eletti nel Partito Comunista furono, in quanto cattolici, in quanto parrocchiani, sdoganati da un atteggiamento di isolamento, che voleva i comunisti, in una città come Catania radicalmente di destra ed istituzionalmente democristiana, in una situazione quasi di ghettizzazione: la mitica sezione rossa di via Bruca, nel quartiere del Borgo, sembrava suscitare aspetti inquietanti: forse vi si mangiavano davvero i bambini? Vi era stato unicamente un isolato elemento, in città, a fare credere che la scelta politica di destra fosse in qualche modo modificabile, e cioè il referendum del 12 maggio 1974 per l’abrogazione del divorzio. Salvatore Nicolosi, compianto maestro del giornalismo etneo, aveva così scritto nel suo libro “Il caso Catania” (Tringali editore): “I due maggiori partiti cittadini, DC e MSI, che pure, sulla base del voto del ‘72, potevano contare su un «sì» di larga misura, perdettero invece quella battaglia. Vinse il «no», a Catania con una percentuale per tutta la provincia di circa il 58 per cento, ben superiore alla media siciliana che aveva di poco superato il 50 per cento. Il divorzio restò, il MSI fu umiliato...”

Ma una rondine non fece primavera neppure quella volta. Alle amministrative del 1975 il MSI-

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DN ebbe un sussulto d’orgoglio, e portò agli scranni del Comune ben undici consiglieri, raddoppiando i propri voti. I Comunisti rimasero fermi al loro consueto consenso elettorale, che garantiva comunque una decina di eletti. La politica di questi ultimi, tuttavia, non riusciva a penetrare la società civile catanese. Per i comunisti, allora, la parrocchia Santi Pietro e Paolo fu una sponda essenziale, anche per modificare gli equilibri proto fossili di una città come Catania. Mi ha raccontato lo storico parrocchiano Rosario D’Agata, per tutti, data la sua professione, l’«avvocato»: “Giovanni aveva mostrato sempre una particolare attenzione verso le classi sociali più deboli; gli interessavano anche le tematiche generali dell’ambiente in cui viveva: il quartiere era più composito della realtà parrocchiale, ma lui era attento al contesto generale, ai bisogni della «gentuzza»; dargli un’etichetta politica però non sarebbe giusto, proprio perchè Piro era veramente un uomo aperto. Attento agli ultimi e contrario alla chiesa quale luogo di potere: per questo guardò sempre con attenzione alle Comunità di Base, ai fermenti che provenivano dall’America Latina, in particolare alle proposte della Teologia della Liberazione; Giovanni amava la chiesa povera e con il suo agire liberò i sacramenti, in parrocchia, dal collegamento con il denaro”. Anche nelle convinzioni politiche di D’Agata, Piro si mostrò fondamentale; non una guida, ma un amico sincero: “Non era facile in quegli anni per un credente ritrovarsi a militare sotto l’egida della falce e martello, ma con questa mia appartenenza io volevo testimoniare il mio impegno a favore degli ultimi. 90


Giovanni mi fece capire che quella mia adesione era una scelta naturale, conseguente alle mie convinzioni”. Giovanni Piro, però, non era interessato a casacche e tessere, rastrellamenti di voti e tribune elettorali: “Gli interessavano le tematiche generali, lo stato della gente. Proprio per questo fece alcune esperienze di vita importanti in paesi poverissimi, in India ed in Burkina Faso”, spiega D’Agata. La maggiore qualità di Piro, secondo D’Agata, fu la sua capacità d’accoglienza: “Una dote straordinaria. Poi se la si

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paragona ad altre realtà catanesi, ecclesiastiche e non solo, dove la regola era la chiusura, appare come una qualità immensa. Giovanni accoglieva veramente chiunque. Pensi che altrove fosse così, anche oggi?” Uno degli atteggiamenti di Giovanni che fece più scalpore a metà degli anni Novanta fu il suo netto rifiuto a partecipare alla visita di papa Wojtyla a Catania. Giovanni Piro era, in quegli anni, maramaldeggiante nello spirito e nella vis polemica: non amava i continui spostamenti del pontefice, dal quale desiderava al contrario nell’ottica delle Comunità di Base - che si dedicasse maggiormente alla vicende della Diocesi di Roma, rendendola fulgida modello di esempio all’interno del mondo cattolico. La visita del Papa era interpretata in due modi dal parroco della Santi Pietro e Paolo: come un’irripetibile gioia per i commercianti e come uno stress per i catanesi disinteressati all’evento e che mantenevano - ecco la proiezione sociale dell’umanità e del cristianesimo di Giovanni, ed il suo senso dell’accoglienza come rispetto - lo stesso diritto di cittadinanza dei devoti cattolici. Ma ciò che lo irritava tantissimo era l’atteggiamento dei politici catanesi, e non ce n’era da stupirsene, nonchè degli uomini di Curia che curavano la visita pontificale. Quel Comitato Organizzatore a Giovanni proprio non andava giù. Quale luogo per la santa messa da fare celebrare al Papa era stata scelta, più che una piazza, la via Vincenzo Giuffrida, ampia, almeno a sei 92


corsie virtuali, in grado di contenere migliaia di persone e di farle defluire attraverso le stradine laterali. La parrocchia fu valutata, data la sua collocazione, quale via adiacente al palco pontificale, come ideale luogo d’ospitalità. La prima idea espressa dal Comitato mandò in bestia Giovanni Piro: si era infatti proposto di coprire di teloni bianchi e gialli, simboli dello Stato Vaticano, un muro sbrecciato che faceva brutta mostra di sè sul piazzale antistante la parrocchia Santi Pietro e Paolo. Tutti plaudirono all’idea. Meno Giovanni, indignato che per anni quel muro fosse andato via via sgretolandosi, provocando danni senza che mai nessuno se ne interessasse, mentre ora sembrava essere divenuto l’ombelico dell’universo. Giovanni, in realtà, aveva fiutato gli intendimenti degli organizzatori: la struttura della parrocchia doveva funzionare quale pisciatoio per ogni possibile emergenza. Ma, da uomo sornione qual era, finse interesse e non appena il Comitato si riunì, lui, invitato per motivi diplomatici e di convenienza,

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si presentò tutto compito all’incontro. Dopo aver ascoltato dotte disquisizioni, prese la parola e avanzò tre proposte: che la via Vincenzo Giuffrida cambiasse immediatamente nome e fosse intitolata al santo Padre; che il Pontefice, prima di cominciare l’omelia, chiedesse solennemente scusa agli autisti per i disagi creati dall’organizzazione, offrendo loro un’indulgenza plenaria; che qualcuno ricordasse pure i morti causati da quell’arteria la cui pendenza ripidissima aveva provocato, negli anni, più vittime; incidenti avvenuti per via dell’ignavia dei politici catanesi noncuranti delle tante segnalazioni di pericolo. E, infine, che i primi posti, davanti alla mensa papale, venissero riservati agli anziani, anzichè alle autorità. Il giorno della visita del Papa, a Catania, Giovanni chiese ad un suo stretto amico, Franco Alderuccio, di essere portato in giro, lontano dalla città. La sua assenza fu letta come un gesto politico e teologico di dissenso: che ciò accadesse all’esterno della propria comunità, era normale; molti avevano brigato, già in tempi lontani, nelle più segrete stanze curiali, affinchè i preti della Santi Pietro e Paolo venissero rimossi. Ma l’assenza esaltò pure i parrocchiani, che vedevano in questo gesto, la diversità della propria comunità, quasi una chiesa nella Chiesa. In realtà, Giovanni era polemico verso il Comitato e verso quei bagni di folla che si riversavano prostranti verso l’autorità pontificale, piuttosto che verso il buon Dio. Certe strumentalizzazioni sulla sua assenza gli diedero fin anche fastidio. A Giovanni Paolo II scrisse una lettera aperta, in cui lo pregò di alcu94 ne accortezze: di non avere paura ad avere qual-


che dubbio (anche Paolo VI ne ebbe!); di non dire sempre l’ultima parola su tutto (perchè a quello aveva già provveduto Pio XII); di non circondarsi solo di uomini intelligenti che la pensano o dicono di pensarla come lui: perchè nei semplici e nei piccoli c’è più saggezza di quanto si possa immaginare; che non dimentichi il disagio, la sofferenza di tanti uomini e donne che trovano difficoltà a vivere la morale della Chiesa; e che crei meno santi e beati, ed esalti la santità che solo Dio conosce e la beatitudine di chi è povero davanti a Dio.

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L’impegno per le missioni

Le polemiche lo vedevano combattivo, ma lo fiaccavano nel morale. Lentamente, quasi impercettibilmente. Quei suoi noti silenzi, all’interno dell’ufficio parrocchiale, la musica classica emessa dalle onde radio più come un ottuso crepitio che non come un suono rappacificante, l’acidulo fumo del sigaro, persino la trascuratezza del vestiario e della propria cura personale, costituivano gli evidenti segnali se non di una vera depressione, di una forte insoddisfazione. Poi c’erano i morsi del diabete a consumarlo. Se c’era un caso grave su cui intervenire, Giovanni non si tirava indietro: seppe essere guida verso i bisognosi sin quasi alla fine dei suoi giorni. Sapeva distinguere le emergenze dalle finte preoccupazioni: le banalità, però, lo irritavano irrimediabilmente. Negli ultimi tempi, amava riannodare il suo impegno sacerdotale alla vocazione missionaria che aveva riscoperto già da qualche anno. Ciò lo aiutava anche a liberarsi da quei tentativi, talvolta esterni e che trovavano banali strumentalizzazioni, talvolta interni grazie a facili accondiscendenze, che conducevano ad un’inevitabile forma di ghettizzazione della parrocchia a coscritta realtà di politici di sinistra, o boemienne, o comunque alternativi; mentre Giovanni Piro con96


tinuava ad aspirare ad una fratellanza universale, arricchita dalle diversitĂ ed unita da un semplice minimo comune denominatore: il senso della ricerca di un significato profondo e trascendentale da riconoscere alla propria vita. In questa ricerca, difficile ed esaltante, Giovanni aveva scoperto le missioni, i paesi poveri, entusiasmandosi nel proporre soluzioni, nel coinvolgere la parrocchia in una dimensione missionaria: quindi, interesse radicale per il prossimo, condivisione delle altrui povertĂ , riscoperta radicale degli ultimi. India, Burkina Faso le mete prescelte.

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Furono momenti diversi: l’India Giovanni Piro l’aveva scoperta per turismo, durante un viaggio. Ma ne era rimasto affascinato, attratto dai contrasti, e colpito dalla povertà. Aveva intessuto legami, relazioni, amicizie. Aveva pure accolto un confratello indiano a Catania, padre Giuseppe, che trascorse poi un lungo periodo alla Santi Pietro e Paolo, considerato a pieno titolo quale prete della comunità. Ma la vera rivelazione, fu il Burkina Faso (ed in particolare il suo poverissimo Dipartimento di Koupela, che significa letteralmente «sasso bianco» a nord est del paese, costituito, oltre che dall’omonima capitale, da quaranta villaggi), dove Giovanni Piro si recò per tre volte, tornando sempre carico di gioia, entusiasmi, prospettive. Paradossalmente, per uno come Giovanni che aveva viaggiato mezzo mondo (quando arrivava in un Paese lo conosceva già così bene, per essersi documentato a dovere, che faceva da cicerone alla guida ufficiale), era stata l’Africa ad andare incontro a Giovanni. Tramite un amico: Franco Alderuccio, a propria volta coinvolto da un collega in Burkina per un periodo di volontariato, e che di quel paese aveva parlato a Giovanni in termini entusiasmanti e confusi, mescolando professione, religione, altruismo, antropologia, geografia, misticismo e stupore. Alderuccio era stato lì esclusivamente per offrire, da volontario, cioè gratuitamente, le proprie prestazioni professionali essendo lui dentista: causa della denutrizione, non c’era chi, bambino od adulto, non avesse bisogno di cure per i denti. Ma se ne 98


era tornato in Italia con un ricchissimo bagaglio d’umanità. Ascoltandolo, Giovanni dava l’impressione che non attendesse altra proposta: coinvolgere la parrocchia Santi Pietro e Paolo in un’azione di sostegno al popolo del Burkina Faso, andare a condividere personalmente quella povertà, verificare come funzionassero gli aiuti provenienti da Catania, farsi solidale, fratello, oltre che padre. Le emergenze in Burkina erano, infatti, numerosissime, e molte di esse sono rimaste oggi irrisolte. Nel 1996, ad esempio, il budget della sanità nazionale era stato pari al 7% rispetto agli investimenti di spesa stanziati complessivamente: tale indicatore si avvicinava a quello previsto dall’Organizzazione Mondiale della sanità, pur rimanendo al di sotto. Il Governo centrale del paese ha sempre apprezzato gli aiuti ricevuti dalle organizzazioni di volontariato, ben cosciente che improba appariva la capillarizzazione del servizio sanitario. Da molti anni un ruolo fondamentale è lì svolto dalle suore camilliane, che seguono sia i problemi sanitari, che quelli relativi all’istruzione scolastica, oltre ad essere impegnate nella formazione spirituale, in una terra che, comunque, predilige l’Islam e l’animismo e, nelle proprie convinzione religiose, manifesta frequentemente convinzioni che appartengono ad una eterogeneità di fedi. Una statistica promossa dalla chiesa cattolica nella primavera 2010 fotografava, in particolare, questa situazione: i cattolici rappresentano il 19% della popolazione totale (quasi 13,5 milioni di abitanti), i protestanti il 4% ed i musulmani il 60,5%; circa il 15% professa le 99 religioni tradizionali africane. Questa mescolanza


dovette piacere tantissimo a Giovanni, che in ciascun uomo sapeva riconoscere il proprio fratello, amandolo completamente. Per lui, gli anni dell’impegno missionario per il Burkina furono bellissimi perchè la sua parrocchia seppe rilevare il grande cuore che possedeva. Non c’era parrocchiano che non si sentisse vicino ai problemi del Burkina. E Giovanni, che amava infinitamente la sua parrocchia, era felice di aver saputo realizzare questo connubio così intimo, così profondo. Si cominciò ad allestire un container in grado di contenere un vero e proprio studio odontoiatrico; poi, raccogliendo un discreto finanziamento, si dispose l’acquisto di un gruppo elettrogeno affinchè il Dipartimento di Koupela fosse dotato di energia elettrica ed il dispensario medico, anche questo in larga parte attrezzato dalla generosità dei catanesi, funzionasse notte e giorno; si costruirono pozzi per l’acqua, agevolando quelle donne che, prima, per riempire una sola zucca d’acqua, dovevano camminare decine di chilometri; e, sopratutto, si concretizzarono migliaia di adozioni a distanza, dando un sostegno economico a tantissimi bambini, mettendo quelli disabili nelle condizioni di possedere biciclette motrici per i loro spostamenti, fornendo a tutti la possibilità di studiare e di possedere un vestiario. Giovanni lo diceva agli abitanti di Koupela nei momenti di congedo: mi avete aiutato a riscoprire che la vita ha un senso solo se la si spende interamente per gli altri. E nel dirlo incrinava la voce, piegandola all’emozione. I progetti per il Burkina Faso diedero un ultimo vigore a Giovanni, che poi abdicò definitivamente alla malattia. La sua presenza si fece sempre più 100 discreta, appartata, e quando scendeva agli uffici


parrocchiali dalla propria abitazione aveva un aspetto sempre più stanco e confuso, ma bastava poco perchè il suo volto s’illuminasse d’un sorriso. E in quel faccione sdentato, poi sempre più scavato, in quegli occhi ormai perennemente semichiusi, si manifestava il dono più grande di cui continuava ad essere capace: quello dell’accoglienza fraterna.

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E se nel prossimo futuro via Siena fosse intitolata altrimenti: per esempio, via don Giovanni Piro?

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Sommario Incipit Prefazione di Grazia Giurato Introduzione di padre Michele Rapisarda

Frammenti, miei e di altri Il ricordo di don Biagio Apa Il ricordo di Pina Salomone Il ricordo di monsignor Mauro Licciardello Il ricordo di Luigi Sanzo Il ricordo dei Domina Il ricordo di Santo Di Nuovo Il ricordo di Aldo Toscano Il ricordo (tre momenti nel tempo) di Eugenio Ciancio Il ricordo di Paolino Mangano Il ricordo di Nuccio Lombardo L’infanzia La Vocazione Il Sacerdozio La stoffa di Giovanni La Santi Pietro e Paolo L’impegno per le missioni

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