Giuseppina de Nicolo
L’esercito del Sud autodifesa armata del Mezzogiorno d’Italia nel secolo della svolta: il ventennio 1630 - 1650
ME
Giuseppina De Nicolo
L’esercito del Sud autodifesa armata nel Mezzogiorno d’Italia nel secolo della svolta: il ventennio 1630 - 1650
2012
ME
ISBN 978-88-87303-60-5 1° edizione settembre 2012 Copyright © 2012 Mamma Editori Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini - Parma telefono 0521.84.63.25 mamma@mammaeditori.it www.mammaeditori.it
FINITO DI STAMPARE e rilegato NEL MESE DI settemre 2012 presso MAMMA EDITORI
Sommario
INTRODUZIONE........................................................................ 5
CAPITOLO 1 La storiografia sul “militare” tra ideologia e scienza............................................................... 11 1.1 Analisi e stereotipi......................................................... 11 1.2 Alcune interpretazioni storiografiche......................... 18
CAPITOLO 2 Il Regno Di Napoli nel sistema imperiale spagnolo............. 25 2.1 La situazione economica del Regno............................ 25 2.2 L’organizzazione militare: il sistema difensivo.............................................................. 34
CAPITOLO 3 Scipione Filomarino: la milizia territoriale............................. 43 3.1 Una carriera gloriosa..................................................... 43 3.2 Un compito arduo.......................................................... 63 3.3 Soldati, leve ed università............................................ 69 3.4 Autorità e autorevolezza............................................... 94
CONCLUSIONE...................................................................... 101 APPENDICE............................................................................. 107 BIBLIOGRAFIA........................................................................ 115
INTRODUZIONE Il presente lavoro tesaurizza e arricchisce di nuovi contenuti la mia tesi di laurea, discussa nel 1999 presso l’Università “Aldo Moro” di Bari, relatore il professor Angelantonio Spagnoletti. Esso si prefigge di fornire una risposta al quesito circa il grado di efficacia cui giunge l’azione del governatore delle armi in Terra di Bari Scipione Filomarino, inviato in quella provincia nel 1635 per contrastare i temuti attacchi dei nemici della monarchia asburgica. In particolare, ci chiediamo se il Filomarino riesca a conseguire lo scopo principale per il quale viene istituita la stessa figura di “governatore delle armi”, che è quello di organizzare un sistema difensivo efficiente nelle province del Regno di Napoli più esposte al pericolo di incursioni barbaresche o di sbarchi dell’armata turca. Nelle intenzioni dei viceré Monterey e Medina, i quali reggono il governo tra gli anni trenta e la metà degli anni quaranta del Seicento, questo risultato deve essere raggiunto senza stornare le energie materiali e umane destinate a fornire il sostegno alle guerre che il re Cattolico combatte nell’Europa centro-settentrionale, di conseguenza le risorse necessarie al suo conseguimento devono provenire dalle stesse province. Questo progetto appare evidentemente di difficile realizzazione, quindi viene affidato a vari personaggi di provata esperienza i quali, con il conferimento del titolo
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di governatore delle armi, diventano i “luogotenenti del viceré”. L’attribuzione di questa carica garantisce, infatti, un’ampia serie di prerogative e di poteri che appaiono i più idonei a superare le resistenze ed i problemi che prevedibilmente nascono quando si opera all’interno di una società di antico regime, nella quale ogni gruppo sociale cerca di esercitare nel modo più completo i propri diritti a scapito degli altri ceti e dell’autorità statale. I sudditi del re cui viene concesso questo titolo prestigioso devono comunque essere dotati di notevoli qualità personali, dal momento che viene loro richiesto di raccogliere, intorno alla propria figura, il consenso delle élites locali, senza il quale neppure il rappresentante del viceré può conseguire i propri scopi. La figura del governatore delle armi, benché dotata di una notevole peculiarità nel quadro istituzionale del Regno di Napoli, o forse proprio per questo, risulta tuttora poco conosciuta e poco studiata, tanto che sono veramente pochi gli Autori che ne trattano nei loro lavori. Il presente lavoro si articola in tre parti. Nella prima vengono rapidamente tracciate alcune linee di sviluppo della storiografia che, a partire dall’Ottocento, si è dedicata allo studio delle guerre e degli eserciti degli Stati di antico regime. Si è inoltre cercato di porre in evidenza l’ideologia che, di volta in volta, ha determinato i diversi orientamenti delle ricerche e l’elaborazione delle varie teorie. Nella seconda viene descritto il quadro delle situazione socio-economica del Regno di Napoli tra il terzo decennio e la metà del quarto del XVII seco-
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lo, con particolare attenzione alla funzione che questo Stato riveste all’interno del sistema imperiale spagnolo. Inoltre ne vengono descritte le istituzioni militari con le funzioni principali che ciascuna svolge. La terza parte, dopo una riflessione più generale sul rapporto tra ceto nobiliare e servizio militare nella prima metà del Seicento, è dedicata alla risoluzione del quesito iniziale. Testo di partenza è la “Copia di lettere di Scipione Filomarino” che è custodita presso la Biblioteca Provinciale di Bari1. La Copia fu fatta estrarre da Giovanni Beltrani2 dal “Registro di lettere intorno al governo di Terra di Lavoro e Terra di Bari e Otranto. 1632-1637”. Questo era in possesso, a metà Ottocento, di Luigi Volpicella3 ed ora si trova presso la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria4. Il Registro è un volume in-foglio costituito da otto carte scritte prive di numerazione e da 223 carte scritte numerate da 1 a 223. Seguono parecchie note bianche,
1 D’ora in poi BPB. 2 Cfr. A. Fanizzi, Armi e baroni. Controversie e duelli degli Acquaviva d’Aragona dal 1636 al 1723, Levante, Bari 1985, p. 29, nota 50. 3 Cfr. L. Volpicella, Il maestro di campo Scipione Filomarino in Trani (anni 1635 e 1636), in Raccolta di scritti per nozze Beltrani-Jatta, a cura di N. Festa Campanile, Vecchi, Trani 1880, pp. 1-7, p. 2. 4 D’ora in poi BSNSP.
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altre otto carte scritte e le ultime nove carte di cui solo la settima è scritta5. Nell’alto del diritto della prima carta non numerata del manoscritto vi è il titolo: “Registro de la Provincia di Terra di Lavoro del Vicario generale di S. E. da li 20 aprile 1632 del maestro di Campo Scipione Filomarino del Consiglio Collaterale di s. Maestà e cavaliere de l’habito di San Giacomo”. Più avanti, nella parte superiore della terza delle carte numerate, si legge: “Registro fatto nella Provincia di Terra di Otranto di Vicario generale di S. E. in detta Provincia e di Terra di Bari da giugno 1632”6. Sono state da me lette le trascrizioni delle lettere inviate dal Filomarino tra il maggio del 1635 e il dicembre del 1636, durante la sua permanenza in Terra di Bari. Queste sono riportate a partire dal foglio del manoscritto contrassegnato dal numero 67, che porta in alto la scritta: “Anno 1635. Registro de lettere de la Provincia de Terra di Bari”, e terminano con il foglio che reca il numero 214. Secondo la numerazione delle pagine della “Copia”, questo gruppo di epistole è compreso tra la pagina 1 e la pagina 5227. Paradossalmente, il problema di più ardua risoluzione che ho incontrato è stato proprio dall’accertamento 5 BSNSP, XIV, C 7. 6 Ivi. 7 D’ora in poi si farà sempre riferimento, nell’indicazione di una lettera, a questa numerazione.
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di tutti i titoli con i quali Scipione Filomarino giunge in Terra di Bari nel periodo preso in esame8. Ciò premesso, è stato comunque possibile cercare di fornire una risposta esauriente al quesito iniziale.
8  Si veda il paragrafo 3.1, nota 33.
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CAPITOLO 1 La storiografia sul “militare” tra ideologia e scienza
1.1 Analisi e stereotipi A partire dai primi dell’Ottocento, gli storici che si riconoscevano nei vari orientamenti politici ritennero di rinvenire nelle più diverse realtà del passato le “radici” inequivocabili della nazione italiana, tuttavia su un punto convenivano tutti: era senz’altro necessario provvedere lo Stato che presto sarebbe sorto di una struttura militare, e il Piemonte sabaudo, grazie alla sua tradizione, rappresentava l’unica realtà della Penisola in grado di offrire un valido contributo in questa direzione. Nascevano, così, teorie di matrice deterministica sul militarismo savoiardo, come quella, elaborata da Cesa-
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re Balbo, la quale spiegava l’attitudine alle armi degli abitanti di Torino con il situarsi della città a 45°, quindi ad eguale distanza tra la “lentezza” delle popolazioni artiche e la “furia” di quelle equatoriali. A fine secolo l’opera di diversi poeti, tra cui Carducci e De Amicis, fissò definitivamente lo stereotipo delle eccezionali virtù belliche piemontesi9. Il concetto di “combattività” delle popolazioni suddite del Savoia divenne, nella prima metà del Novecento, una sorta di postulato storico, tanto da entrare nelle riflessioni di personaggi tra loro così distanti come Luigi Einaudi, Giovanni Gentile e Antonio Gramsci10. Ugualmente unanime era il giudizio, espresso dagli storici vicini agli ideali risorgimentali, sul valore militare dimostrato dagli Stati “italiani” in seguito alla discesa degli eserciti di Carlo VIII di Francia nel 1494. A partire da quel momento, secondo una visione in seguito accettata anche dallo storicismo crociano, sarebbe risultata evidente la rovina delle attitudini guerriere di tutta la società “italiana” del tempo. Questa rovina sarebbe stata causata dagli stessi principi, i quali avevano preferito disarmare i propri sudditi ed affidarsi a truppe mercenarie. La conseguenza più vistosa di siffatta scelta sarebbe stata, nell’ottica di questi studiosi, la corruzione dello spirito di “italianità” di tutta la società del tem9 W Barberis, Le armi del principe. La tradizione militare sabauda, Einaudi, Torino 1988, pp. XI-XIII. 10 Ibid., pp. XIV-XV.
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po, la quale si dedicò alle lotte interne, aprendo così, definitivamente, la strada alla dominazione straniera. Lo stesso Croce, però, segnalò che le élites napoletane considerarono l’ingresso nel sistema imperiale spagnolo come un’opportunità da sfruttare11. Va inquadrata in questo stesso clima ideologico anche la grande fioritura, avvenuta tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, di biografie dei principali capitani di ventura, le quali, comunque, non si spingevano mai oltre una semplice narrazione di gesta belliche. Questa produzione concentrò la propria attenzione sulle figure dei condottieri quattrocenteschi e trascurò volutamente quelle dei capitani del XVI secolo poiché vedeva in questi ultimi dei meri strumenti dell’oppressione spagnola12. Durante il ventennio fascista, il periodo della “pax hispanica” fu oggetto di una vera rimozione da parte degli storici, oppure venne interpretato come quello che offrì alle armi “italiane” la possibilità di ostentare il pro-
11 G. Hanlon, The twilight of a military tradition. Italian aristocrats and European conflicts, 1560-1800, UCL Press, 1998 Londra, pp. 3-5. 12 M. Fantoni, Immagine del “capitano” e cultura militare nell’Italia del Cinque-Seicento, in I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime, atti del convegno di studi. Piacenza, 24-26 novembre 1994, a cura di A. Bilotto, P. Del Negro e C. Mozzarelli, Bulzoni, Roma 1994, pp. 209-243, pp. 209210.
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prio eccezionale valore sui campi di battaglia di tutta Europa13. Gli intenti ideologici della storiografia di questo periodo sono pienamente svelati dall’analisi delle tre enciclopedie biografiche che videro la luce durante gli anni trenta. Esse offrono allo spirito di emulazione del lettore i profili di circa quattromila militari che vissero e agirono tra l’epoca di Filippo II e la fine del XVII secolo. I volumi, molto curati sotto il profilo estetico, presentano un’enorme quantità di errori ed inesattezze, compresa la frequente confusione tra i due rami, quello spagnolo e quello austriaco, della famiglia degli Asburgo. Inoltre i curatori, animati da notevole entusiasmo patriottico, inserirono notizie su personaggi di cui in realtà sapevano poco o nulla, capitani di milizie urbane che non scesero mai su un campo di battaglia ed anche esponenti di quella schiera di militari di estrazione nobiliare che visse fuori dall’Italia. Grande spazio venne poi riservato dagli autori ai soldati che si erano impegnati nei conflitti giudicati chiaramente “italiani”, come ad esempio la lotta di Venezia contro i Turchi14. Con tutti questi limiti, la storiografia di regime ebbe però il merito di sottolineare l’adesione, nel XVII secolo, delle élites provenienti dai diversi Stati della Penisola, e non solo da quelli di-
13 G. Hanlon, The twilight of a military tradition, cit., p. 5. 14 Ibid., p. 6.
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rettamente controllati dalla Corona spagnola, alla causa cattolica, adesione negata dagli storici risorgimentali15. In quegli stessi anni nasceva un filone di ricerca che è giunto fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità, quello dedicato dagli studiosi di lingua inglese al tema della guerra nel Rinascimento. I principali eventi bellici ed il mondo nel quale operavano le compagnie di ventura erano visti come elementi costitutivi della società rinascimentale, per la quale veniva considerato, come momento di scomparsa, lo scoppio delle guerre d’Italia16. In questo gruppo di lavori, la guerra era ritenuta una delle “opere d’arte” prodotte da quella particolare fase storica, benché venissero esaminati anche i risvolti economici e sociali dei diversi conflitti17. Le figure dei condottieri, inoltre, incarnavano quelle personalità eccezionali che, nella visione di questi storici, erano state le vere artefici del Rinascimento18. La trattatistica sull’arte della guerra19 veniva inserita tra le opere dell’Umanesimo e conosceva nel volume del Machiavelli20 la sua espressione più alta, tanto che tutti i trattati scritti 15 Ibid., p. 7. 16 M. Fantoni, Immagine del “capitano”, cit., p. 210. 17 Ivi. 18 Ibid., p. 211. 19 Su questo argomento si veda il paragrafo 3.1. 20 Il libro dello scrittore fiorentino si intitola, appunto, “L’arte della guerra”.
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successivamente venivano sistematicamente ignorati in quanto prodotti di maniera e frutto di un’epoca di schiavitù21. Anche per questi studiosi, i capitani cinquecenteschi risultavano privi della vera dignità di condottieri perché asserviti alla politica asburgica22. All’inizio del XX secolo apparvero molte opere, talvolta pregevoli, di storici francesi, inglesi e tedeschi dedicate allo studio delle istituzioni militari europee dal Medioevo all’età moderna. Ancora una volta il pregiudizio positivo sugli Stati indipendenti a discapito di quelli “asserviti”, unito all’interesse nei confronti delle Crociate, determinò l’indirizzo degli studi, facendo in modo che il Mezzogiorno d’Italia venisse preso in considerazione solo per i secoli caratterizzati dal dominio normanno e svevo23. In anni a noi più vicini, gli storici dimostrarono un certo disinteresse nei confronti della storia militare, certamente dovuto all’influenza de “Les Annnales”24, sulle 21 M. Fantoni, Immagine del “capitano”, cit., p. 211. 22 Ivi. 23 T. Astarita, Istituzioni e tradizioni militari, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso e R. Romeo, Edizioni del Sole, Napoli 1991, volume IX/2°, pp. 121-156, p. 123. 24 Si tratta della rivista storica fondata nel 1929 da L. Febvre e M. Bloch. Dal 1956 fu diretta da F. Braudel e, dalla morte di questi, avvenuta nel 1985, da un comitato di otto persone. L’importanza di questa pubblicazione risiede nella svolta che impresse agli studi storici, ampliandone i campi di interesse e servendosi dei contributi forniti dalle altre scienze umane.
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cui pagine si propugnava l’abbandono della cosiddetta “histoire-bataille”. Inoltre, parte degli studiosi, appartenenti alla generazione nata all’inizio dell’era atomica, oppose un netto rifiuto nei confronti delle ricerche che avessero per oggetto armi ed eserciti, a causa del pregiudizio negativo verso tutto ciò che potesse apparire come un’adesione a posizioni militaristiche. Questa repulsione è stata superata, negli ultimi due decenni, attribuendo agli studi sui fatti di guerra un valore ed un significato nuovi. Questi hanno cominciato ad essere considerati, infatti, come strumenti per giungere ad una conoscenza più profonda e completa della vita degli uomini che vissero nei secoli scorsi e degli avvenimenti di cui furono testimoni25. Numerosi studiosi “hanno adoperato metodi della storiografia moderna per creare o rinnovare la storia di volta in volta sociale, amministrativa ed intellettuale degli eserciti di età moderna” e, più in generale, si è visto che “le istituzioni militari possono essere adoperate come mezzo d’analisi per studiare il funzionamento ed il livello di sviluppo dell’organizzazione dello Stato”26. Una simile prospettiva di studi permette, tra l’altro, un rapporto di “reciprocità” con altri campi di indagine. Per fare un esempio concreto, non è certo nella clima25 C. Donati, Organizzazione militare e carriera delle armi nell’Italia di antico regime: qualche riflessione, in Ricerche di storia in onore di Franco della Peruta. Politica e istituzioni, volume I, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 9-39, pp. 9-10. 26 T. Astarita, Istituzioni e tradizioni militari, cit., p. 123.
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