Immelancholyanteprimaissuu

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Sophie Martin

Immelancholy Innanzitutto vendetta

2014 n.14


Colophon

ISBN 9788890938481 1° edizione Febbraio 2014

Òphiere Copyright © 2014 Mamma Editori Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini  –  Parma telefono 0521.84.63.25 mamma@mammaeditori.it www.mammaeditori.it

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Immagine di copertina di Valda FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE 2014 PRESSO MAMMA EDITORI


Per Ali, la mia forza



Prefazione di Margaret Gaiottina

Lo ammetto. È vero, confesso. Adoro le storie tormentate, quelle in cui i protagonisti soffrono, si struggono, sfidano la sorte. Godo nell’assaporare il gusto piccante delle situazioni che si ribaltano, dei colpi di scena che fanno sussultare e delle sciagure che metterebbero a dura prova la pazienza di un santo. Sono esigente; in un romanzo cerco tutte le variabili mescolate e quando le trovo mi ci abbarbico caparbia, sfogliando le pagine con impazienza per sapere sempre di più e sperando nello stesso tempo che la fine non arrivi mai. Nel contesto avventuroso di Immelancholy ho trovato Leila, una donna forte, provata dalla vita e dal dolore. Leila avrebbe vita facile rintanandosi in un cantuccio mentre gli eventi la travolgono e invece decide di prendere in mano la propria esistenza per darle un senso e pagare un tributo alla giustizia. E ho trovato Jaron, un concentrato di forza maschile in grado di tenerle testa e di far uscire fuori tutta la femminilità comunque latente nella guerriera che è il Leila. Ho gustato l’ideale di femmina coriacea nell’aspetto e indomita nell’animo. Non c’è niente di facile nella storia di Leila e Jaron, ogni azione ha il sapore del sangue e della sofferenza, ogni passo è in bilico su un sentiero


impervio. Ma è proprio tra le spine della lotta e della sete di sangue che verrà fuori la passione e l’impeto di un amore travolgente. Un distopico in stile “Hunger Games” che conquista come un “V per Vendetta” con in più le passioni esplicite che sanno infiammarci.


Immelancholy Innanzitutto vendetta



Capitolo 1

A un tratto, la foresta sembrò inanimata. I cinguettii frenetici, gli affondi timidi sul letto di foglie degli zoccoli di daino, il rosicchiare lesto di uno scoiattolo, tutto era cessato di colpo nell’angosciante attesa di qualcosa di terribile. Persino le carezze della brezza non produssero più alcun fruscio tra le cime degli alberi. In alto, la sagoma di un falco che planava silenzioso e paziente. Poi, un brevissimo schiocco metallico, estraneo nella quiete mortale del luogo. Cyrus Parvin, seduto a gambe incrociate sulla rupe, distolse gli occhi dal sole e fissò un punto nella foresta sotto di sé. Nel raggio coperto dal suo sguardo, il vecchio vide la pantera materializzarsi. Quella si muoveva con grazia, leggera come un’ombra tra i larici. Il suo passo non produceva suono sul tappeto di aghi. Ancora silenzio. Per una frazione di secondo, Cyrus notò lo scintillio freddo di una cuspide d’acciaio. L’arciere stava per scoccare. Il felino balzò con rapidità. Il corpo poderoso ma agile scattò allungandosi flessuoso verso l’obiettivo. Nel momento in cui le dita del cecchino si aprirono per liberare la freccia, fauci potenti si chiusero attorno alla sua gola. Una zampa massiccia arpionata dietro la spalla, l’altra calata sul suo petto, lo atterrarono e lo inchiodarono sul terriccio compatto. Tagliata dagli artigli affilati 11


come lame, la felpa si aprì da cima a fondo mettendo a nudo un corpo allenato e asciutto e, dalla clavicola destra fino ai fasci muscolari scolpiti del ventre, quattro linee parallele presero vita accendendosi di rosso. Senza serrare, le zanne premettero sulla trachea quel tanto che bastava per impedirgli di respirare. Da predatore a preda, per un secondo l’arciere restò immobile sotto il peso della pantera, come se con l’udito seguisse il sibilo del fendente mortale, aspettandosi di sentirlo trapassare tessuti e muscoli. Cessato l’effetto sorpresa, tentò l’unico sistema possibile per allontanare l’animale. Afferrò le orecchie della pantera, le unghie piantate nella cartilagine morbida. Strattonando, cercò di respingere la testa della belva di qualche centimetro per poterle cacciare una mano in gola e sollecitare così il riflesso del rigurgito. Ma la pantera non cedette di un millimetro, al contrario, serrò la stretta. Un rivolo di sangue scese sulla pelle abbronzata per venire poi assorbito dalla stoffa della felpa verde militare. L’arciere annaspò mentre calò con tutta la sua forza pugni pesanti sul muso nero. L’ampio torace si allargò per trattenere l’aria incamerata nei polmoni. Pettorali e addominali tesi al massimo, le vene del collo sempre più gonfie per lo sforzo e la mancanza d’ossigeno. Dal profondo del petto nacque un ruggito e il corpo ebbe un fremito. «Basta così. Arutam, lascialo stare.» La voce di Cyrus, anche se lontana, risuonò perentoria e fermò entrambi. «Jaron ormai è pronto per il suo destino.» La belva nera si staccò ubbidiente permettendo a Jaron di guardarla con occhi scintillanti di rabbia e fierezza prima di rotolare su un fianco, tossire e boccheggiare 12


nel doloroso tentativo di respirare e poi vederla scomparire tra gli alberi. Dal cielo, le grida acute del falco che si stava allontanando. Jaron sollevò la testa verso la cima della rupe e i suoi occhi incontrarono per un istante quelli di Cyrus. Poi, abbagliato dal sole, fu costretto a socchiudere le palpebre. Subito, dietro di esse si delinearono le forme di lei. Quella visione era ancora più insopportabile dei raggi solari. Il profilo rotondo del seno come una mela da cogliere e assaggiare a tutti i costi; la pelle liscia, seta costellata da minuscole e infinite gocce di rugiada; la curva perfetta delle labbra piene, da possedere. Irresistibile. Jaron tossì toccandosi la ferita sanguinante e scosse la testa per scrollarsi dalle orecchie il suono delle risa. “Non ti permetterò di trascinarmi tra quella gentaglia.” La voce di lei gli si riverberò limpida nella testa. “Non sarai mai nessuno…” Le risa echeggiarono tra i monti e Jaron lasciò ricadere la testa sulla pietra con violenza. Il vecchio staccò gli occhi dalla scena sottostante. Aiutandosi col bastone nodoso di legno d’ulivo reso liscio e lucido dal tocco delle mani nel tempo, si alzò in piedi. Si avviò lentamente, costeggiando il lago e oltrepassando, senza guardarlo, l’albero nel cui tronco era conficcata la freccia. «L’ora di regolare i conti secondo giustizia è arrivata. Il popolo sarà vendicato» aggiunse Cyrus, più a se stesso che alla pantera comparsa accanto a lui, sulla sponda d’acqua cristallina. L’animale si chinò per dissetarsi. Tra le piccole increspature che si formarono, lo specchio lustrale non restituì il riflesso del corpo dell’animale. Al suo posto, 13


il vecchio vide dipingersi le immagini di un’altra scena. Una ragazza scarmigliata, alta e bella, che parlava alla folla gesticolando decisa. Alle sue spalle, un edificio ben noto, fulcro decrepito della città di Dresda. Era tempo di muoversi.

GH «Come potete, voi donne e madri, e anche voi padri, continuare a sopportare questi soprusi? Come potete permettere che strappino senza pietà i vostri figli dalle braccia ancora prima del tempo? Sei anni! La legge dice che l’età prevista per il Collegio è di sei anni! Dobbiamo finalmente fermare queste ingiustizie! E per farlo dobbiamo essere uniti! Non dovete mostrare la vostra paura di fronte alla freddezza degli incaricati dell’Alcalde, ma la vostra forza!» La voce di Leila suonò risoluta nella piazza del mercato, a pochi passi dal centro della città di Dresda. Stavolta aveva voluto osare. Fece scattare un braccio e puntò il dito verso est, là dove si trovavano i grattacieli di vetro e acciaio. «Loro hanno fatto le leggi e loro devono anche rispettarle.» Leila, tra la folla in continuo movimento, notò gli sguardi truci lanciati nella sua direzione. Non si fece intimidire, ci era abituata. Eppure provò uno strano senso di inquietudine. «Un altro bambino è stato portato via ieri, strappato brutalmente dall’amore di sua madre. Aveva solo cinque anni!» Guardò sulla destra, verso un misero banco di verdure. «Vieni Isobel.» Con un gesto della mano invitò la donna ad avvicinarsi. «Vieni e racconta a queste per14


sone di come ti sono piombati in casa e ti hanno portato via tuo figlio.» Isobel, la venditrice dei pochi ortaggi esposti su una vecchia tavola sollevata dal lastricato lurido della strada grazie a qualche cassetta da frutta, strinse a sé la bambina che le si era aggrappata al grembiule. Intimorita, guardò Leila prima di abbassare gli occhi sull’ultima figlia rimastale e scosse nervosamente il capo. «Lasciala in pace!» si sollevò brusca una voce maschile in mezzo alla gente. «Ti conviene scendere da lì e tornartene a casa. Vuoi che le tolgano anche quel poco che le è rimasto? La terra che le dà da vivere? Lei non può nulla contro di loro. Nessuno di voi può!» Mentre lo disse, l’uomo brandì un robusto bastone per scacciare i due cani randagi che giravano affamati intorno al suo chiosco di salumi affumicati. Come risvegliate da quella uscita, altre persone sollevarono sguardi torvi in direzione di Leila e il consueto chiacchiericcio da mercato si trasformò in qualcosa di più concitato. Solo che quella gente stava reagendo al sermone sbagliato, accidenti! La sensazione di frustrazione le si allargò nelle viscere come spire di veleno, ma non aveva alcuna intenzione di arrendersi. Dall’alto del suo pulpito fatto di casse rovesciate poste a ridosso del muro marcio di quel che una volta era stato il municipio, Leila si morse il labbro per la rabbia e incrociò l’occhiata apprensiva di Darya. L’amica stava arrotolando con gesti nervosi il fascio di volantini che avrebbe dovuto distribuire. Leila Anwari vide il cedimento dell’amica ma in cuor suo non la rimproverò. Non poteva pretendere negli al15


tri la medesima disponibilità al sacrificio. Combatteva da tempo contro i soprusi di una società repressa dal potere del denaro, contro il fottuto regime. Contro i maledetti banchieri di quella merdosa setta con a capo il merdosissimo Assim Khusrow, detto il Magnifico Assim! Matar, il capostipite dell’Ordine dell’Occhio di Matar, antica Loggia segreta risalente ai tempi dei tempi, si sarebbe rivoltato di sicuro nella tomba se avesse saputo in quale schifosa feccia si erano trasformati alcuni dei suoi discendenti. La leggenda narrava che nessuno di coloro che avevano visto quell’occhio fosse sopravvissuto. Leila andava matta per queste storielle che le raccontava il padre quando era piccola. Che il grande Matar possa risorgere e fulminarli tutti, quei bastardi!, pensò, più decisa che mai a proseguire la sua battaglia. L’indifferenza la mandava in bestia. «Come è possibile che vi facciate manipolare in questo modo? Ma non vedete cosa vi stanno facendo?» Leila allargò le braccia per indicare la fatiscenza e la sporcizia tutt’attorno, dove la pietra annerita dei muri e le facciate scrostate e colonizzate da muffe infliggevano a quel luogo l’aria di un eterno crepuscolo grigiastro. «Guardate questa piazza, le strade di questo quartiere, le case in cui vivete! A cosa hanno portato le belle leggi che vi ostinate a non combattere, imposte da quelle brave persone che continuate a lodare?» Il tono grondava di sarcasmo e risentimento verso i manovratori dei fili invisibili a cui era ormai appesa l’intera società. «Dove sono i risultati delle loro promesse?» Leila si era tuffata a capofitto nelle argomentazioni per contrastare il borbottio di malcontento che cresceva 16


tra la folla. Un brusio simile al sibilo di mille serpenti e in più la guardavano con occhi pieni di insofferenza o almeno così le sembrò quando si accorse che Darya le stava tirando l’orlo della gonna per farla scendere. «Il tuo non è coraggio, è follia» le bisbigliò l’amica. «Ben detto! Follia!» commentò di rimando il vocione roco di una massaia dal viso rotondo e arrossato. «Abbiamo tutti un lavoro» urlò per risposta un’altra donna. «E se ci tenessimo i bambini ce lo toglierebbero il lavoro!» aggiunse qualcun altro ancora. «È vero! Ci sfami tu, dopo?» «L’istruzione nei Collegi è buona. Ai nostri figli non manca niente. Non possiamo lamentarci.» Leila, sgomenta, inarcò le sopracciglia e guardò nella direzione di chi aveva appena parlato. Si chiese come potesse quella gente essere così cieca e sorda. Così… accomodante. Lei, come la maggior parte di loro, in Collegio ci aveva vissuto per ben dieci anni. Ingoiò amaro il ricordo dei metodi rigidi e freddi degli insegnanti in quel luogo asettico, completamente privo del calore materno di cui ha bisogno un bambino a quell’età. Dove l’obbedienza era inculcata come la prima delle virtù. Rivide ancora il buco in cui la chiudevano da sola, di notte, quando trasgrediva le regole. Oh, ma certo, l’istruzione era ottima. Ne uscivi “ben educato”, col cervello lavato, risciacquato e centrifugato ben benino. E no, ai loro figli non mancava niente. Forse solo un briciolo di autonomia e di individualità. Maledetti! Leila però non si era fatta schiacciare, e nemmeno Kian e altri ragazzi conosciuti al Collegio, che la pensavano come lei. 17


Le si strinse il cuore al pensiero che, tra pochi mesi, sarebbero venuti a prendere anche sua sorella Lili. «Sei sempre la solita piantagrane!» «Per colpa tua l’Alcalde manderà gli arcieri a perquisire le case alla ricerca di quelli indietro con il pagamento delle gabelle.» «Scendi da lì!» «Vattene a casa, ragazzina!» La tensione salì in una piazza sempre più gremita e tutto quel vocio, insieme alla marea di profumi e lezzi del mercato rese l’aria fresca di fine settembre incredibilmente soffocante. La sua sensibilità agli odori, spesso era una vera seccatura. La gente la guardava strano quando capiva che lei era in grado di fiutare e seguire tracce olfattive. Anche sua madre corrugava la fronte e la fissava inorridita. Quindi, per evitare di essere additata e temuta, Leila aveva imparato a tenere per sé le sensazioni provate quando un refolo d’aria le rivelava esattamente cosa stesse accadendo a centinaia di metri. Dalle finestre delle case che racchiudevano il mercato, prima rigorosamente serrate, si affacciarono dei curiosi attirati dallo schiamazzo. I mercanti avevano abbandonato le loro postazioni dietro ai banchi e, insieme al resto dell’adunanza, si stavano raggruppando davanti alla piramide di casse sopra la quale Leila, istintivamente, fece mezzo passo indietro. «Per l’amor di Dio! Ti prego, andiamocene» la implorò Darya. Leila, combattuta, guardò l’amica. Probabilmente Darya aveva ragione. Forse avrebbero dovuto essersi già allontanate. Ma Leila avvertì anche qualcos’altro, una 18


forza oscura che le si riversò nelle viscere e che la tenne inchiodata sul posto. Un alito di ghiaccio, che non aveva niente a che fare con la brezza autunnale, le accarezzò la nuca facendola rabbrividire. Qualcuno la stava osservando. Non qualcuno appartenente alla massa chiassosa. Leila sembrò non sentire Darya che la chiamava ancora. Con la testa voltata verso sinistra e gli occhi stretti per mettere meglio a fuoco, stava scrutando con una certa circospezione il volto rugoso di un vecchio emerso in quel momento dalla penombra del porticato laterale, a pochi metri da lei. Impossibile, pensò. Quel vecchio non era certo uno delle squadracce dell’Alcalde, uno degli arcieri mandato lì a prenderla. Eppure, il modo in cui lui la stava fissando le procurò i brividi. Confusa, Leila fece scorrere ancora una volta lo sguardo. Niente. Quando infine incrociò nuovamente quello del vegliardo, ecco che il cuore riprese a martellare veloce. Si passò la mano sulla nuca per scacciare il freddo formicolio che l’aveva appena colpita per la seconda volta. Non servì a nulla. E nemmeno riuscì a staccare gli occhi da quelli grigi dell’uomo, quasi trasparenti, ma incredibilmente penetranti e limpidi, incastonati com’erano in quell’intrico rughe in parte celato sotto una rada barba d’argento. Le fu facile immaginare dello stesso colore anche i capelli nascosti sotto il cappuccio dell’ampio mantello nero e all’improvviso, dentro le iridi grigie, vide guizzare la doppia immagine di una pantera nera ruggente. Sussultò, il respiro mozzato di colpo. Un brivido la percorse per intero facendole rizzare i peli sulle brac19


cia sia pur coperte dalle maniche di lana. Nello stesso momento, il vecchio si ritirò nell’ombra del porticato e scomparve. Con una mano sulla bocca, Leila rimase a fissare quel punto. Impossibile, pensò di nuovo. E se quel vecchio fosse stato davvero…? «Leila, attenta!» la voce di Darya le penetrò i pensieri con la stessa forza con cui un cespo di lattuga marcia le colpì improvvisamente alla spalla. «Sei per caso impazzita?» Darya le prese un braccio e la strattonò per farla scendere. «Ma che ti prende?» In brevissimo tempo, la lattuga fu seguita da pomodori, cavoli e rape marce e puzzolenti che alcuni ragazzini raccattarono dal lastricato sudicio, come per aiutare le loro madri a umiliare la stupida ragazza ribelle. «L’hai visto anche tu?» chiese agitata Leila all’amica, parandosi con un braccio dai colpi che andavano a segno. «Chi? Dannazione, vuoi deciderti a scendere?» Leila lo fece. Con un salto raggiunse Darya sul gradino più basso della piramide di casse. «Quel vecchio!» «Ma di chi stai parlando?» «Ah, lascia perdere» mormorò Leila tornando a frugare con lo sguardo sotto il colonnato. Non era impazzita. Il vecchio era lì, poco prima, era pronta a giurarlo. E negli occhi aveva il riflesso della belva, le fauci spalancate per mostrare le zanne. Nella mente le sembrò di sentire riecheggiare un ruggito. «Che ti succede? Mi dici ora che ti è preso?», le chiese Darya, a corto di fiato per lo spavento. 20


«Nulla... Ho paura che l’Arutam mi abbia presa di mira» ammise Leila quasi bisbigliando. «L’Arutam!» rise l’amica. «Certo. E perché no l’uomo nero o Belzebù! Se così fosse, non saresti qui a raccontarlo. Non risulta che nessuna vittima dell’Arutam sia mai sopravvissuta» continuò, intubando la voce e agitando le mani aperte di fianco al viso, a mo’ di spettro. «Eppure...» insistette Leila. «Possibile che il Consiglio abbia portato dalla sua parte anche Cyrus Parvin?» «Cosa? Ma da dove ti vengono certe idee?» le domandò Darya con gli occhi sgranati, neanche avesse appena sentito la cosa più ridicola del mondo. «Parvin sarà morto da un pezzo. Dovrebbe avere sui cento anni se fosse vivo.» «Se è così, allora chi detiene l’Arutam, adesso?» «Le streghe Halliwell. Dai, non crederai sul serio alle voci che girano!?» Leila tirò un breve sospiro. «Lo sai cosa temo. Temo di dovermela vedere con qualche diavoleria in più la prossima volta che le squadre dell’Alcalde mi dovessero mettere alle corde.» Non riusciva a convincersi che ciò che aveva visto fosse solo un’allucinazione. Anche se a giudicare dall’aspetto il vecchio aveva già evidentemente un piede nella fossa, era ancora vivo ed era stato lì in carne e ossa. Non era un fantasma. Quegli occhi, vividi, di puro acciaio che l’avevano fissata, poi il guizzo oscuro, feroce dentro di essi. L’Arutam. Le parole di Darya le riecheggiarono nelle orecchie. Secondo le storie che giravano da secoli, nessun bersaglio dell’Arutam era sopravvissuto per raccontarlo. 21


All’improvviso, distratta da quei pensieri un colpo durissimo appena sopra il seno destro le mozzò il respiro e Leila emise un gemito strozzato. Con una mano sul seno, si premette con la schiena contro la parete sporca e umida. Pezzi di intonaco caddero. Solo allora iniziò a percepire il dolore lancinante che si stava allargando sul petto. Sentì un bruciore intenso nel punto dell’impatto e guardò in basso scostando un po’ la mano. Deglutì per ciò che vide e le lacrime le velarono gli occhi. Rabbia e dolore stavano per traboccare. «Oh mio Dio!» esclamò Darya. Aveva spalancato la bocca per il terrore e si precipitò da Leila evitando a sua volta di essere colpita. Le tolse piano la mano destra che si stava colorando di rosso tra le dita. «Oh merda!» farfugliò sconvolta alla vista del profondo squarcio sopra il seno dell’amica. Il sangue scivolò copioso sulla pelle bianca della scollatura, fino a infiltrarsi nel tessuto color avorio della maglia, dipingendovi macabri sentieri scarlatti che andarono a fondersi con le macchie multicolori di frutta e verdura. Si chinò e raccolse qualcosa. Leila serrò i denti lottando contro il senso di nausea. Sulla mano aperta dell’amica, attraverso la cortina di lacrime, osservò l’oggetto con cui era stata colpita. Infilata a metà dentro la patata, una lametta argentea scintillò minacciosa. Qualche secondo dopo, con la mano sinistra bloccò il polso di Darya che aveva già tirato indietro il braccio, pronta a rilanciare il tubero. «Lascia perdere. Non siamo qui per fare la guerra a questa gente. Vieni, muoviamoci prima che scoppi il finimondo» disse, scorgendo tra le bancarelle sguardi intimidatori, bocche che bisbigliavano e il guizzo di una divisa mimetica. 22


Capitolo 2

La stanza era angusta. Leila gettò un’occhiata intorno e la riconobbe. Darya l’aveva presa per mano fino a condurla nella bottega di Marcus. Ogni cosa era stipata, incastrata. Ecco il vecchio divano subito accanto alla porta da dove erano entrate; a destra, una sorta di scrivania ricoperta di cartelle e fascicoli, qualche sgabello a contornarla; l’armadio sgangherato in alluminio alla parete sinistra. E casse. Casse zeppe di utensili ovunque. Nell’aria, l’odore acre del metallo fuso. In quell’istante, colpi sull’incudine provenienti di là della porta socchiusa annunciarono che il fratello di Darya si trovava in bottega. Leila conosceva Marcus, grosso come un orso ma gentile come pochi. Di tanto in tanto amava rifugiarsi nel calore della sua fucina e scambiare con lui due chiacchiere. Ma stavolta era diverso. Aveva la mente in subbuglio. Non voleva credere a ciò che era successo nella piazza. Non poteva accettare che quella gente rinunciasse così alla propria libertà e ai propri figli. Subito, i pensieri corsero alla sorellina, a casa. E se le squadre dell’Alcalde fossero andate lì? Se avessero preso Lili al posto suo? «Oddio, no!» farfugliò. Sopraffatta da un moto d’ansia, Leila avvertì l’impulso di uscire andandosene al più presto. Premette forte sul petto la striscia di tessuto che prima le teneva legati i capelli. La ferita bruciava e pulsava 23


come se il cuore impazzito volesse uscirne. Lili non doveva pagare per colpe non sue. E nemmeno la mamma o Magda. Era lei, Leila Anwari, la sovversiva che loro volevano ed era lei quella che avrebbero trovato. «Ehi, cosa fai?» Darya si accostò e le prese la mano già posata sulla maniglia della porta. «Senti, ti ringrazio per quello che stai facendo, ma devo andare subito a casa. Se quelli…» «Prima ti sistemo quel taglio e dopo andrai a casa. In queste condizioni spaventeresti a morte sia tua madre, sia tua sorella.» Leila avrebbe voluto obiettare ma si accorse di non averne le forze. Per un momento ebbe l’impressione che la stanza le girasse intorno e che i piedi si trovassero sull’orlo di un precipizio. Le tremavano le gambe e la sensazione di nausea sempre più forte le annebbiava il cervello. Doveva sedersi, solo per un minuto. Oppure trovare un bagno. Provò a fare dei respiri profondi e lenti, ma l’aria viziata, calda e satura di polveri non fu di grande aiuto. Mentre Darya spostava malamente alcune scartoffie sulla scrivania per far spazio alla cassetta del pronto soccorso, Leila si accasciò su una sedia sudando freddo. «Cavolo, sei bianca come un cencio. Tieni questo. Mettitelo davanti alla bocca e al naso. Ti farà stare meglio» le consigliò Darya porgendole una pezza di cotone. Leila la guardò scettica, ma poi fece come le era stato detto. La stoffa era umida. Quando se la portò al naso e inspirò l’odore fresco e gradevole della menta piperita, le rivolse un sorriso di gratitudine. Tenendo chiusi gli occhi, inalò profondamente. 24


«Okay, ci sono del disinfettante, bende, cerotti… ora fammi vedere.» Darya prese una sedia, la portò di fronte a Leila e si sedette. Davanti al momento della verità, entrambe presero un respiro e abbassarono gli occhi sulla mano che premeva quasi con ostinazione la fascia di tessuto intriso di porpora. Con delicatezza, Darya la scostò, abbassandogliela in grembo. Poi fu la volta della stoffa. Il sangue, in parte rappreso, aveva agito da colla. Leila strinse le mascelle e inspirò sibilando tra i denti, non solo per il dolore ma anche per l’orrore di ciò che pian piano venne alla luce. «Cacchio!» bisbigliò l’amica. Nuovo sangue, insieme con altri umori trasparenti e giallastri, aveva ripreso a fluire da uno squarcio obliquo molto più profondo di quello che avevano immaginato. Leila fissò il taglio, allarmata. «Ehilà, bellezze!» La voce baritonale di Marcus fece sussultare le ragazze. Colta di sorpresa, Leila istintivamente si tirò su l’orlo della scollatura fino a coprire la ferita e al di sopra della testa di Darya scorse l’enorme figura del ragazzo che stava varcando la soglia. Gli occhi scuri di Marcus si posarono immediatamente su ciò che lei stava tentando di coprire. Videro la mano sporca di sangue stretta sulla maglia e il tampone improvvisato, rossastro, abbandonato sul pavimento. La faccia di lui cambiò subito espressione. Aprì la bocca per dire o chiedere qualcosa. «Pare che la gente sia completamente impazzita» lo precedette però Darya scuotendo il capo, corrucciata. Gli fece un riassunto più che dettagliato di ciò che era 25


successo al mercato, mentre Marcus, avvicinatosi a Leila, si piegò sulle ginocchia per esaminare la lesione. Dopo un attimo di esitazione lei abbassò il lembo di stoffa. Il ragazzo sollevò una mano verso il bellissimo décolleté, serrò i denti facendo guizzare i muscoli della mascella sotto l’accenno rossiccio della barba. «La gente ha paura, non è pronta per le vostre battaglie» disse piano, col volto corrucciato. «Ci vorranno una decina di punti» disse Darya, condividendo quel pensiero a voce alta e Marcus annuì silenziosamente. Tutti e tre sapevano però che andare dal medico era escluso. «Okay, andrò a casa. Magda o mia madre sapranno sicuramente cosa fare.» Leila, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, fece il tentativo di alzarsi, ma il ragazzo le mise una mano sulla spalla e, delicatamente, la spinse di nuovo giù. «Ti piace proprio rischiare la pelle, eh? L’odore del tuo sangue li attirerebbe dopo pochi metri.» «Di che stai parlando? Cosa sono, segugi?» domandò Darya con sarcasmo. «In un certo senso» rispose lui, senza staccare gli occhi da quelli verde smeraldo di Leila. Qualcosa in lei iniziò ad agitarsi. Non sapeva spiegarsi il perché, ma sentì che ciò che Marcus aveva appena detto, era vero. Gli credeva, così come aveva sempre creduto alle storie di suo padre. Quasi con imbarazzo, distolse gli occhi da quelli profondi di lui, strinse in una mano la pezza imbevuta di olio essenziale alla menta e con l’altra sospinse una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

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«Allora chiamiamo il medico e se mi segnala, pazienza. Che quelli delle squadre vengano a prendermi. Non ho fatto niente di male, le leggi parlano chiaro e gliele sbatterò in faccia, se dovesse essere necessario.» «Non sarai in grado di farlo se la ferita si infetterà, e la frutta marcia è la giusta premessa di una setticemia coi fiocchi. La lametta era di certo coperta di batteri.» Leila fece uno sbuffo sospirato e annuì. «Hai ragione. Quindi, cosa dovrei fare?» Da come aveva parlato, il fratello di Darya sembrava possedere qualche conoscenza in campo medico. A quel punto, Marcus si sollevò in piedi e guardò l’amica della sorella con l’aria di chi sta meditando qualcosa. Si accarezzò il mento ispido. «C’è un modo sicuro per evitarla.» Leila deglutì. Il tono e l’espressione che lui aveva appena usato avevano reso vana la rassicurazione che stava dentro le parole. Inquieta, si alzò dalla sedia sperando che il misero pranzo a base di uova sode e barbabietole diviso con l’amica restasse al suo posto. Aggirò la mole di Marcus e si guadagnò uno spazio nella stanza relativamente sgombro. Aveva bisogno di respirare. «E… sarebbe?» «La cauterizzazione.» Da Darya si sentì provenire un gemito strozzato, Leila represse il suo. «È assurdo. Non dirai sul serio. Dobbiamo portarla in clinica e se faranno domande…» «Va bene.» Le due parole di Leila dette in modo brusco per ostentare sicurezza, zittirono l’amica solo per un istante. 27


«Ma sei matta?» Darya con gli occhi sgranati per l’incredulità le si mise di fronte. «Rimarrai marchiata a vita!» Allibita e agitata, si scompigliò dietro la nuca i capelli corti e fulvi. Sembrava lei quella destinata allo sfregio. «Sarà il prezzo da pagare» rispose ingoiando amaro. Anche Marcus le si avvicinò e la accarezzò posandole la manona su un braccio. Anche se gli era riconoscente, purtroppo a Leila non arrivò alcuna sensazione di conforto. Non poteva e non doveva esistere consolazione di fronte a tanta ingiustizia ma solo la forza di andare avanti a lottare, per se stessa, per Lili, per qualcosa di migliore. Da quando era morto suo padre due anni prima, nessuno era più riuscito a darle conforto, a farla sentire veramente al sicuro. Sua madre, beh, non era proprio il tipo che perdeva tempo dietro alle figlie per motivi “futili”, sempre troppo impegnata col lavoro e troppo stanca quando era a casa. Quanto all’amore, quei due o tre ragazzi si erano fermati alla superficie senza riuscire a scalfire lo schermo coriaceo della sua anima. Leila scacciò quei pensieri e, precedendo i due amici, attraversò la porta per passare all’officina. Incredibilmente, l’aria di quello stanzone dai colori grigi e male illuminato era molto più respirabile grazie alle numerose prese d’aria e lei tirò un mezzo sospiro di sollievo solo per quello. «Siediti là, intanto» disse Marcus passandole di fianco e indicando lo sgabello accanto alla fucina ampia in

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pietra. L’unico, quello su cui si sedeva di solito nelle giornate invernali, per riscaldarsi. Lui non perse troppo tempo a scegliere lo strumento che avrebbe usato, anche se per un istante sembrò che esitasse. Dalla parete afferrò uno dei numerosissimi attrezzi appesi e quando Leila vide che si trattava di uno di quei ferri per marchiare il bestiame, sentì il cuore scenderle nello stomaco e il groppo salirle alla gola. In piedi, era intenta a guardare il marchio sparire dentro i carboni ardenti che illuminavano di giallo il faccione di Marcus e a malapena avvertì la mano di Darya che prendeva la sua e la conduceva allo sgabello facendosi largo tra un grosso maglio e un ceppo su cui poggiava l’incudine. «Ne sei proprio sicura?» le domandò l’amica, sussurrando per la paura. «Possiamo trovare un’altra soluzione, una clinica fuori città…» Leila scosse piano la testa e le rivolse un lieve sorriso, quasi come se fosse Darya a essere bisognosa di rassicurazioni. «Più tempo passa, peggio è. E in ogni caso, una cicatrice resterà comunque.» Fece spallucce e si voltò verso Marcus proprio nel momento in cui lui estrasse il ferro dalla brace. Il marchio incandescente irradiò minaccioso i colori dell’Inferno rendendo quel luogo ancora più cupo. Leila dovette respirare a fondo per mantenere la calma, altrimenti sarebbe scappata. Forse ci era finita davvero nel Posto del Vecchio Nick1.

1 Altro nome per indicare l’Inferno nel romanzo di genere fantastico Hells Bells, dello scrittore irlandese John Connolly.

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«Abbassati il reggiseno.» Marcus non la guardò mentre lo diceva, ma doveva aver percepito l’espressione confusa di Leila. «Non voglio correre il rischio di fondertelo sulla pelle.» Ah. «Reggile le mani e dàlle questo da mordere» ordinò poi alla sorella. Darya le mise una striscia di cuoio tra i denti, poi le si pose alle spalle in modo da fornirle un appoggio. Le passò le braccia sul davanti come in un abbraccio e le prese le mani appoggiate in grembo. Le strinse forte. Così, avvinghiate l’una all’altra, tremarono insieme. A quel punto, il ragazzo non poté più evitare di posare gli occhi sul seno scoperto. Rotondo, sodo, pieno da riempire anche la sua mano. Nel mezzo, in contrasto con la pelle nivea, il capezzolo spiccava scuro e indurito, come ricoperto da pelle d’oca. Il pomo d’Adamo di Marcus si mosse su e giù. Le labbra si contrassero tanto da diventare due linee sottili mentre guardava Leila come se volesse chiederle scusa per quanto stava per fare. Quando il ferro rovente le si avvicinò al petto, Leila vi distinse la sagoma rossa di un tulipano. Almeno non era una lettera, come quelle con cui venivano marchiati gli schiavi, pensò e chiuse forte gli occhi e serrò i denti sul cuoio. Era sicura che il cuore le avrebbe sfondato la cassa toracica. Un solo secondo dopo urlò, anche se ciò che le uscì dalla bocca fu solo un grido soffocato. Il dolore era atroce. Conficcò le unghie nelle mani di Darya e, come a voler fuggire al ferro, si spinse all’indietro con forza 30


inaudita. Ma fu sorprendente con quanta resistenza il corpo esile dell’amica riuscisse a sostenerla. Dibatté il capo a destra e a sinistra, non era possibile che ci volesse così tanto. L’odore di carne bruciata le salì pungente al naso. “Toglimi quell’affare di dosso! Basta!”, tentò di gridare, la voce spezzata dal dolore, o forse si immaginò solamente di averlo fatto perché i pensieri correvano velocissimi. Le sembrò passata un’eternità quando tre secondi dopo Marcus staccò il ferro dalla pelle e come se si fosse ustionato la mano lanciò l’arnese nella vasca di pietra ripiena d’acqua. Nei suoi occhi brillavano rabbia e dispiacere. Leila si afflosciò contro Darya, il dolore era diminuito solo di poco. Respirava con affanno. Il bruciore e la puzza di carne bruciata erano così intensi che fu assalita da una nuova ondata di nausea. Giusto il tempo per sporgersi di lato e il conato arrivò violento. Infine, mortificata, prese la pezza profumata al mentolo che Darya le stava porgendo e si tamponò la bocca. «È stata una pazzia» mormorò l’amica, sconvolta. «È stata la mia salvezza» replicò Leila con voce esausta e guardò sbucare Marcus dal retrobottega. «Applica questa, ti darà un poco di sollievo e aiuterà la ferita a guarire» disse lui dandole un vasetto di vetro bianco. «Cos’è?» «È a base di erbe antisettiche e cicatrizzanti.» «Lascia che te la metta io» intervenne Darya. Leila non obiettò. Solo per un breve istante trovò la forza di abbassare lo sguardo sul décolleté rovinato per sempre. Si morse 31


le labbra. Le lacrime bruciavano quanto quel dannato marchio a fuoco. E non solo per la pelle in fiamme. Un’ora dopo Leila si richiuse alle spalle la porta d’ingresso all’appartamento al pianterreno di una delle vecchie case schierate lungo il fiume Elba. «Lili, eccomi!» chiamò subito. Aveva bisogno di stringerla, di accertarsi che la piccola stesse bene, che nessuno fosse venuto a farle del male. Avrebbe voluto tornare prima, ma Darya e Marcus avevano insistito affinché si lavasse e indossasse vestiti puliti. La ferita, quel maledetto marchio, non sarebbe stata visibile sotto la medicazione, la maglia, però, sporca e insanguinata rischiava di essere un richiamo. «La ferita puzza solo di bruciato, ma il condimento dei tuoi vestiti è un puro invito al banchetto» aveva detto Marcus. «E poi, non puoi farti vedere così da Lili, da tua madre, o da Magda. Verrebbe a tutte un infarto. Perciò aspetti qui e in meno di dieci minuti sarò di ritorno con qualcosa di pulito» era stato il commento di Darya, tanto per rincarare la dose. A Leila non era rimasto che obbedire. Sulla via di casa, con indosso un paio di jeans e un morbido dolcevita di Darya, si era chiesta se da lì in avanti si sarebbe sempre messa solo indumenti che la coprivano fino al collo. «Lili… Magda… Sono a casa» ripetè. Dio, proprio non riusciva a togliersi dal naso l’odore ferroso del sangue. Se lo sentiva ancora addosso, ovunque. Tese l’orecchio per capire dove fossero tutti. A una 32


prima occhiata il piccolo appartamento sembrava in ordine e tranquillo come al solito. Nell’aria si diffondeva il profumo della cena che Magda era solita preparare quando veniva a occuparsi di Lili. Ma anche un odore acre, pungente, di selvatico. La fece pensare a Mausi, il loro gatto, quando lo avevano raccolto dalla strada. Chissà dove era andato ad aggirarsi quel furfante. Ma c’era quello strano silenzio… Di norma, sua sorellina arrivava di corsa e le si gettava al collo per farsi fare la giravolta. Ma forse non l’aveva sentita. Probabilmente si trovava in compagnia di Magda nella sua cameretta. Cazzate, pensò istintivamente. «Lili!?» Una nota di preoccupazione si era insinuata nel tono alzandolo di un’ottava. A un tratto, spinta da un istinto inspiegabile, Leila volse lo sguardo sull’attaccapanni alla parete vicino alla porta d’entrata. Quando non trovò la giacca di Magda appesa a nessuno dei tre ganci, il cuore le sprofondò nello stomaco e lì prese a battere brutalmente. Era escluso che la donna non avesse con sé una giacca. Non usciva mai senza, nemmeno d’estate. Oddio no! No!, pregò farfugliando tra i denti. Gettando il sacchetto con i vestiti sporchi in un angolo si precipitò lungo il corridoio, fino all’ultima porta sulla destra. La spalancò con forza mandandola a sbattere contro la parete. Quando lo sguardo incontrò gli occhioni verde chiaro di Lili che si spalancarono a causa dell’irruzione, Leila tirò un grosso sospiro di sollievo. «Lili, oddio, mi hai fatto prendere uno spavento!»

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La sorellina si tolse dalle orecchie un paio di cuffiette, sfoggiò un grandissimo sorriso sdentato, saltò giù dal letto e le corse incontro. «No, tu mi ha fatto prendere uno spavento più grande» dichiarò la piccola, abbracciandole le gambe. Leila trattenne una smorfia di dolore mentre la sollevava in braccio per stamparle un bacio sulla guancia. «Magda dov’è?» si informò, riportando Lili a sedere sul materasso. «Mamma l’ha mandata a casa.» «Mamma?» Lili annuì con fare sapiente. «È tornata presto. Vuoi vedere cosa mi ha regalato Assim? Guarda qui.» Tutta felice, la piccola le mostrò un nuovissimo lettore mp3, rosa scintillante. Dalle cuffie si diffusero le note di una canzoncina per bambini. Leila non poté evitare di accigliarsi. «Assim è qui?» «Sì sì, voleva parlare con la mamma. Non ti piace il mio regalo?» «Certo che mi piace. È veramente un bel regalo» le rispose, accarezzandole i lunghi capelli scuri e setosi. Cosa diavolo ci faceva quello stronzo a casa loro? Leila se lo chiedeva tutte le volte quando, di tanto in tanto, “il Magnifico” si presentava alla porta, sempre con qualche regalo in mano. L’uomo la cui faccia ritoccata sorrideva viscida su manifesti giganti a ogni angolo della città, lo stronzo il cui nome lampeggiava sulle insegne di ogni banca e non solo, il bastardo che deteneva il potere su tutta la società, quel figlio di puttana, era il loro cosiddetto “amico di famiglia”. E ora cosa accidenti ci faceva lì? 34


In quel momento, Mausi entrò in camera con passo felpato, attraversò la stanza, saltò sul davanzale della finestra e, sedutosi in tutta tranquillità, prese a leccarsi. Di colpo coi sensi all’erta, Leila puntò gli occhi sul gatto. Una sensazione brutta, bruttissima si insinuò in lei e le strisciò nelle vene come azoto liquido mentre lo sguardo iniziò a percorrere a ritroso il cammino del felino. Sul pavimento di legno consunto, piccole impronte rosse. Le sarebbe piaciuto sbagliarsi e pensare che ciò che sentiva fosse ancora l’odore del proprio sangue, ma non poteva. Il fiuto non l’aveva mai tradita, mai una volta, con un’infallibilità che le non piaceva certo possedere. La ragazza fu altrettanto certa che il liquido rosso e denso non apparteneva a Mausi. Il gatto, come a volerne dare conferma, sollevò per un attimo il muso dalla sua toilette e miagolò svogliatamente. Oddio! «Mamma!» il grido le uscì strozzato. Uno scricchiolio improvviso proveniente da un’altra parte della casa la fece scattare. Merda! Merda! «Lili, stai lì e non ti muovere!» Allarmata, Leila si precipitò seguendo le impronte sempre più definite. Con una spinta spalancò la porta che conduceva alla lavanderia nel seminterrato. «Mamma!» gridò, mangiandosi le scale a due a due, il cuore in gola. In fondo, sull’ultimo scalino si bloccò e si aggrappò forte alla ringhiera per evitare di cadere addosso alla figura maschile che le si parò davanti, con tutto il com35


pleto slacciato, la cravatta allentata, la pancia prominente e la patta aperta con cui stava armeggiando. Leila lo scrutò, inorridita. «Cosa cazzo stai facendo qui?» «Attenta a come ti rivolgi a me, signorina. Già da tempo ti escono dalla bocca cose sbagliate. Sono del parere che anche tu abbia bisogno di una bella lezione.» I pensieri si susseguirono come immagini dal finestrino su un treno lanciato a folle velocità e intanto Assim la fissò accigliato, minaccioso, con le sopracciglia nere incuneate al centro del viso come se Leila fosse responsabile di qualcosa. Di nuovo le sue paure andarono ai fatti del mercato, al rischio che l’Alcalde avesse mandato degli sgherri a fargliela pagare. Questo avrebbe spiegato la presenza di Assim... Ma qualcos’altro le si affacciò nella mente mentre gli occhi seguivano i movimenti delle mani dello stronzo nell’atto di infilare la camicia grigio topo dentro i pantaloni. La brutta sensazione era più insopportabile che mai. Leila deglutì. In quello stesso istante, con un ennesimo sguardo intimidatorio e scintillante Assim decise di avanzare liberando il varco della porta e l’interno della lavanderia divenne visibile. Le masserizie lungo le pareti, la grata da cui filtrava la luce, il fascio luminoso che si posava sul pavimento e… sopra di esso, un corpo immobile, disteso in posizione innaturale, con le gambe allargate. Oddio. Mamma! Dalla gola di Leila uscì un suono informe e lo sguardo percorse la pelle nuda e sporca di sangue delle cosce, il vestito sollevato sopra il ventre e lacerato per scoprire il seno, la testa immersa in un lago rosso e denso. Infi36


ne, si fermò dentro gli occhi grigio azzurri spalancati che sembravano guardarla, implorando aiuto. Ma la sola cosa rimasta viva in essi era terrore. Un unico pensiero, un urlo dentro la mente e la rabbia la travolse con ferocia inaudita. Lui si trovava ancora lì, ne avvertiva la presenza. Lo avrebbe ucciso quel bastardo. Ma solo dopo avergli strappato le palle e avergliele fatte ingoiare. «Che è successo alla mamma?» La voce di Lili la fece girare di scatto ma troppo tardi per impedirle di vedere. «Piccola monella, non ti avevo detto di rimanere in camera finché non sarei venuto da te?» disse Assim con voce melliflua. Leila sentì che avrebbe vomitato di nuovo e finalmente le uscì la voce, bassa, ringhiosa, irriconoscibile. «Brutto figlio di puttana, stai lontano da lei! Lili, scappa! Corri!» Dapprima Lili rimase ferma a guardarsi intorno, confusa, gli occhi lucidi e l’espressione stravolta. «Scappa, dannazione!» Singhiozzando Lili finalmente corse via, su per le scale. A Leila ronzavano le orecchie, il cuore martellava nel collo e nelle tempie. Sembrava che tutto il sangue le stesse affluendo alla testa. Accecata dalla rabbia, focalizzò la stazza imponente di Assim. «Vuol dire che lascerò il bocconcino più tenero per ultimo» rise.

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Leila sentì bruciare dentro l’odio e la rabbia come non li aveva mai provati in vita sua. Nelle vene al posto del sangue scorreva un fiume di fuoco. «Maledetto!» La voce le fuoriuscì bassa, simile a un ruggito. Poi, un fremito la investì. Sentì la pelle tendersi e fu sopraffatta da un’esplosione di potenza che si irradiò dal petto, agli arti, fino all’ultima falange. Le viscere le si contorsero con fitte tremende e la testa sembrò esplodere. Ma tutto durò solo il tempo di un battito di ciglia. Il sorrisetto viscido sulle labbra di Assim, morì all’improvviso. Cereo in volto, arretrò mentre Leila, con le zanne scoperte e ringhiando minacciosa, mosse i primi passi felpati verso lui.

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Ringraziamenti

Forse la storia di Leila e Jaron non sarebbe mai finita su queste pagine se non fosse stato per una serie di eventi che mi hanno fatto conoscere le persone che hanno contribuito alla nascita di questo mio primo romanzo. Grazie quindi ad Anna De Sanctis, per il tuo supporto e per la mano che sei sempre disponibile a tendere. Senza te non avrei conosciuto colei che mi ha portata alla Mammaeditori, accompagnandomici quasi per mano e incoraggiandomi, Alice Winchester. Un grazie speciale tutto per te, Ali, per essermi sempre vicina e per quello che mi dai, ogni giorno. Sai quanto significa per me. Monica Montanari, grazie per aver creduto in questa storia e al tocco in piÚ che solo tu potevi darle. Grazie a Gaiottina, a Mandar, a Fanny Goldrose e a tutta la compagnia delle Bloodies. Grazie ragazze, e ragazzi, per l’aiuto e le dritte. Grazie alla mia famiglia, soprattutto ai miei tre ragazzi, Pat, Dana e Greta. Ci vuole pazienza con me, lo so. E naturalmente, grazie a tutti voi lettori.

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PROSSIMAMENTE Fanny Goldrose CUORE DI STREGA È dura sentirsi in difficoltà perchè frequenti un antico college esclusivo solo per beneficienza. Per Meredith Spencer detta Spilla, il gioco si fa duro. I vecchi abiti neri non le sono d’aiuto così come i suoi occhi diversi, uno verde e uno viola. Ma tutto può cambiare se arriva al College uno studente misterioso dallo sguardo di giada. Sì, lo rivolge solo a lei ma nessuno sa veramente chi egli sia. Liam Avallson nasconde il viso sotto il cappuccio della felpa e non si separa mai dal bastone da passeggio. Molte cose succedono nell’ombra all’Edwin&Mary e nubi nere si addensano sul destino dei suoi studenti per opera dei ladri di sogni. Un gothic romance spudoratamente romantico con elementi di rivincita.

PROSSIMAMENTE Alice Winchester FUOCO & ZUCCHERO Tornando dal prestigioso collegio svizzero per le vacanze estive, Chloè Rousseau scopre ad attenderla un fidanzato bello, pronto e confezionato... Confezionato male però. Unico pregio è l’essere figlio del socio dello zio nel megaprogetto di un Casinò sul monte Bugarach della profezia Maia. È troppo, vuole scappare, peccato che a bloccarle la fuga sia la nuova guardia del corpo: Ari, una statua scorbutica alta quasi due metri dall’irresistibile sorriso triste. Povera Chloè, già in crisi con la difficile arte di crescere e povero Ari, così potente da rappresentare una minaccia perfino per coloro che ama. Entrambi pedine in un mondo che decreterebbe il prevalere del denaro sui sentimenti e sui destini dell’umanità intera. La passione, l’amore tenero e struggente nasceranno, sullo sfondo di battaglie millenarie.


PROSSIMAMENTE Imogen Barnabas VELENO E POZIONI D’AMORE Certo contare su un weekend con un regista fascinoso dallo sguardo magnetico è quanto di più auspicabile tanto più se serve a lasciarsi dietro le spalle un marito anaffettivo e un amante spocchioso. Peccato che gli uomini siano tutti uguali: detestabili personaggi che ti fregano il tappo del serbatoio e ti danno buca all’ultimo momento e infine ti comunicano per telefono di volere il divorzio. Come meravigliarsi che Dominique nonostante i riccioli dorati e gli alluci vanitosi abbia deciso di suicidarsi? E di farlo proprio a casa della sua migliore amica Lissa statuaria distillatrice di erbe e pozioni? Sì, perché malgrado una provvidenziale ispirazione abbia suggerito a Lissa di vivere lontano dalla civiltà, “lontano” a ragion veduta potrebbe non essere abbastanza... Una screwball comedy in cui amore e umorismo si mescolano a situazioni paradossali. La tenera ironia con cui a ben vedere si declinano femminilità e virilità.

IN LIBRERIA Margaret Gaiottina JAGUARÀ Orlando Saxton ancora non sa che il padre ha assunto per lui un’assistente cieca. Seducente e arrogante chirurgo plastico, l’ultimo rampollo dei Saxton è tanto abituato all’effetto che provoca nelle femmine del suo genere da aver bisogno di diversivi sempre più eccitanti per soddisfarsi. Del resto le donne dissolute che frequenta sono ben liete di offrirgliene. Maya O’Byrne, dal canto suo, abituata a cavarsela mescolando fiducia nel prossimo e istinto per il pericolo, resta spiazzata dal profumo insolito che circonda costantemente il suo nuovo principale: un odore oscuro, di selvaggio e di foresta tropicale. Ma l’immaginazione tanto sviluppata in persone come lei, basterà per preparare Maya alla verità? E sopratutto saprà il cuore di Orlando resistere a un candore tanto impavido e letale?


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