Un Nido di Terra per la Donna Cristallo Cap1/2

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Margaret Gaiottina

Un nido di terra per la donna cristallo

2011 n. 10

a cena col vampiro

Mammaeditori


ISBN 978-88-87303-53-7 1° edizione novembre 2011 Copyright © 2011 Mamma Editori Casa Bonaparte 43024 Neviano degli Arduini  -  Parma telefono 0521.84.63.25 mamma@mammaeditori.it www.mammaeditori.it

Collana

a cena col vampiro In fatto di vampiri ed esseri soprannaturali vari la magia dell’epica sembra più che mai rinnovarsi. Nella koinè letteraria, migliaia di fans di ogni paese, continuano a immaginarne e a leggerne le avventure. Per questi tipi, la collana A cena col vampiro intende dar conto del fenomeno, con l’avvertenza, che non tutte le storie mantengono il profilo adolescenziale e romantico, alcune autrici hanno voluto narrare in modo più crudo le passioni, altre più attratte dal titanismo dei signori della notte, ne hanno descritto dettagliatamente la violenza. Altre ancora tornano al momento magico in cui sboccia l’amore impossibile. Vai alla collana “A cena col Vampiro” http://www.mammaeditori.it/pages/ACenaColVampiro.htm Chatta con l’autrice http://docks.forumcommunity.net/

Immagine di copertina di Valda FINITO DI STAMPARE e rilegato NEL MESE DI novembre 2011 presso MAMMA EDITORI


A mio marito Fabio, per ogni cosa e per sempre.



1.

«Attenta Icy, stai andando addosso alla guardia.» Mi risvegliai all’improvviso, Teresa aveva ragione, stavo andando dritta verso il mitragliatore di una delle guardie che presidiava la teca. Mi trovavo nella cappella di Palazzo Crossbow, così chiamato dopo che il mio capo, il vecchio Crossbow, l’aveva acquistato. Una bazzecola per lui e la sua holding della moda. Arretrai di qualche passo. Ero lì perché veniva esposta al pubblico per la prima volta la coppa di Mnemosyne. Il cubo di vetro che custodiva l’oggetto si trovava su un altare a poca distanza dalla parete dell’abside ed era sorvegliato da quattro guardie armate fino ai denti. Due a destra e due a sinistra. E tutto per una specie di piatto concavo di una ventina di centimetri di diametro. Ma d’altra parte eravamo lì per quello, per contemplare quel piccolo reperto tutto d’oro, tanto prezioso da dover essere difeso come un fortino dall’assalto dei beduini. Se avevo appena rischiato di caracollare addosso a una guardia era perché avrei dovuto evitare di bere champagne a digiuno. Già la testa iniziava a ondeggiare, anche se ero ancora in quella fase piacevole di leggerezza e spensieratezza che ti regala il primo calice. Solo in quel modo, ultimamente, riuscivo ad allentare un po’ il freno e sciogliermi. Le Jimmi Choo che avevo ai piedi iniziavano a reclamare la mia attenzione: guardai in giù, un vero supplizio non c’era che dire. Ma anche l’abbigliamento faceva parte de7


gli obblighi derivanti dalla posizione che ricoprivo alla Crossbow. Teresa, collega e sedicente amica, in quel momento, mi stava stranamente incollata come un’etichetta. Teresa Gaviraghi era l’addetta ad istruire le cause per plagio e contraffazione a tutela della Crossbow Fashion ed essendo la contemperazione costi benefici un calcolo squisitamente economico, le sue cause prima di essere intentate dovevano passare da me. Come sua abitudine stava rispetto a me un pelo più indietro. E tuttavia con la coda dell’occhio potevo tenere sotto controllo il corpicino magro e abbrustolito, frutto di anni di diete, fitness e solarium. Quella sera sfoggiava un total look in cui la “D” e la “G” gettavano lampi dorati su un vestito strizzato. Muoveva spesso il polso scuotendo l’orologio, anche questo “Dolce e Gabbana”, gettando lampi di luce riflessa sulla volta affrescata. Gli occhi grigi e vicini sembravano inseguire i giochi di luce. Sempre standomi appiccicata teneva infatti reclinata all’indietro la nuca dai capelli raccolti e platinati ma lo sguardo non si soffermava su niente in particolare. Teresa non osservava gli affreschi. Senza farsi notare, lanciava sbirciatine verso la sottoscritta. Era in attesa che facessi qualche gaffe con l’altro sesso. Poi con Micol, avrebbe riso di “Icy” la fredda. «Non hai tutta questa dedizione quando siamo in ufficio», notai con voce più stridula di quanto avrei voluto. Teresa accostò le labbra al bicchiere fingendo di bagnarsi la bocca e fece spallucce: «Che palle quest’anticaglia. Ci perdiamo tutto il “movimento”. Torniamo di la?» Per “di là”, con cantilena del nord, Teresa intendeva lo showroom al di là del chiostro. La multinazionale della 8


moda di piazza Santi Apostoli quella sera aveva dato il meglio di sé. Lo showroom di palazzo Crossbow era al massimo del suo sfolgorio di stucchi dorati e barocchi, vetrate piombate a losanga, colonne bianche, nicchie dove rifulgevano abiti scultura dai colori sgargianti che si riflettevano sui marmi preziosi e intarsiati dei pavimenti. Tutto questo, in quel momento sembrava lontano secoli dalla cappella angusta e antica che ci circondava. Mi guardai intorno e vidi Micol, mia collega “in seconda”, profilarsi all’ingresso del piccolo oratorio. Ancheggiava in un miniabito mozzafiato evidenziando il corpo tutto curve, con una certa tendenza ad arrotondarsi sui fianchi. Reggeva due bicchieri, uno dei quali sollevò nella mia direzione offrendomelo. Micol Lambert era l’addetta alle cause per diffamazione e anche le sue azioni legali erano sottoposte alla mia preventiva valutazione di convenienza. Era sulla quarantina, ben portati ovviamente. I capelli vaporosi erano mesciati di rosso al punto giusto e sulle labbra appena ritoccate riluceva un rossetto carminio: totale mancanza di autorevolezza. Era un problema. Spingeva spesso la controparte a resistere in giudizio. Era un’altra che non si poneva il problema di sembrare credibile. Le indicai con un gesto del bicchiere di offrire il secondo calice a Teresa. Io avevo già fatto il pieno. «Guarda - cinguettò Teresa -, Micol è una “giusta”. Non porta i pantaloni, lei, e ha scelto un ...un abito da cocktail. Non questa tristezza mia cara», aggiunse percorrendomi dall’alto in basso con gli occhi piccoli e grigi. Strinsi le labbra per reprimere una rispostaccia. «Sì, grande autorevolezza!», commentai a mezza bocca.

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«Cosa ne capirai di moda!» Teresa si scostò per avvicinarsi alla teca. In quel momento la piccola folla di persone che aveva circondato l’espositore si era dissolta attratta all’esterno dalla musica che risuonava dallo showroom nell’altra ala del palazzo. In quella specie di cripta dove ci trovavamo, anche noi avevamo finalmente accesso all’oggetto misterioso. Teresa strinse un po’ gli occhi e stirò le labbra sottili in un ghigno: «Crossbow impazzisce per questo coso.» «È una coppa.» A forza di sentire la storia, l’avevo imparata bene. Il disco d’oro risplendeva come un piccolo sole. Era una ciotola piatta con una sporgenza che si elevava proprio nel mezzo. Il tutto era scolpito ad altorilievo. La sporgenza era in realtà una donna elegantemente vestita assisa su un trono, circondata da uomini e donne alternati come in un girotondo, tutt’intorno. «Ma non sarà un tantino esagerato: addirittura il mitra?» Micol indicò la canna plumbea che sporgeva verso di noi. «Non credo proprio, con quello che l’ha pagata da Sotheby’s», replicai. «Quanto?» «Un milione di euro, c’era scritto sul giornale», dissi impettita mentre tenevo gli occhi incollati sulla teca. «Che assurdità, neh! Tutti questi soldi per un piatto...» «Dorinda, tu che sai sempre tutto, com’ è possibile che una roba del genere valga così tanto?» Mi strinsi nelle spalle. Micol era l’unica che a volte faceva lo sforzo di usare il mio vero nome. Tutti mi chiamavano “Icy”. «Be’ è pur sempre una coppa d’oro molto 10


antica, dicono che risalga addirittura ai primi secoli dopo Cristo. Sempre che sia vero», borbottai. Mi avvicinai anche io un po’. Da quella distanza non vedevo ancora bene le decorazioni. Le donne e gli uomini intorno alla dea, avevano abbigliamenti e gesti diversi. Chi teneva le mani aperte, chi incrociate sul petto. Erano i dettagli a incuriosire. Si trattava di sedici figure, avevo letto da qualche parte, ma era impossibile capire quando terminasse il giro. Ogni volta comparivano particolari che inizialmente non avevo notato. Con la coda dell’occhio captai un movimento ai margini del campo visivo e mi scossi. Avevo la sensazione che fosse passato parecchio tempo. Quella coppa aveva uno strano potere. Un po’ stordita mi girai sulla sinistra. Qualcosa di scuro sbucava da dietro una grande statua posta di lato all’altare. Non si era trattato di un movimento brusco o improvviso ma fluido e quasi invisibile. Solo allora alzai lo sguardo e mi colpì la stranezza della situazione. I pochi visitatori che sostavano nella cappella al nostro arrivo erano spariti del tutto e anche Micol e Teresa se ne erano andate. Ero ancora annebbiata e tanto presa a chiedermi come fossero scomparsi tutti senza che io me ne accorgessi che sulle prime non mi avvidi di ciò che aveva cominciato ad accadere. Qualcosa, che in realtà era qualcuno, stava avanzando sinuoso sul pavimento nella penombra tra il piccolo altare laterale e quello della teca, alle spalle delle guardie che sorvegliavano la coppa. Sulle prime mi era sembrato un animale. Era un uomo, diamine. Tutto vestito di nero con abiti aderenti e un berretto scuro calato sugli occhi. Il corpo si contraeva in un movimento simile a un’onda, rapido 11


e sicuro come se fosse un rettile in caccia, con l’addome teso sotto un paio di spalle possenti. “Muoversi”: era difficile affermare che si muovesse. Il fatto era che un attimo prima avanzava e poi era sparito di nuovo dietro l’altare della teca. Ero quasi certa di aver avuto un’allucinazione quando sentii la bocca prosciugarsi. L’intruso con un unico movimento sicuro sbucò da dietro l’altare e aggredì alle spalle una delle guardie passandogli un braccio intorno alla gola. La guardia crollò a terra in un grido soffocato. Altri due sorveglianti si girarono in direzione dell’assalitore, mentre quello aggredito si accasciava. Mentre una delle guardie superstiti sollevava la mitraglietta verso lo sconosciuto, questo gli aveva già piantato la mano allo stomaco. Il secondo agente colpito si raggomitolò tenendosi il ventre e le ginocchia si piegarono sotto il suo peso. Quando cadde a terra di schiena, le braccia si aprirono, rivelando i palmi delle mani, rossi e brillanti di sangue. Lo sconosciuto colpì il braccio del terzo addetto alla sorveglianza che gli si era avventato contro. E lo fece servendosi del calcio di una pistola. Sembrava avere una scorta inesauribile di mosse. Sgusciava letteralmente dalle mani degli uomini in divisa. Non avevo mai visto una cosa del genere, sembrava un film o un combattimento finto. Non era possibile che quell’uomo si muovesse in modo insieme tanto impercettibile e tanto letale. Indietreggiai di un passo. Mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato senza trovare neppure la voce per gridare. Ero rimasta da sola nella piccola navata a tu per tu con il rapinatore. Voleva la coppa? Che se la prendesse pure! 12


La sensazione che prima ci fossero quattro, vigilanti sembrava sbagliata. I corpi a terra degli uomini in divisa erano solo tre. «Fermo.» Una voce si levò alle mie spalle, quasi a rispondermi. Non feci in tempo a voltarmi. Ero paralizzata dal terrore e l’uomo alle mie spalle fu troppo veloce. Mi sentii stringere il braccio da una morsa che mi fece ruotare a forza di 180 gradi. Quella stessa presa mi imprigionò e mi attirò contro il corpo di un uomo, schiacciandomi la faccia. Era basso e sentivo sotto la pelle del viso la stoffa ruvida della giacca, il freddo dei bottoni. Puzzava di naftalina e di sudore. L’unico occhio che riuscivo ad aprire vedeva la superficie bluastra di un’uniforme. Mi ritrovavo con il naso compresso contro la divisa del quarto agente, quello che avevo perso di vista. Quello che avrebbe dovuto proteggermi e che invece... «Getta le armi», la voce rimbombò nel petto dell’uomo che mi stringeva. Ne sentivo il battito forsennato del cuore contro l’orecchio, o forse il cuore era il mio e stava volando via. La voce dell’agente si fece sentire di nuovo, era stridula, impaurita: «Getta il coltello. Alza le mani.» Il respiro mi si fermò e non solo perché avevo il viso compresso. Il vigilante si stava facendo scudo col mio corpo. Ma il rapinatore non ci avrebbe certo impiegato molto a levarmi di mezzo. Il corpo dell’agente fu scosso da un tremito. Anche se cercava di sembrare spavaldo capivo che era disperato e accendeva il mio terrore come una miccia. Sarei stata la prima a beccarmi una pugnalata o una pallottola. Gli istanti trascorsero silenziosi e lunghissimi. Con la faccia schiacciata, non potevo sapere cosa stesse accaden13


do alle mie spalle. Nessuno sparo. Eppure durante i pochi secondi in cui lo avevo guardato, lo sconosciuto non mi era sembrato uno che si arrendesse, tutt’altro. Avrei voluto mormorare una preghiera, ma non mi veniva in mente nulla, neanche una parola. Trattenni il respiro e strinsi gli occhi. Ero incapace anche di piangere. La divisa dell’agente che mi teneva stretta sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto e poi puff, basta, chiuso, null’altro. Il tipo che aveva accoltellato tre guardie in dieci secondi non si sarebbe fermato davanti alla mia vita. Poi ci fu lo sparo. Secco, come di una pistola. Non fu una raffica. Sentii piano piano la presa allentarsi. Gridai, mi divincolai come una furia dalla stretta che ancora mi ostacolava e, finalmente libera, potei girarmi e guardare. Io ero viva e così pure l’agente che si era fatto scudo di me ma tre guardie e il ladro erano morti. Il ladro era riverso nel sangue sul pavimento, in posizione innaturale, immobile. I capelli color cenere e lunghi sulla fronte gli coprivano gli occhi, il corpo era abbandonato. Aveva mezza faccia devastata da un colpo in pieno viso. Mi avvicinai all’uomo a terra senza neppure chiedermi se fosse morto davvero. Non aveva sparato. Si era fatto ammazzare per non uccidere un’emerita sconosciuta di cui non aveva visto neppure la faccia. Portai le mani alla bocca. Le gambe mi tremavano e mi veniva da vomitare. L’orrore, la pietà e il sollievo presero a contendersi quel po’ di autocontrollo che mi restava. Barcollai all’indietro scansando qualcuno, forse il vigilante superstite, quello che aveva rischiato di farmi ammazzare. 14


Le voci cominciarono a ronzare tutto intorno. Molte persone stavano affluendo nella sala. Urla di fronte ai corpi per terra, voci maschili concitate impartivano ordini severi. Qualcuno si avvicinava curioso, altri arretravano spaventati. Qualcun altro dovette mettermi una sedia dietro le ginocchia e una mano assecondò i miei movimenti fino a quando non mi trovai seduta. «Sono l’ispettore Isacco Gatto.» Alzai gli occhi giusto nel momento in cui si metteva davanti a me un tipo con l’aria da ragazzo. Le mani sui fianchi, mostrava la fondina in un gesto un po’ arrogante e un tantino intimidatorio. Per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Un po’ il nervosismo, un po’ il cognome ridicolo. Erano passate ore da quando tutto era successo, ore estenuanti, di attesa, trascorse a trangugiare cognac che Micol e Teresa insistevano per farmi bere. Ero distrutta e dovevo avere un aspetto a dir poco sfatto e quella era l’unica cosa buona, almeno il tizio non avrebbe fatto il cretino. Lo guardai meglio. Non era poi così ragazzo come mi era sembrato a prima vista. Gatto si volse intorno con aria un po’ scocciata e occhi vispi, poi si allontanò per prendere una sedia anche lui e si mise accanto a me. Rimasi in silenzio. «Come si chiama?» «Dorinda Martini.» «Perché si trovava qui stasera, signora Martini.» Mi raddrizzai nelle spalle per quanto mi era possibile vista la situazione: dovevo rispondere proprio? Ero talmente stanca. 15


«Sono una dipendente, sono responsabile finanziario della Crossbow Fashion», dicendolo cercai con gli occhi Steve Crossbow. Stava un po’ distante per il momento, ma avrei giurato che di lì a poco avrebbe rubato la scena a chiunque si fosse permesso di conquistare un po’ di attenzione nel suo regno, me compresa. «Cosa è successo?» Che domanda del cavolo. Racchiudere quegli attimi in un giro di parole era impossibile, soprattutto perché ciò che aveva osato fare quell’uomo era così assurdo, non era normale insomma! Deglutii. Meglio andare con calma, cominciare dall’inizio: «Ero proprio qui con Micol Lambert e Teresa Gaviraghi, le mie colleghe.» Crossbow, che intanto doveva essersi avvicinato, si materializzò accanto a me e mise una mano sulla mia. Potevo avvertire il tocco freddo e la pelle raggrinzita da novantenne. «Ringraziando gli Dei, la coppa è salva.» Fu un gracidio insopportabile. Non avevo parole per descrivere come mi sentivo. Quattro persone ci avevano rimesso la vita. Io ero appena scampata alla morte. E quel vecchio rimbambito pensava alla coppa. Intanto la guardia che mi aveva usato come ostaggio veniva scortata fuori da alcuni agenti. Sperai lo stessero conducendo verso il carcere a vita, anche se ne dubitavo. Lo sentii spiegare di aver sparato “a colpo singolo” perché disponeva di una sola mano per azionare la mitraglietta. Certo, con l’altra mano bloccava me! Avevo voglia di strillare. Il signor Crossbow sfoggiava la solita chioma impomatata bionda e quel sorriso lucidato: ogni volta che lo 16


vedevo pensavo alla dentiera che la sera doveva galleggiare in un bicchiere sul suo comodino. «È lei, la mitica. L’araba fenice di tutti gli archeologi, la coppa che faceva parte del tesoro di Pietroasa.» Trattenni a stento uno sbuffo nonostante l’adrenalina che ancora mi scorreva in corpo: come se Pietroasa fosse dietro casa dell’ispettore Gatto! Per noi dipendenti era tutto un altro paio di maniche, avevamo sentito tutti quanti quella storia un centinaio di volte, il signor Crossbow non faceva altro che raccontarla ed era diventata la favola della ditta. L’espressione dell’ispettore Gatto mi fece supporre di aver indovinato e lui non ne sapeva un bel nulla. «La coppa che qualsiasi uomo vorrebbe possedere. La coppa dell’immortalità. Adoro...”Mnemosyne”!» Il signor Crossbow era partito per la tangente perché si accostò con le mani alla teca di vetro antiproiettile e si ipnotizzò quasi davanti all’oggetto che si diceva essere fabbricato in oro degli Urali. Anche dopo duemila anni l’oro, sua pur proveniente dai misteriosi Urali, sembrava tale e quale all’oro della catenina che mi era stata regalata da mia nonna. «Le coppe del tesoro erano due», spiegò Crossbow. Si era ripreso dalla trance e ora guardava l’ispettore negli occhi. «”Due”, in che senso?» «Sì, due. Il tesoro di Pietroasa comprendeva, insieme ad altra chincaglieria di valore, ben due coppe, - continuò Crossbow - non solo la coppa di Pietroasa ma anche la coppa di Mnemosyne. Il tesoro fu scoperto per caso nell’Ottocento e poi trafugato da uno studente di teologia dal museo delle antichità di Bucarest. I preziosi furono 17


ritrovati all’interno del pianoforte dello studente, ma, a quel punto, purtroppo, c’era solo una delle coppe.» «Sarebbe la cofana di qua?» L’ispettore Gatto indicò con un gesto del pollice la coppa alle sue spalle. Alzai gli occhi al cielo: che signorilità! Crossbow lo liquidò con un cenno della mano. «Ma no! C’era l’altra! Questa è la coppa di Mnemosyne, quella scomparsa.» L’Ispettore evidentemente era un po’ duro di comprendonio ma alla fine ci arrivò: «Ok, ma lei come l’ha avuta? » Crossbow si raddrizzò in tutta la sua altezza ed assunse un piglio fiero: «Me la sono aggiudicata da Sotheby’s quindici giorni fa, carissimo ispettore. Un opportuno investimento e una equipe di prim’ordine verranno a capo del suo segreto. Non è emozionante?» Seguì un breve silenzio durante il quale Gatto annotò veloce qualcosa a mano su di un piccolo blocco. Poi lo richiuse e assottigliò lo sguardo verso di me. «Non credevo che Kuja si sarebbe fatto beccare.» Non ce l’aveva propriamente con me anche se sembrava fissarmi, pareva piuttosto che parlasse da solo. Anche se vibrava nella sua voce qualcosa di vagamente accusatorio. «Chi?» «Kuja.» L’Ispettore indicò col mento la salma del rapinatore che era stata coperta con un lenzuolo in attesa di essere messa nel sarcofago posato accanto. Se la stavano portando via quelli della polizia mortuaria. «Era un boia, uno che faceva le cose pulite e, cazzo, non lo avevamo mai beccato, mai.» Be’ l’avevano beccato stavolta. “Kuja”, che nome curioso. 18


Mi venne voglia di andare a sollevare il lenzuolo per vedere la faccia dell’uomo che non aveva avuto la prontezza di fare fuoco su di me e ci aveva rimesso la vita. In quell’attimo un senso di gelo mi oppresse il petto e il pensiero ritornò: sacrificarsi così per una sconosciuta, e chissà se quel Kuja aveva qualcuno che lo aspettava a casa, se... L’ispettore Gatto sembrò leggermi nel pensiero. «Era un mercenario signora Martini, capace di liquidare tutti in questa stanza pur di arrivare al risultato. Mi stupisco che non lo abbia fatto, insomma che...» All’improvviso sembrava quasi pentito di ciò che stava dicendo, ma oramai avevo intuito il senso e avevo anche colto con chiarezza la sua insinuazione. «Che non mi abbia uccisa.» «Si può dire così...», espirò l’Ispettore senza spostare gli occhi dalla sigaretta che si stava rollando metodico. Era già la terza da quando aveva cominciato a interrogarmi. Mi venne un bisogno improvviso di fare qualcosa, un peso iniziava a gravare sulla mia coscienza e avevo l’impressione che più passava il tempo più l’angoscia aumentasse. Non riuscivo a tenere le mani ferme in grembo, le contorcevo tormentando un fazzoletto che qualcuno mi aveva dato mentre gli occhi mi si gonfiavano per un’ondata di emozioni che gorgogliavano a fior di pelle. Andava tutto a rovescio. Il mio ex marito che era un grandissimo stronzo; la guardia, che avrebbe dovuto proteggermi, che invece aveva messo a rischio la mia vita; e l’uomo misterioso, invece, che aveva fatto il più grande atto di generosità che avessi mai ricevuto, e che era un corpo freddo dentro un sarcofago di metallo grigio. Tutto a rovescio. E non avevo neppure potuto dirgli un grazie. «Quando ci sarà il funerale?», chiesi d’impulso. 19


Finalmente l’ispettore se la sfilò dalle labbra quella cazzo di sigaretta. «Dipende dal magistrato, ma credo presto.» Mi fissò a lungo. «Posso chiederle di avvertirmi?» Frugai nella borsetta alla ricerca di un bigliettino da visita. «Mi faccia sapere, la prego.» Dovetti rispondere a un altro paio di domande sul come e quando e poi finalmente fui libera di andarmene. Teresa aveva insistito per accompagnarmi ed era stata davvero dura convincere lei e Micol che potevo farcela da sola ad arrivare a casa. Avevo un gran bisogno d’aria, di schiarirmi le idee. Non sarei nemmeno voluta andare a quella maledetta festa, fin dall’inizio non volevo. Me l’aveva detto Anita che sarebbe stata una serata movimentata. L’indomani le avrei tirato le orecchie perché o non aveva scelto l’aggettivo giusto o doveva cambiare foglie di tè per leggere i fondi. Presi per il Pantheon e poi per piazza Navona. Roma era magica a quell’ora, come sempre ogni notte, mai del tutto deserta da aver paura, mai affollata da dare fastidio, semplicemente perfetta. Poi, dopo ciò che avevo passato, il mondo mi sembrava scintillante e meraviglioso come non mai. Non sapevo cosa avrebbe potuto riuscire a spaventarmi in futuro dopo un’esperienza simile. Avevo visto la morte in faccia. Eppure, grazie a quel Kuja, non ero morta. Se fosse stato così spietato come diceva l’ispettore Gatto, Kuja o come accidenti si chiamava avrebbe fatto fuoco su di me senza pensarci. Invece no. Ed era morto. Sentii di nuovo una stretta al petto. Doveva essere qualcosa di 20


simile a quando si provoca un incidente con la macchina e l’altro guidatore muore, un senso di responsabilità e di colpa tremendi, anche se non te la sei andata a cercare. Arrivai a Via dei Coronari maledicendo i sampietrini, infilai la chiave nel portoncino di legno e lo chiusi alle mie spalle. Nella portineria una vaga luce proveniva dal retro, indicava che Armando era ancora sveglio a guardare la tv. Iniziai a salire i gradini di marmo consumati, ma dopo i primi quattro tolsi le Jimmi Choo e proseguii scalza, il tacco era ormai quasi andato. Avvertii il freddo sotto i piedi che mi arrivò dritto al cervello. Ero sul pianerottolo del secondo piano quando sentii lo scrocco di una serratura: «Psss ...Dorinda. » Mi voltai nient’affatto stupita verso la porta a fianco alla targhetta con su scritto “Anita Davidova, spiritista”. Dalla porta schiusa emerse la giovane russa, di bassa statura a differenza delle sue conterranee e con capelli neri come pece. Sapevo che non era una che andava a letto a orari normali, ma Anita era ancora truccata come se fosse pronta per uscire anziché andare a dormire. Mi avvicinai. «Che ci fai ancora in piedi a quest’ora?» Assottigliai le palpebre scuotendo la testa con disapprovazione. Quella ragazza faceva troppo spesso le ore piccole, come faceva a studiare di giorno se non dormiva la notte! Era un mistero. La venticinquenne mi guardò con un sorrisetto furbo stirato sulle labbra tinte di un rossetto color prugna, quasi nero. Ma il sorriso le morì in faccia non appena gli occhi mi inquadrarono. Dovevo essere un cencio. Lo sguardo bistrato si incupì sotto le sopracciglia aggrottate. 21


«Cosa ha successo?» Anita conduceva la sua guerra privata contro i verbi e gli articoli della lingua italiana. «Oh guarda, è una cosa talmente lunga... E poi nessuno lo sa meglio di te!» Anita tentò di passarsi una mano sui capelli corti che erano spinosi per via del gel che li irrigidiva. Poi li sfiorò appena come per sincerarsi che tutti gli aculei pungessero nel modo giusto: «Vabbe’ me no interessa cose secondarie, tu racconta fatti importanti!» Per un attimo la guardai perplessa pensando per la prima volta che forse qualcosa la intuiva davvero. Si pagava gli studi di ingegneria meccanica con la lettura delle carte e altre amenità simili. Una cosa nata per fare previsioni sui fidanzati delle amiche era diventata una specie di fonte di reddito. Sbuffai. «Cosa vuoi sapere entro ...- guardai l’orologio – ...cinque secondi?» Mi sorrise come una bambina davanti alle caramelle. «Solo una cosa: tu ha incontrato stasera tuo Re di coppe?»

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2.

La guardai con tanto d’occhi: «“Re” di che?» Sul momento mi era sfuggito il significato della sua domanda. Poi ricordai. Anita, dopo avermi intercettato sul pianerottolo ancora fresca superstite di una sparatoria, mi aveva chiesto se avevo incontrato l’irresistibile “re di coppe” che lei aveva previsto dovessi conoscere quella sera. Aveva quella maledetta fissazione di trovarmi un fidanzato: non ero ancora riuscita a farla desistere e mi infilavo le unghie nella carne al solo pensarci. La guardai intontita, in piedi, davanti alla porta del suo appartamento. Ero dominata dalla speranza di raggiungere rapidamente il letto. Lo shock della rapina stava venendo fuori e sentivo le ginocchia ancora più rigide del solito. Le scarpe rotolarono per un paio di gradini mentre infilavo le dita nei capelli. Non era rimasto quasi più nulla dei boccoli in cui il parrucchiere aveva voluto a tutti i costi arrotolare la mia lunga chioma nera. Anita si poggiò allo stipite della porta stuzziccandosi il collare borchiato con un sorriso malizioso: «E dai, che ci aveva preso anche stavolta.» Sospirai. «L’unico “re” presente stasera era Crossbow, come sempre. Il “re dei cretini” però – ripensare al mio capo e alla sua faccia da checca isterica mi dette quasi il voltastomaco -. Era pazzo d’euforia per un tesoro antico che si è aggiu23


dicato all’asta da Sotheby’s, una coppa dell’immortalità dice lui, pensa un po’ tu!» Considerato che non mi andava proprio di raccontare la tragedia della sparatoria e dei morti, avevo appena commesso un errore gravissimo. «Immortalità?» Mi morsi la lingua per essere stata così scema; una che faceva la spiritista non poteva che andare in visibilio per un argomento come quello. Cercai di gettare acqua sul fuoco: «Questo ovviamente lo dice lui, ma figurati se può essere vero. È un reperto antico e prezioso, per carità, ma... Un pigiama informe mi sta chiamando, lo sento...» Sbadigliai mentre presi a salire le scale facendo un cenno della mano all’indietro. «A domani !» «Buonanotte.» Salii un piano e aprii la porta di casa. Le chiavi finirono nello svuotatasche che tenevo all’ingresso e la giacca fu lanciata senza pietà sulla poltrona. A piedi nudi mi avvicinai alla vetrata del soggiorno. Via dei Coronari era deserta e illuminata dalla luce calda dei lampioni antichi. Le saracinesche degli antiquari abbassate da parecchio. Guardai per qualche secondo il riflesso che mi restituiva il vetro e poggiai la fronte sulla lastra fredda. Ci voleva un bicchiere di Brunello. Assolutamente. Ne avevo aperta una bottiglia proprio la sera prima. Me ne versai un calice e tornai a guardare il vetro. Grazie alla luce soffusa della lampada da tavolo intravidi un paio di occhi stanchi color acquamarina, capelli neri e brillanti come ossidiana che incorniciavano un viso che dimostrava tutti i miei trentacinque anni, senza sconti. Le 24


labbra erano sempre state piene e sapevo che erano anche rosse, visto che non smettevo mai di umettarle. Posai il bicchiere e portai le mani alle orecchie appiattendole: erano irrimediabilmente a sventola, ecco perché portavo sempre i capelli sciolti. Nel buio quasi completo del soggiorno, la donna del riflesso poteva sembrare quasi bella, ma io sapevo che non lo era. Avevo il naso non del tutto dritto e davvero troppo affilato, il mento appuntito e lo sguardo caparbio. Spensi l’interruttore della lampada per vedere bene l’esterno, piuttosto che la mia faccia trasparente. I tetti di Roma erano un vero spettacolo dalla mia finestra, c’era una magia di silenzio e penombra che dava un senso di pace. Scolai il fondo del bicchiere e mi girai verso la camera da letto. Via i vestiti, con ciò che restava del trucco sul viso, e con i capelli ancora ben pieni di lacca, affondai nel materasso. Un campanello suonava insistente e fastidioso dentro la mia testa. Scattai seduta sul letto. Ricordavo vagamente di aver ripreso sonno verso le cinque, dopo due ore di emicrania lancinante, complice il vino che avevo aggiunto a tutto ciò che mi ero scolata prima e dopo la sparatoria. Mentre mettevo i piedi per terra con la cautela di chi non sa se reggeranno, quel maledetto campanello riprese a suonare come un trombettiere. Doveva essere qualche demente rimasto con il dito incollato al bottone. Infilai la vestaglia e andai ad aprire la porta. Per poco non travolsi l’orrendo portaombrelli in polvere di marmo. Me l’aveva regalato il portiere. Purtroppo lo mancai e la cosa se possibile peggiorò l’umore. 25


Anita si materializzò davanti ai miei occhi e si infilò svelta nello spiraglio della porta sotto il mio braccio per entrare. «Che successo? Perché non ti era ancora alzata stamattina?» La sua voce era squillante e decisa. Alzai un indice silenziosa: dovevo svuotare la vescica prima di tutto. Rientrata dal bagno con la faccia pulita trovai la caffettiera sul fuoco e Anita che mi aspettava in piedi ansiosa di parlare. Me l’ero cavata la sera prima, non avrei avuto la stessa fortuna ora. «Buongiorno Anita.» Non demordeva. «Non ti ha vista passare alla solita ora.» Mi gettai a peso morto su una sedia. «La verità è che sono uno straccio e ho un martello pneumatico acceso nel cervello.» La mia vicina spense la moka che aveva smesso di gorgogliare e tirò fuori le due tazze di Thun che tenevo a vista nella vetrinetta. «Racconta tutto.» Sospirai, dovevo cominciare da “mi hanno presa in ostaggio” oppure “un rapinatore ha sacrificato la sua vita per la mia” e sono morti tre agenti? «Ieri sera c’è stato un tentativo di furto al ricevimento e sono rimasta coinvolta.» «Ahiiii!!!» Anita si era bruciata col caffè. «Cosa?»

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Lei mi faceva una valanga di domande e io, più rispondevo più pensavo all’illogica sequela degli eventi. Eravamo arrivate al momento più tremendo del racconto, quando una delle guardie si era fatta scudo del mio corpo e si era creata la situazione di stallo con il rapinatore. Anita non riusciva a tenere fisicamente la bocca chiusa per lo stupore misto a terrore: «E lui non aveva sparato?» Allargai le braccia espirando: «No, come puoi ben vedere, ha esitato.» Ancora non riuscivo a crederci neanche io che fosse andata così. «È perché?! Cioè, volevo dire, meno male.» «Era uno che faceva le cose pulite, uno che non si era mai fatto beccare, così ha detto l’ispettore Gatto.» Al solo nominare l’Ispettore, Anita mi fece un’altra valanga di domande, poi venne la fase del monologo. La piccoletta snocciolò ciò che aveva previsto, continuava a parlare di papesse e imperatori mentre io facevo finta di ascoltarla, ma il pensiero iniziava a vagare per conto suo e andava alla guancia di Kuja devastata e coperta di sangue. Mi misi la mano sugli occhi quasi a voler scacciare quella scena terribile. La voce di Anita era diventata un brusio sommesso che faceva da sottofondo ai miei ricordi. «Ma che fai, non mi ascolti?» Mi riscossi e mentii al volo. «Ma certo che ti ascolto, è solo che ho un gran mal di testa. Non smette da stamattina presto.» A quel punto era scattata in piedi. «Ha quello che fa per te, una tisana di Tanacetum Parthenium. Ha una toccasana per queste cose.» 27


Non sapevo cosa fosse questo Tanacetum, ma ero sicura si trattasse di un’erba amarissima. Anita girò intorno al tavolo e si diresse verso la porta d’ingresso. «Scendo a fartene una tazza, anzi un litro, così potrai berla con calma per tutto il giorno.» Di giorni ne passarono tre e di tisane molte di più dalle mani di Anita alle mie, ma non bastarono a riempire quel senso di vuoto che mi mangiava lo stomaco. La tragedia alla festa di Crossbow mi agitava ancora le viscere. Mi sentivo una sopravvissuta. A quella serata e a tutta la mia vita. Una serie di fallimenti collezionati di cui il più doloroso risaliva a un anno prima: a quando lo stronzo mi aveva lasciata. Cercavo di non aprire mai quell’angolo della testa in cui avevo cacciato dentro ogni briciolo di ricordo della vita trascorsa con lui, ma a volte era impossibile. Lo stronzo era Arthur, Arthur Coppola, il mio ex marito. Mi bastava la parola “stronzo” per farmi venire in mente la sua faccia, i riccioli neri e il sorriso perfetto. Per una puttana ventenne. Altro che biancospino e partenio, ci voleva l’arsenico per digerire una faccenda come quella! Era assurdo. Dopo la rapina, quel senso di vuoto lasciato da Arthur sembrava ancora più opprimente. Lo stronzo aveva fatto con me ciò che io non mi sarei mai sognata di fare con lui, forse era proprio questo che mi aveva spezzata dentro. Mi sentivo indurita, come se mi avessero aperto la cassa toracica e ci avessero passato la fiamma ossidrica. Eppure, fanculo a lui, odiavo ammetterlo e detestavo me stessa per quella debolezza, mi tornava in mente il contatto con il cotone pesante e raffinato delle sue cami28


cie con le iniziali e ricordavo con una punta di dolore di non potergli sciogliere il nodo della cravatta. Maledetto Arthur, sempre impeccabile nei suoi panni da avvocato. Se non fosse stato che l’appartamento in via dei Coronari era mio per eredità, mi avrebbe spogliata anche di quello, ma per sua sfortuna apparteneva a mia nonna ed era stata l’unica cosa che mi era rimasta. Per il resto quel disgraziato si era preso tutto. Misi da parte la tazza con l’ennesima tisana, stavolta alla melissa, e mi raggomitolai sul divano tirandomi il plaid sulle ginocchia. Il signor Crossbow aveva insistito che prendessi quattro giorni di riposo dal lavoro, ma era stato peggio stare a casa a rimuginare. Con tutto quel tempo a disposizione tornava a presentarmisi davanti agli occhi la faccia di Arthur mentre minacciava di raccontare a tutti di chi ero figlia. Mio padre! Uno dei più illustri truffatori finanziari internazionali del decennio. Il signor Crossbow mi avrebbe dato il benservito senza pensarci due volte se lo avesse saputo e avrei fatto la fame per il resto della vita. Una consulente finanziaria, figlia di un esperto truffatore: un curriculum a prova di bomba! Per tutti dovevo rimanere solo e soltanto la figlia di Marta Martini, come mia madre aveva voluto nascondendo la vera identità del padre biologico della sua unica bambina. A tutti. O quasi “a tutti”, purtroppo. L’angoscia del ricordo del viso di mia madre si dissipò nuovamente al pensiero di quanto fosse sbagliata la persona che era venuta a conoscenza del segreto. Non solo Arthur mi aveva depredato, ricattata, minacciata, aveva cercato anche di screditarmi sul lavoro.

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Cercai di non pensare al fango che mi aveva gettato addosso, ai pettegolezzi che aveva messo in giro su di me alla Crossbow dopo che ci eravamo lasciati, come sul fatto che fossi fredda, un pezzo di ghiaccio. “Icy” era il soprannome che mi ero guadagnata per il mio temperamento sul lavoro e i suoi commentini erano stati la ciliegina sulla torta. Grazie ai suoi racconti ora davvero tutti mi chiamavano così. Lui mi aveva affondata, si era preso tutto e aveva fatto terra bruciata. Il telefono trillò facendomi sobbalzare. «Sono l’ispettore Gatto.» Lo stomaco mi si contorse mentre vagai con la mente alla ricerca di cosa potesse indurre Callaghan a cercare la sottoscritta. «Il funerale - disse senza troppi convenevoli. E mentre esitavo, aggiunse - Domani. Alle 17.» Abbassai la cornetta dell’apparecchio e vi rimasi con la mano incollata per qualche secondo. Era strano che un funerale non fosse di mattina. Ma d’altra parte non si trattava di una morte normale. Inspirai. Sarebbe passata anche quella e io avrei chiuso la parentesi. E mandato avanti la mia vita, come facevo sempre, ricominciando daccapo. Le quattro del pomeriggio del giorno successivo arrivarono in un baleno e mi ritrovai mezza nuda in piedi, davanti all’armadio, a scegliere cosa mettere. Facendo scorrere le grucce sull’asta di metallo, intravidi la mini in jeans che avevo portato fino all’anno prima. Quella certo non l’avrei più messa. La tirai fuori con disprezzo, non riuscivo neanche ad accostarla ai fianchi. Non mi sarei mai più vestita in un 30


modo che otteneva solamente l’effetto di attirare i cretini. Mai. Più. Rificcai di forza la gonna nel suo nascondiglio e tirai fuori il completo grigio di tweed. Infilai con rabbia i pantaloni; avevo le gambe magre e quando mi succedeva di prendere peso diventavo solo un po’ più forte di vita. Ma non ero in un periodo florido e rilassato della mia esistenza, quindi l’unica cosa voluminosa che avevo sul busto era quella esuberante quarta di reggiseno che cercavo di coprire con tutte le mie forze, con ogni capo che mi permettesse di farlo. Infilai la camicia nera e la giacca. Inizia ad abbottonarla con un gesto secco, ma poi mi imposi di alleggerire il tocco delle dita: se mi fosse saltato un bottone, avrei dovuto perdere tempo a riattaccarlo, tempo che non avevo. Lo specchio confermò che mi tiravano tutte sul davanti quelle maledette giacche. Amen, era così e basta non potevo farci un accidente. Presi un bel respiro, spazzolai veloce i capelli e tirai fuori gli occhiali da sole dalla custodia che usavo solamente per trattenere indietro i capelli. Sotto casa feci scattare le serrature del Suzuki Jimmy. In quaranta minuti ero davanti ai tre archi dell’entrata principale del Verano. Camminai per il viale centrale facendo capolino nelle strade laterali spaziose come carrabili. Un angelo pensieroso scolpito a grandezza naturale se ne stava seduto con la faccia assorta a guardia di gente morta da chissà quanto. Le aiuole erano ben curate e la ghiaia rastrellata a dovere. Ovunque c’erano fiori freschi ma le strade si incrociavano senza riferimenti e a quell’ora del pomeriggio i visitatori erano davvero pochi. Vagai inutilmente per un quarto

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d’ora abbondante. Quell’insieme di giardinetti era una maledetta trappola. Non so perché fossi convinta di dover cercare un loculo a parete. Un rapinatore non avrebbe potuto aspirare a qualcosa di meglio nella mia immaginazione, anzi già era tanto che lo avessero portato lì. Invece alla fine mi stupii di trovare un paio di becchini e un prete accanto a una tomba a terra. Era praticamente lungo il perimetro del cimitero ma era pur sempre una tomba a terra. Mi avvicinai appena in tempo. Avevano già calato la bara di legno nella fossa e la stavano coprendo con badilate generose. Così finiva l’uomo che più di tutti in tutta la mia vita era stato generoso con me. Arretrai d’un passo. Una cortina plumbea sembrava scendere sul mio cuore man mano la terra calava sulla bara di Kuja. La tristezza mi serrò la gola. Alla fine la terra fu appiattita dalla pala e il prete si avvicinò indicando come disporre un semplice rettangolo di marmo bianco. Gli operai riempirono di calcestruzzo un incavo nel suolo e ve lo disposero. Sopra, c’erano poche parole: “Kuja, 1973 – 2010”. Erano solo il cognome e la data. Certo non potevano scrivere sotto “rapinatore”, o “sicario” o “assassino matricolato”. Socchiusi gli occhi. Non c’era neppure una piccola foto. Malgrado il prete avesse fatto mettere la lapide, sembrava che il mondo volesse cancellare il ricordo dell’esistenza terrena di quell’uomo. E fu allora che me ne resi conto. Nel tempo in cui poche badilate di terra erano state versate nella tomba, avevo perso il ricordo dei lineamenti di Kuja. Improvvisamente era come se la rapina fosse accaduta mesi e mesi prima e quell’uomo fosse una comparsa poco importante della mia vita. 32


Estrassi dalla borsa Il Messaggero. Il quotidiano riportava il resoconto. L’occhiello dell’articolo informava che il Vaticano era stato uno dei maggiori avversari di Crossbow nella lotta per aggiudicarsi la coppa di Mnemosyne e, sotto, c’era la foto del misterioso rapinatore rimasto ucciso. L’avevo guardata una decina di volte da quella mattina, ma stentava a imprimersi nella mente. La fissai ancora. Kuja aveva un accenno di barba che faceva da contorno a labbra decise, il naso dritto e due pieghe agli angoli della bocca che lo facevano sembrare crudele. Gli occhi erano un po’ socchiusi, come se avesse avuto il sole davanti, ma fissavano diritto. Tutta quella sicurezza era arrogante. Frugai sul fondo della borsetta. Lo stomaco mi si contorceva. Una strana frenesia si era impossessata dei miei movimenti. Spalancai la borsa. Dovevo avere dello scotch da qualche parte. Alla fine lo trovai e con quello fissai alla lapide la foto di Kuja strappata dal giornale. Ricoprii il ritaglio con vari passaggi di nastro adesivo e feci un paio di passi indietro per vedere il risultato. Notai che la superficie plastificata alla meglio rifletteva la luce nascondendo parte del volto. Ma avrebbe difeso l’immagine dalla pioggia. Voltai le spalle alla tomba incamminandomi verso l’uscita. Ad ogni passo il volto dell’uomo svaniva dalla mente, di nuovo. Mi sarebbe riapparso tra i ricordi di lì a molti anni. Mi spuntò una lacrima tra le ciglia. Mi era già successo dopo la morte di mia madre. Era come se il mio inconscio volesse proteggermi dai ricordi dolorosi.

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Mi guardai intorno. Stava facendo buio. Se prima c’era poca gente ora non c’era anima viva. Percorsi la strada a ritroso attraverso il viale principale e uscii dal cimitero. Cercai con gli occhi la jeep che avevo lasciato vicinissimo all’ingresso. Ma non c’era assolutamente nulla, né la mia né altre macchine nel raggio di cinquanta metri dall’entrata. «Se la sono portata via i vigili un quarto d’ora fa.» Era stata la signora dei crisantemi a parlare. «Cosa?» «La macchina.» La donna stava abbassando la serranda del chiosco. «La jeep nera, quella piccola, era la sua?» Cazzo, i vigili. Pestai la suola della scarpa sull’asfalto. Come tornavo a casa ora? Per non parlare del fatto che avrei dovuto riprendermi l’auto arrivando fino al deposito. Iniziai a muovere i passi furiosa. Percorsi pochi metri e sentii la tensione allentarsi. La carezza dell’aria ancora tiepida di metà ottobre faceva sfumare la collera. Percorsi le mura di recinzione del cimitero e poi guardai a destra e sinistra per attraversare sulle strisce pedonali. Era notte ormai, le giornate si erano accorciate di parecchio. Dovevo sbrigarmi a trovare un taxi. Mentre controllavo se arrivavano macchine, vidi un’ombra scura accanto al muro. Sembrava un sacco. Aggrottai le sopracciglia: il sacco si era appena mosso. Trattenni il respiro per qualche secondo. Mi avvicinai. Un uomo era rannicchiato sul marciapiede, addossato ai mattoni intonacati e, per quanto si potesse capire dalla posizione, sembrava possedere una corporatura enorme. Non era un sacco, era uno di quegli ubriaconi che si imbottivano di alcool e poi si trascinavano come zombie 34


in giro fino a collassare in qualche angolo. Stavo per allontanarmi quando qualcosa attirò di nuovo la mia attenzione. Lo sconosciuto sembrava illuminato da un faro di teatro. Non si trovava sotto la luce di un lampione. Strano. Forse era il riflesso del neon di un’insegna o i fari di un’auto di passaggio. Orientai lo sguardo verso il cielo cobalto, niente luna: forse era solo un gioco di luci tra le fronde degli alberi. Mi avvicinai ancora. Il colore vivido del sangue spiccava sul volto misto a qualcosa di scuro. Era ferito. Anche i capelli erano incrostati di sangue e fango. Mi diedi un’occhiata intorno. Maledizione, ci mancava pure il senzatetto da soccorrere per aggiustare la serata. Di sicuro era puzzolente. Ma era da criminali far finta di nulla. Mentre mi avvicinavo, l’uomo sollevò la testa senza puntare lo sguardo da nessuna parte. Fissava il vuoto. Fu allora che vidi con chiarezza che uno zigomo era percorso da uno squarcio. L’emorragia sembrava grave. Mi avvicinai ancora: era grande, grosso, e sembrava volersi alzare ma gliene mancavano le forze. Lo sentii mugugnare e poi lasciarsi andare contro il muro come se avesse rinunciato. Non sembrava in condizione di usare contro di me la forza di cui il suo corpo sarebbe stato capace, non in quel frangente di sicuro. «Ti sei ubriacato e poi i tuoi amici te le hanno suonate eh?» Lui rimase in silenzio, tranne che per un suono inarticolato che interpretai come un gemito di dolore. «La prossima volta assicurati di farli bere più di te.» Lo aiutai a sollevarsi. Lui non si ritrasse e grugnendo riuscì a mettersi in piedi. Si aggrappò al mio braccio e trasalii. Mi aveva letteralmente ghermito. E poi era alto, 35


nonostante se ne stesse ingobbito. Era enorme ed era straordinariamente muscoloso. La presa sul mio braccio era ferrea e pesante come se avesse avuto artigli al posto delle mani. Mi accorsi solo in quel momento che non puzzava affatto. Non poteva essere un barbone e sembrava del nordeuropa. «E non ti appoggiare come se io fossi tuo fratello!» Avevo visto una fontanella poco distante e lo aiutai a lavarsi. Passai un kleenex inumidito sul volto grande e spigoloso dell’uomo. Lo squarcio mi riportò alla mente un’altra faccia. La posizione della ferita era la stessa di quella dello sconosciuto che mi aveva risparmiata durante la rapina. La coincidenza risaltava in modo crudele. Terminai di pulire e allora sulla carne apparve invece un segno strano, una taglio a “S” messo in orizzontale, simile a un fulmine brutale che gli percorreva la guancia trasversalmente.

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3.

Gli occhi che mi stavano puntando erano color tabacco, soffici e caldi ma avevano una profondità inquietante. Mi trapassavano come se stessero cercando il punto esatto dove colpire, come se fossero gli occhi di un lupo pronto a scattare. Mettevano addosso una sensazione che non era semplice inquietudine ma vera paura. Sbirciai il cielo buio. Il deposito dei vigili urbani dove giaceva la mia auto avrebbe chiuso presto i battenti. Dovevo sbrigarmi. Mi raddrizzai sistemando dietro le orecchie le ciocche che mi ricadevano sul viso e guardai il risultato dei miei sforzi tirando un sospiro perplesso. C’era qualcosa in quel viso che mi era familiare, era come se lo avessi già conosciuto. Non riuscii a capire come e dove potessi averlo incontrato ma almeno la faccia ero riuscita a ripulirla. Prima, quando lo avevo trovato accasciato fuori dal cimitero, avevo creduto che fosse un barbone. Ora che era in piedi, appoggiato al muro, non lo credevo più. I tessuti dei suoi abiti erano morbidi e profumati anche se strappati. Era troppo ben vestito per essere un senzatetto. Lo studiai ancora. Le grandi spalle erano contratte e incurvate e la testa ciondoloni ma, aiutandolo a sollevarsi poco prima, sotto i vestiti, avevo palpato un corpo roccioso e forte, come quello di chi fa attività fisica e ha avuto modo di alimentarsi bene. No, non poteva essere uno che 37


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