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I segreti della luce Da zero a fotoamatore esperto Un insieme di suggerimenti per amanti della fotografia alle prime armi che vogliono imparare a ottenere il massimo dai propri mezzi. Tecnologia e ispirazioni Suggerimenti, spiegazioni ed esercizi per capire meglio la fotografia e aumentare il proprio livello di conoscenza. Un compendio più avanzato per il primo volume: “I segreti della luce – da zero a fotoamatore esperto”.

Introduzione Imparare a imparare Scegliere la fotocamera adatta Sperimentare in casa Fotografare la natura Luce naturale e artificiale: capirla, usarla e modificarla La temperatura di colore Fonti di luce artificiale Modificatori della luce Illuminare la scena Lunga esposizione e fotografia notturna Rear flash: foto con le scie di luce Light painting: dipingere con la luce Star trails: quando le stelle disegnano Foto senza rumore: la tecnica dello “stacking”


Fotografare la luna Il ritratto Non tutti i ritratti sono uguali Studiare se stessi Fotografare gli altri Fotografia: un viaggio che non termina mai Osservare la scena, entrare nella scena Lunghezza focale: quale scegliere Costruire il portfolio Vivere di fotografia Proteggere le proprie foto Il MicroStock Fotografia per matrimoni ed eventi Prepararsi per un workflow professionale Il valore della fotografia: quando è giusto farsi pagare Fotografia e Privacy Migliorare usando i social network Fotografia e social network: studiare e farsi criticare Trasformare una vecchia reflex in una social network camera Foto perfette per i social: pochi semplici consigli Nozioni tecniche I sensori digitali: Full Frame vs Crop Reflex, Mirrorless e compatte Raw e Jpeg Le regole alla base della composizione Apertura e Tempo di esposizione ISO Bilanciamento del bianco Lunga esposizione e modalità Bulb


La modalità “Mirror Up” Punti di messa a fuoco Scattare in controluce Bokeh, ovvero quella gradevole sfocatura HDR Riferimenti Volume 2 Introduzione – Tecnologia e Ispirazioni Concetti fondamentali Cosa è un’immagine digitale Lo spettro luminoso e spazio di colore Formati di sensore L’importanza dei megapixel Gamma dinamica La reflex e gli obiettivi Come funziona una reflex Come funziona un obiettivo Zoom vs Ottiche fisse L’obiettivo giusto per ogni foto Aberrazioni ottiche La profondità di campo Utilizzo dei filtri Prendere il controllo della luce F-Stops vs T-Stops Sorgenti luminose e ombre Legge dell’inverso del quadrato Flash: uno strumento indispensabile Foto in chiave alta e chiave bassa Lunga esposizione Il triangolo dell’esposizione con tempo superiore a 30 secondi


Scie di luce La tecnica ETTR Timelapse e Hyperlapse Suggerimenti Apprendere attraverso il ritratto Strategie di illuminazione per il ritratto Flat Paramount o Butterfly Loop Rembrandt Split Broad e Short TF*: ovvero come fare pratica Condurre una sessione di ritratto Lo sviluppo digitale L’istogramma Gestire il contrasto con le curve Aliasing e altri artefatti Passo passo verso il risultato Stacking o esposizione multipla Esercitare l’occhio fotografico Fonti



Introduzione “I segreti della luce” nasce raccogliendo appunti personali e contenuti del mio blog, abbondantemente estesi, riorganizzati e rivisti in chiave manualistica. Come anticipa il titolo, questo libro non vuole essere un corso di fotografia strutturato e diviso in formule e spiegazioni tecniche. Piuttosto si tratta di un insieme di suggerimenti, ispirazioni e dissertazioni su argomenti che possono guidare un principiante a raggiungere un obiettivo importante come imparare a conoscere i propri mezzi e a usarli al meglio secondo il proprio stile. Non mancano ovviamente delle note tecniche che cercano di spiegare in modo semplice le basi fondamentali per imparare a usare una reflex, una macchina fotografica anche poco superiore a una compatta o semplicemente le funzioni avanzate di uno smartphone. In ogni caso, la parte tecnica è pensata per chi vuole imparare con leggerezza, attraverso esempi semplici e soprattutto praticando il più possibile. In questo libro si parla un po’ di tutto: dalle basi per controllare l’esposizione e ottenere una foto tecnicamente perfetta, alle regole fondamentali della composizione come quella dei terzi, fino ad arrivare a temi che riguardano la privacy o come guadagnare vendendo le proprie foto. Ciascun capitolo è accompagnato da immagini esemplificative, spunti ed esercizi da provare che possono servire da ispirazione affinché si faccia l’unica cosa che permette di imparare veramente: scattare fotografie. Le nozioni tecniche sono volutamente spinte alla fine del libro come riferimento, proprio perché non vogliono rappresentare il tema principale, essendo conoscenza comune reperibile gratuitamente in rete. Esse possono essere usate come riferimento veloce da consultare per comprendere meglio un argomento e come base per un eventuale approfondimento specifico. Questo libro è quindi per chi vuole fare un passo in più del principiante o vuole iniziare a esplorare il mondo della fotografia da punti di vista differenti. Di cosa hai bisogno per sperimentare con gli esercizi suggeriti? L’ideale sarebbe una reflex di qualunque livello, tuttavia la maggior parte dei concetti e degli esperimenti possono essere eseguiti con qualsiasi macchina fotografica. Probabilmente se stai leggendo questo libro, hai intenzione di imparare a controllare il risultato delle tue foto e non semplicemente a inquadrare e sperare nella fortuna, quindi in teoria dovresti avere (o procurarti) una fotocamera che ti consenta di controllare manualmente tutti i parametri


fondamentali. Oltre alla fotocamera non serve altro se non la tua voglia di imparare e di metterti in gioco. Ogni altro accessorio, che sia un flash o un riflettore, un treppiede o un faro da studio, può essere utile ma non sarà fondamentale. Come leggere questo libro? La risposta è: dipende da che tipo sei. Come anticipato, le nozioni tecniche sono alla fine del libro, mentre gli aspetti più legati a come la tecnica sia applicata e a tutti i vari aspetti che ruotano attorno alla fotografia sono il cuore di questo piccolo corso. Di conseguenza, se sei una persona che ha bisogno di conoscere perfettamente la teoria prima di metterla in pratica, allora ti suggerisco di leggere il primo capitolo e poi saltare alla fine per poi rileggere tutto il libro. Se invece hai intenzione di conoscere la fotografia e di approfondire gli aspetti tecnici man mano che si rendano necessari, allora segui pure l’ordine dei capitoli così come sono. Buona Luce!



Imparare a imparare La tecnica fotografica pura, cioè la capacità di catturare un’immagine che abbia la corretta esposizione e che documenti una scena è qualcosa che si può imparare a padroneggiare molto velocemente e che si basa su pochi parametri non troppo difficili da comprendere. Ma la fotografia è spesso definita come l’arte di dipingere con la luce e ha molti scopi, tutti diversi tra loro, che si differenziano tantissimo dalla semplice documentazione della realtà. Per tale ragione, vorrei iniziare sottolineando che in fotografia è importante imparare a “imparare”, cioè conoscere i propri mezzi e soprattutto conoscere se stessi e ciò che si desidera ottenere dalla fotografia, per poter intraprendere un percorso di crescita che non finirà mai fino a quando si continuerà a far scattare l’otturatore della propria macchina fotografica, come dimostrano anche i migliori professionisti del settore. Henry Cartier Bresson, uno dei più grandi fotografi della storia, considerato il padre della Street photography, diceva (traducendo la sua citazione) che la fotografia “è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.” Ciò significa che la parte difficile della fotografia non è la tecnica in sé e non dipende dal mezzo che si utilizza, bensì è imparare a osservare il mondo, conoscere ed entrare in sintonia con ciò che ci circonda e saperlo raccontare attraverso le immagini impresse su di un sensore o di una pellicola. Questo dimostra come il modo migliore per imparare a fare delle belle foto sia quello di costruire un proprio stile che tenga conto dei valori culturali e sociali in cui si vive, che sappia quindi raccontare qualcosa e che non si limiti al puro gusto estetico. Imparare a imparare significa quindi riconoscere che la fotocamera è solo un mezzo e che per fare delle belle foto bisogna principalmente metterci occhio, cuore e mente e vivere le proprie fotografie. Tanto più si entrerà in quest’ottica, quanto migliori saranno i risultati. Al giorno d’oggi, il mondo è pieno di risorse completamente gratuite che possono fungere da spunti per migliorare la propria tecnica e per sviluppare il proprio occhio fotografico. Per ottenere dei risultati è quindi necessario dedicare del tempo a studiare e osservare i lavori di altri, guardare guide su youtube e provare a realizzare gli stessi esperimenti, iscriversi a delle community sui social network come 500px o Google+ e parlare di fotografia, scriverne, condividere scatti e ispirarsi alle foto dei più bravi. La capacità di fare belle foto è qualcosa che cresce con se stessi e che ha bisogno di essere alimentata continuamente. Non basta comprare una fotocamera migliore per fare delle foto migliori. Bisogna studiare e impegnarsi per migliorare giorno dopo giorno.


Ecco 10 consigli per ottenere risultati sempre più spettacolari: Impara a rispettare le regole prima di violarle: esistono tanti canoni che sono di conoscenza comune, come la regola dei terzi, la sezione aurea, e così via. Prima di sperimentare qualcosa di “diverso”, bisogna imparare a fare foto seguendo le regole. Porta la fotocamera con te sempre e dovunque: non importa se vai a mangiare una pizza con gli amici o a fare una passeggiata al parco; porta sempre con te la fotocamera e scatta almeno un paio di foto. Anche se non dovessero essere nulla di speciale e le cancellerai, avrai mantenuto viva l’attenzione dell’occhio fotografico e avrai esercitato la tecnica e stimolato la creatività. Compra almeno un obiettivo a focale fissa, meglio se 35mm su sensore crop o 50mm su pellicola o full-frame: un obiettivo a focale fissa ti costringe a muoverti e a sforzarti di capire gli effetti visivi della prospettiva e della distanza dai soggetti. Se usi uno smartphone ti basta semplicemente dimenticarti dello zoom digitale (che tra l’altro, in realtà, non esiste). Fai delle escursioni fotografiche limitandoti a 36 scatti, come se avessi una pellicola: passeggiate fotografiche di questo tipo ti costringono a riflettere su ogni foto che fai visto che alla fine della giornata dovrai averne solo 36 di cui almeno 12 che ti piacciano. Imita i grandi fotografi: ispirarsi ai migliori è sicuramente un buon modo per migliorare, poiché serve per capire che tipo di tecnica sia stata usata per ottenere un certo scatto e quali fossero la prospettiva e la distanza dal soggetto. Studia e sperimenta: prova a riprodurre le foto che studi ogni volta che trovi qualcosa di nuovo. Per esempio se trovi una foto prodotta in light painting o un particolare tipo di luce, prova a replicare esattamente la stessa foto, magari variando il soggetto. Questo ti aiuterà, a prescindere dai risultati, ad allargare le tue conoscenze anche ad aree e tecniche che sono lontane dalle tue preferite oltre che a capire eventuali limiti e potenzialità della tua attrezzatura. Osserva la natura: oltre ad essere piena di ottimi soggetti, dai fiori agli insetti, dai paesaggi agli animali, la natura ti può dare molti spunti e tante sfide tecniche da affrontare con cui migliorare le conoscenze necessarie anche per ogni altro genere fotografico. Impara a conoscere la luce naturale: prima di iniziare a usare flash e luci


artificiali, può essere molto utile conoscere bene la luce naturale e i suoi toni che variano da quelli caldi del tramonto a quelli più freddi del mattino. Approfitta di una escursione o di una giornata libera per scegliere un punto di riferimento e un soggetto e fotografalo a varie ore del giorno, osservando come cambia la resa dei colori e delle ombre di volta in volta. Questo ti farà capire quali ore del giorno siano più indicate per le foto che vuoi realizzare. Fatti criticare: esporre le tue foto al pubblico è un ottimo modo per farti dare una loro opinione. Accetta qualunque opinione senza pretendere di aver fatto lo scatto del secolo. Ogni critica costruttiva è oro colato. Preparati anche a eventuali insulti o semplicemente a frasi prive di qualunque osservazione costruttiva ma usa anche quelle per migliorare. Non concentrarti solo sui pareri di coloro che si professano esperti perché le osservazioni fatte da una persona non preparata tecnicamente possono essere molto più istruttive di qualunque altro parere. Fuggi dalla tentazione del like facile degli amici e non caricare la tua foto di effetti speciali che non siano frutto della tua elaborazione. Tieni un diario storico della tua evoluzione fotografica: non si diventa bravi fotografi in pochi giorni ma serve tempo. Inoltre non si smette mai di migliorare. Avere un diario che contenga le tre migliori foto per ciascun anno, o la migliore foto del mese, ti aiuterà a tenere ben presenti i tuoi progressi, a capire quali errori facevi in passato e quali stai facendo adesso e di conseguenza su cosa concentrarti per migliorare di giorno in giorno. Possono aiutarti anche i social network o un sito personale dove tenere online il proprio portfolio, rendendo visibili di volta in volta solo le foto che ritieni migliori.



Scegliere la fotocamera adatta L’acquisto di una macchina fotografica può essere difficile, soprattutto per chi non ha mai avuto l’opportunità o la voglia di imparare a districarsi da termini come APS-C, Full Frame, MegaPixel, ISO, etc. In questo capitolo cercherò di fornire quanti più elementi possibili nella forma più comprensibile per facilitare la scelta della tua prossima fotocamera.

Stabilire dei vincoli Innanzi tutto, per avere modo di trovare la soluzione ottimale, bisogna porre dei limiti non stringenti ma che definiscano per grandi linee quale sia l’obiettivo da raggiungere. Questo significa che si deve stabilire un budget, cioè un prezzo massimo non assoluto che si possa spendere per la fotocamera (accessori inclusi). Questa è la prima cosa che aiuta a escludere delle intere categorie. Chiaramente è importante fare sì che tale budget sia il prezzo approssimativo e che ci sia la possibilità di muoversi in un margine che consenta di spendere qualcosina in più se ne valga la pena. In ogni caso, vale sempre la regola d’oro che recita così: “se costa troppo, allora non ti serve”. La seconda cosa da valutare è la tipologia più giusta per quello che si vuole fare. In sostanza si tratta di porsi le seguenti domande: “voglio portarla sempre con me?”, “voglio guadagnare con la fotografia?”, “Voglio stampare foto alla dimensione di un quadro con cui decorare casa?”, “Voglio esporre le mie foto?”, “Voglio pubblicare le mie foto su internet?” e così via. Questo permetterà di dare priorità a una reflex, una mirrorless o una compatta. In alcuni casi potrebbe venir fuori che la migliore scelta sia uno smartphone con una fotocamera adatta alle nostre esigenze. Anche in questo caso si deve scegliere una linea di base che possa comunque essere spostata di un po’. Se per esempio propendessi per un’ottima macchina fotografica per le vacanze, non dovresti escludere a priori i modelli che ti diano maggiore controllo dei risultati attraverso funzionalità più avanzate. Scrivere tutti questi vincoli in un foglio aiuterà te (e anche un venditore competente) a scegliere il modello giusto, per esempio includendo le reflex oppure no.

Sensore e Megapixel Una delle cose più importanti da valutare è sicuramente il sensore di cui è dotata la fotocamera. Molti si limitano a contare i megapixel, tuttavia la sola informazione di quanti punti abbia è assolutamente priva di senso. Basti pensare che ci sono da tempo fotocamere compatte che ostentano quantità di pixel immani (anche più di 4 anni orsono c’erano già delle 24MP compatte). Per accorgersi che il numero di pixel non sia tutto, basterebbe osservare che esiste almeno una reflex professionale full-frame (per esempio la Nikon D4)


che ha meno megapixel di moltissime compatte economiche. A questo punto o chi ha progettato queste reflex è un incompetente, oppure il fattore importante è un altro. Ovviamente l’affermazione corretta è la seconda. Quello che conta di più è sicuramente la dimensione del sensore e la sua sensibilità. Parole come CMOS e “retroilluminato” ormai si sentono ovunque per pubblicizzare la capacità dei sensori di ottenere immagini chiare e pulite anche di notte. Una delle cose veramente importanti è la dimensione di ciascun pixel. Il ruolo del sensore è infatti molto semplice: raccogliere la luce in maniera precisa per ciascun punto dell’immagine. Prova a visualizzare il sensore come un secchio rettangolare e suddividilo in 16 rettangoli tutti uguali più piccoli (banalmente dividendo ciascun lato del secchio in 4 sezioni uguali); a questo punto immagina di mettere 16 secchi più piccoli, ciascuno esattamente in una delle porzioni che hai costruito prima. Adesso considera di dover riempire ciascuno di questi 16 secchi con un getto d’acqua colorata diverso per ciascuno di questi secchi. Risulta immediato intuire che tanto più grande sarà il secchio principale, tanto più grandi saranno i 16 secchi al suo interno e quindi tanto più facile sarà fare in modo che ciascun getto finisca esattamente nella sua area senza sporcare gli altri. Quando si parla di sensori digitali è esattamente come nell’esempio metaforico precedente. Ciascuno dei pixel del totale è uno dei secchi piccoli e l’acqua colorata è la luce. Questo fa capire che è sicuramente importante avere moltissimi secchi piccoli (e quindi megapixel) per poter avere la possibilità di creare immagini con un livello di dettaglio altissimo, ma è molto più importante che questi megapixel siano della dimensione giusta per poter catturare una porzione significativa di informazione. Normalmente esistono tre tipi di sensore nelle fotocamere definite come entrylevel, cioè non professionali: sensore piccolo (dimensione altamente variabile secondo marca e modello) che è quello usato da smartphone e compatte, sensore crop piccolo, che è quello usato dalla maggior parte delle mirrorless e il più grande che è il crop medio, (e.g. APS-C), che è usato nelle reflex entry-level ma anche in vari modelli semiprofessionali e professionali. Esistono anche fotocamere compatte e mirrorless che usano sensori simili a quelli delle reflex e questo è sicuramente un vantaggio da tenere in considerazione (ovviamente a fronte di un costo generalmente superiore). La dimensione e il tipo di sensore sono di solito indicate nelle schede tecniche avanzate dei vari modelli di fotocamere e sono spesso ben nascosti (a meno che non siano eccezionali) rispetto alla quantità di megapixel che è invece molto spesso in bella vista.

Caratteristiche dell’obiettivo Un’altra cosa fondamentale da valutare per una fotocamera è l’obiettivo (od obbiettivi nel


caso di mirrorless e reflex). Se infatti è vero che il sensore sia importantissimo, bisogna comunque ricordarsi che la luce che lo colpisce passa attraverso dei pezzi di vetro che compongono la lente. Se hai presente cosa significhi l’espressione “fondi di bottiglia” quando si parla di occhiali, allora sei già pronto per applicare lo stesso concetto all’obiettivo della fotocamera. Gli obiettivi sono di due tipi: fissi o zoom. Zoom non significa che potrai fotografare la ragazza in bikini nella piscina a dodici isolati da casa, ma soltanto che l’obiettivo è in grado di coprire una lunghezza focale variabile, cioè allargare o restringere l’angolo di campo che andrà a essere visibile nell’immagine finale. Per molti questo si riduce semplicemente a ingrandire il soggetto e da un certo punto di vista è corretto, tuttavia l’escursione della focale è molto più importante per le prospettive e per la composizione che per l’ingrandimento. In generale gli obiettivi fissi hanno una qualità superiore in quanto vengono progettati per essere ottimi in una sola condizione, mentre gli zoom devono essere quanto più efficaci possibile lungo tutte le possibili lunghezze focali. Un principiante dovrebbe sempre orientarsi su di uno zoom che sia abbastanza vasto, in modo da poter coprire tutti i possibili stili fotografici e possa quindi sperimentare oltre che avere la possibilità di fare foto di gruppo e poco dopo un primo piano a una scimmietta in cima a un albero allo zoo. Comprare una lente a focale fissa significa sapere già abbastanza bene che tipo di fotografia piace e quale sia l’utilizzo primario di quella specifica lunghezza focale (e.g. 85mm per ritrattistica). In generale, tanto maggiore sarà l’escursione tra la minima e la massima lunghezza focale, quanto più pronunciate saranno le distorsioni prospettiche e di colore e minore sarà la qualità. Inoltre obiettivi che abbiano la capacità di raggiungere lunghezze focali molto alte (e.g. 120mm) risultano piuttosto scarsi in termini di luce che riescono a catturare. Di conseguenza bisognerebbe orientarsi, per iniziare, su delle escursioni che possano variare di non più di 50-60mm dalla minima alla massima. Un’altra cosa fondamentale per valutare l’obiettivo, sia che sia fisso per una compatta o che sia il “kit” di una mirrorless o di una reflex, è la sua apertura del diaframma. Questa può essere fissa o variabile, come la lunghezza focale. In questo caso si intende per fissa solo l’apertura massima (che è rappresentata dal numero più basso). Se una lente ha un’apertura focale massima fissa, di solito è di qualità maggiore, soprattutto se raggiunge f/2.8. In genere non si troveranno mai obiettivi zoom con aperture focali con valore inferiore a f/2.8 (e.g. f/1.4) anche se ci sono rare e costose eccezioni. Questo valore è presente anche nelle fotocamere più economiche e può essere determinante per stabilire quale sia migliore quando la differenza di prezzo sia poca. Per riassumere e semplificare generalizzando, un valore della f più basso significa migliore qualità, se questo valore


minimo è fisso significa qualità ancora maggiore. La stabilizzazione ottica è una peculiarità di obiettivi con lunghezze focali alte. Sicuramente avere l’obiettivo o la fotocamera dotati di stabilizzazione ottica è un buon valore aggiunto, soprattutto quando ci si trova a scattare soggetti in movimento dalla lunga distanza e a mano libera. Tuttavia, soprattutto per le macchine compatte o per le focali inferiori ai 50mm, questa caratteristica non è fondamentale, a meno di voler utilizzare anche la fotocamera per riprese video. La qualità strutturale della lente non è da sottovalutare. Soprattutto se si tratta di zoom, se la qualità dei materiali non è sufficiente, si finirà con l’avere presto polvere sul sensore e quindi immagini rovinate e tanto nervosismo. Gli zoom infatti tendono letteralmente a respirare, cioè ad aspirare particelle di polvere all’interno del corpo macchina durante il movimento di escursione da una focale all’altra. Bisogna quindi verificare che non ci siano molti spifferi tra le componenti dell’obiettivo o, nel caso di una compatta, che la fotocamera sia dotata di un buon sistema di chiusura quando viene spenta.

Funzionalità di base e controlli Iniziamo subito a sfatare il mito secondo cui per imparare a fare delle belle foto che richiedono tecnica e impegno, sia necessario avere una reflex. Gli stessi risultati in termini di apprendimento si possono ottenere anche con una buona compatta, soprattutto quando si inizia dalla base. Non bisogna quindi considerare come obbligatorio l’acquisto di una reflex anche se si sa già di voler imparare tecniche avanzate di scatto. Ciò che bisogna valutare è la presenza di tutte le caratteristiche che possano realmente essere utili a un principiante ma che al tempo stesso permettano di avere il pieno controllo della fotocamera non appena si sarà divenuti padroni della tecnica. Innanzi tutto bisogna assicurarsi che la macchina fotografica abbia tutte le caratteristiche di base che ci si aspetta, per esempio, funzioni di scena predefinita e modalità di scatto automatica. Sarà molto utile poter controllare almeno i seguenti parametri:

Apertura focale (indicata con la lettera “f” seguita da numeri), generalmente vincolata all’obiettivo montato che potrebbe essere fisso come quello delle compatte o intercambiabile, come le mirrorless o le reflex. Quanto più basso è il più piccolo dei numeri associati a questa “f”, tanto migliore potrebbe essere la qualità delle foto quando ci sarà poca luce o quando si vorranno ottenere quegli stupendi effetti sfocati. Un buon numero è sicuramente “2.8” ma è spesso difficile da raggiungere in obiettivi e macchine


fotografiche entry-level o di fascia bassa (che non significa di scarsa qualità, ma solo dedicate a un pubblico di amatori e principianti). L’importante è che questo valore minimo non sia mai superiore a f/5.6, altrimenti si rischia di acquistare una fotocamera che abbia un obiettivo troppo specifico o, peggio, di scarsa qualità. Velocità di scatto o tempo di esposizione (indicato di solito con la “s” di “Shutter Speed“), che determina la capacità della fotocamera di impressionare il sensore da un minimo di frazioni di secondo (e.g. 1/1000 di secondo) fino a un massimo di secondi (e.g. 30). Poter controllare questo valore e quello dell’apertura, permette di fare quelle foto che il pubblico definirebbe artistiche o almeno creative, per esempio foto notturne con scie di luce o sfocature morbide e accattivanti. Sarà ancora più interessante se la fotocamera permetta l’uso della modalità “Bulb“, cioè rimanere in modalità di acquisizione fino a che non venga rilasciato il pulsante di scatto. Questa caratteristica può essere usata per tecniche come il light painting. ISO, che di solito ha un minimo di 100 e che può raggiungere anche valori esorbitanti. Il valore della sensibilità ISO permette di rendere il sensore virtualmente più capace di catturare la luce e quindi di avere maggiore flessibilità nello scegliere opportunamente i valori precedenti. È inutile prendere in considerazioni dei valori ISO che siano altissimi: infatti alzare il valore ISO non ha come unico effetto collaterale quello di aggiungere del rumore (puntini bianchi che degradano l’immagine), ma causa anche una perdita di gamma dinamica e di resa dei colori. Per questo motivo può essere importante anche avere la possibilità di scegliere di tenere le ISO volutamente sempre al minimo possibile e comunque non oltre un certo limite. Potenza del flash: ovviamente non poter decidere quanta potenza effettiva debba usare il flash è un bel problema nel controllo del risultato finale. Infatti la luce del flash, determina in maniera significativa l’esposizione e la durezza delle ombre e non poterlo controllare potrebbe vincolare pesantemente le scelte di tempo di esposizione e apertura focale. Punti di messa a fuoco: se una fotocamera consente di scegliere in quale punto dell’immagine mettere a fuoco (anziché deciderlo solo autonomamente come la maggior parte delle fotocamere) si ha la possibilità di controllare con precisione quale sia il punto esatto dove passerà il piano di messa a fuoco e quindi si potranno controllare con la stessa precisione anche tutti gli effetti di sfocatura o di profondità di campo che si vogliano ottenere nell’immagine finale.

Accessori disponibili Quando si entra nel mondo della fotografia, è facile rimanere rapiti dalle mille cose che si possono sperimentare. Quando si acquista una fotocamera è dunque importante anche


valutare che sia pienamente compatibile con tutti gli accessori più comuni come flash esterni, cavi, treppiedi e possibilmente dispositivi di connessione wireless. Inoltre bisogna anche passare in rassegna la quantità di accessori disponibili per migliorare la fotocamera e completarla in modo da avere l’opportunità di continuare a sperimentare per un po’ senza dover necessariamente cambiare modello troppo presto. Quindi è importante verificare di poter usare flash esterni, schede SD wireless o connessioni dirette, obiettivi, filtri e così via.

Maneggevolezza La fotografia è una meravigliosa attività che deve rilassare e divertire. Per questo motivo la fotocamera, che è soltanto il mezzo tra noi e le immagini che andremo a produrre, deve essere ergonomica e comoda secondo le proprie capacità in modo da diventare un prolungamento naturale delle mani e degli occhi. Di conseguenza, quando si va in un negozio per scegliere il modello da acquistare, non bisogna spaventarsi di maneggiare e simulare ogni tipo di movimento e azione che si farebbe in un uso reale, come provare a scattare in posizioni strane, accendere la fotocamera e scattare in pochi istanti o farsi un selfie. Rimane comunque importante non lasciarsi spaventare dalla dimensione di una fotocamera e focalizzarsi sempre sul suo scopo. La maneggevolezza va valutata in relazione all’utilizzo che se ne vuole fare. In ogni caso è importante che qualora si debba scegliere tra due reflex o tra due compatte, si applichi lo stesso principio: “la più comoda per le mie mani e per i miei occhi vince”.

Garanzia e supporto Sembrerà una banalità, ma affidarsi a dei marchi storici ha ancora il suo senso, sia in termini di qualità, sia di garanzia. Nella fotografia, infatti, è ancora molto importante l’esperienza che si ha nel mercato. Di conseguenza può essere più utile stilare una classifica di priorità con cui scegliere in caso di pari merito tra le altre caratteristiche. Personalmente reputo che in cima alla lista vadano posti i produttori che si sono occupati storicamente solo di fotografia e che abbiano una realtà solida alle spalle. A seguire andrebbero inclusi nella lista tutti i produttori che da più tempo producano dispositivi man mano sempre più lontani dalla fotografia. In sostanza, li metterei in ordine di esperienza. Da preferire sicuramente, in termini di garanzia, marchi che abbiano dei centri autorizzati abbastanza vicini alla città in cui si abita o almeno nella stessa nazione.

Capacità di ammortizzare la spesa Da non sottovalutare assolutamente è la capacità di ammortizzare la spesa, principio che si lega alla famosa regola del “se costa troppo, non mi serve”. Se per esempio si dovesse


acquistare una macchina fotografica come regalo per un collega che va in pensione, e quella persona la userà ogni giorno per andare a fotografare gli uccellini al parco, allora potrete considerare che una fotocamera da 365€ sarebbe pari a un costo di 1€ al giorno. Comprare una fotocamera da 200€ ma che non abbia le caratteristiche giuste e che venga quindi usata solo per il compleanno dei suoi due nipotini equivarrebbe ad aver speso 100€ al giorno. Valutando questo aspetto, è quindi importante non esagerare e considerare bene quali possano essere gli utilizzi da fare della propria fotocamere e capire quindi quanto spendere anche in funzione di quanto la fotocamera verrà usata e in che condizioni.

Suggerimenti su dove e come comprare Per effettuare l’acquisto vero e proprio, dato che normalmente la cifra è piuttosto alta, sono ancora in pochi ad affidarsi al web, tuttavia ci sono moltissimi siti affidabili e puntuali. Personalmente mi sono sempre trovato molto bene con Amazon e OlloStore, tuttavia trovo abbastanza buoni anche siti come PixMania o ePrice. Una nota riguardo ad Amazon, prima di acquistare direttamente sulla versione “.it”, se non ti spaventa la lingua straniera, prova anche a navigare sui vari “.de”, “.fr”, “.es” e “.co.uk”. Sarai sorpreso dalla differenza di prezzo che potresti trovare anche per gli stessi articoli sui quali avrai comunque lo stesso tipo di assistenza e garanzia (e tempi di spedizione) a patto che siano venduti direttamente sotto la responsabilità di Amazon e non venditori terzi. In generale i prezzi su internet sono più bassi che nei negozi fisici e bisogna tenere conto che per molti produttori di fotocamere è indifferente chi sia il venditore ai fini della garanzia, cioè in entrambi i casi, nello sfortunato caso di un difetto di fabbrica, riceverete probabilmente lo stesso trattamento e la vostra fotocamera andrà comunque spedita a un centro autorizzato. Siti come Amazon e i negozi fisici potrebbero aiutarvi occupandosi loro stessi della logistica, ma questa disponibilità è fondamentalmente a discrezione del venditore. Chi invece avesse intenzione di acquistare dell’usato, deve fare molta attenzione. Se infatti da un lato è verissimo che le attrezzature fotografiche di alto livello siano molto durature, è altrettanto vero che molti venditori tendano a sovrastimare o a usare termini ingannevoli riguardo allo stato effettivo degli oggetti. Molti venditori inglesi, per esempio, usano la terminologia che non prevede descrizioni mediocri degli oggetti. Di conseguenza si potrebbe trovare un corpo macchina di una full-frame costosissima a un prezzo stracciato, descritta come “Excellent++, fully working with some sign of use“. A prima vista questa definizione sembrerebbe normale e si potrebbe immaginare che sia un vero affare. In realtà gli “strict test” spesso condotti da questi negozi sono limitati ad una semplice prova di funzionamento che non può evidenziare malfunzionamenti casuali. Inoltre la scala di valutazione utilizzata potrebbe essere composta da 10 segni “+” che


renderebbero il giudizio di “Excellent++” pari a 2/10. Qualche “sign of use” potrebbe significare che ci siano evidenti graffi e abrasioni. Il mio consiglio è quindi quello di comprare dell’usato solo dopo averlo visto e provato di persona e di non fidarsi mai di attrezzatura che costi anche meno del 50% del nuovo a prescindere dalle sue condizioni ed età. Occhio alle fregature: non bisogna acquistare solo in funzione della marca o del prezzo. L’attrezzatura fotografia di alto livello non perde molto valore e di sicuro non perde neppure di qualità, se trattata opportunamente. Di conseguenza, il mercato dell’usato è un mercato veramente attivo e spesso è possibile fare degli affari veramente d’oro. Tuttavia è possibile anche prendere delle fregature colossali con la stessa (anzi maggiore) probabilità. Quando si acquista del materiale fotografico usato, è bene tenere in considerazione un po’ di cose soprattutto quando si spendono cifre non indifferenti. Personalmente ho acquistato poco usato ma ho avuto modo di conoscere abbastanza bene rischi e vantaggi che vorrei condividere in questo capitolo elencando una serie di punti da tenere d’occhio quando si è alla ricerca di un affare.

Il venditore La prima cosa da fare è sicuramente trovare il venditore giusto. A meno di non voler rischiare per dei super affari che non implichino comunque delle cifre elevate, è meglio evitare dei venditori sconosciuti e trovati su un sito di annunci qualunque. Questi venditori di solito non offrono alcun tipo di garanzie. Non fidatevi subito dei migliaia di feedback che vedete su ebay anche perché nonostante tutti i controlli, esistono ancora modi per gonfiarli un po’. Di sicuro bisogna andare a leggere tutti i feedback ricevuti da un venditore (che ormai quasi tutti i siti di vendita dell’usato forniscono), e verificare che siano molti e molto positivi ma soprattutto che siano dei feedback di vendita e non di acquisto. Alcuni siti, infatti, non fanno distinzione, e quindi diventa facile per un venditore aumentare smisuratamente la sua autorevolezza semplicemente comprando migliaia di oggettini da pochi centesimi. Il venditore migliore è sicuramente uno con cui si può comunicare bene e chiaramente, onde evitare disguidi e malintesi. Di conseguenza si può valutare di comprare all’estero, ma solo da rivenditori che forniscano una garanzia di rimborso e che parlino una lingua che si capisca più che decentemente. Di solito è meglio se si tratta di rivenditori presenti fisicamente in un negozio e che vendono anche online. Questi negozi (quelli seri) hanno molto da perdere da un affare buttato e il feedback ricevuto sarà molto pesante, quindi ci saranno maggiori garanzie rispetto a un privato che potrebbe sparire nel nulla o semplicemente contestare la transazione a suo vantaggio.


Le persone migliori da cui comprare sono sicuramente amici fotografi (specie se professionisti) e circoli fotografici. In questi casi, infatti, è molto probabile che ci sia sempre qualcuno che stia aggiornando l’attrezzatura, qualcuno che si sposa e quindi la vende tutta, altri che cambiano marca come una bandiera cambia direzione al vento e così via. Il grande vantaggio è che quando si cerca di acquistare usato da queste persone, essendo amici o parte di un circolo in cui l’acquirente saprebbe trovarli, è molto facile sapere in che condizioni si trovi il materiale e si avrà sicuramente la possibilità di raggiungere l’accordo perfetto in un contesto di piena fiducia.

Il prezzo Data la premessa sul valore del materiale fotografico dovrebbe essere ovvio che bisogna sempre diffidare di un prezzo che sia inferiore alla metà del valore del nuovo. Generalmente, gli usati ancora in garanzia che siano pari al nuovo hanno un prezzo che si aggira attorno all‘80-90% del prezzo originale. Se invece sono presenti segni d’uso più evidenti come piccoli graffi o macchie che comunque non comportino malfunzionamenti di sorta il prezzo può scendere fino a poco più del 50% a seconda di quanto tali difetti siano visibili. Prezzi più bassi possono voler dire che l’oggetto in questione non funzioni esattamente benissimo e quindi la cosa deve essere chiarissima e non ci si deve creare false aspettative. Ovviamente non è da escludere che, dietro a un prezzo molto basso, non ci sia una fregatura ma soltanto qualcuno che ha fretta di vendere o amatori facoltosi che non si curano neppure di fare una valutazione di mercato prima di provare a vendere la propria attrezzatura. In ogni caso, quando si trova un usato che sembra un affare, è sempre bene cercare su internet e trovare dei termini di paragone. Bisogna cercare di vedere le recensioni di quell’oggetto per capire se è raro da trovare o se è molto comune, se ci sono altri annunci simili e che differenza di prezzo c’è e così via. In questo modo si riuscirà ad avere un’idea ben chiara di quale sia il reale valore di quel particolare oggetto e si capirà meglio cosa aspettarsi sulla base del prezzo offerto dal venditore.

Quando e cosa comprare Inutile dire che il mercato dell’usato è molto dinamico e non si ferma mai. Si trova tutto per tutte le tasche, a patto di sapere cosa si cerca o quanto meno di farlo nel modo giusto. Ovviamente se sai già cosa comprare (marca, modello, prezzo, etc.) allora basta fare una ricerca diretta sui maggiori siti di annunci. Se invece hai solo una vaga idea, può essere utile guardarsi attorno in forum di fotografia per vedere cosa si muove in giro, ma potrebbe essere molto più utile provare a frequentare un circolo fotografico o chiedere ad amici se hanno attrezzatura da vendere.


Quando comprare? Ancora una volta, se si hanno dei vincoli di tempo, allora bisogna comprare nel momento in cui serve farlo. Se invece non c’è un limite, io suggerisco di aspettare sempre almeno 24-48 ore prima di contattare il venditore, perché il super affare può sempre essere dietro l’angolo. Chiaro che se il prezzo è ottimo, la merce è di qualità e il venditore è affidabile, allora forse è meglio non perdere tempo.

Acquistare in modo sicuro Supponendo di avere trovato un venditore affidabile che ti offra esattamente quello che avevi intenzione di comprare, come fare per essere tutelati? Se si sta acquistando da un privato, di persona, bisogna assicurarsi che fornisca la garanzia residua del prodotto (se esistente) e che abbia fornito un recapito facilmente raggiungibile nel caso in cui dovessero saltare fuori dei difetti che non aveva raccontato. Di sicuro il modo migliore per essere più tranquilli (mai al 100%) è comprare da un negozio che comunque dovrà rilasciare regolare fattura/scontrino e che, come dicevo prima, ha molto più da perdere da una transazione andata male rispetto all’acquirente. Infine, se si acquista online, usare sistemi come PayPal che promettono rimborsi totali in caso di contenzioso è sicuramente una garanzia in più, anche se non c’è la certezza piena. Pagare solo alla consegna e se non fosse possibile, per esempio perché si sta comprando su ebay e il contrassegno non è accettato, non pagare mai con sistemi di money-transfer di dubbia provenienza o con ricariche su carte prepagate le quali non costituiscono pagamento e quindi non possono essere usati per denunce.

Non fidarsi della descrizione Un’altra regola d’oro è quella di non fidarsi della descrizione, come già anticipato. Molti negozi (ma anche privati) adorano indicare lo stato con delle etichette tipo “Excellent” e “Good” assegnando poi una serie di “+”. Questo sistema è pensato per essere criptico e confondere l’acquirente che legge solo una valutazione positiva. Facile capire che non si tratta quasi mai della realtà. Io ho avuto modo di provare un Nikkor 17-55 indicato come pari al nuovo e in condizione Excellent++ per poi scoprire che aveva problemi di messa a fuoco, che la ghiera dello zoom era durissima e che c’era della polvere (innocua) sulle lenti interne. Quando ho chiesto chiarimenti al negoziante riguardo alla valutazione, ho scoperto che quel valore era uno dei più bassi e che fondamentalmente significava che quando hanno acquistato la lente per rivenderla, avevano solo effettuato poche prove e poco esaustive prove. La descrizione va quindi letta più che altro per essere certi che non ci siano difetti già dichiarati. Se per esempio c’è scritto “vendo per pezzi di ricambio” è chiaro che non ci si deve aspettare una fotocamera funzionante. Come si fa dunque a sapere se l’oggetto è in buone condizioni? Provandolo. Non c’è altro modo. Ciò significa che io consiglio di


comprare solo oggetti che si possono provare e in caso restituire, soprattutto se si spendono più di 100€.

Cosa controllare in un obiettivo Gli obiettivi sono di solito molto solidi ma al tempo stesso molto delicati. Essi sono infatti composti di complessi sistemi di lenti che si muovono in spazi di precisione millimetrica. Di conseguenza, sebbene quelli di qualità elevata siano resistenti anche a urti pesanti, la loro resistenza non è infinta. Quando si compra un obiettivo usato è quindi d’obbligo almeno il seguente controllo:

Chiedere al venditore perché lo vende, se è mai caduto o ha subito urti, se è mai stato aperto per pulizia o per altri motivi e se ha subito riparazioni. Gli ultimi due punti sono importantissimi perché gli obiettivi sono così complessi che una volta aperti e smontati possono essere anche impossibili da rimontare correttamente a meno di avere i macchinari usati dai produttori stessi. Alle volte aprire un obiettivo per pulirlo dalla polvere può risultare in un netto peggioramento della qualità. Controllare graffi e usura. Questi saranno un ottimo indicatore del fatto che la lente non abbia subito urti pesanti, non sia caduto e soprattutto del modo in cui il precedente proprietario l’ho ha custodito Guardare bene alla luce diretta la lente frontale e la lente posteriore per verificare la presenza di graffi, polvere o funghi sulle lenti superficiali. Meglio usare una lampadina tascabile. Lo stesso controllo va fatto per le lenti interne, posizionando l’obiettivo senza tappi in orizzontale (MAI in verticale), aprendo a tutta apertura (e.g. nei Nikkor c’è la levetta vicino all’attacco della baionetta) e guardare dalla lente frontale facendo passare il fascio di luce da quella posteriore. Con il tappo posteriore chiuso, per evitare l’effetto “risucchio di polvere”, fare scorrere più volte la ghiera dello zoom e della messa a fuoco (mettere la modalità manuale se l’obiettivo non ha il “manual focus override”). Se l’obiettivo è usato, una ghiera dura e dal movimento non uniforme può essere indice che il lubrificante si sia asciugato, consumato o che la lente sia stata aperta e non rimontata correttamente. In realtà alcuni obiettivi escono così dalla fabbrica ma di solito è facile verificarlo facendo una rapida ricerca su internet. Montare l’obiettivo sul proprio corpo macchina per assicurarsi che funzioni la messa a fuoco automatica e che non vi siano problemi ai contatti. Se sono consumati (anche poco), potrebbero generare difficoltà al corpo macchina a comunicare con la lente e a definire la messa a fuoco e l’apertura focale.


Se l’obiettivo è tropicalizzato e si pensa di utilizzarlo in condizioni climatiche non ottimali, verificare che le guarnizioni di gomma e le chiusure di plastica dell’attacco alla baionetta non abbiano fori, non siano consumate e si congiungano perfettamente con il corpo macchina senza lasciare gioco. Prova degli scatti. Spegni e riaccendi la macchina fotografica con l’obiettivo ancora agganciato e riprova. Non devono esserci problemi di messa a fuoco o comunicazione con il corpo macchina.

Cosa controllare in un corpo macchina Anche per i corpi macchina valgono le stesse regole dell’obiettivo, eccetto ovviamente i controlli che sono leggermente diversi:

Mantenendo il corpo macchina in verticale e mai in orizzontale, usare una lampadina tascabile per guardare lo specchio e verificare che non vi siano accumuli evidenti di polvere. Se ce ne sono, allora il sensore e le parti interne non saranno diverse. Verificare il numero di scatti utilizzando il cavo originale e un software ufficiale della casa di produzione (o comunque software garantiti) Chiedere di provare la macchina con la batteria carica e osservare se si scarica rapidamente dopo qualche scatto e qualche visione sullo schermo LCD. Provare le ghiere e i pulsanti e verificare che ruotino tranquillamente e che la pressione non risulti né eccessiva né troppo dura. Inserire la scheda di memoria e verificare i tempi di scrittura che devono essere coerenti con quelli del nuovo e comunque non troppo lunghi. Montare i propri obiettivi principali, di cui si è certi del perfetto funzionamento, su quel corpo macchina e verificare che funzionino la messa a fuoco, la comunicazione di apertura focale e tutti gli altri parametri per essere sicuri che i contatti siano in buone condizioni. Provare a utilizzare il flash incorporato (se presente) in modalità TTL (through the lens) per essere sicuri che i parametri vengano letti correttamente dalla fotocamera attraverso le lenti.

Cosa controllare in generale per gli accessori Ovviamente il mercato dell’usato non si limita solo a obiettivi e corpi macchina, ma può riguardare treppiedi, flash, trigger, luci, etc. Per tutti questi accessori di solito è più facile valutarne la qualità e in generale è sempre meglio tenere in considerazione sempre le


stesse regole suggerite nei paragrafi precedenti. In ultima analisi, soprattutto quando si spendono cifre alte e il risparmio potrebbe non essere altissimo, il consiglio finale lo pongo sotto forma di domanda: “sei sicuro che per quell’articolo non valga la pena di comprarne uno nuovo?�



Sperimentare in casa La cosa fondamentale per realizzare buone fotografie è sviluppare il proprio occhio fotografico e conoscere al meglio i propri mezzi, non la qualità dell’attrezzatura fotografica di cui si è in possesso. Sicuramente è vero che più qualità tecnologica e più scelta permettono di realizzare più facilmente le fotografie che si immaginano, ma ciò che conta veramente è sapere quale sarà il risultato di una data impostazione. Per quanto si possa studiare la teoria, l’unico modo per acquisire tale padronanza è attraverso la pratica costante. Prendere in mano la macchina fotografica evoca immediatamente grandi viaggi immersi nei luoghi più belli del mondo, passeggiate a caccia dell’attimo perfetto e fantastici e romantici tramonti. Tutte le cose elencate sono sicuramente tra i migliori modi per godersi la fotografia, tuttavia ci si rende spesso conto che non tutti sono così fortunati da poter andare in giro tutti i giorni o anche soltanto tutti i fine settimana. In realtà, il luogo migliore dove imparare a padroneggiare gli strumenti che si hanno a disposizione è casa propria. L’abituale dimora è infatti un luogo dove ci si sente a proprio agio, si può essere se stessi e che si conosce meglio di qualunque altro luogo. Sperimentare in casa è quindi un buon modo, semplice e alla portata di tutti, per imparare nuove tecniche e per capire a fondo come far funzionare e sfruttare al meglio la propria fotocamera. Mettersi a fotografare in casa non significa necessariamente proporsi di fare lo scatto del secolo, ma è utilissimo per tenersi allenati e per prepararsi ad affrontare le sfide fotografiche vere e proprie. Ecco cosa fare per imparare a fotografare con la tecnica giusta e migliorare il proprio occhio fotografico: scegli un oggetto di piccole dimensioni (può essere qualunque cosa, come una statuetta, un pupazzo o un bicchiere), portalo in giro per casa e fotografalo, tenendo in considerazione gli aspetti descritti di seguito. Studiare la luce: in casa abbiamo un misto di luce naturale che proviene dalle finestre e di luce artificiale, prodotta da lampadari, faretti e così via. Ogni sorgente luminosa non colpirà una sola zona della casa, ma si rifletterà su superfici, pavimenti, soffitto e mobili. L’occhio umano tende ad appiattire la percezione della luce, facendoci sembrare tutto più o meno uniforme. Concentrandosi bene, e con l’aiuto di una fotocamera, sarà possibile imparare a riconoscere zone più o meno illuminate e come queste differenze possono avere un impatto anche significativo sul soggetto ritratto. Esercizio: imposta la macchina fotografica sulla modalità automatica e fotografa il soggetto vicino a una finestra, sotto un faretto e in una zona poco esposta alla luce; carica


le foto nel computer e guarda le differenze, focalizzandoti sull’effetto della luce e dunque sulle ombre e sul contrasto prodotto, più che sui parametri necessari a ottenere una corretta esposizione.

1 - F/2.8, 1/25s, ISO-1600, 65mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 – luce diffusa

2 - F/2.8, 1/30s, ISO-1600, 65mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 – luce frontale


3 - F/2.8, 1/30s, ISO-800, 65mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 - luce fredda posteriore Studiare l’esposizione: la fotocamera è in grado di percepire la reale quantità di luce disponibile e di modificare automaticamente i parametri per fornire una corretta esposizione, tuttavia non è dotata di intelligenza quindi non è in grado di sottoesporre o sovraesporre volontariamente una fotografia. In casa si ha la possibilità di studiare il variare dell’esposizione in base ai vari parametri e quindi di capire fino a che punto ci si può spingere con il tempo di esposizione e l’apertura focale prima di modificare il valore della sensibilità ISO. Questo è il momento in cui bisogna spostare la rotellina della modalità di scatto verso manuale, in modo da cominciare a sperimentare con le variazioni delle impostazioni. Un trucco per avere un punto di partenza è osservare la misurazione fatta dalla fotocamera in modalità automatica e replicarla in modalità manuale e poi effettuare piccole variazioni. Esercizio: utilizza una lampada per illuminare il soggetto in maniera artificiale e posiziona la macchina fotografica su di un treppiede (o su di un supporto stabile), in modo da costruire una situazione costante in termini di composizione e luce; imposta inizialmente i valori dei parametri per l’esposizione tecnicamente corretta, quindi prova a sovraesporre e sottoesporre la foto utilizzando dapprima un solo parametro (e.g. riducendo o aumentando il tempo di esposizione) e poi provando a usare delle combinazioni. Nota come l’utilizzo dell’unità di misura “stop” di luce possa essere usata per bilanciare l’uno o l’altro parametro, per esempio, raddoppiando l’apertura del diaframma si potrà dimezzare il tempo di esposizione o la sensibilità ISO.

4 - F/4, 1/50s, ISO-800, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100


5 - F/4, 0.6s, ISO-800, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

6 - F/4, 3s, ISO-800, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Studiare la profondità di campo e la messa a fuoco: sia la capacità di messa a fuoco che la profondità di campo sono determinati dall’obiettivo. Imparare a conoscere la flessibilità di un obiettivo e la sua resa è importante per poter realizzare le fotografie che si immaginano. A una maggiore apertura del diaframma corrisponde minore profondità di campo, come da nozioni tecniche, e imparare a conoscere quanto spazio si ha a disposizione per tenere perfettamente a fuoco il soggetto è importante per non sbagliare quando si sarà fuori alla ricerca dello scatto perfetto. Esercizio: prendi un metro da sarto e posizionalo dritto su un tavolo davanti a te; metti il tuo oggetto in una posizione specifica e inquadralo fermando la fotocamera sul tavolo o su un treppiedi. Metti a fuoco il soggetto (senza scattare) e blocca la messa a fuoco spostandola sulla modalità manuale (di solito c’è una levetta sull’obiettivo o in basso sul corpo macchina). Utilizzando la modalità con priorità di apertura del diaframma (cioè quella in cui stabilito il valore della f e la sensibilità ISO, la fotocamera sceglierà il


corretto valore del tempo di esposizione) effettua lo stesso scatto facendo variare il valore della f dalla maggiore apertura, cioè il numero più piccolo (e.g. f/3.5) a quello di minore apertura, cioè il numero più grande (e.g. f/22). Caricando le fotografie nel computer e guardandole accanto noterai come cambierà lo spazio disponibile davanti e dietro il soggetto in cui esso potrà essere perfettamente a fuoco. Negli esempi seguenti si possono notare i vari gradi di sfocatura e di dettaglio a f/2.8, f/8 ed f/22.

7 - F/2.8, 1/6s, ISO-100, 58mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

8 - F/8, 1.3s, ISO-100, 58mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100


9 - F/22, 10s, ISO-100, 58mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Studiare la composizione: nonostante sembri impossibile fare fotografie interessanti in casa, nulla impedisce di esercitarsi con la composizione, colonna portante di una buona fotografia. Dopo aver approfondito i concetti di base della composizione sulle famosissime regole dei terzi, sezione aurea, triangoli e linee portanti varie (tutte cose facilmente reperibili in rete o descritte anche nell’apposita sezione in fondo al libro), inizia ad applicarli sul soggetto che hai scelto, cercando di tenere a mente tutte le regole ma cercando di farle diventare più istintive che ragionate. Esercizio: stabilisci un percorso da seguire in casa, per esempio dal salotto alla camera da letto, dividendolo in tappe (meglio se almeno 3 o 4). Prendi con te la fotocamera e il tuo soggetto, imposta la fotocamera sulla modalità automatica (o ritratto se disponibile), quindi recati alla prima tappa. Cerca di impiegare un massimo di 5 minuti per posizionare il tuo soggetto in modo tale da poterlo fotografare ed effettivamente realizzare lo scatto. Ripeti questi passi per ciascuna tappa. Al termine della “passeggiata”, carica le tue foto sul computer e cerca di trovare gli errori tecnici che tu possa aver fatto nella “fretta” dello scatto, sempre in base alle canoniche regole note ai fotografi. Quando la composizione sarà buona, prova a ridurre il tempo, cercando di fare in modo che diventi sempre più istintivo e meno ragionato. Nota che un fotografo usa sempre tutto il tempo che ha a disposizione, ma in molte situazioni, come per esempio una partita di calcio, si hanno solo pochi secondi per poter realizzare l’inquadratura perfetta. Di seguito una composizione errata, seguita dall’immediata correzione verso un’immagine senza troppo spazio negativo inutile e che rispetti maggiormente le regole canoniche come quella dei terzi.


10 - F/2.8, 1/30s, ISO-1000, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

11 - F/2.8, 1/20s, ISO-1600, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Tutti questi esercizi possono essere ripetuti man mano che si imparano nuove cose sulla fotografia e possono essere estesi per provare combinazioni sempre più difficili. Sperimentare in casa è veramente molto utile per imparare la parte prettamente tecnica della fotografia. Tuttavia non è impossibile sviluppare anche il lato creativo. Infatti, in casa, si può provare a realizzare fotografie minimali, geometriche o astratte che possono risultare molto interessanti e intriganti, a patto di avere qualcosa da dire. Per esempio, nelle foto che seguono ho riprodotto l’effetto di auto in “corsa”, con tanto di scie che richiamino il movimento, semplicemente usando una miniatura e un vassoio di legno dipinto.


12 - F/2.8, 1/25s, ISO-800, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

13 - F/2.8, 1/80s, ISO-800, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100



Fotografare la natura Se è vero che sperimentare in casa è utilissimo per imparare la tecnica fotografica, la natura ha invece tantissime sfide che possono stimolare l’interesse verso la fotografia e la creatività. La natura è tutta attorno a noi, anche se viviamo in città, ed è piena di dettagli che sfuggono all’occhio di una persona immersa nella quotidianità. Ecco alcuni suggerimenti su come farci aiutare dalla natura a diventare migliori fotografi e osservatori: Anche se sei in città e non c’è neppure un albero o un uccellino vicino a te, non demordere e alza lo sguardo. La natura domina tutto anche quando meno te l’aspetti.

14 - F/3.5, 1/4000s, ISO-200, 18mm, Nikkor 18-55 su Nikon D50

Quando vai in viaggio, cerca luoghi immersi nel verde, respira l’aria del posto e catturane l’essenza, cercando nella vegetazione, negli animali o in un tramonto qualcosa che rappresenti quel luogo.


15 - F/9, 1/640s, ISO-200, 17mm, Tamron 17-50 su Nikon D5000

Lascia che i luoghi ti spieghino la luce. Se hai la possibilità di tornare in uno stesso luogo piÚ volte, per esempio il parco dove porti a passeggio il tuo cane, fermati almeno dieci minuti per ciascuna visita nello stesso posto, per esempio una panchina, e osserva come in diversi momenti della giornata il sole trasformi radicalmente l’apparenza di quel posto.


16 - F/9, 1/15s, ISO-100, 24mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100


17 - F/9, 1/3s, ISO-100, 24mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

La natura è semplice nella sua immensa complessità. Lo stesso vale per una foto. Tutti gli elementi tecnici, visibili e invisibili, che stanno dietro a una fotografia la rendono qualcosa di estremamente complesso sia da realizzare che da capire, tuttavia tanto più semplice essa sarà per l’occhio, quanto più piacevole potrà essere per l’osservatore. Osserva i dettagli della natura e concentrati su quanto possa essere bello e affascinante un dettaglio immerso nella semplicità di uno sfondo uniforme.


18- F/2.8, 1/160s, ISO-200, 200mm, Sigma 70-200 su Nikon D5000

Cerca i dettagli che si nascondono nei parchi, nelle campagne o anche nell’erba delle aiuole sopra un marciapiede. Se possibile procurati un accessorio per fare delle macro, che sia un filtro da mettere davanti all’obiettivo, un anello di estensione o un obiettivo che riesca ad ottenere buoni ingrandimenti e vai a “caccia” di insetti e piccoli animali. La fotografia macro è molto difficile (e costosa se praticata ad alti livelli) ma permette di capire cosa significa azzeccare l’attimo, avere pazienza e conoscere la propria attrezzatura. Se la fotografia macro non fa per te, procurati un teleobiettivo e cerca i dettagli altrove. Gli animali sapranno sempre stupirti.


19- F/8, 1/800s, ISO-800, 70mm, Sigma 70-200 su Nikon D5000

La natura è piena di storie da raccontare che si nascondono nella sua fusione con il panorama cittadino circostante, negli animali, in un ramo spezzato o nei graffi sul legno divenuto una panca. Trova la tua storia e raccontala con una foto. Questo tipo di esercizio stimola la creatività e la capacità di osservare il mondo con occhi diversi.


20- F/2.8, 1/500s, ISO-100, 24mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Tutte queste sfide potranno sembrare puramente creative, tuttavia ciascuna di esse ha bisogno che si impari a padroneggiare ogni aspetto del proprio mezzo, che sia uno smartphone o una reflex. Per esempio, la semplicità o complessità di un fotogramma sarà completamente differente al variare dell’apertura del diaframma e quindi della profondità di campo. Allo stesso modo, la storia che una fotografia potrebbe raccontare di un uccello intento a catturare un insetto, potrebbe risultare banale o intrigante a seconda del tempo di esposizione utilizzato. Nessun corso può dare le impostazioni predefinite per uno scatto


immerso nella natura perché ogni scatto è diverso e l’unica cosa che si può fare è andare lì fuori e fare quanta più pratica possibile.



Luce naturale e artificiale: capirla, usarla e modificarla La temperatura di colore La luce è una radiazione e in fotografia questo è estremamente importante perché al variare delle proprietà dell’onda che ne caratterizza ciascun raggio, cambierà radicalmente il modo in cui la macchina fotografica, o meglio il sensore, renderà il colore di un soggetto. La temperatura di colore si misura in Kelvin (abbreviato normalmente come K) e ha un diretto impatto su quello che in fotografia è più noto come bilanciamento del bianco. Più è basso il valore in Kelvin, più la luce si dice “calda” (per via della sua tonalità tendente al rosso), mentre più è alto tale valore, più la luce si dice “fredda” (vicina al colore blu). La temperatura di colore non è legata alla quantità di luce emessa dalla sorgente luminosa. Per spiegare meglio il concetto è sufficiente andare in un qualunque negozio che venda lampadine e confrontare delle lampadine di pari lumen, che siano di temperature differenti, cioè una a luce calda (più gialla) e una a luce fredda (bianca o azzurra). In base alla temperatura sarà possibile stabilire quale sia il colore che verrà percepito dall’occhio umano, per esempio l’arancione corrisponderà a circa 2.000K, mentre un colore più azzurro arriverà più o meno ai 12.000K. Non tutte le temperature sono visibili all’uomo, infatti quando si scende abbastanza al di sotto del rosso si va infatti nell’infrarosso e al di sopra del blu ci si sposta verso gli ultravioletti. Il sensore della fotocamera è fatto per cercare di catturare la stessa luce che è visibile all’uomo e allo stesso modo dell’occhio umano, può essere danneggiato se esposto per troppo tempo e in maniera errata a luci ultraviolette. Esistono delle leggi fisiche che permettono di calcolare con esattezza il colore che l’occhio percepirà a partire da una certa radiazione luminosa e in base al colore dell’oggetto che viene colpito. Tali leggi sono quelle che il sensore conosce meglio di noi. Ciò che è importante per il fotografo è capire come varia l’intera resa della fotografia al variare della temperatura di colore. Da un punto di vista tecnico, la temperatura di colore è il dato fondamentale da utilizzare per il calcolo del bilanciamento di colore, come descritto nelle note tecniche. Da un punto di vista più artistico, la temperatura di colore è fondamentale perché permette al fotografo di scegliere quale sarà la sensazione generale che la fotografia dovrà dare all’osservatore.


Per esempio, se si tenta di riprodurre in studio un ritratto che evochi un tramonto, bisognerà studiare quali luci intervengono in quel dato momento della giornata, quale sarà la temperatura delle radiazioni del sole in quel dato istante e quindi tentare di riprodurle il più fedelmente possibile. Normalmente non si miscelano fonti di luce dalla temperatura molto differente perché questo potrebbe rendere difficoltoso ottenere una resa realistica dei colori da parte del sensore. Allo stesso modo, il colore delle superfici su cui i raggi di luce andranno a rimbalzare e si diffonderanno nell’ambiente sarà fondamentale per prevedere la resa della foto. Se per esempio ci trovassimo a fotografare all’interno di una stanza con le pareti completamente verdi e si usasse un flash (quindi luce bianca), il risultato sarebbe che per il sensore sarebbe impossibile ottenere una resa corretta poiché la luce che colpirebbe i soggetti sarebbe quasi completamente verde. In questi casi, ciò che si può fare per correggere il problema è mettere delle pellicole colorate (chiamati gel) davanti alle sorgenti di luce, per bilanciare il colore dovuto alle pareti. Usare un colore tendente all’arancione andrà a pareggiare eventuali colori vicini al blu e viceversa. Per imparare a conoscere e usare al meglio la luce è possibile esercitarsi provando a scattare la stessa foto ma usando diverse impostazioni del bilanciamento del bianco, oppure utilizzando lampadine di colori differenti (luce calda e fredda) per illuminare la scena, visionandone e analizzando i risultati al computer. Nell’esempio seguente si può vedere a sinistra una foto con la temperatura di colore calcolata in maniera errata (spostata verso un bilanciamento troppo caldo) e accanto la giusta valutazione della temperatura.



Fonti di luce artificiale La luce naturale è identificabile fondamentalmente con i raggi solari. Questo tipo di luce è di solito percepita come più bella proprio perché è quella a cui siamo abituati da tutta la vita. La luce artificiale viene prodotta attraverso componenti elettrici come lampadine, flash e così via. La luce artificiale viene utilizzata per ricreare situazioni che risultino naturali agli occhi dell’osservatore. Una luce innaturale, infatti, tende a causare un certo disagio e in generale una sensazione meno piacevole. Per fare un esempio, basta pensare alle foto scattate con il flash incorporato delle fotocamere: a meno di usi creativi, questo tipo di luce avrà un risultato caratterizzato da ombre molto dure e dettagli accentuati innaturalmente, che renderanno la scena e il soggetto meno gradevoli. Distinguere tra fonti di luce artificiale e naturale è semplice. Allo stesso modo è facile capire che in generale quanto meno l’illuminazione della scena pare innaturale, tanto più gradevole e professionale apparirà l’immagine. Bisogna quindi fare una distinzione più utile per il fotografo tra le fonti di luce: quelle controllabili e quelle non controllabili. Nella prima categoria rientrano tutte le luci che vengono impostate dal fotografo come per esempio fari, flash e tutti i modificatori di luce che siano in grado di trasformare una luce non controllabile in controllabile. Nella seconda categoria rientra tutto il resto, quindi dalla luce naturale del sole o della luna, a quella di un lampione per strada. Capire come le diverse tipologie di luce agiscono sul soggetto è fondamentale per poter realizzare le foto che si hanno in mente. Supponiamo per esempio di voler fotografare una scena da film noir: un uomo con cappello e impermeabile appoggiato a un lampione su di un marciapiede; la luce lo illumina drammaticamente dall’alto, evidenziando il suo cappello e lasciando vedere appena i suoi lineamenti. In questo caso è facile intuire che sia necessaria una sola luce che arrivi da sopra il soggetto e si espanda in forma di cono in maniera diretta verso il soggetto. Ovviamente, in una situazione reale il volto del soggetto non sarebbe visibile in alcun modo, tuttavia in una foto potremmo voler mostrare parte dei lineamenti per dare un tocco di mistero all’immagine. In tal caso potremmo utilizzare un faretto che punti verso il volto e che sia di una intensità finale (cioè quella che colpisce il volto del protagonista) sufficientemente inferiore a quella del lampione che lo illumina dall’alto. Una situazione più complessa potrebbe essere quella di replicare in studio, cioè in una stanza priva di sorgenti luminose naturali, una scena in cui una donna guarda fuori dalla finestra. In tal caso sarebbe necessario utilizzare una luce principale che riproduca


l’effetto del sole attraverso la finestra e che quindi sommerga di luce il soggetto. Ancora una volta, una sola luce non sarebbe sufficiente a ricreare una situazione piacevole in tutti i suoi dettagli, pertanto bisognerebbe aggiungere qualcosa che illumini la donna da dietro, in modo da darle profondità e dettaglio, e infine una luce che riempia lo sfondo e che dia l’effetto dei raggi del sole che illuminano soffusamente la stanza. In generale, quando si parla di luce artificiale o di luce che in qualche modo si possa controllare, bisogna tenere in considerazione i seguenti aspetti: Una sorgente di luce piccola, puntiforme nel caso estremo, creerà un fascio di luce intenso e limitato che provocherà ombre dure e pronunciate che evidenzieranno ogni piccolo solco del soggetto. Questo è dovuto al forte contrasto che si viene a creare tra le zone illuminate e quelle in ombra. Una sorgente piccola di luce non illumina l’ambiente e si concentra solo su di una parte del soggetto, evidenziandola. Il vantaggio della luce diretta e piccola è che è più controllabile e che, normalmente, richiede meno potenza per avere più intensità. Un esempio di sorgente di luce piccola è intensa è il flash incorporato di moltissime reflex in commercio oggi. Esercizio: prendere un soggetto di medie dimensioni, come un vaso, una bottiglia o un pupazzo e fotografarlo utilizzando il flash incorporato della fotocamera, oppure illuminandolo con una torcia tascabile. Una sorgente di luce grande ha la caratteristica di creare ombre molto più morbide e di avvolgere il soggetto. Tanto più sarà grande la luce, tanto più morbide saranno le ombre e tanto più “lento” sarà il passaggio da una zona all’altra. Questo tipo di luce tende, per esempio, a nascondere i difetti della pelle poiché diminuisce il contrasto dell’immagine in sé. Lo svantaggio delle sorgenti di luce grandi è che spesso sono meno controllabili e rischiano di illuminare anche zone dell’immagine che invece vorremmo restassero in ombra. Un esempio di sorgente di luce grande potrebbe essere il soffitto bianco di una stanza utilizzato come superficie di riflessione della luce di un flash puntato verso l’alto. Esercizio: riprendere la scena dell’esercizio precedente e fotografare il soggetto utilizzando la stessa luce ma ponendo un foglio A4 da stampante di grammatura leggera oppure un foglio di carta forno di fronte ad almeno 15-20 cm di distanza, ottenendo un leggero effetto di diffusione (sorgente più larga) e confrontare le differenze con il precedente. Tanto più è vicina la luce al soggetto, quanto meno intensa dovrà essere per una corretta esposizione. Inoltre, tanto più vicina e quindi meno intensa sarà la luce, quando


più velocemente questa svanirà nello sfondo. Immaginiamo per esempio di voler ottenere l’effetto di un soggetto che emerge dal buio. La prima cosa che si pensa è che serva una stanza completamente buia e uno sfondo nero. La realtà è che potreste realizzare questa foto anche in pieno giorno con uno sfondo bianco. L’importante è avere la possibilità di scattare una foto con delle impostazioni che permettano di ottenere un fotogramma completamente nero, e infine aggiungere la luce in modo che sia molto vicina al soggetto e molto intensa. Esercizio: impostare la macchina fotografica su manuale e porla su di un treppiede o su un supporto stabile. Impostare la sensibilità ISO al minimo e modificare tempo di esposizione e apertura focale in modo che scattando una foto senza flash, questa risulti completamente nera (spostarsi in una stanza meno illuminata se è il caso, ma non buia). Utilizzare una sorgente luminosa intensa esterna (per esempio una torcia da campeggio) per illuminare il soggetto, facendo in modo che il fascio di luce lo colpisca diagonalmente e non vada verso lo sfondo. Avvicinare o allontanare la luce e confrontare come la distanza renda più o meno intenso l’effetto di distacco dallo sfondo e la resa del “nero assoluto”.


Modificatori della luce La luce può essere usata così com’è oppure modificata secondo le necessità del fotografo. Questo è fattibile in tanti modi, spesso anche molto economici, e soprattutto può essere utilissimo anche per aggiungere sorgenti luminose senza necessariamente utilizzare flash o fari secondari. Di seguito una lista non completa dei modificatori di luce più utili e che possono essere trovati anche a prezzi abbordabili (rinunciando a un po’ di qualità). Riflettori: si tratta di dischi o rettangoli spesso pieghevoli di varie dimensioni che possono andare dai pochi centimetri fino a più di 2 metri. Normalmente possono avere cinque tipi di superfici: grigia argentata, per una riflessione intensa e maggiore contrasto, dorata, per una luce calda e avvolgente, nero, per tagliare la luce proveniente da una certa sorgente, bianco, per riflettere modificando la luce il meno possibile, e translucido per smorzare sorgenti luminose dirette. Softbox: sono delle “scatole” dai bordi neri che racchiudono la luce. L’interno è bianco o argentato e la parte anteriore viene ricoperta da almeno due strati di un tessuto bianco translucido. Questi modificatori vengono utilizzati per trasformare sorgenti di luce piccole in superfici luminose più grandi. Possono costare da poco più di 30 euro per uno piccolo a diverse centinaia di euro per quelli professionali e di dimensioni enormi. Possono avere forme varie, da parallelepipedi a esagoni a ombrelli. La qualità dei softbox dipende dalla loro capacità di diffondere la luce in maniera uniforme, creando la minore attenuazione possibile. Ombrelli: funzionano come i riflettori e possono essere di varie dimensioni, da quelle di un ombrello tascabile a ombrelloni da spiaggia. Anche gli ombrelli hanno di solito 5 tipi di superficie con cui la superficie interna può essere ricoperta e si utilizzano esattamente allo stesso modo dei riflettori, con la differenza che di solito vengono accoppiati con una luce controllabile più vicina e dedicata a questo modificatore, per esempio un flash o un faro. Snoot: sono dei piccoli coni che permettono di trasformare una sorgente di luce che illuminerebbe in tutte le direzioni, in un fascio di luce diretto che illumina solo una piccola zona dell’immagine. L’effetto è quello della luce piccola e tonda che segue il protagonista di uno spettacolo su di un palco. Possono essere veramente molto poco costosi, oppure arrivare a centinaia di euro se dedicati a sistemi di luci a fari professionali. Beauty dish: è uno dei modificatori di luce più amato nel campo della fotografia di moda. Si tratta di un disco concavo che viene posto attorno alla sorgente di luce, per esempio il flash, che ha un ulteriore disco più piccolo proprio davanti alla fonte. In questo


modo la luce diretta viene sparata verso il primo disco che ne riflette i raggi tutto intorno verso il disco più grande che infine creerà un fascio di luce che sarà abbastanza diffusa da “ammorbidire” i difetti della pelle, ma abbastanza diretta da dare contrasto agli occhi e alle labbra. Il beauty dish è uno dei modificatori di luce più costosi e può raggiungere cifre anche molto elevate. Nido d’ape: modificatore di luce molto usato anche nel cinema, viene utilizzato come lo snoot per ottenere un effetto ancora più definito del fascio di luce che deve colpire il soggetto. Normalmente il nido d’ape può essere applicato a luci dirette o anche di fronte ad altri modificatori come snoot o softbox. Un modo per imparare a usare i modificatori è costruirseli da soli con pochi euro, quando possibile, e usarli per sperimentare prima di fare qualunque investimento. Uno dei più semplici modificatori da costruire è il riflettore. Per questo, infatti, basterà avvolgere della carta stagnola attorno a un cartoncino per ottenere una superficie riflettente, oppure usare della carta forno per creare una superficie translucida. I più audaci possono provare a costruire una scatola da montare sopra il flash, fatta con del cartoncino rigido nero e del nastro adesivo, e fissare al suo interno dei fogli di carta forno per ottenere un piccolo softbox. Ecco invece due veloci DIY (Do It Yourself) su come costruire uno snoot per il flash e un beauty dish con meno di 10 euro. Beauty Dish Iniziamo dalla lista della spesa: - Un vaso di plastica largo e concavo - Un sottovaso piccolo (a seconda dell’effetto che si vuole ottenere) - 4 stecche filettate da almeno 10 cm - 4 bulloni per ciascuna delle stecche filettate - Bombolette spray bianca e nera (opzionale) - Colla - Carta stagnola - Un elastico


Innanzi tutto è necessario preparare la parte che rappresenterà la concavità. Sulla parte posteriore del vaso più grande bisognerà praticare un foro che ospiterà la testa del flash, pertanto sarà necessario disegnare con un pennarello la forma della parte anteriore. Usando un taglierino, bisogna incidere la plastica e creare l’apertura. Infine, se il vaso non ha già i fori per l’acqua sulla parte inferiore, si dovranno creare 4 fori equidistanti tra loro che serviranno per far passare le stecche filettate e attaccarci il sottovaso. Inoltre sarà necessario praticare altri 2 fori accanto a quello centrale (quello più grande) dove faremo passare l’elastico che sarà usato per fissare il flash.

A questo punto si dovranno fare 4 fori anche sul sottovaso che dovranno essere


equivalenti a quelli fatti sulla parte inferiore del vaso largo. Fatto ciò saremo già a metà del lavoro. Per completare il disco riflettente (quello anteriore) bisognerà ricoprire la parte inferiore del sottovaso con la carta stagnola, incollandola con un po’ di colla. Non è necessario essere estremamente precisi, anzi, al contrario, più la carta stagnola sarà irregolare, maggiore sarà l’effetto di diffusione della luce. Suggerisco di mettere un po’ di spessore tra la carta stagnola e il sottovaso, in modo da creare una leggera convessità che sia proporzionale alla concavità del vaso largo. Una volta ricoperto il sottovaso, bisognerà infilare le quattro stecche filettate nei fori che erano stati praticati precedentemente, fermandole bene con i bulloni. La parte lunga dovrà essere rivolta dallo stesso lato della carta stagnola.

Una volta creati i due dischi e predisposte le stecche per agganciarli, sarà necessario dipingerli opportunamente. L’unica vera pittura obbligatoria è quella bianca per l’interno del vaso largo. Questa parte infatti sarà responsabile della qualità della luce che verrà prodotta dal beauty dish. Io consiglio di usare una vernice brillante bianca neutra, che è generica per ogni tipo di utilizzo, tuttavia si può sperimentare anche usando vernici argentate o dorate per vari effetti ancora più particolari. Per rendere il tutto più “professionale” nell’aspetto, si potrà usare una vernice spray nera per ricoprire il retro del vaso largo. Quando sarà tutto asciutto, assicurati che la parte bianca sia quanto più uniforme e brillante possibile e se necessario dai un’altra mano di vernice. A questo punto, si potranno unire tutti i componenti. Prima di agganciare il disco centrale, lega un elastico a corda fermandolo tra i due fori accanto all’apertura per il flash. Questo servirà per bloccare il beauty dish sulla luce di supporto. Dopo aver agganciato l’elastico, si potranno unire i due dischi, usando altri due bulloni per ciascuna stecca filettata. La distanza tra i due componenti dovrà essere la più ampia possibile ma all’interno della profondità del


vaso largo.

Dopo averlo assemblato, potrete subito fare le vostre prove con il beauty dish da meno di 10₏ (e meno di un’ora di lavoro, asciugatura della vernice e acquisto materiali escluso). Di seguito trovi un esempio di differenza tra flash diretto senza modificatori e beauty dish.


Come è possibile notare, nella prima il flash crea delle ombre dure ed evidenzia ogni dettaglio del modello di pezza. Nella seconda foto, con l’uso del beauty dish, le ombre sono molto più morbide, cosa che nasconderà i difetti, tuttavia la nitidezza dell’immagine non risulta compromessa. Ultimi suggerimenti: ricordati di lavorare su superfici che puoi rovinare e sporcare, soprattutto per la verniciatura. Inoltre, ricordati che il beauty dish attenua di almeno 1 o 2 stop l’intensità del flash originale, quindi per ottenere la stessa esposizione del flash “libero” bisognerà aumentare la potenza dello stesso o regolare la fotocamera di conseguenza. Snoot Gli “ingredienti” per questo modificatore di luce sono: - Qualche foglio di cartoncino nero - Una confezione di cannucce (meglio se nere, trasparenti o comunque di una tonalità di grigio) - Nastro adesivo (meglio se nero) - Un elastico abbastanza largo o una fascetta regolabile Per costruire lo snoot sarà sufficiente prendere le cannucce e legarle tra loro con il nastro adesivo in modo da formare un blocco che si possa tenere comodamente in un pugno. Per fare ciò, si possono anche posizionare tutte le cannucce su di un tavolo, una a fianco all’altra, tutte alla stessa altezza, e porre su di esse una striscia di nastro adesivo.


Arrotola il cartoncino attorno alla testa del flash, in modo da farlo aderire bene e chiudilo con del nastro adesivo. Il cartoncino dovrebbe essere abbastanza lungo da superare la lunghezza delle cannucce di almeno la metà, in modo da poterlo appoggiare comodamente al flash e poter inserire il blocco di cannucce all’interno.

Non richiudere il cartoncino sulla parte lontana in quanto dovrai poter regolare l’apertura anteriore. Le cannucce potranno essere inserite o rimosse dal cono di cartone. L’effetto che si ottiene con le cannucce è quello di concentrare ancora di più la luce verso il soggetto. Senza di esse, l’effetto si attenua e la forma del cono di luce che colpirà la scena sarà tanto stretto o largo a seconda della regolazione della parte anteriore del cono. Di seguito due foto fatte con le stesse impostazioni di fotocamera e flash, la prima senza snoot e la seconda usando il modificatore.



Illuminare la scena Capire la luce è la parte forse più importante della tecnica fotografica e si potrebbero scrivere interi corsi solo su questo tema. In ogni caso, il modo migliore per imparare è sempre quello di fare pratica. A tal proposito, in questo paragrafo svolgerò un esercizio guidato che potrà essere usato come base per studiare la luce, comprenderla e cercare di acquisire la padronanza necessaria per scattare la fotografia prima ancora di avere premuto il pulsante che farà aprire e chiudere l’otturatore della fotocamera. Proviamo quindi a costruire uno scatto che simuli la seguente scena: un soggetto che guarda attraverso una finestra da una stanza in penombra. In questo caso il nostro soggetto sarà un pupazzo di peluche e tutte le luci saranno artificiali. Per realizzare questo scatto avremo bisogno dei seguenti oggetti: - Flash esterno o faretto - Treppiede o supporto dove mantenere ferma la fotocamera - Riflettori anche artigianali come fogli di carta da stampante e carta stagnola Il primo passo è quello di costruire la scena e quindi di ottenere la composizione desiderata. Posizioniamo il pupazzo in modo tale che sia rivolto verso la finestra immaginaria, come se guardasse fuori. In pratica facciamo in modo che sia quasi di profilo rispetto alla fotocamera. A questo punto correggiamo inquadratura e posizione spostandoci di poco e facendo in modo che lo sfondo sia quello previsto, per esempio uno scaffale con dei libri, un vaso di fiori o semplicemente qualcosa di neutro. Uno scatto fatto in queste condizioni e senza la sorgente di luce primaria dovrebbe risultare estremamente sottoesposto.


21 - F/2.8, 1/80s, ISO-100, 52mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Una volta ottenuta la composizione basilare, bisognerà lavorare sulla profondità di campo, selezionando quella che più ci permette di ottenere una separazione del soggetto dallo sfondo, grazie alla sfocatura degli oggetti lontani, ma sia sufficiente per avere un buon dettaglio del soggetto. Generalmente in questi casi, un’apertura tra f/2.8 e f/5.6 dovrebbe essere ottimale, ma ovviamente varia da caso a caso. Essendo il soggetto completamente immobile e immerso in una scena statica, potremo permetterci di mantenere la sensibilità ISO al minimo possibile (e.g. ISO100) e di utilizzare un tempo di esposizione tanto lungo quanto necessario. Posizioniamo la luce principale, per esempio il flash o il faretto, in modo tale che sia frontale rispetto al pupazzo, simulando quindi la finestra ed effettuiamo il primo scatto. Nel caso si utilizzi un flash esterno e lo si faccia scattare utilizzando la fotocellula o la modalità “commander” del flash incorporato della fotocamera, sarà necessario schermare il piccolo flash sopra il corpo macchina perché potrebbe alterare l’illuminazione della scena a seconda della distanza dal soggetto. Per schermarlo è sufficiente utilizzare un foglio di cartoncino nero da porre davanti al lampeggiatore. Bisogna fare attenzione perché questi flash possono scaldare e quindi è bene non mettere il cartoncino direttamente a contatto con la lampada del flash. Inoltre, se si sta usando la fotocellula per fare scattare il flash esterno, una parte della luce del lampo principale sarà necessaria. Una volta fatto il primo scatto, possiamo notare come la luce diretta risulti intensa, creando ombre molto dure e un contrasto piuttosto elevato. Questo potrebbe andare bene, bilanciando l’esposizione in modo da illuminare correttamente il soggetto, se


stessimo rappresentando delle ore del giorno in cui la luce sia molto intensa e diretta, tuttavia sarà difficile che in una scena realistica si abbia questo tipo di effetto. Pertanto la foto risulterà estremamente sovraesposta sulla parte frontale del soggetto.

22 - F/3.2, 1/160s, ISO-100, 52mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 - flash frontale al soggetto La prima modifica da fare sarà dunque quella di incrementare la dimensione della sorgente di luce, simulando la dimensione di una finestra e la luce diffusa del sole. Per ottenere ciò, dovremmo girare la luce principale, quindi il faretto o il flash, in modo che sia rivolto nella direzione opposta a quella precedente. Poniamo ora un riflettore fatto di una superficie argentata oppure bianca opaca davanti alla luce, in modo che il lampo colpisca il soggetto di rimbalzo. Se si usa un faretto la differenza sarà immediatamente visibile. Tanto più vicino sarà il riflettore alla luce, tanto più intenso e diretto sarà l’effetto sul soggetto e tanto più vicina sarà la luce al soggetto quanto maggiore sarà il contrasto con il resto della scena. Infine, tanto più grande sarà il riflettore, tanto più grande sarà la finestra immaginaria posta davanti al pupazzo. Se si usa un flash, in alternativa, è possibile usare anche un semplice foglio di stampante A4 da posizionare o come riflettore oppure come schermo per una luce più diretta nel caso in cui la luce di rimbalzo non sia facilmente controllabile e vada ad alterare significativamente il resto della scena. Nell’immagine seguente è presente solo la luce ambientale (un faretto sullo sfondo) e un flash diretto schermato con un foglio di cartoncino sul lato per non diffondere la luce sullo sfondo e un foglio bianco da stampante per creare l’effetto di luce diffusa che simuli la finestra.


23 - F/3.2, 1/160s, ISO-100, 52mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 - foglio A4 bianco davanti al flash e cartoncino nero per non illuminare lo sfondo

Sperimentando con le distanze, la dimensione e il tipo di riflettore, potremo notare come riusciremo a ottenere rapidamente un effetto che riproduca diverse situazioni e momenti della giornata. Quando avremo ottenuto quello desiderato potremo passare al secondo passo, cioè le luci di dettaglio e riempimento. Alle spalle del nostro soggetto, potremo notare un brusco calo di dettagli. In una situazione reale l’occhio umano tenderebbe a bilanciare il contrasto e, avendo una gamma dinamica molto superiore a quella di un sensore digitale, ci permetterebbe di vedere la scena così come illuminata dalla singola luce ma al tempo stesso ci permetterebbe di vedere diversi dettagli illuminati solo da poca e fioca luce. Per ottenere questo effetto anche in una fotografia sarà necessario utilizzare il secondo riflettore, questa volta rigorosamente bianco opaco (un altro foglio di carta da stampante A4 posto incollato su un cartoncino comune). Poniamo questo riflettore in modo che sia parallelo e opposto a quello principale e sia dietro il soggetto, quanto più vicino possibile ma fuori dalla scena. Effettuando un nuovo scatto possiamo notare come la schiena del soggetto adesso sia illuminata. Allontanando il secondo riflettore andremo a diminuire questa luce di riempimento e quindi a ridurre il dettaglio, fino a ottenere l’effetto desiderato.


24 - F/3.2, 1/160s, ISO-100, 52mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 - foglio A4 alle spalle del soggetto per creare profondità e dare dettaglio anche alla schiena

Una volta completate le impostazioni di luce del soggetto principale, sarà il momento di aggiungere un minimo di contesto (nelle foto d’esempio era già stato aggiunto in precedenza per rendere più visibili e contrastati i dettagli). Lo sfondo, infatti, è rimasto quasi del tutto in ombra. Per illuminarlo abbiamo varie opzioni: aggiungere ulteriori riflettori che siano rivolti verso la parete oppure aggiungere dei faretti di luce diffusa che vadano a creare una luce ambientale che colpisca solo lo sfondo. Questa fase è la più semplice perché sarà sufficiente prendere delle lampade comuni e schermare solo la luce che va in direzione del soggetto e che potrebbe quindi alterare quanto realizzato poco prima. Ancora una volta, dopo avere sperimentato con distanze e intensità di luce anche per lo sfondo, potremo finalmente goderci il risultato finale e avremo imparato qualcosa di più sulla luce e su come essa agisce sugli oggetti e sulle superfici, ma soprattutto avremo fatto un passo in più verso ciò che è veramente importante per la realizzazione di una fotografia: conoscere la luce.



Lunga esposizione e fotografia notturna Rear flash: foto con le scie di luce Usare il flash sembra facile agli occhi degli inesperti. Ciò accade perché la funzione più semplice, cioè illuminare la scena, è intuitiva mentre la fisica, la tecnica e la tecnologia che ci stanno dietro lo sono molto meno. Mi è capitato spessissimo di vedere persone che scattano foto da distanze esorbitanti usando il piccolo flash incorporato, convinti che il risultato sia ottenuto grazie a quel piccolo lampo (e.g. gente che va alle partite di calcio e cerca di fotografare i calciatori illuminandoli con il suo “pop-up”). In realtà, usare il flash è molto più difficile di quanto sembri e anche questo accessorio ha, come le macchine fotografiche, modalità automatiche e manuali. Supponiamo di voler realizzare la foto del proprio bambino sull’altalena, facendo in modo che si intraveda il movimento tuttavia mantenendo il bambino perfettamente a fuoco nel momento di massima elevazione. Questo tipo di scatti è possibile usando il flash e in particolare la modalità nota come “rear curtain”. Per spiegare cosa sia questa modalità e come si usi, è necessario fare una piccola premessa sul funzionamento di base dell’otturatore e di come il flash influisca sulla scena. Partendo dalla base, suddividiamo il problema in due parti e mettiamole insieme in un solo scatto: Come si ottiene un’immagine perfettamente nitida di un soggetto in movimento? Come si ottengono delle scie “effetto mosso”? Per risolvere il primo problema bisogna innanzitutto fare in modo che la fotocamera metta perfettamente a fuoco il soggetto. Questo si può ottenere in due modi: utilizzando la modalità di messa a fuoco continua e seguendo il soggetto durante il movimento (in questo caso la bontà della messa a fuoco dipende dalle caratteristiche della macchina fotografica), oppure mettendo a fuoco prima sulla zona dove ci si aspetta che il soggetto arriverà e bloccando il fuoco in quella posizione (per esempio spostandolo in modalità manuale). Alcuni potrebbero pensare alla tecnica del “panning”, cioè seguire il soggetto e utilizzare quindi un tempo di scatto abbastanza corto, tuttavia questo non andrebbe d’accordo con la parte in cui vogliamo delle scie effetto mosso. La seconda cosa fondamentale per ottenere un soggetto nitido anche se in movimento è l’uso di un tempo di esposizione molto corto. Tanto più corto sarà il tempo di esposizione, tanto maggiore sarà l’effetto di “congelamento” del soggetto. Anche


questo può essere ottenuto in due modi: il primo è ovvio, cioè diminuendo il tempo di esposizione in cui l’otturatore rimane aperto. Purtroppo questo primo metodo, ancora una volta, non va d’accordo con l’ottenere delle scie luminose, infatti per poter ottenere l’effetto mosso è necessario che l’otturatore resti aperto per almeno la durata del movimento che vogliamo cogliere. Il secondo metodo risolve questo problema ed è esattamente dove entra in gioco il flash. Quando si effettua una lunga esposizione, se le impostazioni sono fatte in modo tale da ottenere uno scatto sottoesposto in mancanza di fonti luminose esterne, il nostro otturatore sarà il flash stesso, cioè la durata del lampo. Portando questi due concetti all’estremo, stiamo dicendo che, come per il light painting, se impostassimo la macchina fotografica in modo “bulb”, cioè la modalità in cui l’otturatore rimane aperto finché teniamo il pulsante di scatto premuto, e ci mettessimo in una stanza completamente buia, il nostro tempo di esposizione effettivo sarebbe paragonabile alla durata del lampo del flash con cui illuminiamo la scena. Bisogna tenere presente che nella maggior parte dei flash, per far durare il lampo il meno possibile è necessario impostare la potenza al minimo. Una volta appresi questi concetti, è possibile metterli insieme per realizzare uno scatto che includa una scia di movimento e un soggetto nitido alla fine. Per ottenere questo tipo di scatti è necessario fare in modo che la fotocamera sia impostata su una lunga esposizione e che il flash scatti proprio alla fine del movimento, cioè un’istante prima che l’otturatore si chiuda. Questa modalità del flash è proprio quella indicata all’inizio dell’articolo, cioè “rear curtain flash”, o semplicemente “rear flash”. La prima cosa da fare è impostare la macchina fotografica in modalità manuale e impostare il tempo di esposizione pari alla durata del movimento che si vuole catturare. La seconda impostazione è, come sempre, l’apertura del diaframma, da impostare in modo tale da avere la profondità di campo desiderata. Ovviamente sarebbe ottimale avere un cavalletto, ma dato che il tempo di esposizione del soggetto sarà brevissimo, non è obbligatorio. Infine è necessario fare in modo che effettuando uno scatto di prova, la foto risulti sufficientemente sottoesposta. Questo è fondamentale per poter introdurre una fonte luminosa come il flash senza “bruciare” il soggetto. Normalmente si potranno utilizzare le impostazioni della sensibilità ISO per ottenere l’esposizione corretta. In caso di luce ambientale molto intensa potrebbe non essere possibile usare un tempo di esposizione abbastanza lungo. In tal caso sarà obbligatorio l’uso di un filtro ND (neutral density) che sia in grado di ridurre la quantità di luce che colpirà il sensore. A questo punto si dovrebbe avere una foto che contiene l’effetto mosso che accompagnerà il soggetto, per esempio il movimento del bambino sull’altalena, e sarà possibile aggiungere il flash. Per iniziare è meglio impostare il flash sulla potenza minima


e avvicinarlo quanto più possibile al soggetto. Quanto più il flash sarà vicino al soggetto, tanto maggiore sarà il contrasto con lo sfondo. Più si allontana il flash dal soggetto, maggiore sarà la potenza necessaria e migliore sarà l’effetto di “miscela” di luce tra soggetto e sfondo. Nell’esempio presente in questo capitolo ho preso una torcia a led e coperto la parte luminosa con il pollice, quindi ho eseguito uno scatto con ISO 200, apertura di f/2.8, tempo di esposizione di 1,3 secondi e flash impostato a 1/32 della sua potenza massima. In particolare, il lampo proveniva dal flash incorporato della D5000 (quindi nulla di particolare), diffuso utilizzando un foglio di carta assorbente accartocciato e avvolto sopra il lampeggiatore. La lunga esposizione di 1,3 secondi ha tracciato la scia di luce e una parte del movimento della mano, tenendo il resto completamente sottoesposto, grazie alla stanza buia, infine il lampo in modalità “rear” ha illuminato e quindi congelato la scena finale che domina il resto dell’immagine.


Light painting: dipingere con la luce Il termine fotografia significa letteralmente “disegno di luce”. In effetti, una fotografia altro non è che luce che si posa su di un supporto che rappresenta la tela, per esempio una pellicola o un sensore digitale, grazie al quale i colori restano impressi e formano un disegno generalmente molto realistico della scena ripresa. In fondo, non è poi così distante dalla pittura iperrealistica. Quello che è meno immediato da immaginare è che anche in fotografia si possano ottenere dei “dipinti” che concettualmente sono molto vicini alla pittura. Infatti, quel che fa immaginare la pittura e la fotografia come due cose molto lontane è il fatto che nella pittura ci sia una persona che tramite occhio e pennello dipinge una scena, mentre in fotografia il soggetto è già lì che aspetta. Non c’è dubbio che la pittura richieda molta più capacità artistica e manuale rispetto alla fotografia, tuttavia esiste una tecnica nota come “light painting” che ricorda proprio le pennellate di vernice.

Quando un osservatore si trova davanti una foto come quella usata come esempio per questo capitolo, pensa immediatamente che sia un fotoritocco o che sia un dipinto iperrealistico o qualcosa di simile. In realtà si tratta di una foto a tutti gli effetti ed è anche un singolo scatto senza particolare post-produzione. Questa foto è infatti realizzata utilizzando una stanza buia, un simpatico soggetto a forma di asinello e una lunghissima esposizione grazie alla quale è stato possibile creare l’effetto delle scie di luce che ne delineano il contorno. In questo paragrafo cercherò di spiegare passo dopo passo come


realizzare una foto di questo tipo. Innanzi tutto cosa è il “light painting”? Come anticipato, si tratta di una tecnica fotografica in cui anziché impostare la fotocamera in modo tale da raccogliere la giusta luce nel minor tempo possibile (ovviamente in proporzione ad apertura, ISO e così via), si tenta di utilizzare delle impostazioni che diano come risultato una foto completamente nera (o comunque molto vicina al nero) nel maggior tempo possibile. Ciò che darà forma e colore alla fotografia saranno infatti delle vere e proprie pennellate di luce artificiale. L‘attrezzatura necessaria per questo tipo di scatti è la seguente: fotocamera qualsiasi, purché si possano regolare tutti i parametri (apertura, ISO, etc.) e che abbia la capacità di effettuare esposizioni di almeno 30 secondi. Servono anche una torcia e un cavalletto stabile rispetto al peso della fotocamera. Un’altra cosa che può essere utile sono un foglio di cartoncino nero e un filtro a densità neutrale (meglio se ad intensità variabile). Il primo passo da effettuare è, come sempre, quello di preparare la composizione. A luci accese, bisogna preparare tutta la scena così come la si immagina per il risultato finale. Chiaramente questa composizione va studiata accuratamente e congelata mettendo la fotocamera sul cavalletto e impostando la messa a fuoco manuale (dopo aver messo a fuoco il soggetto). Questi ultimi due passi sono fondamentali perché l’esposizione sarà lunga, dunque ogni minimo movimento rischierà di creare un effetto mosso poco gradevole, mentre per quanto riguarda la messa a fuoco, poiché si dovrà scattare praticamente al buio, la fotocamera non sarà in grado di mettere a fuoco in automatico e non permetterà di scattare. Una volta preparata la composizione, bisogna effettuare la “prova di oscurità” che servirà per stabilire la condizione di partenza. Bisogna impostare l’apertura del diaframma in modo da ottenere la profondità di campo desiderata, mantenendo le luci accese e usando la modalità di scatto con priorità di apertura. Successivamente, passando alla modalità manuale, si dovranno impostare la sensibilità ISO al minimo possibile e il tempo di esposizione sui 30 secondi. A questo punto sarà possibile spegnere tutte le luci, chiudere tutte le tapparelle e le finestre, siliconare le feritoie… insomma, rimanere al buio. Facendo uno scatto di prova si potrà osservare il risultato: se la foto sarà tutta nera o quasi, allora le impostazioni saranno perfette; se invece fosse già possibile distinguere degli oggetti, allora probabilmente bisognerà intervenire abbassando il tempo di esposizione. Comunque è bene non scendere mai sotto i 20 secondi perché altrimenti non ci sarà il tempo di realizzare l’immagine. Dopo avere preparato tutte le impostazioni arriva il momento di scattare. Basterà usare la torcia come fosse un pennello, dipingendo i colori con la luce sopra il soggetto e creando l’esposizione desiderata. Ovviamente i primi tentativi potrebbero non dare i


risultati sperati ma con un po’ di pratica si riusciranno ad ottenere effetti pittorici e interessanti. Il primo traguardo sarà quello di riuscire a illuminare correttamente la scena come se fosse stata catturata da uno scatto in condizioni di luce ottimali. Quando sarai in grado di riprodurre tale situazione in maniera abbastanza consistente, allora potrai aggiungere gli effetti speciali.

Nella seconda foto d’esempio (l’etichetta è sfocata per motivi di copyright), dopo aver curato l’esposizione di base, ho creato l’effetto di un fuoco che dalla bottiglia raggiunge il bicchiere, lasciando una piccola colonnina di fumo che esce dalla composizione. Per realizzare questo effetto ho utilizzato gli ultimi 10 secondi di esposizione coprendo la lampadina tascabile con le dita. Così facendo, noterete che la luce attraverserà la carne creando un effetto rossastro. Agitando opportunamente le dita dietro l’obiettivo, e immaginando di disegnare la scia infiammata, si potrà quindi ottenere


l’effetto del fuoco fluttuante. Per il fumo è stato sufficiente aprire leggermente le dita e lasciar trasparire un piccolo raggio di luce bianca che ho fatto scivolare velocemente fuori dalla portata dell’obiettivo. Le cose più difficili da fare, in questa tecnica, sono disegnare con l’immaginazione, creando il giusto effetto, e bilanciare la luce dipinta puntando la torcia direttamente verso la fotocamera con quella usata indirettamente per illuminare la scena. Una particolare a cui bisogna prestare particolare attenzione è il bilanciamento del bianco. Bisogna sempre impostarlo al valore più corretto per la sorgente luminosa principale, cioè quella che verrà usata per creare l’illuminazione ambientale di base. Se per esempio si utilizza una luce molto fredda e intensa, allora potrebbe essere necessario impostare sulla luce fluorescente o sul flash. Le fotocamere più avanzate probabilmente riusciranno a gestire bene la cosa usando il calcolo automatico. Rimane comunque consigliato di non mischiare troppi tipi e colori di luce differenti nello stesso scatto e sicuramente non usarne più di uno per l’esposizione di base dei soggetti. Il risultato, in ogni caso, parla da sé. Esistono svariate sorgenti luminose che si possono usare a seconda della scena. Si può usare del fuoco, per effetti spettacolari, oppure si possono usare le stelle filanti, quelle che creano scintille, magari legandole a un laccio e facendole roteare rapidamente in varie direzioni. Anche l’uso di flash esterni può essere utile, specialmente se è necessario “congelare” il movimento di un soggetto. Infatti, se si volesse applicare la tecnica del light painting al ritratto, sarebbe sicuramente necessario valutare di utilizzare un lampo di flash almeno sul volto per poter dare definizione sufficiente a non sfocare il soggetto che, per forza di cose, si muoverebbe almeno di qualche millimetro. Esistono anche svariate app che permettono di utilizzare lo schermo dello smartphone come sorgente di luce colorata: in tal modo è possibile creare effetti particolari, riflessi e sfumature intense, che rendono il light painting veramente simile alla pittura. Per concludere, vorrei aggiungere una nota sull’utilità di cartoncino nero e filtro a densità neutrale. Il primo è semplicemente un pezzo di cartone nero, il secondo è un filtro (anche abbastanza economico) che non dovrebbe modificare in alcun modo la luce se non abbassandone l’intensità e dunque lasciando invariati i colori e tutte le altre caratteristiche. Il primo può essere utile se si sta componendo uno scatto in cui non si ha il controllo delle luci: per esempio, fotografare una strada cercando di creare delle scie luminose delle automobili. Se la strada non fosse abbastanza trafficata, si potrebbe mettere il cartoncino nero davanti all’obiettivo per bloccare temporaneamente l’esposizione, e lo si potrebbe togliere ad ogni passaggio di automobili o in generale di mezzi che abbiano luci in movimento. Quando si fa uso del cartoncino è però necessario utilizzare un telecomando a distanza e la modalità bulb (tempo di scatto continuo fino a che non viene rilasciato il


pulsante). Bisogna tenere presente che può risultare più complesso ottenere l’esposizione corretta, a meno che non si usi un cronometro e si riesca a calcolare il momento in cui si sarà raggiunta l’esposizione desiderata. Il filtro a densità neutrale ha più o meno lo stesso effetto del cartoncino, tuttavia si limita ad attenuare e non a bloccare l’esposizione ma lo fa per tutta la durata dello scatto. Questo filtro è fondamentale in scatti come quello della bottiglia in fiamme. Infatti ho dovuto usare un’apertura del diaframma di f/2.8, per ottenere la corretta sfocatura dello sfondo. Tale apertura avrebbe fatto rapidamente prendere luce all’immagine e senza un filtro del genere non avrei potuto sfruttare 30 secondi di esposizione. In conclusione, usando un filtro ND a intensità variabile ho potuto impostare apertura, ISO e tempo ai valori desiderati e regolare l’esposizione semplicemente aumentando l’intensità del filtro fino al valore corretto.


Star trails: quando le stelle disegnano Fotografare le stelle ha senza dubbio un fascino speciale. Esistono principalmente due tipi di fotografia delle stelle (oltre all’astrofotografia che ha come soggetto esclusivamente le stelle): quella che è volta a catturare un’istantanea del cielo, mostrando dettagli dell’universo insieme a un paesaggio naturale o di città, e le scie stellari o star trails (il termine inglese è più utile per reperire altri tutorial e altro materiale utile in varie lingue), cioè fotografie a lunghissima esposizione che provano a raccontare non un singolo istante ma la storia delle stelle e di un paesaggio in un periodo di tempo che può superare anche mezzora. Il primo genere richiede una fotocamera capace di catturare una scena notturna con una buona gestione della sensibilità e del rumore e un luogo quasi completamente privo di inquinamento luminoso. Di conseguenza, se hai una compatta o uno smartphone o vivi in una città puoi già abbandonare l’idea di praticare questo genere. Paradossalmente può essere più semplice fare delle foto di star trails in quanto l’inquinamento luminoso incide solamente sulla quantità di stelle visibili, tuttavia ne bastano meno rispetto al primo genere per ottenere foto d’effetto, dato che il cielo sarà comunque riempito da delle scie che racconteranno la storia che hai in mente.


Per poter ottenere una foto del genere sono necessari:

- Fotocamera capace di fare scatti continui con esposizioni di almeno 20-30 secondi - Cavalletto abbastanza stabile per tenere ferma la fotocamera durante gli scatti - Cavo o telecomando per lo scatto a distanza - Un posto dove ci sia un discreto paesaggio o soggetto e una porzione di cielo non troppo inquinata a livello luminoso


Iniziamo con qualche dettaglio in più sull’inquinamento luminoso: anche se la notte vista dalla vostra finestra vi può sembrare molto buia, se non riuscite a vedere le stelle è spesso a causa delle condizioni atmosferiche e della quantità di luce prodotta intorno al luogo dove vi trovate. Infatti la luce viaggia per molto più di quanto si possa immaginare. Un piccolo lampioncino di strada può emanare raggi che raggiungono altezze considerevoli, rimbalzando tra le varie particelle d’acqua sospese nell’aria e creando quell’effetto nebulosa che si vede quando si osserva una città illuminata da lontano, specialmente in notti umide e calde. Anche la Luna è un nemico in questo caso, in quanto riflette tantissima luce e si comporta come una grossa sorgente luminosa. Di conseguenza per poter fare uno scatto delle stelle in movimento non è sufficiente scegliere un giorno qualunque ma bisogna fare attenzione a scegliere un giorno e un’ora in cui la luna sia bassa e possibilmente poco visibile, l’aria sia quanto più secca possibile e non vi siano nuvole. Infine è ovviamente necessario trovare un posto dove riusciate a vedere le stelle a occhio nudo. Se non riuscite a vedere molte stelle a occhio nudo allora non riuscirete a fare una foto decente. Un buon riferimento può essere la facilità con cui distinguete il grande carro (che vi servirà anche per orientare lo scatto). Se lo si distingue con facilità e si contano subito una ventina di stelle attorno a lui allora la condizione dovrebbe essere abbastanza buona. Una volta trovate le condizioni atmosferiche e il luogo, bisogna decidere come comporre lo scatto. Per fare ciò è sufficiente conoscere i fondamenti di come funzionano le stelle… in sostanza bisogna trovare la stella polare e comporre più o meno in quella direzione. Polaris è importante perché rappresenta il nord e quindi è un punto di riferimento che si può immaginare come il centro dei cerchi che verranno disegnati dal movimento delle stelle. Più precisamente, li nostro pianeta gira attorno a un asse al cui culmine si trova (orientativamente) la stella polare. Di conseguenza, se provate a immaginare di mettere tante stelle attorno a Polaris e di osservarle da un punto preciso della terra, ci si può rendere conto che sarà la fotocamera a muoversi rispetto alle stelle (rimanendo ferma rispetto a Polaris e al paesaggio), disegnando un cerchio. Detto ciò, è quindi necessario identificare il nord e puntare nella direzione che produrrà la scia che si desidera. Chiaramente più si pone Polaris al centro dello scatto, più le scie risulteranno di forma circolare. A questo punto è possibile cercare di immaginare quale sarà il disegno fatto dalle stelle e comporre quindi il proprio scatto con dei quarti di cerchio, delle linee quasi rette o dei cerchi concentrici. Quando la composizione sarà quella desiderata, sarà giunto il momento di provare le varie impostazioni e di bloccare il cavalletto in modo che non si sposti neppure di un millimetro. Considerando infatti che sarà necessario fare molte esposizioni o un’esposizione molto lunga, anche pochissimo spostamento rischia di compromettere lo


scatto. Nell’esempio presente in questo capitolo, è infatti possibile vedere che a un certo punto le linee si spezzano per spostarsi di qualche millimetro. Questo è dovuto al fatto che a un certo punto della realizzazione ho modificato un’impostazione e il solo movimento di una rotellina, ha causato lo spostamento millimetrico della fotocamera creando quindi il disallineamento. Supponendo di essere in un posto buio come una caverna senza uscite e di avere una fotocamera che in modalità “bulb” possa divorare luce ininterrottamente senza che il sensore si scaldi troppo e che il rumore inizi a rovinarvi lo scatto, potreste fare un unico scatto lunghissimo… sperando ovviamente di azzeccare le impostazioni per cui le zone più luminose non vengano bruciate. Una validissima alternativa è quella di utilizzare la tecnica dello stacking, (letteralmente impilare) cioè quello che una volta si chiamava esposizione multipla. Lo stacking è una tecnica che consiste nel fare più scatti che si sovrappongono tra loro. Sottolineo subito che l’esposizione multipla si faceva anche con la pellicola e che quindi la tecnica dello stacking è più vecchia del digitale ed era ampiamente utilizzata proprio per far fronte a situazioni che invece oggi con il digitale non sono più un problema. Per effettuare lo stacking si possono utilizzare vari software che fanno tutto in maniera praticamente automatica. Uno dei migliori programmi gratuiti è StarStaX. Ovviamente non mancano le opzioni per i software a pagamento. Per esempio in Photoshop è possibile utilizzare funzioni apposite di stacking oppure andare semplicemente (a seconda della versione) a cercare sul menu “file“, sotto gli scripts, la modalità “statistica” che sostanzialmente si occupa proprio di fare questo genere di cose. Il metodo di fusione statistica è un metodo puramente matematico che non fa altro che trattare le immagini come matrici e fondere le immagini pixel per pixel usando una formula basilare, per esempio la media, il minimo, il massimo, etc. Il metodo statistico è uno dei più usati da quasi tutti i software specializzati nella multi-esposizione. Nel caso delle star trails, il modello matematico che ci interessa è il “massimo”, cioè per ciascun pixel di ciascuna foto, l’algoritmo sceglierà il più luminoso. Questo farà sì che il soggetto principale (il paesaggio) rimanga invariato perché dovrebbe essere identico in tutte le foto, mentre nel cielo, che è composto fondamentalmente da un fondo nero (il cielo) e delle piccole scie bianche (le stelle) si componga di una somma di tutte le scie presenti in ciascuna foto. Infatti, in questa tecnica, ogni scatto è di fatto una foto di star trails, solo che avrà solo pochi secondi di scia che poi uniti a quelli di tutte le altre foto andranno a comporre la scia completa. La stessa tecnica si applicava alla pellicola usando un filtro a densità neutrale graduato per fare in modo che l’esposizione della zona luminosa (il paesaggio) fosse ridotta al minimo e potesse quindi essere sommata, e facendo l’impilamento direttamente sulla pellicola, cioè usando la multi-esposizione (scattando più volte senza far scorrere la pellicola). Chiaramente in analogico era più facile fare una


singola esposizione, tuttavia l’uso della multi-esposizione facilitava il calcolo dei tempi precisi per esporre correttamente tutte le parti dello scatto. Dal punto di vista dell’attrezzatura, la cosa positiva è che qualunque reflex o fotocamera di buona qualità che abbia la modalità di scatto continuo a distanza (con cavo o telecomando) va bene. Anche dal punto di vista dell’obiettivo, anche se non si dispone del più costoso e aperto obiettivo, è possibile fare degli ottimi scatti. L’esempio presentato in questo capitolo è stato scattato con apertura f/9, a dimostrazione che non servono obiettivi con aperture fisse di 2.8 o maggiori. Parlando di lunghezza focale, più si sta larghi sull’angolo, maggiore sarà l’effetto di curvatura delle scie visibile nella composizione, quindi si suggerisce un obiettivo grandangolare. La buona notizia è che, tutto sommato, una reflex entry level con il “kit” cioè il classico 18-55 è più che sufficiente per fare uno scatto del genere. Una cosa fondamentale è il cavo con blocco dello scatto: non vorrai mica stare un’ora con il dito sul pulsante di scatto, no? A questo punto, si deve mettere a fuoco il soggetto e bloccare la messa a fuoco spostando l’obiettivo sulla modalità manuale, impostare il tempo di esposizione sui 30 secondi, e fare uno scatto di prova. Di norma l’apertura dovrebbe essere la massima possibile e la sensibilità ISO la più basse possibili. Purtroppo non sempre questo è possibile perché a seconda della capacità del sensore si rischia di far sparire troppe stelle usando una sensibilità troppo bassa e un’apertura ampia aumenta il rischio di flaring e ghosting cioè dei riflessi interni all’obiettivo che possono essere causati da fonti di luce dirette (anche piccole e distanti). Di conseguenza sarà necessario, prima di iniziare gli scatti, fare qualche prova di singoli scatti e scegliere la giusta ISO e la giusta apertura del diaframma. Bisogna analizzare gli scatti di prova attentamente (pena perdere da 30 a 60 minuti in scatti che poi dovrete buttare) per verificare che i livelli di rumore non siano eccessivi, che le scie delle stelle siano visibili e che non ci siano eccessivi riflessi. A questo punto si può iniziare con gli scatti. Una volta collezionati gli scatti, sarà comunque necessario svilupparli prima di poterli impilare. Qui risulta evidente la potenza di programmi come Adobe Lightroom ma in generale di tutti quei programmi che permettono di sviluppare e catalogare immagini raw. Vi troverete infatti con un numero di immagini che potrà variare dalle 60 alle 120 a molte di più, a seconda del tempo che avrete impiegato. Per fortuna, essendo tutti scatti “uguali” sarà sufficiente sviluppare una singola foto e poi sincronizzare le impostazioni con tutte le altre foto. Ovviamente è importantissimo scattare in raw in modo da poter aumentare la chiarezza (clarity) per far risaltare le scie delle stelle e per poter ridurre il rumore usando il fattore di luminanza. Quando sarà terminato lo sviluppo e avrai esportato tutte le immagini, allora potrai


impilarle e goderti il risultato. Infine, ecco le impostazioni usate per il mio primo “star trails”, volutamente selezionato per mostrare cosa aspettarsi da un “primo tentativo”:

- Orientamento: Nord-Nord-Est - Luna: Gibbosa calante - Data e ora: 15 Agosto 2014 - dalle 23.05 alle 23.35 - 55 scatti - 30 secondi di esposizione per scatto - Apertura: f/9 - ISO: 400 - Fotocamera: Nikon D7100 - Obiettivo: Tamron 24-70 f/2.8 - Lunghezza focale 24mm (equivalente a 36mm su FF)

Ultimi suggerimenti: dotarsi di coperta e torcia. La foto d’esempio è stata scattata all’interno di un lido balneare illuminato, ad agosto in Sicilia, tuttavia alcune tra le notti migliori per questo tipo di fotografia sono in inverno dall’alto di una montagna.


Foto senza rumore: la tecnica dello “stacking” La tecnica dello stacking utilizzata per ottenere delle fantastiche scie stellari può essere utilizzata, modificando opportuni parametri, anche per effettuare delle fotografie con la sensibilità ISO particolarmente alta e ridurre al minimo il rumore (cioè quei fastidiosi puntini bianchi e grigi). Innanzi tutto bisogna capire che cosa sono quei puntini che chiamiamo rumore. Innalzando il valore della sensibilità ISO, non si fa altro che aumentare, semplificando, la quantità di energia che andrà a stimolare ogni singolo pixel. Chiaramente questo aumento è in qualche modo artificiale visto che la luce che colpisce il sensore è la stessa di prima. Questa artificialità può quindi causare errori di calcolo da parte dei componenti elettronici che registrano la luce, causando quindi degli sbalzi tra un pixel e l’altro. Questi sbalzi possono risultare quindi in una resa di colore o di intensità di luce completamente diversa da quella reale. Chiaramente, questo tipo di rumore non è deterministico, quindi se effettuassimo la stessa foto due volte, senza cambiare nessun tipo di esposizione, ci troveremmo ad avere due immagini tendenzialmente identiche ma con delle quantità di rumore completamente diverse tra di loro. Proprio per quest’ultimo motivo è possibile usare la tecnica dello stacking per ridurre il rumore. Ovviamente questa tecnica ha dei limiti perché impone di avere a disposizione un treppiedi o comunque un supporto che ci permetta di tenere la fotocamera immobile ed è applicabile solo a fotografie che ritraggono soggetti tendenzialmente statici. Rispetto al metodo matematico di fusione usato per le scie stellari o star trails, in questo caso si utilizzerà la media. Infatti, supponendo di avere 10 immagini identiche, e supponendo di avere 9 misurazioni corrette e 1 errata per un dato pixel, effettuando la media matematica di questi 10 valori otterremo uno che si avvicinerà molto al valore reale. Per mettere in pratica questa tecnica è necessario essere un po’ pratici di strumenti come Adobe Photoshop o Gimp e sapersi muovere tra i vari livelli. Infatti una volta realizzato il livello “senza rumore”, lo si dovrà sovrapporre a quello che viene scelto come base e lo si dovrà sovrapporre parzialmente sulle aree più disturbate, come per esempio il cielo o larghe superfici uniformi, mantenendo invece invariato il contrasto delle zone più dettagliate e importanti dell’immagine.


Fotografare la luna La Luna è da sempre fonte di ispirazione di poeti e artisti. Ogni volta che questo bel satellite si riempie in molti desiderano fotografarlo ma spesso si fanno degli errori banali che possono rendere difficile ottenere il risultato desiderato. In realtà fotografare la Luna è più facile di quel che sembri. Infatti, essa riflette la luce del sole ed è molto luminosa e dunque non richiede particolari impostazioni. Un errore comune è quello di pensare che, essendo una foto notturna, si debbano usare lunghe esposizioni. In realtà, proprio per la forte luminosità della luna, il tempo di esposizione non dovrà mai salire al di sopra di 1/20 di secondo. Inoltre la Luna, come le stelle, si sposta velocemente anche se in maniera che non è percettibile dall’occhio. Se si prova a utilizzare un’esposizione superiore al secondo, si potrà subito notare il movimento del satellite. Infine, per catturare i dettagli senza perdere in profondità, si potrà sempre utilizzare la sensibilità ISO più bassa possibile e un’apertura che può variare da f/5.6 a f/11. Chiaramente può essere utile alzare la sensibilità ISO per avere dei tempi più corti e usare un’apertura minore in casi particolari come la luna bassa in una notte un po’ umida. La messa a fuoco può essere fatta in maniera automatica se si dispone di un buon obiettivo, oppure lo si può regolare a mano dopo aver posto la fotocamera sul cavalletto.

Sintetizzando, l’unica cosa più difficile per fotografare la luna, è quella di avere un obiettivo con una lunghezza focale almeno uguale o superiore ai 300mm in Full


Frame (o 200mm nelle reflex non professionali). Per poter fare questo tipo di foto, la lunghezza focale è l’unico requisito necessario a raggiungere un buon livello di dettaglio dei crateri e del contorno, tutto il resto passa in secondo piano. Esistono in commercio diversi obiettivi molto economici della tipologia 70-300 che possono essere anche molto utili nella fotografia “macro” e per la ritrattistica. Potenzialmente si potrebbe fotografare la Luna con effetti mozzafiato anche con uno smartphone e uno di quei teleobiettivi minuscoli che si possono montare di fronte alle comuni fotocamere dei cellulari. Ovviamente tanto migliore è la qualità del sensore, tanto migliore sarà il risultato finale. Rimane comunque fondamentale poter controllare tutti i parametri quali ISO, apertura e tempo di esposizione. Una piccola nota riguardo agli zoom: l’ingrandimento digitale non conta. Anzi, per dirla tutta lo zoom digitale in realtà non esiste. Un’altra cosa importante è scegliere il momento giusto: una o due volte l’anno la Luna raggiunge i punti di massima vicinanza con la terra (è facile trovarli su internet e spesso ne parlano i telegiornali) e sebbene a occhio nudo sembri che non ci sia molta differenza, questo è dovuto a una normalizzazione effettuata dal nostro cervello, mentre è ben visibile dal sensore della fotocamera. Per verificarlo basterebbe fotografare con la stessa fotocamera, impostazioni e obiettivo, la luna in due momenti diversi dell’anno per rendersi conto di quanto diversa possa essere la dimensione. Anche l’ora della notte è importante. Bisognerebbe fotografare la Luna quando raggiunge la sua massima luminosità (tipicamente quando è abbastanza in alto) e anche per questo esistono app dedicate (e.g. quelle del meteo con le fasi lunari) o siti che danno questo genere di informazioni. Ovviamente se si vogliono ottenere effetti particolari e si ha l’occasione di vedere la luna che sorge dal mare, allora è chiaro che la composizione avrà la precedenza. Infine è utile avere un cavalletto, ma dato che il tempo da utilizzare è inferiore a 1/20 di secondo, si può tentare anche a mano libera (se si ha una mano particolarmente ferma e si è dotati di un obiettivo con stabilizzatore), oppure appoggiando la fotocamera su di un supporto stabile (e.g. una sedia) e disattivando un eventuale stabilizzatore.

Ecco le impostazioni usate per la foto d’esempio: - Fotocamera: Nikon D5000 - ISO: 200 - Tempo: 1/60 sec - Apertura: f/11


- Lunghezza focale: 200mm (associato a un moltiplicatore Sigma 2x per un totale 400mm che equivalgono a 600mm su Full Frame) - Obiettivo: Sigma 70-200 f/2.8 - Stabilizzazione: solo cavalletto (OS dell’obiettivo spento) L’immagine è poi stata ritagliata per eliminare la parte “nera” del cielo in eccesso.



Il ritratto Non tutti i ritratti sono uguali In fotografia si parla di ritratto un po’ come nella pittura, ma ovviamente utilizzando la luce come mezzo. In generale, un ritratto è un’immagine che per l’appunto ritrae uno o più soggetti umani in pose naturali o artificiose. Quando si pensa ai ritratti ognuno li immagina a seconda del proprio bagaglio culturale e la propria immaginazione. Esistono molti tipi di ritratto ed è possibile analizzarli soffermandosi su due aspetti fondamentali: l’inquadratura e la posa. Le inquadrature fanno parte del bagaglio tecnico di base di un fotografo ed esistono regole abbastanza consolidate su cosa fare entrare nell’immagine e cosa no. Tagliare un piede o una mano può creare una dissonanza tale da rovinare anche la più bella delle espressioni. Le inquadrature si possono tendenzialmente sintetizzare nella seguente lista: - Figura intera, in cui il soggetto viene ripreso da capo a piedi. - Piano americano, in cui viene effettuato un taglio all’altezza della tibia e vicino al ginocchio. - Piano medio, con l’immagine che va dal bacino alla testa. - Mezzobusto, con soggetto visibile più o meno solo dall’ombelico in su. - Primo piano, spesso confuso col primissimo, in cui sono visibili spalle, viso e parte del petto. - Primissimo piano, in cui il volto occupa quasi interamente l’immagine. - Particolare, cioè quando l’immagine ritrae per intero un dettaglio, per esempio l’occhio o la bocca. Fotografando le persone si impara presto a riconoscere un taglio fatto male semplicemente perché ci si rende conto di quanto stoni nell’immagine. Ovviamente le eccezioni sono permesse, ma il risultato non è garantito anche perché il giudizio dell’osservatore è sempre soggettivo. Diciamo che se non si è sicuri di quel che si sta facendo, sarebbe sempre meglio attenersi a poche semplici regole: - Non tagliare le dita, piuttosto si escluda l’intero arto.


- Cercare di non tagliare esattamente all’altezza delle giunture (e.g. ginocchia o gomiti), ma lasciare sempre un certo spazio. - Non “mutilare” dettagli, per esempio se si fotografa solo mezza faccia, escludere completamente un occhio e non riprenderne solo metà.

25 - F/2, 1/60s, ISO-400, Sigma 50mm su Nikon D5000 Come per tutte le fotografie, il soggetto è di fondamentale importanza. Nel caso di un ritratto la difficoltà può aumentare perché mette in gioco diversi elementi differenti rispetto ad altri generi. Un bellissimo paesaggio, per esempio, non potrà mai sentirsi in imbarazzo e risultare meno fotogenico. Costruire la posa è la parte più difficile in un ritratto. Tutti i ritratti possono in qualche modo essere categorizzati in uno di questi tre tipi: - Business, di tipo formale e tipicamente orientato a trasmettere autorità, sicurezza e professionalità. - Glamour, diffusissimo per le riviste di moda e volto a suscitare emozioni forti e interesse nell’osservatore.


- Casual, cioè tutti quei ritratti naturali o comunque legati a situazioni di vita quotidiana e capaci di trasmettere i più disparati messaggi. In ciascuno di questi casi è opportuno valutare abbigliamento e location che siano intonati e che non creino complicazioni con le luci e gli strumenti necessari per portare a casa il lavoro. In tutti i casi, la parte più complicata è sicuramente costruire una buona posa che sia in grado di trasmettere il messaggio che il soggetto ritratto vuole dare e al tempo stesso che sia piacevole o interessante alla vista dell’osservatore. In queste fasi si nascondono le maggiori difficoltà perché non tutte le persone si trovano a proprio agio di fronte all’obiettivo e al centro dell’attenzione, altre potrebbero non essere in grado di adattare velocemente la forma del proprio corpo in maniera coerente con quanto immaginato. Diventa quindi importante per il fotografo cercare di mettere a proprio agio il soggetto, cercando di fare da guida e di comprendere quale sia il risultato desiderato. Iniziare facendo delle pose semplici e “di riscaldamento” è un buon modo per rompere il ghiaccio. Ovviamente la comunicazione è importantissima: anche mettendo uno schermo con le foto che scorrono in diretta o degli specchi, il soggetto avrà costantemente bisogno di feedback per capire se sta facendo bene o se deve correggere qualcosa. In tutti i casi di fotografia di ritratto esiste un metodo comune per cercare di ottenere lo scatto perfetto, cioè cercare di far sì che chi viene fotografato si immedesimi in un personaggio oppure viva e immagini esattamente ciò che si vuole ritrarre. Per esempio, per realizzare un ritratto formale dell’amministratore delegato di un’azienda giovane, si potrebbe suggerire al soggetto di assumere una posa delle spalle che sia autoritaria pur mantenendo un leggero sorriso, inclinando un po’ la posizione in modo da trasmettere una certa flessibilità. Un’alternativa molto più comprensibile potrebbe essere quella di chiedere di prepararsi come se si dovesse affrontare un discorso di incitamento ai propri collaboratori a seguito di un riconoscimento importante ricevuto dall’azienda. Entrambe le indicazioni volgono verso lo stesso risultato, ma per il soggetto sarà molto più semplice assumere la giusta espressione degli occhi e del sorriso e tensione muscolare se vi associa una situazione che in effetti vuole rappresentare. Le indicazioni tecniche vere e proprio tipo “sposta il braccio un po’ a destra” rimangono comunque molto valide ma tendono a creare un clima di distacco dal contesto e dalla fotografia stessa. Un’altra buona tecnica per ottenere le pose più giuste è quella di mostrare letteralmente la posa. Inizialmente può sembrare strano e imbarazzante, soprattutto quando si fanno ritratti più orientati al glamour o al fashion, tuttavia è anche molto efficace perché l’uomo è, per sua natura, propenso a imitare visivamente che non ad


elaborare e trasformare parole e pensieri in immagini.

26 - F/9, 1/125s, ISO-100, 44mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Ecco quindi tre consigli per iniziare con ciascuna delle tre tipologie, uno sulle


luci, uno sulla gestione del soggetto e uno sulla location: Business Preferire impostazioni classiche con una luce principale, posizionata ai 45° e diffusa con un softbox, un riflettore con cui riempire le ombre e, in base alla location, una luce da posizionare alle spalle del soggetto per creare profondità Intrattenere una conversazione che rilassi l’atmosfera, senza però sfociare nell’informalità. Infatti può tornare utile che il soggetto continui a sentire a livello emotivo un minimo di situazione formale. L’ideale sarebbe usare l’ufficio o il posto di lavoro, ma più in generale basta una parete a sfondo uniforme, possibilmente di un colore neutro Glamour Sperimentare con le luci può essere divertente, ma iniziare con un set a tre punti aiuta a ottenere i primi risultati apprezzabili, possibilmente usando una luce principale ampia e diffusa con un beauty dish o con un softbox (gli effetti sono leggermente differenti), frontale e rialzata e un riflettore immediatamente sotto per bilanciare le ombre. Può fare la differenza avere la terza luce che sia una backlight, cioè una luce da puntare alle spalle del soggetto per creare drammaticità e contrasto. Assumere pose glamour può essere imbarazzante anche per modelle con esperienza, quindi cercare di prendere il lato divertente della posa può essere utile a far rilassare il soggetto. Rimane ugualmente importante suggerire alla modella di immaginare un personaggio e imitarlo, che sia un’attrice, una cantante o una modella di copertina, in modo che sia ispirata dal suo stile e guardi l’obiettivo cercando di apparire esattamente come desidera essere vista, per esempio misteriosa, irraggiungibile, acqua e sapone, femme fatale, etc. Per il glamour non esiste una location preferita. Normalmente il classico lenzuolo bianco o nero da sfondo è il punto di partenza, ma più generalmente sarà opportuno sviluppare un tema e trovare quindi un dettaglio di arredamento, per esempio un divano retrò o una sedia elegante, con cui creare una cornice al personaggio che si vuole mettere in scena Casual


La luce nel ritratto casual deve essere quanto più naturale possibile, che non significa non usare flash o luci artificiali, ma semplicemente cercare di replicare quello che farebbero i raggi di sole in quelle condizioni. Per esempio in una foto in casa, bisognerebbe usare una sola luce molto ampia, come un softbox, che arrivi dalla stessa angolazione di una finestra colpita dal sole e coperta da tende bianche. Per bilanciare le ombre bisognerebbe sfruttare le pareti e i riflettori per ridurre o aumentare i contrasti, usando per esempio superfici argentate o completamente bianche. “Che faccio?” è la domanda più comune di chi posa per un ritratto casuale. La risposta è “quello che faresti se fossi nella situazione X”. L’importante è trasmettere quel senso di quotidianità tipico di un ritratto del genere. Una buona tecnica è quella di giocare sul tema del relax, cioè costruire la posa del soggetto in modo che sia ritratto in un momento di riposo, per esempio mentre attende poggiato al muro o seduto comodamente su di un divano o sui gradini di una scala. Parchi, divani, case belle e illuminate, il disordine di una stanza o lo studio dove si mettono in pratica le proprie idee creative. Un ritratto casual ha come location perfetta qualunque posto dove il soggetto si sente più a suo agio.

27 - F/3.5, 1/20s, ISO-800, 30mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100


Studiare se stessi Una delle maggiori complessità nello studio del ritratto fotografico è trovare un soggetto da fotografare. La soluzione è in realtà a portata di mano. L’autoritratto è un modo molto efficace non solo per imparare le tecniche fotografiche ma anche per conoscere meglio se stessi. In questo breve paragrafo voglio mettere insieme una lista di suggerimenti veloci suddivisi in due categorie: l’autoritratto per la tecnica fotografica e l’autoritratto per diventare fotografi migliori

Studia e replica le pose che immagini di voler fotografare, focalizzandoti su quelle che sono le difficoltà maggiori, come per esempio tenere inarcata la schiena oppure respirare e contemporaneamente mantenere il sorriso naturale e così via. Trova dei trucchi che potrai poi suggerire al tuo soggetto. Può sembrare imbarazzante e buffo all’inizio ma è il modo migliore per saper dirigere una sessione fotografica in cui un’altra persona dovrà posare secondo le tue indicazioni. Impara che la profondità di campo è importante e che lo sfondo sfocato può essere piacevole ma ricordati che eccedere con l’apertura del diaframma può dare livelli di messa a fuoco differenti anche nel volto e nel corpo e rovinare un ritratto. Fai tanti scatti e gira il volto in più direzioni e in diverse posizioni rispetto alla luce principale e guarda con attenzione come cambia l’effetto tra uno scatto e l’altro. Concentrati sugli occhi e su come le luci che ti poni attorno agiscono su di essi. In un ritratto gli occhi sono quasi sempre l’elemento principale che domina tutto il resto. Impara a fotografarli e a dare il giusto taglio e inquadratura per valorizzarli. Osserva i dettagli: usando macchine fotografiche con molti megapixel ti renderai conto che ogni piccolo difetto (presente anche nella migliore delle top model) della pelle o degli abiti salterà fuori. Prova a modificare le luci, l’inquadratura e il taglio per minimizzarli. Non è piacevole spendere delle ore in post produzione a correggere piccoli puntini o difetti che potevano invece essere nascosti naturalmente. Ottimizza la distanza, cioè impara come al variare della lunghezza focale cambia anche il rapporto con la fotocamera. Il soggetto che viene fotografato è fortemente influenzato dallo spazio che lo separa dalla macchina fotografica, pertanto deve essere il


fotografo il primo a sentire l’effetto della distanza e a capire quale sia quella migliore per mantenere il soggetto a suo agio. Un esempio estremo può essere l’uso di un grandangolo. La prospettiva, unita a questo tipo di obiettivi, può modificare notevolmente la percezione della fisionomia di una persona, riducendo o aumentando drasticamente le dimensioni di testa, fianchi, naso e così via. Conoscere come una certa lente, a una certa distanza, modifica l’apparenza di una persona, sarà il miglior modo per renderla soddisfatta. Luce, luce e ancora luce. Fotografare le persone è difficile principalmente perché ciascuno è spesso il giudice più severo di se stesso, dunque realizzare un ritratto che piaccia al soggetto può essere un’impresa ardua. Prova tutto ciò che hai a disposizione, dai flash ai riflettori fino all’utilizzo di luce naturale proveniente da finestre o altre sorgenti. Più si conosce l’effetto che la luce avrà sul volto e sul corpo, meno difficile sarà ottenere un buon risultato.

L’autoritratto può essere molto utile, come descritto nelle righe precedenti, per migliorare la tecnica, ma è soprattutto importante per imparare che un ritratto non è solo una fotografia che rappresenta l’aspetto di una persona. Un ritratto può essere molto di più perché può rappresentare ciò che il soggetto, ciò che vuole apparire o ciò che si vuole che l’osservatore percepisca. In un ritratto aziendale, un capo vorrebbe che la foto tirasse fuori dalla sua immagine qualcosa che ispiri fiducia e capacità di guidare una squadra di persone. Allo stesso modo, un ritratto per una pubblicità dovrebbe suscitare l’interesse verso il prodotto e creare emozioni positive. L’autoritratto è forse lo strumento migliore per capire quanto sia difficile e al tempo stesso importante essere in grado di trasmettere emozione attraverso uno sguardo catturato da un sensore grazie a una certa serie di luci. L’esercizio da realizzare è molto semplice da capire ma non altrettanto da mettere in pratica ma di sicuro effetto: realizza un autoritratto che ti rappresenti. Raccontare se stessi con una foto è un esercizio creativo e introspettivo molto difficile, che richiede pazienza, studio e onestà verso se stessi. Questo tipo di autoritratto può essere realizzato in diversi contesti temporali o situazionali: si può rappresentare se stessi nell’arco della vita, nel lavoro, nella vita sentimentale o a seguito di un evento. La particolarità di questo esercizio è che non smetterà mai né di farci imparare dal punto di vista tecnico e creativo, né conoscere meglio noi stessi.



Fotografare gli altri Quando ci si appassiona di ritrattistica o di fotografia per la moda, si comincia a sentir parlare di queste due sigle: TFCD e TFP. In questo capitolo cercherò di spiegare cosa sono e come si organizzano, analizzando le varie fasi e fornendo una lista di suggerimenti per chi fotografa e anche per chi si fa fotografare. Cosa significa e cosa è un TF* Innanzi tutto, le sigle stanno per “Time For Print” o “Time For CD” e rappresentano dei servizi fotografici a tutti gli effetti con un taglio professionale, non retribuito o al massimo con soli rimborsi di piccole spese. Il termine sarebbe generico per qualunque genere fotografico, tuttavia si è diffuso ampiamente per quello che riguarda i servizi fotografici fatti con modelli e modelle. Il nome inglese significa, tradotto letteralmente, “tempo in cambio delle stampe” o “tempo in cambio del CD”, e stanno a indicare il fatto che il fotografo e il modello effettuano un mutuo scambio in cui anziché utilizzare la moneta si usano tempo e risultato del servizio fotografico. Ai tempi della pellicola era frequente che si fornissero le stampe, pertanto si chiamava TFP, oggi è più comune che si forniscano le foto in digitale per cui si usa il termine TFCD, TFD (Time For Digital) o TFDVD (Time for DVD). Un TF* (metto * per indicare tutti i possibili supporti su cui vengano fornite le foto) è implicitamente uno scambio con mutuo vantaggio privo di transazioni pecuniarie, che non richiede partita iva o altre forme di fatturazione e di natura non professionale da un punto di vista fiscale. Tuttavia un servizio fotografico di questo tipo tenta di conservare intatti tutti gli altri aspetti di professionalità e serietà che ci sono in un normale lavoro. La principale differenza tra un TF* e un servizio pagato è che il TF* viene fatto per un mutuo vantaggio sia di chi fotografa che di chi viene fotografato e di solito i risultati vengono condivisi con pari diritti di utilizzo o comunque ne viene bilanciato il valore. Un TF*, pertanto, richiede lo stesso tempo, impegno e flusso di lavoro di un servizio fotografico professionale e ciò significa che non è qualcosa che si fa giusto per passarsi il tempo, a meno che non si voglia trascorrerne un po’ lavorando gratis. Chiamare TF* una sessione fotografica fatta tra amici, senza post produzione né un obiettivo da raggiungere è un po’ una storpiatura e sarebbe un po’ come chiamare “gran premio” una gara di mountain bike tra amici. Entrando nell’ambito di cosa invece non è un TF*, basta pensare alle situazioni che normalmente richiederebbero un pagamento. Una modella che chiede a un fotografo, il quale non ha bisogno di allargare il suo portfolio, di scattare delle foto, e poi aggiunge


che vorrebbe farlo in TF*, sta in realtà chiedendo un lavoro gratis. Allo stesso modo, un fotografo che chiede a una modella che non ha bisogno di un portfolio, di posare in TF*, sta solo chiedendole di regalargli la sua immagine. Non c’è differenza tra questo e il classico (e da sempre dibattuto con lamentele spesso veementi) tema del negoziante o della rivista che chiede le foto a un fotografo in cambio di visibilità. Se non c’è il mutuo vantaggio bilanciato tra le due parti, si tratta di sfruttamento, non di TF*. A cosa serve il TF* e chi lo organizza I TF* servono, sia a chi fotografa che a chi fa da soggetto, principalmente per ampliare o rinnovare il proprio portfolio ma possono essere utili anche per studiare e imparare a utilizzare l’attrezzatura da studio, nuovi obiettivi, nuovi setup di luce, le pose e le espressioni, colori e trucchi e così via. Generalmente il TF* viene condotto dal fotografo ma ad organizzare potrebbe essere una persona qualunque tra quelle coinvolte, quindi potrebbe essere anche una modella che vuole realizzare un particolare tipo di book ed è disposta a fare da cavia per un fotografo in vena di sperimentazione, oppure potrebbe essere organizzato da una MUA (Make Up Artist) per provare delle nuove esplorazioni artistiche di un particolare trucco. Il TF* può anche servire per avere visibilità: per esempio una modella potrebbe farsi fotografare in TF* da un fotografo affermato giusto per apparire nel suo portfolio. Lo stesso potrebbe fare un fotografo esordiente per una modella già conosciuta nei giri della moda. Chi ha il diritto di utilizzo delle foto? La risposta a questa domanda è: dipende. In generale ci si accorda e si decide quali utilizzare e quali no. Normalmente si ha pari diritto di utilizzo delle foto ma è importante che tutte le parti abbiano l’opzione di escludere la pubblicazione di una o più foto. Questo è fondamentale perché è se una modella fosse venuta male in una foto e il fotografo decidesse di pubblicarla, ciò potrebbe essere un danno più che un vantaggio per la modella. Allo stesso modo, se la modella riuscisse a venire in possesso di foto non tecnicamente buone e le pubblicasse, questo sarebbe un problema per il fotografo. In generale ci si accorda prima e si decide quante foto si potranno utilizzare per ciascun portfolio. Si può decidere di usare foto diverse o di avere accesso alle stesse foto, tuttavia normalmente lo si fa in accordo. Ovviamente questo vale per tutte le persone coinvolte. Se per esempio, oltre a fotografi e modelli, ci fossero anche dei MUA, anche loro avrebbero diritto di contrattare su quello che sarebbe il risultato finale. Se il TF* si realizza tra persone fidate, ci si può anche accordare verbalmente o a posteriori, ma in generale è meglio avere ben chiare le idee e gli obiettivi fin dall’inizio.


Come si entra nel giro dei TF*? In realtà entrare nel giro dei TF* è molto semplice, tuttavia non si può iniziare da inesperti totali. Esistono moltissimi gruppi sui social network e siti dedicati, dove è possibile contattare modelli, fotografi e truccatori per proporsi o per proporre uno shooting. Ovviamente è necessario presentarsi con qualcosa che mostri quale vantaggio ne possa trarre l’altra parte. Se non si ha un portfolio, neppure su facebook o su flickr, difficilmente una modella accetterà di farsi fotografare. Per entrare nel giro, quindi, sembra banale dirlo, ma bisogna fotografare tanto e mostrare il meglio. Fotografare modelle principianti che siano disposte a studiare e crescere insieme può essere sicuramente un buon modo per iniziare. In secondo luogo è bene frequentare in maniera attiva persone che siano disponibili per TF* e gruppi sui social network. Questo tipo di interazione aiuta sia ad imparare molto su tali servizi, sia a trovare persone disposte a collaborare. Una volta entrati nel giro e con un buon portfolio, si comincerà ad essere contattati (sia fotografi che mua e modelli) direttamente e qualche volta (a seconda di quanto tempo ci si dedica) anche per lavori pagati. Come si organizza un TF* Il TF* è composto fondamentalmente da tre parti: 1) Pianificazione: durante questa fase, che è meglio iniziare quanto prima (e non c’è un troppo presto, può anche essere un mese prima), è necessario stabilire quale sia l’obiettivo del TF*, per esempio ampliare il portfolio con un tema specifico, studiare un’emozione o un sentimento, realizzare un book con dei colori o delle ambientazioni specifiche e così via. Stabilire l’obiettivo servirà quindi per pianificare la logistica, per esempio trovare un campo fiorito o una fabbrica dismessa. Quando questi dettagli saranno stati stabiliti, si potrà cominciare a cercare il collaboratore (fotografo o modello che sia). Bisogna essere pronti a cambiare anche quasi totalmente i propri piani poiché, trattandosi di un TF*, anche gli altri collaboratori potrebbero voler esplorare tecniche, ambientazioni, colori e così via e quindi bisognerà accordarsi. Proprio per questo motivo è importante pianificare molto in anticipo e parlarsi il più possibile. In questa fase è importante che il fotografo faccia una pianificazione degli scatti che vuole realizzare, trovando delle foto simili o creando dei bozzetti con cui spiegare le sue idee ai modelli e ai MUA. Questo renderà molto più fluido il lavoro di realizzazione e minimizzerà le correzioni in post produzione.


I modelli, a loro volta, devono essere disponibili a mostrare le loro idee, facendosi delle foto anche di bassa qualità, ma che diano l’idea degli abiti, dell’ambientazione e della forma artistica che vogliono esprimere. Se il TF* è condotto dal fotografo o non si vuole spendere tempo nello studio delle idee, sarà comunque utilissimo condividere le idee per gli abiti che si intende utilizzare con il fotografo con un certo anticipo. In questo modo sarà possibile evitare di trovarsi il giorno dello shooting con dei colori che non vanno assolutamente bene per gli sfondi o le luci, con degli accessori fuori luogo o dei pezzi mancanti. La pianificazione è anche la fase in cui si stabilisce quale dovrà essere il risultato, chi potrà pubblicare cosa ed eventuali rimborsi di spese. Tutte queste cose vanno stabilite prima e messe nero su bianco se necessario. 2) Realizzazione: la realizzazione è la fase sicuramente più importante in cui, a prescindere dalla pianificazione, si improvviserà tanto e ci si troverà a fronteggiare difficoltà e idee impreviste. In ogni caso è importante rispettare i tempi, quindi arrivare puntuali e arrivare in piena forma. Evitare di prendersi una sbornia o di far tardi il giorno prima. Sicuramente è utile mangiare leggero (ma non troppo da avere fame) e portarsi sempre qualche piccolo snack con cui rifocillarsi nelle pause e preparare il giorno prima tutto quanto servirà per lo shooting. Difficilmente infatti il fotografo avrà quell’eyeliner che vi serviva ed è veramente poco probabile che la modella abbia casualmente nella borsa un trigger per flash. Se non ci si conosce, è utile sicuramente vedersi un po’ prima dell’ora dello shooting per prendersi un caffè e parlare, in modo da entrare un minimo in sintonia. Iniziare con degli scatti semplici può aiutare a sciogliersi un po’, ma è importante stabilire quanto prima possibile la relazione tra fotografo e soggetto fotografato, in modo da capire i limiti e i comportamenti che possono influire sul risultato, mettendo a proprio agio o imbarazzando il collaboratore. Ovviamente la prima cosa da fare è sbrigare le parti burocratiche, cioè firmare liberatorie e pagare eventuali rimborsi spese. Se il lavoro prevede molti cambi, fate in modo di avere una zona abbastanza confortevole e riservata dove modelli e modelle possano prendersi i loro spazi e sentirsi al sicuro da occhi indiscreti e dove possano eventualmente fare esercizi di preparazione. Avere sempre uno specchio e dell’acqua a portata di mano è una cosa molto utile. La realizzazione deve coinvolgere solo le persone concordate. Non portate quindi assistenti o altre persone curiose se non prima concordato con chi dovrà essere fotografato. Tra l’altro, farlo non andrà a vostro vantaggio perché potreste mettere in imbarazzo il soggetto e quindi avere delle foto di qualità inferiore. I modelli e le modelle,


invece, non dovrebbero mai andare da soli ma nemmeno con una carovana al seguito. Infatti è importante avere qualcuno che possa aiutare a sistemare vestiti e trucco che da soli potrebbero essere complessi da gestire. Un appoggio morale è sempre utile e inoltre, soprattutto quando si lavora con degli sconosciuti, è sempre bene non essere da soli. Poiché si tratta di foto normalmente di studio o di portfolio, non risparmiate sul numero di scatti. Uno dei vantaggi del digitale è proprio questo, quindi approfittatene per scattare molto più di quanto fareste in un lavoro retribuito poiché vi servirà a studiare la tecnica e gli errori, e la modella potrà valutare come apparire fotogenica e al meglio anche in durante una raffica di foto. 3) Post-produzione: la post produzione può essere concordata e in realtà potrebbe anche essere opzionale. Se per esempio il TF* è stato chiesto da una modella e il fotografo ha accettato perché vuole aggiungere foto d’archivio da usare magari un domani come portfolio, allora si potrebbero fornire delle elaborazioni grezze. In questi casi, tuttavia, la modella potrebbe chiedere di avere anche delle copie dei file RAW, da far postprodurre da qualcun altro. Per questo motivo normalmente la post produzione viene inclusa sempre o viene esplicitamente concordato che sarà un mero sviluppo tecnico canonico senza particolari interpretazioni o elaborazioni da parte del fotografo. In uno shooting di questo tipo, la post-produzione include solitamente almeno: - Sviluppo con correzione dell’esposizione, ombre e luci. - Rimozione dettagli di disturbo (e.g. impronte sulla parte bassa del fondale, elementi che appaiono sullo sfondo o sui bordi). - Ritaglio delle foto per correggere eventuali problemi di composizione. Inoltre è normalmente molto utile occuparsi anche dei seguenti aspetti: - Regolazioni su curve e colori. - Rimozione piccole imperfezioni (anche le più perfette tra le modelle hanno piccole imperfezioni che i sensori di oggi rilevano pienamente) come capelli sulla fronte, piccoli brufoli, etc.


- Elaborazioni particolari (e.g. viraggi in bianco e nero) E la liberatoria? Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Se si scatta con persone che si conoscono benissimo allora si può stare generalmente più tranquilli. Se si fanno dei lavori in TF* con delle persone che non si conoscono, si dovrebbe sempre e comunque avere una liberatoria da parte di chi viene fotografato, che dimostri che si è stati esplicitamente autorizzati a pubblicare quelle foto o a usarle per il proprio portfolio. Ovviamente se non si ha intenzione di pubblicare le foto ma si fa un TF* di solo studio personale, allora la liberatoria non serve. Tenete conto che, nonostante la liberatoria, bisogna sempre essere pronti a rimuovere le foto dal proprio portfolio su richiesta del modello o della modella, perché esistono diversi cavilli legali per cui la liberatoria possa decadere. In generale è sempre meglio evitare di entrare in questo conflitti di tipo legale connessi alla privacy. Rimane comunque possibile, anche dopo aver tolto le foto dall’ambito pubblico, utilizzare le foto per visioni personali, ossia ristrette a una limitata e controllata cerchia. Suggerimenti finali Infine ecco una lista di cose da tenere a mente quando si fa un TF*: Per chi fotografa: Il TF* non si limita ai soli scatti. Esso include pianificazione, idee, coordinamento di persone e tanta post produzione L’attrezzatura coinvolta dovrà essere la stessa di quella che si userebbe in un servizio professionale. Non sarà retribuito ma è sempre un lavoro da cui si guadagna qualcosa che non è fatto di soldi. Affrontare sempre un TF* con umiltà a prescindere dalle proprie competenze e dalle possibili incompetenze di chi partecipa. Chi partecipa a un TF* di solito è lì per imparare e non troverebbe piacevole il fatto di essere trattato come un incompetente. Pianificare, pianificare e pianificare. L’improvvisazione ci sarà sempre, quindi è meglio focalizzarsi su quello che si vuole ottenere senza pensare che la sola creatività del momento basterà a far sì che il servizio vada bene. Non concentrarsi su se stessi, ma studiare quello che dovrà essere anche il lavoro dall’altra parte, quindi pose, trucco abiti, colori, etc.


Divertirsi. Non essendo un lavoro è la migliore occasione per affrontare la fotografia con la leggerezza di chi si diverte e senza la pressione di un lavoro. Non avere fretta. Certe volte è inevitabile ma avere troppa fretta farà sì che si perda solo troppo tempo (per esempio dimenticarsi di un dettaglio durante gli scatti potrebbe implicare molto tempo in più in post produzione) Ricordarsi che non basta avere una super modella perché le foto siano belle. Per chi viene fotografato: Entrare nel mood. Fare uno shooting significa interpretare personaggi, emozioni, sentimenti e così via. A meno che non ci si chiami Venere, per ottenere buone foto, non dipende tutto dal fotografo. Esercitarsi per almeno un paio di giorni prima dello shooting: mettersi davanti allo specchio e provare le pose, i vestiti e le espressioni facciali. 10 minuti al giorno aiuteranno a prendere fiducia in se stessi e a essere più naturali di fronte all’obiettivo. Imparare a conoscere il proprio corpo e il proprio volto. Bisogna aspettatarsi che il fotografo chieda quale sia il lato e la posizione preferita, per esempio in piedi, seduti, sdraiati, oppure con che vestiti si è più a proprio agio. Le foto sono un gioco di squadra e non basta essere belli o che il fotografo sia tecnicamente bravissimo. Conoscere i propri punti di forza aiuterà il fotografo a tirare fuori il meglio dal soggetto. Informarsi sui trucchi delle pose guardando filmati e tutorial su youtube, vimeo e compagnia bella. Posare è più difficile di quanto sembri e riuscire a non avere la stessa espressione facciale per due ore non è per nulla facile. Divertirsi. Non è un lavoro, si sta imparando e non c’è pressione. Questo vale anche e soprattutto per i modelli. Ricordarsi che non basta che il fotografo sia un genio per delle belle foto, ma che non è neppure necessario essere Venere o Narciso. La bellezza è in tutti e lavorando bene con chi ha occhio si possono sempre fare delle foto bellissime e di grande impatto.



Fotografia: un viaggio che non termina mai Mentre scrivevo questo piccolo manuale sono tornato in una città che ha rappresentato per me una pietra miliare nel mio percorso di crescita fotografica: Budapest. Questa città è, a mio avviso, meravigliosamente carica di storia, cultura, arte, tradizione, buon cibo e belle persone (non tutte… come in tutto il mondo suppongo). Si possono ancora percepire le cicatrici della guerra e la forza di un popolo che ha comunque saputo fare tesoro dell’esperienza per riemergere e vivere al meglio l’eredità di principi e dominatori che hanno lasciato in eredità strutture architettoniche uniche e influenzato il modo di vivere delle persone. Convivono negli stessi spazi sia il progresso, evidente in ogni angolo, le piazze e i negozi pieni di turisti, che le vie povere, la periferia ancora in crescita, mezzi di trasporto fatiscenti e servizi pubblici arretrati. Insomma, si tratta di una città che ha moltissimo da raccontare.

28 - F/2.8, 1/4s, ISO-100, 36mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Durante questo viaggio mi sono ritrovato a pensare alla mia prima volta in questa città: ero in viaggio con il liceo, insieme ai miei compagni di scuola. Il viaggio d’istruzione (o distruzione come lo chiamammo a suo tempo) sarebbe stato un giro culturale sicuramente meno apprezzabile di chi la vive dopo avere passato i trent’anni. Ricordo di avere preparato con dedizione la piccola compatta analogica color bordeaux


che avrebbe immortalato la mia prima volta fuori dall’Italia. Ricordo che scattai le foto con attenzione, cercando di studiare (per quanto fossi preparato a quel tempo) l’inquadratura e di evitare di buttare via scatti preziosi. In fondo era la pellicola a limitarmi. Ho ancora davanti agli occhi il momento in cui rischiai di farmi male, durante un’escursione in un agriturismo, per fotografare un cavallo al galoppo, inclinato durante una curva. La cosa che però ricordo di più è la delusione che mi colpì quando aprendo la macchina fotografica mi accorsi che il rullino non si era agganciato bene e che la pellicola non aveva catturato nessuna delle mie foto. Fu un colpo al cuore e fu il momento in cui decisi di acquistare la mia prima macchina digitale, una Fujifilm compatta da 2 megapixel, con la quale ebbi la possibilità di studiare con maggiore dedizione, ripromettendomi che non sarebbe mai più accaduta una cosa simile. Questo mi ha portato a fare diverse altre riflessioni, sempre durante il viaggio, che riguardano il perché si fanno foto in viaggio e quindi come organizzarsi al meglio, e come viaggiare possa aiutare a diventare migliori fotografi. Con questo capitolo voglio quindi condividere alcune cose che credo possano essere utili per ottenere il meglio dalla fotografia quando si viaggia, e viceversa, quali aspetti tenere in considerazione per migliorare la propria fotografia viaggiando:

La fotografia è un ottimo modo per godersi il viaggio. Pianificare in anticipo cosa vedere, attraverso gli scatti fatti da altri può aiutare a scegliere dove andare, soprattutto se non si ha il tempo di visitare tutta la città. Le foto di altri fotografi possono inoltre ispirare gli scatti che vorremo tenere come ricordo della nostra vacanza. Ma la cosa fondamentale è ricordarsi che la prima cosa di cui godere è il viaggio. Per fare belle foto l’attrezzatura può aiutare, ma portarsi dietro un arsenale può risultare faticoso, soprattutto se si fanno lunghe passeggiate. Portare quindi il minimo indispensabile è fondamentale per godersi la vacanza senza stress da fotografia compulsiva. Un obiettivo che copra una buona lunghezza focale (dall’entry-level 18-200 al più professionale 24-70) aiuta sicuramente a non dover cambiare obiettivi durante le nostre passeggiate. Comunque direi che non si devono avere mai più di due obiettivi se non si vuole rischiare un forte mal di schiena o mal di testa a fine giornata. Meno roba a cui fare attenzione significa più libertà di godersi il luogo che si sta visitando. Un cavalletto è sempre utile sia per scatti serali che per farsi degli autoscatti decenti dato che nella maggior parte dei casi i passanti che potrebbero farci uno scatto non saranno in grado di inquadrature soddisfacenti. Guardare una città con gli occhi di un fotografo aiuta a percepire quello che il luogo ha da raccontare, la sua storia e la sua cultura. Cerca quindi “la Foto” con la F


maiuscola ovunque, anche se poi alla fine non dovessi trovarla. Che ti trovi in un mercato, in un vicolo o in un pub, osserva sempre tutto con l’avidità di chi vuole raccontare la città in uno scatto. Non premere il pulsante di scatto compulsivamente poiché in questo modo raggiungerai in poco le migliaia di fotografie e perderai il gusto della ricerca. Questo però non significa farne poche… non bisogna neppure perdersi ciò che un domani vorrai ricordare.

29 - F/22, 10s, ISO-100, 48mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Ricordarsi sempre il motivo di una fotografia. Quando si viaggia si ha sempre


un perché per ciascuna foto. Non bisognerebbe mai sprecare una foto per il solo gusto di dire “faccio una bella foto”. Che sia per preservare un ricordo, per raccontare un momento o un elemento culturale o storico, l’importante è avere sempre bene chiaro il motivo alla base di una foto. Riflettere su questo aspetto farà sì che quando riguarderai quella foto, rivivrai quel momento come se fosse accaduto solo pochi minuti prima. Provare per credere. Raccontare la città attraverso i nostri scatti è il miglior modo per assimilarne cultura e tradizioni. Sia che ci si diverta a fotografare un piatto tipico o che si catturi l’immagine di un monumento memoriale, si deve cercare di farlo come se si stesse lavorando per una rivista o un giornale e quindi si volesse raccontare e far provare all’osservatore ciò che caratterizza veramente quella città. Ciò renderà le foto più interessanti e ci costringerà a studiare e capire cosa sta dietro a quello specifico soggetto. Per esempio, se passeggiando per il lungo Danubio vi imbatteste su una serie di scarpe di metallo installate sulla riva del fiume, non limitatevi a fargli una foto per ricordare di essere stati li, ma cercatene le origini e provate a raccontare, attraverso i colori, la composizione e altro, la storia che vi è alle spalle, trasmettendo la drammaticità dell’evento e la sensazione che si prova a stare lì davanti.


30 - F/2.8, 1/400s, ISO-100, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Cambiare punto di vista è fondamentale se non si vogliono fare le banali foto da turisti. Sia chiaro, alcuni monumenti o luoghi delle città che si stanno visitando meritano sempre una foto classica, tuttavia cercare di vivere un luogo osservandolo da un certo punto di vista che sia diverso da tutte le foto che si trovano in giro può aiutare a trovare ogni singolo particolare della tradizione e della peculiarità del posto. Per esempio, trovarsi di fronte alla sinagoga dove sono esposte le vittime della seconda guerra mondiale e guardare le torri che si innalzano verso il cielo azzurro è un modo diverso di raccontare il destino che hanno vissuto tanti poveri innocenti.


31 - F/18, 1/60s, ISO-100, 24mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Non dimenticarsi di provare a vivere come la gente del posto, frequentando i loro stessi locali e mangiando il loro stesso cibo. Non c’è modo migliore per immergersi nelle tradizioni locali. Io adoro fare questo tipo di cosa con il cibo. Per esempio, a Budapest, tutti sono convinti che il cibo tipico sia il gulasch. Chiaramente è una cosa che fanno da quelle parti ma non è sicuramente la cosa più tipica. Quindi visitate mercati, bancarelle e posti che non siano nelle vie piene di turisti e fotografate il cibo sempre ricordandosi di raccontare quello che vuole essere il messaggio della cultura locale, sia che si tratti di una cottura strana, per esempio un dolce fatto alla brace, o che siano forme alternative ed eleganti di presentare piatti tipici locali, come lo stinco di maiale con patate e spezie.

Infine un ultima cosa che riguarda come viaggiare possa migliorare la propria tecnica fotografica: un viaggio è come un evento che non si ripete, come un matrimonio. Si ha una sola occasione che è il viaggio stesso e ripetere uno scatto può avere un costo non indifferente. Come accadde a me la prima volta a Budapest, ho dovuto aspettare molti anni prima di ritornarci e le foto che avevo perso non avrei più potuto recuperarle. Fotografare in viaggio significa quindi studiare, guardare i propri errori e non ripeterli nel viaggio successivo, significa sforzarsi di cogliere l’attimo e di non perdere le occasioni. Significa anche imparare a conoscere al meglio i mezzi a propria disposizione, come la fotocamera e gli obiettivi, in modo da saperli usare nell’occasione giusta e nel modo giusto. Viaggiare


è quindi uno dei modi migliori, a mio avviso, e anche piÚ belli e divertenti, di conoscere il mondo e di migliorare sempre di piÚ la propria tecnica fotografica.



Osservare la scena, entrare nella scena “Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino”. Il famoso fotografo e reporter Robert Capa, che era solito frequentare luoghi di guerra, definiva così una regola che spesso è veritiera soprattutto nel reportage. Non in tutti i generi più vicino significa una foto migliore. In un ritratto o nella fotografia di elementi architettonici, per esempio, una certa distanza è necessaria affinché la prospettiva e la distorsione dovuta agli obiettivi grandangolari non creino effetti poco piacevoli o poco realistici. Tuttavia, in molti generi, è importante essere in grado di immergersi nella scena per poterla capire, osservare e quindi catturare in modo significativo o creativo. Osservare la scena è un esercizio fondamentale per capire come fotografare una certa situazione. Se si aspira a praticare il genere della street-photography, cioè la fotografia del quotidiano cittadino o degli eventi che ci circondano, oppure il genere reportage, simile a quanto ricercato dai giornalisti, allora è fondamentale imparare a comportarsi e a reagire alle situazioni in maniera tempestiva e opportuna.

32 - F/2.8, 1/30s, ISO-800, 17mm, Tamron 17-50 su Nikon D7100 Ecco una piccola lista di suggerimenti su cosa fare e cosa non fare:


Viaggiare leggeri: ridurre al minimo l’attrezzatura al seguito è importante per non avere problemi a muoversi e non rischiare di dover perdere più tempo nello stare attenti ai propri obiettivi che a quanto avviene attorno. Tenere la macchina fotografica sempre pronta: significa impostare i parametri di apertura, tempo di esposizione e sensibilità ISO all’inizio, verificare che vadano bene e quindi scattare senza doversi preoccupare troppo di variare enormemente questi parametri. Spesso le modalità con priorità di apertura o addirittura in P (programma, cioè quasi automatica) possono aiutare a ottenere il risultato, sebbene diano meno controllo. Utilizzare la modalità di messa a fuoco a un solo punto, o comunque quella più rapida per i propri gusti. La modalità di messa a fuoco manuale potrebbe non essere amica del fotoreporter. Studiare il programma dell’evento o la zona: fare un giro di perlustrazione o conoscere nel dettaglio l’agenda dell’evento può essere una grande mano d’aiuto nel sapersi muovere, conoscere scorciatoie e vie di fuga nel caso si debba correre da un posto all’altro o si debba catturare un dato momento specifico. Un’attenta perlustrazione può rivelare i migliori posti dove poter effettuare gli scatti verso un palco o verso la strada dove passerà il soggetto di interesse. Vestire abiti comodi, soprattutto le scarpe: nel reportage e in generale quando si fotografa ad eventi, bisognerà muoversi e mettersi spesso in posizioni poco comode e in luoghi inconsueti, pertanto avere l’abbigliamento adatto aiuterà a sentirsi a proprio agio e ad avere meno impedimenti. Batterie e memorie di riserva: quando si è in giro non si ha il tempo materiale di andare a recuperare altre batterie e memorie. Bisogna sempre portarsi dietro una riserva sufficiente di energia e spazio digitale dove archiviare le foto. Essere invisibili: se si pratica la street-photography, dunque non per eventi specifici, e si vuole catturare la naturalezza delle persone e di ciò che accade nella strada, bisogna tentare di essere invisibili. Bisogna quindi cercare di essere meno appariscenti e non sembrare dei turisti o, peggio ancora, degli stalker. Si deve quindi usare la macchina fotografica con discrezione, simulando di tanto in tanto di fotografare altre zone od oggetti diversi da ciò che in realtà suscita il nostro interesse.


33 - F/3.2, 1/100s, ISO-800, 40mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100 Non dimenticarsi della privacy: se si ha intenzione di pubblicare un reportage o delle foto che ritraggono persone riconoscibili o luoghi e oggetti coperti dal diritto d’autore, bisogna ricordarsi di verificare tutte le eventuali normative a tal riguardo, come spiegato nel capitolo dedicato a questo tema. Non intestardirsi su di una foto: questo genere fotografico è diverso da altri come il ritratto o la fotografia naturalistica. Nella fotografia di strada ci si ritrova immersi in una scena di cui bisogna catturare ciò che ci racconta, quindi non bisogna immaginare prima lo scatto e quindi realizzarlo, ma bisogna essere in grado di vederlo e immortalarlo rapidamente. Non ignorare i “significanti”: se si sta facendo un reportage su un cantante si dovrebbe sempre tenere a mente chi è e cosa rappresenta per i suoi fan, cercando di realizzare delle fotografie che lo raccontino in quel contesto, in modo da differenziarsi dalla semplice foto che testimonia solamente che “io c’ero”. Conoscere la storia del luogo: se si cammina tra le vie di una città, che sia per vacanza o per puro diletto fotografico, si dovrebbe studiare la storia di quel posto, in modo da conoscerne peculiarità e storie che potrebbero rendere dettagli apparentemente insignificanti, come una porta malconcia o una statua nel mezzo di una piazza, qualcosa che può dare un significato intenso e molto più interessante a una fotografia. Schierarsi per una fazione: per quanto sia vero che in un reportage non si


dovrebbe prendere la parte di nessuno, è invece utilissimo per il fotografo imparare a schierarsi per taluna o talaltra fazione per poter identificare ciò che spinge le persone a seguirla e, di conseguenza, a rappresentarlo meglio. Prendiamo per esempio un evento in cui si abbia un gruppo di persone che protesta da una parte, e la polizia dall’altra. Una fotografia puramente da documentario potrebbe essere interessante a seconda della sua realizzazione tecnica. La foto catturata dalla prospettiva dei manifestanti sarà di impatto molto più intenso. La foto di un poliziotto che aiuta un manifestante in difficoltà potrebbe finire in prima pagina in un giornale. Rimanere neutrali: sebbene questo punto sembri in contrasto con il precedente, in realtà non lo è affatto. Infatti il fotoreporter può immedesimarsi in tutte le fazioni ma in momenti diversi, e in ciascuno di questi casi riuscire comunque a mantenere un distacco personale dall’evento che gli permetta di guardare alle scene con occhio oggettivo. Questo è valido anche per tutte le altre situazioni in cui si faccia un reportage di su di un cantante o che ci si trovi semplicemente immersi nelle antiche vie di una cittadina dove si è in vacanza.

34 - F/2.8, 1/60s, ISO-800, 23mm, Tamron 17-50 su Nikon D7100 La fotografia di strada è molto complessa sia tecnicamente che dal punto di vista emozionale e creativo. Tutto, in realtà, si condensa in una frase (tradotta) di uno dei più grandi fotografi della storia, oltre che padre di questo genere: Henri Cartier Bresson.


“Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.”



Lunghezza focale: quale scegliere Quando si comincia a praticare la fotografia a livelli un po’ più tecnici si cominciano a sentire vari parametri che possono non essere di immediata comprensione. Uno di questi è la lunghezza focale espressa in millimetri (mm). Per la maggior parte delle persone, variare la lunghezza focale o “zoomare” è semplicemente ingrandire l’immagine per raggiungere il soggetto da più lontano. Questo è parzialmente vero, tuttavia la lunghezza focale è molto importante per tantissimi altri fattori che sono ben diversi dal solo ingrandimento. In questo capitolo cercherò di spiegare con esempi pratici e semplici l’importanza di comprendere i millimetri della lunghezza focale. Innanzi tutto bisogna capire che cosa sono questi millimetri. La lunghezza focale, è la distanza in millimetri che c’è tra il centro ottico dell’obiettivo e il sensore (o la pellicola). Quando un obiettivo è composto da più lenti non è detto che il centro ottico corrisponda con il centro fisico dell’obiettivo. Per semplificare, se si guarda un obiettivo, si potrà notare che non è composto da una singola lente, ma da diversi strati. Il centro ottico rappresenta il centro “ideale” che risulterebbe risolvendo tutte le formule matematiche delle equazioni della luce (riflessione etc.) lo trasformassimo in un singolo strato di vetro di dimensione nulla (sottilissimo). I millimetri di distanza di questo strato di vetro dal sensore (o dalla pellicola) sono i millimetri. Questo fa saltare subito all’occhio che tale dimensione, oltre a non essere misurabile a mano con un metro da sarto, è in realtà relativa alla pellicola. Cosa significa? Che sebbene la distanza di questa lente ideale possa essere la stessa da una pellicola, da un sensore full-frame o da un crop, il risultato finale cambierà a parità di lente a seconda del supporto che cattura la luce. Per rendere più semplice la comprensione degli obiettivi che si utilizzano, si può trovare normalmente un numero stampato su ciascun obiettivo, per esempio 18-55mm. Questo numero significa che quello specifico obiettivo ha una distanza che può variare da 18 a 55 millimetri dal sensore. Questo valore può essere considerato valido e significativo solo se il sensore che sta dietro quella lente è di tipo full-frame, altrimenti, per capire che tipo di lente stiamo usando, sarà necessario effettuare delle moltiplicazioni per il fattore di crop. Le reflex che non sono full-frame hanno un fattore di crop di 1.5x o 1.6x circa, normalmente indicato nelle specifiche tecniche (per le due marche più note e diffuse, cioè Nikon e Canon, sono proprio quei due i valori). Ciò significa che se dovessi usare un obiettivo che abbia una lunghezza focale variabile tra 18 e 55 millimetri, dovrei prendere


questi due valori e moltiplicarli per 1.5, ottenendo così che l’obiettivo in questione renderà (a livello di composizione) come se stessi usando una reflex a pellicola con un obiettivo con lunghezza focale variabile approssimata a 27-82mm. A questo punto si può iniziare a fare qualche passo in avanti. Sperimentando un po’ ci si accorge subito che tanto più è lontana la lente e quindi tanto più è alto il valore della lunghezza focale, tanto maggiore sarà quello che si può chiamare semplificando l’ingrandimento. In realtà, ciò che accade ha una spiegazione molto più geometrica. Il valore che cambia è in realtà l’angolo di campo. Tanto più è vicina la lente, tanto maggiore sarà l’angolo di campo. Per comprendere quindi pienamente come funziona la lunghezza focale prova a fare questo esperimento: Prendi un bicchiere col fondo trasparente e ricopri tutto il bordo con del cartoncino nero. Tienilo con una mano in modo che si posizioni esattamente davanti a un occhio e chiudi l’altro. Posizionati di fronte a una parete che abbia dei dettagli, per esempio una libreria o una vetrina. Noterai che attraverso il fondo del bicchiere riuscirai a vedere solo una parte della stanza in cui ti trovi. Geometricamente parlando, sarai in grado di vedere la porzione di stanza che c’è di fronte a te e che rientra all’interno del cono che si viene a formare partendo dall’occhio e attraversando la circonferenza del fondo del bicchiere. A questo punto focalizza bene le parti più vicine al bordo e allontana lentamente il bicchiere di qualche centimetro facendo attenzione a mantenerlo sempre alla stessa altezza. Ciò che potrai notare è che parte di quelle cose che vedevi in prossimità del bordo saranno “sparite” dal “cono visivo” che c’è sempre tra il tuo occhio e il fondo del bicchiere. Ciò che è accaduto è che hai aumentato la lunghezza focale, riducendo così l’angolo di campo. L’effetto di “ingrandimento” che ne consegue è dovuto al fatto che gli obiettivi sono fatti per poter mettere a fuoco e cogliere i dettagli di tutto quello che c’è all’interno del cerchio del “fondo del bicchiere”. Dovrebbe essere chiaro quindi che variare la lunghezza focale non significa solo ingrandire un dettaglio, ma significa ridurre o aumentare la quantità di informazioni visive che inseriamo nell’immagine a parità di prospettiva. Dati questi presupposti, si possono finalmente capire le categorie di obiettivi, riferite alla pellicola o al full-frame:

Obiettivi sotto i 40mm sono detti grandangolari, perché permettono di coprire una larga porzione di quello che abbiamo davanti e in alcuni casi anche più di quello che riuscirebbe a vedere un uomo. Si usano principalmente per composizioni estreme (e.g. fish-eye), paesaggi e foto di gruppi molto ampi. Sono utilissimi soprattutto se ci si deve muovere in spazi stretti, per esempio a una festa di compleanno in casa.


Obiettivi tra i 40 e i 70 mm sono detti normali, perché sono quelli che più si avvicinano all’angolo di campo coperto dall’occhio umano. Ottimi un po’ per tutto e fantastici per quanto riguarda la fotografia di strada. Sono obiettivi capaci di costringere il fotografo a “entrare” nell’azione e nella scena, senza però creare prospettive estreme ed eccessive distorsioni. Obiettivi superiori a 70 mm sono detti teleobiettivi (o super teleobiettivi quando la lunghezza supera i 200mm), perché hanno un angolo di campo molto piccolo e permettono di raggiungere soggetti a lunga distanza. Perfetti per la ritrattistica, la fotografia dei particolari e dei dettagli, natura e animali e sport. Stando a quanto detto prima, è chiaro che se non si usa una full-frame, bisogna sempre fare due conti per capire che obiettivo si sta usando. Per esempio, se utilizzassi un obiettivo 50mm su una reflex Nikon DX (cioè crop), questo sarebbe in realtà un 75mm (ho moltiplicato per 1.5) e quindi sarebbe già un teleobiettivo. Se volessi simulare l’obiettivo normale, che è anche il più classico e storico usato nella street-photography, allora dovrei usare un 33mm che mi porterebbe a circa 49mm. Poiché tale obiettivo non esiste, dovrò accontentarmi del più simile, cioè il 35mm. Ogni lunghezza focale ha i suoi utilizzi di base e per capirli, il modo migliore sarebbe quello di usare un obiettivo a focale fissa e muoversi in giro. In realtà va anche bene l’idea di avere un obiettivo zoom e andare in giro obbligandosi a usare una sola focale. Usando un obiettivo zoom potrai sperimentare con diverse lunghezze focali e capire quali siano le difficoltà e i vantaggi di ciascuna e quali siano gli utilizzi più consoni.


35 - F/3.5, 1/20s, ISO-200, 52mm, Nikkor 18-105 su Nikon D50 Nei due esempi è possibile vedere come l’uso di un grandangolo permetta di ottenere una prospettiva alternativa della Tour Eiffel, mentre un teleobiettivo permette di focalizzarsi sulla cattedrale anche da lunga distanza, eliminando gli elementi di disturbo che si trovano attorno.


La prima cosa che si può sicuramente notare è la distorsione prospettica. Infatti, più si è vicini al soggetto, più si crea una distorsione della realtà. Queste distorsioni possono essere usate in maniera creativa ma possono alle volte (soprattutto quando si è inesperti) rendere le foto letteralmente orribili. Provare a fare un primo piano a una persona usando 18mm di lunghezza focale creerà sicuramente effetti in stile nasone. Se il vostro obiettivo non era quello di ritrarre in maniera buffa il soggetto, potreste trovarvi in seria difficoltà con la persona ritratta. Se invece si volesse ottenere l’effetto testone su corpo piccolo, 18mm sarebbero perfetti mettendo la macchina fotografica in alto rispetto al soggetto e molto vicina alla sua faccia. Le parti vicine all’obiettivo, infatti, grazie alla poca distanza, risulteranno smodatamente grandi, mentre le gambe, che rientreranno nella vostra foto grazie al grande angolo di campo, saranno piccoline perché relativamente lontanissime dall’obiettivo. Fare la stessa foto con un teleobiettivo, per esempio dall’alto di un balcone, renderebbe il soggetto molto più realistico. Provare per credere.


36 - F/5.6, 1/250s, ISO-100, 48mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

La seconda cosa importante da capire riguardo alle lunghezze focali è che si può fotografare lo stesso soggetto con qualunque obiettivo e qualunque lunghezza focale, in quanto è sufficiente cambiare la distanza che c’è tra noi e il soggetto, finché questo non risulti della stessa dimensione all’interno del riquadro dell’immagine. La domanda che sorge a questo punto è: che differenza fa fotografare lo stesso soggetto, avvicinandoci o allontanandoci e variando di conseguenza i millimetri? La risposta sta già nel paragrafo che faceva l’esempio del fondo del bicchiere. Ma per rendere la cosa molto più semplice da capire, non spenderò molte parole ma metterò in sequenza tre foto dello stesso soggetto che sarà in primo piano e al centro dell’attenzione e tutti i suoi amici affollati, dietro di lui.


Per ciascuna foto viene indicata la lunghezza focale usata le differenze sono evidenziate con delle righe rosse.

Questo esempio rende quindi più chiaro quanto sia importante la lunghezza focale, non tanto per l’ingrandimento, ma proprio per quello che si vuole raccontare con la propria foto. Fotografare il primo piano di una persona eliminando tutto ciò che c’è nello sfondo, parlerà di un’introspezione più intima e personale del soggetto. Avvicinarsi con una lunghezza focale molto bassa ed entrare nell’azione di una folla che acclama un giocatore che ha appena regalato la vittoria alla propria nazione è tutta un’altra storia.




Costruire il portfolio Il portfolio, soprattutto quando ci si approccia alla professione, è una degli elementi più importanti per un fotografo. Costruire un portfolio è complesso e semplice allo stesso tempo. La complessità deriva proprio dall’osservazione di alcune semplici regole. Le foto devono essere consistenti: l’insieme degli scatti che costituisce il portfolio dovrebbe essere legato da un tema o da un genere specifico. Per esempio, se si è specializzati nel cibo, si dovrebbe avere un portfolio di soli piatti da ristorante. Non è sbagliato avere più foto di tipi diversi ma l’importante è dare a ciascun genere il suo spazio, cioè tenere un portfolio per ciascuna area. Il portfolio deve includere solo le foto migliori: un fotografo è infatti giudicato in base alla sua foto peggiore, non alle migliori. Bisogna quindi mostrare solo quello che si considera il meglio. Anche i migliori fotografi fanno continuamente brutte foto ma non le pubblicano neppure sul loro account privato su facebook. Fuggire dalle ripetizioni: nessuno trova gradevole vedere la stessa foto dieci volte di seguito con piccole variazioni tra una versione e l’altra. Il portfolio è uno strumento per intrattenere una relazioni con un osservatore e quindi è importante anche non annoiarlo con elementi ovvi o ripetitivi. L’ordine è importante: le prime e le ultime foto sono quelle che rimangono spesso più impresse. Bisognerebbe quindi ordinare le foto in modo da creare transizioni piacevoli tra i livelli di contrasto, luminosità e tonalità di colore, ponendo le migliori all’inizio, per evitare che non si riesca a catturare l’interesse dell’osservatore, e alla fine per lasciare un ricordo quanto più positivo possibile. In conclusione, meglio un portfolio fatto da cinque foto stupende che uno fatto da duecento foto mediocri.



Vivere di fotografia Proteggere le proprie foto Una fotografia è, a prescindere dalla sua qualità, una proprietà intellettuale di chi l’ha realizzata. Non importa quale sia stato il mezzo, quanto facile sia riprodurla e quale sia il suo valore. La legge è spesso insufficiente per stabilire tutti i diritti e le limitazioni sull’uso di una fotografia. Certamente esistono situazioni più semplici da gestire, tuttavia è bene sapere come proteggere le proprie foto. Cosa fare quindi se ci si trova in un contenzioso e si deve dimostrare di essere il “padre biologico” di una fotografia? Una volta sarebbe fondamentalmente stato decretato che il possessore del rullino che conteneva la pellicola originale era il proprietario. Anche in quel caso, tuttavia, ci sarebbero potute essere questioni di testimonianze e così via. Era però più facile proteggersi dalla copia o dal furto in quanto bastava mettere sotto chiave le matrici, cioè i negativi. Nell’era del digitale questo è molto più difficile. In primo luogo è impossibile evitare che qualcuno faccia una copia esatta di un file digitale. Si tratta di una sequenza di bit facilmente riproducibile. Per proteggersi è quindi necessario, oggi più che mai, fare in modo di avere qualcosa che gli altri non hanno, che possa spostare verso di noi l’ago di una eventuale bilancia. Ecco cosa fare: Tutte le fotocamere, ormai, possono scrivere i metadati EXIF/IPTC nelle foto. Sono delle piccole stringhe di informazioni che vengono “nascoste” nel file e che non sono visibili nella fotografia. Se per esempio si apre una foto JPEG dal computer direttamente dalla schedina di memoria della fotocamera, ci si accorgerà che di alcune informazioni aggiuntive nella scheda delle proprietà del file. Si potrebbero vedere per esempio la lunghezza focale, l’apertura del diaframma e il tempo di esposizione usati per quella foto. Spesso si troverà anche il modello della fotocamera e dell’obiettivo usati. Una cosa da fare è quindi quella di andare a cercare nelle impostazioni della fotocamera, il campo “copyright” o “commento” dove si potrà inserire il proprio nome. Chiaramente si tratta di dati che possono essere rimossi facilmente da un file, anche se RAW, tuttavia se il “ladro” di foto non fosse così attento, potrebbe non accorgersi della prova schiacciante del furto. Inoltre, se si condividono le foto su un blog o su un sito, queste potrebbero essere indicizzate, per esempio da Google, il quale legge queste


informazioni invisibili e creerà una associazione storica (nel senso che ci sarà una data precedente all’eventuale furto) tra la foto e il vostro nome. Scattare in RAW e non condividere il file originale con nessuno. Se anche qualcuno ti dovesse rubare un JPEG, se avrai accuratamente protetto il file raw, sarà come se avessi tenuto sotto chiave il negativo di una foto fatta con la pellicola. Il jpeg è infatti solo un sottoinsieme di bit di quelli presenti in un raw, pertanto è facile dimostrare chi sia il proprietario se tra due contendenti uno hai il raw e l’altro no. Ovviamente non sempre è possibile scattare in raw, o perché non si ha una fotocamera che usa quel tipo di formato, o perché magari durante una sessione fotografica, per qualche motivo (e ce ne possono essere tanti) avevi scattato in jpeg. In quel caso bisogna sempre considerare la foto originale come “raw” e non condividerla con nessuno. La domanda a questo punto è: “come fare per condividerla?” Non rovinare la foto con un watermark (una firma sopra la foto) al centro. Oltre a essere inutile è anche fastidioso e farà perdere il valore della vostra foto. Piazza un watermark ma in un angolo basso e non troppo visibile e fate in modo che sia un elemento che attragga poco l’attenzione. Tutti i watermark possono essere rimossi con programmi di fotoritocco. Quelli che non possono essere rimossi rovineranno inevitabilmente la fotografia. Esistono svariate applicazioni gratuite e a pagamento che fanno questo oppure lo si può fare con qualunque banale programma di fotoritocco per computer (e.g. paint). Un altro “trucco” per proteggersi è quello di ritagliare una porzione della cornice della foto che sia abbastanza significativa per dimostrare che, anche se qualcuno dovesse rubare la foto condivisa e dovesse togliere il watermark, il proprietario avrà una foto più grande che renda quindi la versione rubata un sottoinsieme delle informazioni in suo possesso.


37 - F/10, 1/160s, ISO-200, 50mm, Tamron 17-50 su Nikon D5000

L’ultimo trucco, di livello paranoico, è quello di usare la steganografia. Si tratta di una tecnica che veniva usata dalle spie per nascondere le proprie conversazioni. Esistono diversi programmi che nascono con lo scopo di nascondere dei file (per esempio un documento word) dentro i bit di un altro file (per esempio una foto). In questo modo è possibile, usando una password che deve essere nota solo ai due interlocutori, scambiarsi messaggi cifrati nascondendoli in piena vista. La stessa tecnica può essere usata per nascondere dentro una fotografia le informazioni di copyright. Per fare ciò è sufficiente creare un file di testo e scrivere all’interno una frase che reciti: “questa foto appartiene a….” e il vostro nome e generalità che vi identificano univocamente. A questo punto dovrete comprimere il file di testo usando, per esempio un software che crei i file .zip e che vi permetta di proteggere l’archivio con una password, oppure potreste scrivere il testo in un file di Word o Open Office Writer, i quali a loro volta vi permettono di salvare il documento con password. L’ultimo passo da seguire è quello di usare un programma di steganografia, per esempio OpenStego, e nascondere il file protetto da password dentro la vostra immagine. Un eventuale ladro di immagini sarà quindi costretto a scovare ben due password prima di poter rimuovere quell’informazione dal vostro file jpeg. Tra l’altro, esistono molte applicazioni per smartphone che contengono già delle funzionalità che fanno per voi la parte precedentemente descritta relativa al file zip o al documento word protetto con password (anche OpenStego lo fa), riducendo però così il numero di password da scovare a una sola.


Ovviamente, non è saggio blindare la porta lasciando la finestra aperta… quando si pubblicano delle foto che si intende proteggere, bisogna indicare sempre che quel contenuto è una proprietà privata coperta da diritto d’autore e che viene rilasciato al pubblico vietandone tutte quelle cose che si desidera che non possano essere fatte da terzi. Per facilitare questo compito basta dare un’occhiata a questo sito: http://creativecommons.org/


Il MicroStock Quando ho iniziato a capire un po’ di più delle basi di fotografia, mi sono chiesto se potessi in qualche modo guadagnarci qualcosa, anche solo per ripagare parte dell’attrezzatura che avevo acquistato o che avevo intenzione di acquistare. Il primo approccio, cioè quello più ovvio, è stato quello di studiare come diventare un fotografo libero professionista e cominciare a fare piccoli lavori, per esempio battesimi, matrimoni e così via. Dopo attente valutazioni mi resi conto che l’investimento iniziale per questo genere di attività non era banale e che avrei dovuto spendere molto tempo anche solo nel farmi pubblicità e nel procacciarmi il lavoro. Decisi quindi di trovare qualche attività fotografica altrettanto divertente che richiedesse meno tempo anche a fronte di un guadagno ridotto: il microstock.

38 - F/5, 1/160s, ISO-100, 50mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Il microstock è un tipo di attività commerciale molto particolare e costituisce una grossissima fetta dell’economia che gira dietro alla fotografia. In sostanza, un’azienda di microstock vende delle fotografie senza royalties a prezzi relativamente molto bassi, a clienti di ogni genere, come giornali, riviste, produttori di siti web, grafici, pubblicitari etc. Queste aziende acquisiscono milioni di fotografie da fotografi che le sottopongono alla loro attenzione. Ciascun fotografo guadagnerà una piccola parte di ciascuna foto che viene venduta. Il modello di business è il revenue-share. Vendere nel settore del microstock è abbastanza facile ma come tutte le attività


lavorative il cui guadagno è basato sul volume di vendita, i ricavi saranno tanto più alti quanto più tempo si dedicherà all’attività stessa. Comincio subito a disilludere i più ottimisti dicendo che, anche a causa della saturazione del mercato e della grandissima offerta di contenuti ormai disponibile, se si vuole guadagnare quanto un comune impiegato si deve probabilmente lavorare per lo stesso tempo cioè 8 o più ore al giorno. Tuttavia, se non si hanno grosse pretese, il microstock è un tipo di attività commerciale che può gratificare anche solo per quei pochi euro che si possano guadagnare ma soprattutto per l’opportunità di esplorare e studiare temi e tecniche sempre nuove e in evoluzione. Iniziamo parlando degli aspetti legali e burocratici. Il contesto legislativo attorno al microstock è ancora oggi pieno di spazi grigi che lasciano aria ai commercialisti per decidere come gestire i ricavi e come dichiararli. L’agenzia delle entrate, dal canto suo, probabilmente è abbastanza permissiva quando si tratta di guadagni di pochi euro. Di sicuro, se si guadagnano soldi vendendo delle foto, questi andranno dichiarati. Inoltre non è possibile (e di questo ne sono certo) fare come suggeriscono in alcuni siti, cioè emettere una ricevuta per prestazione occasionale, in quanto non ci sono assolutamente i presupposti di base. Alcuni sostengono che sia necessaria la partita iva da libero professionista, altri no. Non mi faccio carico di risolvere la situazione e rimando al parere di un vostro commercialista di fiducia sul tema. Mi limito solo a dire che se vuoi vendere le tue foto, devi parlarne anche con chi ti aiuta a fare la dichiarazione dei redditi.

39 - F/6.3, 1/200s, ISO-100, 35mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100


Quanto costa iniziare? Assolutamente nulla se hai già un computer e una macchina fotografica. Se non li hai, sappi che per questo genere di attività non è necessario comprare attrezzatura costosissima. Al contrario è possibile utilizzare anche attrezzatura molto economica e ultimamente addirittura anche solo il cellulare. Il mio consiglio è di usare almeno una reflex entry-level (io ho venduto diverse foto usando una Nikon D5000 e l’obiettivo kit, senza usare flash o altri accessori). Ovviamente, più si desidera guadagnare, tanto maggiore dovrà essere l’investimento economico per acquistare gli accessori utili a migliorare la qualità delle foto, come flash, trigger, cavalletti, riflettori, luci continue etc. Attrezzatura a parte, i siti di microstock non richiedono alcun pagamento o abbonamento. Registrarsi è gratuito e inviare foto lo è altrettanto. Come funziona? Dopo essersi registrati su uno o più siti di microstock, si potranno caricare delle foto. Ogni foto dovrà essere corredata di un titolo, una descrizione, delle parole chiave e delle categorie di appartenenza. La foto dovrà rispettare delle caratteristiche tecniche minime che possono variare (fondamentalmente sono i megapixel) e potrà essere inviata in pochi e selezionati formati (e.g. jpeg). La maggior parte dei siti ha dei sistemi per caricare le foto a blocchi e non una per una. In quel caso dovrai attrezzarti di software come Adobe Lightroom (o altri cataloghi digitali) per poter aggiungere i campi descritti sopra (e.g. le parole chiave) in maniera rapida ed efficiente, altrimenti rischierai di dover perdere giornate intere solo a scrivere le stesse parole per ciascuna foto. Di solito c’è un limite alle foto che si possono caricare, per esempio 10 a settimana. Ogni foto passa attraverso due fasi di valutazione, la prima è generalmente automatica e verifica la compatibilità tecnica e la completezza dei vari campi richiesti, e una seconda manuale, effettuata da una squadra di giudici che lavora per il sito di microstock e che deciderà se la tua foto è potenzialmente vendibile o no. Cosa potrebbe rendere una foto NON vendibile? Sono molte le cose che possono invalidare una foto. La presenza di un marchio registrato o di un soggetto su cui non si detengono i diritti. Non potete, per esempio, vendere le foto di Messi che avete fatto allo stadio e non potete vendere le foto del Duomo di Milano fatte durante le vacanze. Ovviamente gli aspetti qualitativi sono uno degli elementi principali di valutazione: se la foto è tecnicamente sbagliata allora verrà scartata. Per tecnicamente sbagliata si intende che ci sono pixel completamente neri o completamente bianchi in punti dell’immagine in cui invece ci si aspetterebbe un colore o una tonalità intermedia di grigio, oppure che la luce utilizzata abbia creato effetti sgradevoli, o sia mossa o sfocata, etc. Ovviamente anche se la foto fosse tecnicamente perfetta, anche una composizione scarsa potrebbe far scartare la foto. Ritrarre persone e non inviare una liberatoria per ciascuna di esse farà scartare la foto. Inviare un’immagine ormai vista e rivista miliardi di volte (e.g. la classica mela rossa


su un tavolo bianco) non aiuterà a guadagnare. Ingrandire una foto per aumentarne il prezzo, farà scartare la foto. Eccedere con il fotoritocco o applicare filtri preconfezionati o troppo esuberanti, renderà la foto inaccettabile.

40 - F/5, 1/160s, ISO-100, 50mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Quanto aspettarsi di guadagnare? Non c’è una risposta a questa domanda. Il guadagno dipende unicamente dall’impegno, dalla qualità e dal tempo che si dedica alle fotografie. Nella mia esperienza ho potuto vedere che con una decina di minuti a settimana, si guadagnano circa una sessantina di euro all’anno… buoni per pagare per esempio l’hosting di un sito web. Esistono testimonianze di fotografi professionisti del microstock che dedicando lo stesso tempo di un lavoro normale, arrivano a guadagnare anche cifre importanti. In generale, una singola foto può generare dai pochi centesimi ai 510€ per vendita a seconda della dimensione acquistata dal cliente (e.g. la stessa foto viene venduta in formato small, medium e large, ciascuno a un prezzo diverso e crescente in proporzione alla risoluzione). Chi compra sui siti di microstock? Sono diversi gli utenti che acquistano foto da questi siti ed è importante imparare a conoscerli per capire cosa fotografare e in che modo. I principali clienti dei siti di microstock sono sicuramente editori di riviste e giornali che acquistano le foto per uso, per l’appunto, editoriale e per le foto d’archivio. Agenzie pubblicitarie sono al secondo posto perché cercano in questi siti tutti gli elementi (e.g. sfondi, oggetti, situazioni) da fornire ai propri grafici per produrre cartelloni, foglietti illustrativi, cataloghi e inserzioni pubblicitarie di vari formati. Ristoranti e negozi in


generale che devono produrre dei menu. Sviluppatori di siti web e agenzie di comunicazione. Arredatori che devono acquistare immagini con cui produrre stampe e tele. In generale chi vuole acquistare foto con un soggetto particolare. Cosa fotografare e come? La prima cosa che si dovrebbe fotografare sono le cose che piacciono. Per esempio, a me piace il cibo e quindi fotografo il cibo. Per pura casualità, questo genere fotografico è anche uno di quelli che va per la maggiore sui siti di microstock e che ha sempre bisogno di nuove foto. Ovviamente, essendo un’attività commerciale, non ci si può sempre divertire e basta. Bisogna andare dietro alle correnti. Per esempio, sotto le feste di Natale, fotografa la neve. A Pasqua fotografa uova e i pulcini. In prossimità dei mondiali o delle olimpiadi fai un giro al campetto dove gioca un cugino o tuo figlio e così via. Molti dei siti di microstock hanno anche dei blog dove è possibile tenersi aggiornati sulle tendenze del momento. In generale sono molto apprezzati oggetti isolati e sfondi che possano essere usati come base di partenza o come elementi accessori di una composizione più grande. Quando si fanno foto per il microstock, si deve cambiare prospettiva mentale e dimenticarsi che la foto deve essere bella in senso assoluto o filosofico, ma deve essere tecnicamente perfetta e avere o un significato semplice e immediato oppure essere facile da calare in un contesto puramente commerciale. Per ispirarsi basta andare sugli stessi siti dove si vuole vendere qualcosa, cercare delle parole chiave e imparare dalle foto che hanno venduto di più e sono diventare più popolari. Risulta più semplice vendere le foto se la risoluzione minima corrisponde ai parametri indicati da ciascun sito come “large”, cioè stampabili almeno 30x40cm.


41 - F/3.5, 1/160s, ISO-100, 50mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

I trend che hanno costantemente bisogno di foto nuove o interpretazioni dei soliti temi sono tutte le ricorrenze e le festivitĂ sia civili che religiose, il cibo, le persone (per le quali però dovrete compilare delle liberatorie che trovate direttamente nei siti di microstock) in situazioni che esprimono un’azione o un sentimento. Fotografa gli animali


solo se riesci a ottenere immagini veramente particolari… se provi a fare una ricerca troverai tonnellate di foto su quest’area. Business e tecnologia sono molto dinamici e cambiano molto spesso e quindi hanno bisogno sempre di nuove foto. Infine eventi e personaggi famosi, anche se in quel caso si potrebbero avere limitazioni dovute al contesto giornalistico, legale o di privacy. A quanti siti registrarsi e come farsi pagare? Ogni sito richiede un certo tempo di gestione. In generale è possibile caricare le foto su tutti i siti che volete, grazie al paradigma senza royalties, a meno che non si sottopongano le proprie foto ai programmi detti “esclusivi”, i quali permettono di guadagnare di più ma al tempo stesso impongono di non caricare la stessa foto su altri siti. Personalmente ritengo inutile caricare le stesse foto su più di cinque siti diversi perché a meno di dedicare molto tempo, il guadagno sarà non proporzionale al tempo da spendere. Infatti ogni sito potrebbe essere particolarmente forte su un tema diverso da quello di un altro sito concorrente e quindi potresti dover caricare foto diverse su siti diversi e gestirle in maniera differente a livello di parole chiave, categorie e così via. Alcuni siti pagano versando denaro su un account paypal, altri mandano direttamente un assegno a casa e in generale tutti aspettano che si raggiunga una cifra minima che può variare dai 20 ai 100 euro. Per concludere, ecco una lista di alcuni dei più famosi siti di microstock dove iniziare a vendere le proprie foto:

● http://www.shutterstock.com/ ● http://www.istockphoto.com/ ● http://it.dreamstime.com/ ● http://it.fotolia.com/ ● http://www.gettyimages.it/ ● http://it.123rf.com/


Fotografia per matrimoni ed eventi I servizi fotografici per i matrimoni possono sicuramente essere molto redditizi ma sono anche degli eventi molto complessi e alle volte anche pericolosi da gestire per un fotografo. Il matrimonio rappresenta infatti, per la maggior parte delle coppie, un evento unico in cui si troveranno al centro dell’attenzione e di cui vorranno tenere un ricordo bellissimo. Le foto dovranno quindi immortalarli come una coppia di divi, tirando fuori il meglio di loro e consolidando nel tempo dei momenti che altrimenti la memoria potrebbe perdere. Inoltre, a prescindere dal prezzo, molto spesso le aspettative delle coppie che si sposano sono sempre molto al di sopra di quanto possibile. Ci sono vari aspetti da tenere in considerazione per un servizio fotografico di un matrimonio:

L’evento è composto da tanti momenti irripetibili. Non potrai chiedere allo sposo di riproporti l’attimo in cui ha infilato l’anello al dito della sposa. Se il cliente non dovesse essere soddisfatto e non ti sarai tutelato con un contratto, data l’irripetibilità dell’evento, potresti passare guai seri. L’attrezzatura necessaria per un matrimonio non può essere “solo” quella di un fotoamatore. Bisogna essere pronti all’evenienza in cui un flash si bruci o un corpo macchina si inceppi. Bisogna conoscere tutte le fasi della giornata, pianificare e conoscere le aspettative degli sposi. Durante un matrimonio ci si potrebbe trovare in mezzo a una folla di amici che vogliono fotografare e filmare, rendendo difficile il compito del fotografo nel dirigere pose, luci e movimenti vari.

Date queste premesse, risulta evidente quanto sia importante pianificare la giornata con largo anticipo e avere almeno due o tre corpi macchina e relativi accessori come cavalletti, flash, batterie, memorie e così via. Soprattutto quando si inizia, è molto importante tutelarsi con un contratto che definisca l’insieme minimo di foto che corrispondono a quanto pattuito con il cliente, in modo da evitare contenziosi legali in seguito. In questo capitolo, tuttavia, non voglio parlare solo di come si gestisca un servizio per un matrimonio, ma di come si possa tentare un approccio a questo genere


fotografico e, perché no, avviarsi alla professione come specialisti del genere. Innanzi tutto partiamo dall’attrezzatura. Ovviamente rimane vero che l’elemento fondamentale è il fotografo, ma per i matrimoni non si può prescindere dall’avere almeno un corpo macchina capace di scattare in condizioni di luce scarsa (le chiese o i locali comunali sono molto meno luminosi di quanto li percepisca l’occhio) e si devono avere delle buone lenti per poter catturare sia dettagli che foto di grandi gruppi di persone. Chiaramente non si può decidere da un giorno all’altro di diventare fotografi di matrimoni, anche perché di norma una coppia vi chiederà di vedere i vostri lavori, un portfolio che dovrà convincerli che siete la persona giusta. Sembrerebbe la classica situazione del cane che si morde la coda: per iniziare mi serve un portfolio e per avere un portfolio mi serve iniziare… come si può risolvere questa situazione? La soluzione è piuttosto semplice: fare da assistente ad altri fotografi e approfittare dei matrimoni degli amici per scattare il più possibile. Nel primo caso sarà possibile imparare molto più velocemente e farsi un buon portfolio in poco tempo, tuttavia non è sempre facile trovare dei fotografi disposti a fare da insegnanti a degli assistenti, soprattutto quando si tratta di eventi come i matrimoni, dove un errore può compromettere l’intero servizio. Scattare ai matrimoni degli amici è sicuramente più facile, ma ha delle controindicazioni: prima di tutto la frequenza, perché a meno che non abbiate amici che si sposano ogni mese, non saranno tante le occasioni, seconda cosa non ci sarà nessuno ad aiutarvi e anzi, dovrete fare attenzione a non intralciare il fotografo ufficiale. Nel caso si faccia da assistenti, l’unico suggerimento che ho è seguire tutto quello che dica il fotografo principale. Ecco quindi una serie di dritte su come comportarsi al matrimonio di una coppia di amici:

Chiedi sempre il permesso di fotografarli. Quel giorno ci saranno tantissime persone che li bersaglieranno e quindi è meglio non rischiare di dar fastidio seguendoli come foste paparazzi senza almeno averli avvisati. Limita l’uso del flash perché potrebbe infastidire il fotografo ufficiale. Non è improbabile infatti che il lampo del flash vada a modificare completamente la luce pianificata dal fotografo durante un momento chiave della cerimonia. Concentrati sulle foto che il fotografo “non” farà, catturando dettagli dei luoghi e delle sale dove si svolge la cerimonia, dietro le quinte, momenti di tensione e nervosismo e così via. Procurati di un teleobiettivo e “scompari”, cercando di catturare dei primi piani


naturali con espressioni che gli sposi potrebbero fare tra uno scatto e l’altro in posa. Concentrati e lavora con il massimo impegno, come se fossi il fotografo principale e offri le tue foto ai tuoi amici, presentandole in maniera professionale. Cerca di essere presente quando il fotografo non lo è, ma senza essere invadente. Per esempio, se la mattina presto il fotografo andrà prima dalla sposa e poi dallo sposo, tu fai l’inverso e immortala le fasi di preparazione, i familiari e gli amici presenti e altri dettagli a cui magari il fotografo non avrà accesso. Non disdegnare di fare, di tanto in tanto, qualche foto classica. Tali foto saranno infatti utili per costruire il portfolio. Cambia punto di vista: il fotografo ufficiale, data l’importanza dell’evento, non potrà concedersi troppi momenti creativi, soprattutto durante la cerimonia. Molti invitati faranno le classiche foto dal loro posto o mettendosi di lato. Non vergognarti quindi di fare delle foto diverse dagli altri, alzando o abbassando il tuo punto di vista, per esempio con l’ausilio di un treppiedi, o esplorando delle zone da cui avere una visuale diversa, come una balconata o un sentiero sopraelevato. Fotografa gli amici e i parenti. Il fotografo potrebbe essere concentrato solo sugli sposi oppure il contratto potrebbe non prevedere le foto “ricordo” con gli invitati. Queste foto sono semplici da realizzare ma sono molto importanti per gli sposi e di sicuro non vorrebbero che ne mancasse nessuna.

Un ultimo suggerimento sui matrimoni degli amici: se ti venisse chiesto di essere il fotografo ufficiale, stai molto attento. Verifica che i tuoi amici non tengano particolarmente al servizio fotografico e che siano pronti anche a non avere foto. Se non fosse così declina l’invito. Come descritto prima, il matrimonio è un evento complesso da gestire e pertanto è molto facile deludere il cliente e, in questo caso, rovinare un’amicizia. Supponendo di avere ormai fatto una buona esperienza con i matrimoni degli amici o come assistenti, cosa fare quando arriva il momento di gestire da soli un servizio di matrimonio? Sarò chiaro da subito: non esiste uno schema preciso da seguire perché dipende tutto dalle proprie capacità creative, commerciali e dall’attrezzatura a disposizione. Per chiudere questo capitolo, quindi, vorrei elencare una serie di suggerimenti da tenere in considerazione quando si svolge un servizio professionale per un matrimonio. Innanzi tutto è necessario procurarsi tutte le tutele possibili poiché, come anticipato, un servizio di matrimonio è costoso e, a prescindere dal prezzo, è davvero molto importante per gli sposi che quindi avranno grandi aspettative di qualità. Su questa


tematica è quindi fondamentale stipulare una buona assicurazione che possa coprire eventuali problemi e conseguenti risarcimenti, e prepararsi (magari con una consulenza legale) sulla stesura di un contratto che metta nero su bianco le caratteristiche minime che definiscano il servizio, per esempio il numero minimo di scatti tecnicamente accettabili e la definizione di “accettabile”. Una volta completata la parte burocratica ci si potrà concentrare sul resto. Innanzi tutto è importante ricordarsi che il business dei matrimoni è qualcosa che funziona molto bene con il passa parola e quindi bisogna essere molto attivi sui social network oltre a saper presentare bene il proprio portfolio. Un’idea, soprattutto all’inizio, potrebbe essere quella di offrire uno sconto se gli sposi dovessero acconsentire a cedere alcune foto per il vostro portfolio. A questo punto, dopo aver speso un po’ di tempo nel marketing e dopo essere riusciti a proporsi in maniera competitiva in un mercato che già da tempo è abbastanza saturo, supponiamo di avere trovato un cliente. La prima fase di pianificazione è la più importante di tutte perché serve a stabilire passo dopo passo in cosa consisterà il servizio. Innanzi tutto bisogna concordare con gli sposi il genere che preferiscono, quindi verificare se vogliano foto in posa o siano più propensi a un reportage naturale (o magari un misto a seconda dei momenti della giornata). La seconda cosa importante da chiarire è in quali momenti sarà presente il fotografo. Non è scontato infatti che si scatti durante tutta la giornata e questo influirà notevolmente sia sul prezzo che sulla quantità di foto da scattare. Alcune coppie potrebbero volere solo le foto della cerimonia e magari qualche foto in posa in un luogo particolarmente scenografico, altri potrebbero desiderare un servizio che ricopra l’intera giornata, quindi dai preparativi a casa della sposa e le foto con i parenti di ciascuno dei due, proseguendo attraverso la cerimonia, religiosa o civile che sia, fino ad arrivare alle foto in posa in riva al mare e alle foto degli invitati (e con gli invitati) in sala durante il rinfresco. Inoltre è importante concordare se, oltre al servizio fotografico, gli sposi vogliano anche un servizio video, nel qual caso potrebbe essere necessario trovare un collaboratore professionista capace di effettuare riprese e montaggio. Un altro aspetto importante da concordare con gli sposi è la quantità e la tipologia di post-produzione. Questo dettaglio non va trascurato perché è chiaro che i tempi di realizzazione e la complessità di elaborazione sono completamente differenti se gli sposi si aspettano di veder sparire una bretellina fuori posto e tutte le sbavature del trucco che possono sorgere durante la giornata. Dopo aver preso tutti gli accordi necessari con i clienti, bisognerà effettuare uno o più sopralluoghi nei posti dove si effettueranno gli scatti. Si deve studiare bene la luce già presente e gli spazi a disposizione, inclusa la disponibilità di prese elettriche e punti di


appoggio per agganciare faretti, flash e altri accessori. Se possibile, bisognerebbe includere nel sopralluogo anche una visita a casa dello sposo e della sposa, qualora sia previsto che si facciano scatti anche lì. Avendo preso coscienza della luce, degli spazi e soprattutto del risultato atteso dagli sposi, sarà quindi possibile valutare l’attrezzatura da portare con sé: almeno due corpi macchina, un numero consono di assistenti alle luci e agli scatti (e.g. un assistente che faccia i primi piani da lontano con il teleobiettivo), luci ausiliarie e flash e quantità di schede di memoria e batterie (scattare solo un paio d’ore per un centinaio di scatti non è la stessa cosa di seguire una coppia per una giornata intera e fare migliaia di scatti). Probabilmente, quando si è ancora all’inizio, buona parte dell’attrezzatura dovrà essere affittata presso negozi specializzati e quindi si dovrà considerare questo costo per effettuare la stima del prezzo finale. Durante lo svolgimento del servizio è importante fare tante foto, in modo da minimizzare la probabilità di perdere l’attimo in un momento fondamentale. In ogni caso è bene ricordare che a un maggior numero di foto corrisponde anche una mole di lavoro superiore quando poi si dovrà effettuare la selezione e lo sviluppo delle stesse. A prescindere dal numero di scatti “grezzi” esistono delle foto di rito che normalmente una coppia si aspetta di vedere nell’album: - La sposa in preparazione con la mamma o la damigella che le sistema il velo. - La definizione del trucco o del parrucco, meglio se fatta attraverso uno specchio o comunque con un’immagine riflessa. - Almeno qualche foto dei dettagli che la sposa porterà con sé, per esempio un gioiello di famiglia, una spilla, un nastrino o qualunque cosa sia stata scelta per essere significativa in quella giornata. - L’uscita da casa della sposa e l’arrivo presso il luogo della celebrazione. - Il momento in cui lo sposo accoglie e bacia la sposa. - Lo scambio degli anelli. - Il dettaglio del bouquet. - Un ritratto a figura intera dei due sposi immediatamente alla fine della cerimonia. - Le firme sui registri comunali. - Il lancio del riso o comunque l’uscita dal luogo della celebrazione. - Qualche foto almeno con i parenti più stretti e con i testimoni.


- Il taglio della torta.

Se dovesse mancare anche una sola delle foto elencate in precedenza, è facile che pur avendo centinaia di foto di tantissimi altri momenti, la coppia di sposi senta comunque che il servizio sia incompleto. In alcuni casi sarà richiesto di fotografare gli invitati, sia come ricordo sia come complemento di un servizio fotografico incentrato sugli sposi. In tal caso è importante fare sempre almeno due scatti (ma anche di più) per essere sicuri che tutti stiano guardando nella direzione giusta e abbiano gli occhi aperti. Per riuscire in tale impresa non ci sono altre vie se non essere anche un po’ scontrosi con chi si affianca per “rubare la foto” e sottolineare che farete la foto solo quando tutti gli altri “fotografi” avranno abbassato le armi. Ciò non serve per evitare che altri abbiano la stessa foto, ma solo perché in caso contrario ci sarà sempre la zia o il cugino che guardano nell’obiettivo di qualcun altro che non sia il fotografo ufficiale. Un ultimo consiglio riguardo agli amici e agli invitati: fotografare le persone solo per “far vedere la loro presenza” può essere sufficiente a fare contenti gli sposi ma probabilmente non da un grande valore aggiunto al servizio. Può essere invece molto più utile e d’effetto coinvolgere gli invitati in qualche modo, per esempio invitandoli a fare qualcosa di particolare, un brindisi, un salto, un saluto o una posa strana a seconda del soggetto. Tra le altre cose, entrare in contatto con gli invitati non farà altro che aumentare il passa parola sul servizio fotografico e quindi sul fotografo che l’ha realizzato. Infine, ecco qualche ulteriore suggerimento di carattere generale: Fotografare molti dettagli come bomboniere, tavolate, buffet, luoghi e paesaggi in cui si svolgerà l’evento, dettagli degli abiti degli sposi, dei genitori e dei testimoni: queste immagini saranno utilissime per realizzare sfondi per gli album, bigliettini di ringraziamento o semplicemente gli sposi potranno usarle sui social network. Inoltre queste sono tutte foto che possono essere incluse nel portfolio senza dover chiedere il permesso agli sposi poiché nessuna persona sarà riconoscibile. Concentrarsi principalmente sulla sposa: è lei la vera protagonista della giornata e quindi bisogna comportarsi come se fosse un book fotografico per una modella, cercando di metterla quanto più possibile a suo agio (sarà già abbastanza confusa e agitata per la cerimonia).


Affittare un corpo macchina full-frame e portare almeno un obiettivo grandangolare, uno zoom professionale come il 24-70 f/2.8 e un teleobiettivo che raggiunga almeno i 200mm: il corpo macchina full-frame permetterà di gestire al meglio le situazioni di scarsa luminosità, come l’interno di una chiesa, mentre la dotazione di obiettivi permetterà di scattare rapidamente gruppi di persone e primi piani naturali. Lo zoom sarà invece l’elemento principale per poter fare la maggior parte delle fotografie. Farsi vedere e guidare con decisione durante gli scatti in posa, scomparire durante le celebrazioni e il ricevimento: quando la foto deve essere “costruita”, è importante che sia chiaro a tutti chi sia il fotografo e quale sia la sua direttiva, in modo da minimizzare il rischio di foto imbarazzati o con sguardi misti a destra e sinistra. Nei momenti da reportage, invece, è importante che il soggetto non percepisca la presenza del fotografo perché, altrimenti, ciò potrebbe alterare il suo comportamento naturale. In questo caso è importante lavorare con aperture del diaframma molto ampie ed eventualmente alzare la sensibilità ISO, riducendo al minimo l’uso del flash. Portare con sé riflettori da montare sul flash e supporti per usare le luci in modo che non siano direttamente sopra alla fotocamera: soprattutto in momenti in cui non è possibile avere un flash esterno laterale, è importante che le foto non siano realizzate usando il flash direttamente sopra la fotocamera, in modo da evitare l’effetto delle ombre dure delle foto non professionali. Esistono in commercio diversi accessori che permettono di montare il flash su un supporto laterale o dei riflettori pieghevoli che possono essere agganciati alla testa del flash (che deve essere ruotabile) per ottenere una buona diffusione e un distanziamento dalla linea dell’obiettivo. Cercare di simulare sempre la luce del sole al tramonto: le foto della coppia di sposi in un luogo scenografico sono sicuramente tra quelle di maggiore impatto nel servizio fotografico. Un buon modo per ottenere delle foto dall’aspetto particolarmente interessante è quello di scattare nelle ore in cui il sole è abbastanza basso, per esempio al tramonto. Se questo non è possibile per motivi organizzativi, allora bisognerebbe cercare di simulare la cosa utilizzando flash e luci poste all’altezza desiderata.


Prepararsi per un workflow professionale Quando ci si dedica alla fotografia con molta passione, è normale immaginare come potrebbe essere praticarla a livello professionale. Ci sono molte vie per diventare professionisti, alcune più semplici ma magari meno remunerative e altre più classiche e impegnative ma sicuramente più adatte a farne l’attività principale. In questo capitolo vorrei quindi provare a mettere insieme una serie di consigli su come avviarsi a quello che è un “workflow”, cioè un flusso di lavoro, professionale e su quali strumenti concentrarsi.

Valutare quanto investire Innanzi tutto è importante sapersi limitare e non partire subito in quarta con acquisti compulsivi. Il materiale che si deve possedere per un flusso professionale è meno di quel che si pensa. Inoltre è importante pianificare con cura quello che dovrà essere il budget, o si rischierà di spendere più di quanto si guadagni e ovviamente ciò può andare bene per gli appassionati ma è assolutamente impossibile per un professionista che, per quanto possa essere bravo, se non avesse un guadagno sarebbe destinato al fallimento. In quest’ottica bisogna quindi considerare nei costi tutti gli oneri fissi e le tasse di un qualunque libero professionista. Queste spese non direttamente legate alla professione del fotografo, potrebbero limitare notevolmente il budget a disposizione per l’acquisto dell’attrezzatura. Tuttavia è importante avere gli strumenti giusti, senza i quali è impossibile fornire un servizio che un cliente sia disposto a pagare profumatamente. La regola dovrebbe essere non spendere mai più di quanto si guadagna e per fare ciò è necessario provare a fare un esercizio di calcolo di quanto si immagina di poter guadagnare nelle tre situazioni principali: se gli affari andassero in maniera mediocre, se fossero nella media o se andassero a gonfie vele. Per fare ciò è necessario studiare il mercato e dunque parlare con altri professionisti del settore, studiare su internet e provare anche a girare come “clienti”, chiedendo preventivi e valutando la qualità relativa al prezzo. Per fare qualche esempio concreto, se si decidesse di lavorare principalmente con eventi, per esempio matrimoni, sarebbe facile sapere un po’ di prezzi in giro ma sarebbe più complicato valutare quanto ci costa in termini di tempo e attrezzatura, prepararci per entrare in quel mercato. Se invece si volesse lavorare nel mondo del microstock, cioè foto vendute su internet a basso prezzo, allora la cosa sarebbe completamente diversa.

Uscire dalla comfort zone Al giorno d’oggi, data l’enorme diffusione della fotografia e la sua incrementata accessibilità, è impossibile per un fotografo limitarsi a fare solo gli scatti. Un fotografo deve necessariamente includere nel suo workflow e nei suoi servizi, vari generi e la capacità di affrontare tutte le fasi che vanno dalla pianificazione e l’analisi dei bisogni del cliente a quella che è la realizzazione e la capitalizzazione finale. Per esempio, un


fotografo professionista che si occupa principalmente di book per modelle e modelli non potrebbe prescindere dall’essere in grado di fare post-processing e produrre un risultato immediatamente utilizzabile dal proprio cliente.

Attrezzatura fondamentale A differenza di quanto si possa immaginare, possedere una reflex all’ultimo grido non è un requisito fondamentale. Bisogna sicuramente avere una buona reflex con cui praticare costantemente e studiare, tuttavia un fotografo professionista passa solo poco tempo di tutto il workflow dietro l’obiettivo. Considerando che le fotocamere e gli obiettivi sono molto costosi sia in termini di acquisto che di manutenzione ed evoluzione, è possibile valutare, soprattutto all’inizio, di affittare l’attrezzatura “extra” fintanto che non si abbia raggiunto un ritorno sull’investimento tale da giustificarne l’acquisto. Facendo diversamente, si rischierebbe di acquistare qualcosa di meno potente a causa di un budget limitato, e che in breve potrebbe essere obsoleto o non più adeguato. Bisogna quindi munirsi sicuramente di attrezzatura base con cui poter svolgere il proprio lavoro, ma non è necessario acquistare maniacalmente tutto ciò che potrebbe servire. Luci, flash, un secondo corpo macchina e obiettivi costosissimi ma molto specifici possono essere presi in affitto e inclusi nel costo del servizio svolto al cliente. Chiaramente ci sarà un margine inferiore all’inizio, ma almeno la perdita in caso di fallimento, sarà inferiore. Diventa invece fondamentale concentrarsi su altri tipi di strumenti. Gli obiettivi sono sicuramente più longevi e rappresentano qualcosa di molto importante per la qualità delle fotografia. Di conseguenza potrebbero essere il primo punto in cui investire. Tra l’altro, se trattati in maniera consona, gli obiettivi non perdono molto valore e si possono sempre rivendere nel mercato dell’usato limitando la perdita. Ciò di cui non si può fare a meno è invece una workstation per l’archiviazione e l’elaborazione delle fotografie.

Il Monitor Per poter lavorare velocemente e con qualità, è necessario acquistare monitor grandi, ad alta risoluzione e che permettano di calibrare anche il più piccolo dei parametri, dal contrasto alla saturazione alla luminosità, alla retroilluminazione etc. Risulta importantissimo che siano dei monitor di alta qualità e dimensione generalmente superiore alla norma. Il motivo è che quando si elabora una foto e la si sviluppa, è spesso necessario poter lavorare al dettaglio di alcuni pixel ma nel contempo verificare che le modifiche non abbiano impatti negativi sul resto dell’immagine. Per poter fare ciò bisogna quindi dotarsi di monitor grandi (in termini di dimensioni) e ad alta risoluzione in modo da poter guardare l’intera immagine mentre si lavora anche solo su una porzione di essa. Un’altra soluzione è quella di acquistare due monitor (sempre grandi e sempre ad alta risoluzione) in modo da poter suddividere gli strumenti di lavoro in due zone, una di controllo e una


operativa. Un’altra cosa importante è che il monitor abbia una frequenza di refresh con una buona configurabilità. Un fotografo infatti dovrà passare molto tempo (più di un classico videoterminalista) di fronte al monitor e quindi è importante che il suo strumento principale e più importante di tutti, cioè la vista, sia trattato al meglio. Una volta acquistati i due monitor super potenti, sarà necessario calibrarli in modo che siano capaci di riprodurre fedelmente le fotografie così come ci aspettiamo di vederle sulla carta stampata di un album o sul banner principale di un sito web. Per fare ciò ci sono si può andare a “naso” cioè provare a modificare le impostazioni fino a che, guidati dall’esperienza, non si ottengano dei risultati ottimali e a quel punto annotarli da qualche parte. Ovviamente ogni tipo di “output” avrà impostazioni diverse. Inoltre i monitor si deteriorano col tempo e quindi i valori di contrasto, saturazione, luminosità, varieranno col tempo a parità di impostazioni. Come fare dunque per essere sicuri di lavorare sempre sulle impostazioni ottimali? Esistono degli strumenti di calibrazione automatica che si appoggiano sullo schermo e forniscono le impostazioni corrette per un dato output (e.g. schermo retina di un tablet, carta lucida, etc.). Uno di questi (e anche tra i più diffusi tra i professionisti) è Spyder di Datacolor. Nelle versioni più avanzate, questi possono anche memorizzare varie impostazioni e si possono ottimizzare per i vari output. Il software di questi strumenti sarà in grado di interagire sia con Windows che con Mac e modificare automaticamente le impostazioni del monitor. Le immagini raw possono avere profondità anche superiori a 16 bit, pertanto è importante scegliere un monitor che sia in grado di riprodurre fedelmente tutta la gamma dinamica dei colori disponibili e, come già anticipato, avere schede grafiche in grado di fornire tutto il necessario affinché lo schermo possa essere fedele all’originale. L’uso di un monitor calibrato è fondamentale per evitare di non accorgersi di artefatti grafici dovuti, per esempio, alla compressione del file o a errori umani di elaborazione. Molti di questi artefatti non sono visibili con i monitor più comuni. Infine bisogno assicurarsi che il monitor sia capace di mantenere nel tempo la capacità di riprodurre fedelmente i colori. Inoltre è altrettanto importante che la scheda grafica del computer a cui vengono collegati sia in grado di fornire le giuste informazioni al monitor, quindi accontentarsi di una scheda “integrata” priva di particolari capacità dedicate potrebbe essere limitante. I dispositivi Apple di solito sono molto attenti a questi dettagli ed è per questo che molti fotografi e grafici li preferiscono, tuttavia sono spesso più costosi di quanto non lo sia una versione equivalente PC studiata ad hoc. Il problema nel secondo caso è il tempo e la competenza necessari per assemblare il tutto.

Il software Se si lavora come professionisti, non si può prescindere dallo scattare in Raw. Ciò


significa che bisogna dotarsi di software che siano in grado di leggere i formati grezzi e ne permettano lo sviluppo in maniera rapida, intuitiva e completa. Questi aspetti sono fondamentali perché se è accettabile per un fotoamatore, impiegare 6 ore a elaborare una singola foto e spenderne 3 di queste nelle varie transizioni macchinose di un software, per un professionista questo è fuori discussione. A un matrimonio, si potrebbe aver scattato centinaia se non migliaia di foto e bisognerà quindi poterle elaborare il più velocemente possibile e, in alcuni casi, anche applicare dei filtri e dei parametri a gruppi di foto contemporaneamente. Per questo motivo è possibile sicuramente provare con software gratuiti e open source, tuttavia è molto difficile avvicinarsi alla qualità e all’intuitività (almeno per chi ci lavora) di programmi commerciali come Photoshop o Lightroom di Adobe. Si tratta sicuramente di programmi costosi, anche se ultimamente, proprio la Adobe, ha sviluppato un programma di “Software as a Service”, cioè licenze pagate come abbonamento che può essere disdetto quando non più necessario e che non ha un costo eccessivo. Il software è anche fondamentale per quanto riguarda l’archiviazione. Bisogna infatti essere in grado di conservare e ritrovare velocemente tutte le foto di un servizio per ogni evenienza. Software come Lightroom sono, per esempio, in grado di associare anche ai file Raw, valutazioni, etichette di colore, tags e keywords, in modo da poter organizzare tutto al meglio e poter trovare le foto sia in base a parametri e criteri automatici, come data, formato, macchina fotografica, obiettivo, etc. (in generale tutto ciò che viene scritto nei metadati IPTC/EXIF) sia su parametri personalizzati, come valutazione, correzioni, descrizioni etc.

Archiviazione delle foto Ovviamente, il software da solo non basta. Bisogna fornirsi di tanti, tanti, tanti… tantissimi Gigabyte di spazio. Scattare tante foto e tutte in Raw, affiancandole alle varie versioni di sviluppo poi esportate in formati Tiff, Png, Jpeg e così via, occupa tanto spazio. Sarà quindi necessario dotarsi di hard disk capienti dove archiviare il tutto. Inoltre è consigliabile utilizzare due tipologie di dischi differenti: hard disk magnetici per l’archivio e dischi a stato solido per i progetti attivi. I primi sono più lenti ma sono molto più economici e capienti, i secondi sono costosi ma permettono di leggere e scrivere file di grandi dimensioni in maniera anche oltre dieci volte più rapidamente che i dischi convenzionali. Quando si devono applicare modifiche (e quindi salvataggi su disco) a trecento foto, avere un disco molto veloce aiuta a non diventare più vecchi a ogni lavoro che si svolge. Inoltre, se si stima di utilizzare XGB di spazio per le foto, sarà necessario acquistarne almeno 2X. Perché? La risposta è il backup: immagina che si guasti il disco dove avevi messo le foto dell’ultimo matrimonio a cui avevi lavorato… cosa fai? Chiedi agli sposi di ripetere la cerimonia?


Infine è importantissimo avere degli account di spazio cloud. Ormai il web è pieno di servizi che forniscono molto spazio anche gratuitamente: Google Drive, DropBox, Amazon, Apple iCloud, Microsoft OneDrive, etc. L’utilizzo di questi servizi permette di creare dei backup sia per poter condividere immediatamente e in modo sicuro delle anteprime del lavoro con il cliente, senza dovergli necessariamente chiedere di passare dal vostro studio (o peggio, andare da lui).

Accessori Si chiamano accessori, ma spesso sono fondamentali. Per esempio, l’uso di un esposimetro fotografico (tipicamente tra i 150€ e i 500€) è importantissimo per un fotografo di moda per evitare di perdere molto tempo nella ricerca dei parametri più corretti. Per quanto riguarda lo sviluppo e l’elaborazione delle foto, è importante avere mouse ergonomici e precisi da affiancare con una tavoletta grafica. Queste ultime sono utilissimi dispositivi in grado di “sostituirsi” al mouse attraverso l’uso di una penna o un pennarello. Chiaramente poter utilizzare una penna darà una precisione di gran lunga superiore nel fotoritocco rispetto a un mouse (per quanto preciso possa essere). Il movimento sarà infatti molto più controllato e naturale. Inoltre le tavolette grafiche permettono di lavorare non soltanto in 2 dimensioni, come il normale mouse, ma in 3. Esse infatti sono capaci di rilevare la pressione e quindi aumentare o diminuire il tratto del pennello o dell’area da ritoccare in base al “peso” della mano. Una tavoletta grafica di buon livello (io per esempio ho usato per molto tempo una Wacomm Intuos 4) non ha un costo eccessivo e può rendere molto più fluido il fotoritocco di livello professionale. Alcune tra le più avanzate e costose permettono addirittura di lavorare sulla tavoletta come se fosse un monitor, permettendo quindi di ritoccare direttamente sull’immagine con la massima precisione (quelle normali sono difficili da usare perché si deve guardare il monitor e non la mano mentre si disegna). Chiaramente le tavolette grafiche non si sostituiscono a un monitor per via di quanto detto prima e, viceversa, i monitor anche se touch-screen, non possono diventare delle tavolette grafiche per via della mancanza della sensibilità di pressione. Altri accessori utili per un workflow professionale sono i moduli wifi o le schede di memoria SD WiFi, insieme a un tablet o a un laptop leggero. Questi strumenti permetteranno di mostrare subito dei risultati al cliente (per esempio una modella) o di iniziare delle elaborazioni, ma soprattutto renderà possibile vedere in anteprima il risultato di uno scatto su di un monitor ben più grande del comune LCD della fotocamera. Un altro accessorio fondamentale per un professionista è, di solito, il flash. Tra le cose più importanti per il flash c’è sicuramente la capacità di scattare in raffica e il tempo di recupero ma su questo tipo di dispositivo è probabilmente necessario spendere più di un paragrafo.


Chiaramente un professionista valuta tutti i possibili accessori capendo bene quali gli siano fondamentali e quali no. Nell’elenco si potrebbero mettere luci, riflettori, treppiedi, fondali, ombrelli, cavi per lo scatto remoto, trigger per flash esterni e chi piÚ ne ha piÚ ne metta.


Il valore della fotografia: quando è giusto farsi pagare In questo capitolo vorrei fare qualche riflessione sul valore della fotografia, intesa sia come attività che come prodotto. Infatti è fuori di dubbio che la fotografia abbia sicuramente due fondamentali valori: quello economico, quando la si pratica per soldi, e quello emotivo, quando si fotografa per passione. Entrambe le cose non sono né scontate né obbligatorie. Infatti si può fotografare in maniera puramente professionale, piatta e senza passione. Non è un peccato né un’eresia, come non lo è per un ragazzo che va a lavorare in un call center. C’è infatti una discreta probabilità che quel ragazzo abbia una laurea che si sia pagato proprio facendo l’operatore di call-center e che nonostante fosse bravissimo a farlo e avesse guadagnato un po’ di soldi praticando quella professione, la sua aspirazione fosse quella di fare, per esempio, il restauratore di piramidi egizie. Allo stesso modo (e anche più frequentemente), la maggior parte dei produttori industriali di foto (per esempio gli utenti di instagram) danno un valore puramente emotivo alle foto, che sono uno strumento per esprimere il loro pensiero, le loro emozioni o semplicemente per condividere qualcosa. Con l’avvento del digitale e il crollo dei prezzi, la fotografia, anche di alto livello, è diventata molto più accessibile (ma non assolutamente più facile) e questo ha costretto molti professionisti o ad abbandonare oppure a evolversi per poter emergere da una massa di fotoamatori con capacità tecniche quasi simili a quelle di un professionista. Se infatti una volta, avere le fotografie di qualità era un costo che in pochi si potevano permettere come puro capriccio, adesso avere una reflex (anche entry-level) che sia in grado di raggiungere la qualità che avevano (tecnicamente) le foto di 20 anni fa è quasi la norma. Ribadisco, non è che la fotografia sia diventata improvvisamente facile, anzi è diventata più difficile proprio perché mentre prima anche chi non era proprio lontanamente portato, se avesse avuto i soldi per fare un discreto investimento, avrebbe potuto fare il “fotografo professionista”, adesso nessuno spenderebbe un migliaio di euro per farsi fotografare al proprio matrimonio da uno qualunque solo perché ha una reflex e un flash. Come dicevo, emergere dalla massa rende la fotografia oggi ancora più difficile per i professionisti. Data questa premessa comincia a diventare evidente il problema del fotografo che da un valore anche economico alla propria fotografia a fronte di chi invece “regala” anche il proprio lavoro perché le attribuisce un valore solo ed esclusivamente emotivo. Questo è il primo problema: dare un valore puramente emotivo alle proprie foto, quando si raggiungono livelli più avanzati del semplice fotoamatore, può procurare un danno a tutti coloro che invece vogliono farsi pagare per vivere di fotografia. Questa logica, infatti, non fa altro che favorire i classici “approfittatori” che hanno sempre pronta la risposta: “tizio lo fa gratis”. Se risulta difficile immaginare qualcuno che affida il proprio servizio di


matrimonio a un non professionista, non è invece inverosimile o raro che delle riviste ed editori chiedano (e spesso sfruttino indebitamente) le foto di fotoamatori in maniera del tutto gratuita e anzi, lasciando intendere al fotografo che “gli deve essere grato per la visibilità”. Lo stesso accade per molti tipi di fotografie, per esempio per cataloghi o volantini, per siti web e per eventi e così via. Personalmente mi piacerebbe poter attribuire alla mia fotografia un valore economico ben più alto di quello che attualmente potrebbe avere, tuttavia riconosco che per poterlo fare sia necessario impiegare tempo e risorse e anche investimenti, pertanto lascio ampissimo spazio al valore emotivo. Tuttavia, tornando all’oggetto di questo post, ritengo necessario che la fotografia non sia mai assolutamente gratis quando raggiunge un livello anche solo leggermente superiore alla media (per capirci… la massa di produttori industriali di Instagram & co). Come diceva un saggio fotografo dell’associazione italiana di fotografi “TAU Visual” (che suggerisco caldamente di andare a guardare e usare come ottima fonte di informazioni), è importante stabilire che una foto o un lavoro da fotografo sia sempre ricompensato in maniera lecita e opportuna. Esempio: un amico di un giornale online vi chiede il vostro tempo per delle foto da fare a un festival di una sagra di paese? Bene, se siete dei fotografi, questo significa che è il vostro lavoro e dovrà pagarvi, ma anche se non lo siete, il vostro tempo ha un valore pertanto stabilite quale sia e fatevelo pagare. Ritenete che il vostro valore sia pari a una pizza? Fatevi offrire una pizza e basta ma non fatelo gratis. Questo significa che non si devono fare foto “per la gloria” o per “visibilità” e quindi gratis? Assolutamente no. Condividere foto sui social network o sul proprio sito personale va benissimo, purché non siano messe lì alla portata di tutti e senza alcuna licenza. Piuttosto si usi la “Creative Commons” che permette di evitare che gli “approfittatori” di cui sopra ci rubino le foto senza neppure chiedere o ringraziare. Come spiegato nella prima parte dell’articolo, supponiamo che siate molto bravi e facciate una foto di un buonissimo e succulento dolce posto su un piatto. Se il responsabile della pasticceria sotto casa fosse autorizzato a prendere la vostra foto e usarla commercialmente, questo potrebbe anche andare bene a voi che sareste felici di vedere la vostra foto esposta al pubblico, ma avreste “rubato” il lavoro a chi invece ha speso soldi e tempo per produrre immagini da “stock” che il signore in questione avrebbe dovuto comprare con dei soldi che il fotografo professionista avrebbe usato per mangiare (e magari per comprare un dolcetto proprio lì). Ognuno è ovviamente libero di fare quel che crede più giusto, tuttavia se io fossi un programmatore mi sentirei infastidito se improvvisamente dei fotografi capaci di programmare (per puro divertimento), facessero delle consulenze gratuite alla mia azienda rendendo il mio lavoro meno utile e rendendomi


molto difficile se non impossibile lavorare serenamente e magari guadagnarmi un aumento. Più ragionevolmente, “regalare” qualche foto ogni tanto va bene… farlo sempre gratis no. Se parliamo, invece, di fare fotografie per qualcuno che ce le chiede, allora il discorso diventa diverso e si rientra nel “compenso”. A questo punto provo a rispondere al tema del titolo: quando farsi pagare e quando no. Anche in questo caso ritengo che non si possa stabilire una linea di confine netta e valida per tutti. Io ho sempre applicato questa regola: se il livello fotografico che posso offrire in quello specifico campo (e.g. book fotografico per una modella, evento pubblico o privato, catalogo, etc.) è sufficientemente alto da poter essere considerato professionale (anche se di basso livello), allora stabilisco un compenso, altrimenti si tratta, per me, di un investimento di studio per imparare, nel qual caso è chiaro a chi mi chiede le foto che il risultato non sarà affatto pari a quello che potrebbe offrire un professionista. In un certo qual modo c’è comunque un compenso che è l’opportunità di imparare qualcosa offerta da chi mi chiede le foto. Per essere più chiari, concepisco la foto “gratis” (in senso economico) solo quando al “regalo” corrisponde un investimento di tipo non economico che può avere un certo valore. L’esempio diventa più chiaro e calzante se provo a calarlo proprio con un book fotografico con una modella. Normalmente se è la modella ad avere bisogno di un book, questa paga un fotografo per farsi fare le foto che desidera. Se è invece il fotografo che ha bisogno di una modella per rinnovare il portfolio, sarà lui a pagare una modella. Se entrambi ne possono trarre vantaggio perché entrambi hanno bisogno di ampliare il portfolio, si può provare la modalità TFCD (Time For CD) cioè un mutuo scambio di valore in cui entrambi guadagnano qualcosa (le foto). Chiaramente se la modella fosse Naomi Campbell e il fotografo fosse un signor nessuno, sarebbe ovvio che fare le foto “gratis” sarebbe di sicuro molto conveniente per lui. Allo stesso modo, se una modella esordiente e principiante venisse scritturata per posare gratis per Steve McCurry, probabilmente non sarebbe una buona idea chiedere un compenso pari a quello di Megan Fox. Per chiudere, provo a fare un altro esempio: se il giornalino del paese mi chiedesse di scattare delle foto alla sagra cittadina, chiederei un compenso. Se volessi far decollare la mia carriera e Vanity Fair mi chiedesse uno scatto da mettere nell’uscita del mese prossimo, potrei decidere di accettare di farlo gratis… ma solo finché rimango un signor nessuno… e sottolineo il “potrei” perché ovviamente tutto dipende sempre da che livello di fotografia posso offrire… in sostanza non devo comunque mai alimentare il circolo vizioso del “se non lo fai tu, lo farà un altro gratis”. Se poi si tratta di beneficenza, allora lì è un’altra storia.



Fotografia e Privacy Nell’era dei social network, la privacy ha subito diverse modifiche anche importanti, sia sotto gli aspetti legali che pratici. Una volta, infatti, se lo si desiderava, si aveva molto più potere nel decidere di restare nascosti in un angolino ed essere anonimi. Oggi, anche se si fanno tutti gli sforzi possibili, può sempre capitare l’amico che ci faccia una foto con lo smartphone e nonostante le nostre proteste, la pubblichi immediatamente su Facebook con tanto di tag che, non essendo iscritti, non potremo neppure rimuovere. Servizi internet e giurisprudenza si sono dunque adattati a queste evoluzioni, delineando sempre meglio quelli che siano i diritti e i limiti di chi ritrae persone riconoscibili in fotografia. In questo capitolo cercherò di dare qualche linea guida su cosa un fotografo possa fare quando si vadano a fotografare esseri umani nelle proprie foto. Chiaramente tutte le affermazioni che farò saranno da prendere con le pinze, dato che esce un aggiornamento o più della legge sulla privacy all’anno. Iniziamo col parlare dei minori, argomento molto complesso che al tempo stesso è semplice da gestire: non fotografarli. Sembra un po’ drastico ma a meno di situazioni controllate, tendenzialmente è sempre rischioso sia fotografare che, ancora di più, pubblicare foto che ritraggano minorenni. Sia chiaro, se esiste un consenso da parte del soggetto e di un tutore (generalmente almeno uno dei due genitori), allora sarà possibile fare un ritratto tuttavia esistono molteplici leggi che riguardano il buon costume, la dignità etc. che si applicano in maniera molto severa ai bambini e in generale ai minori (e non ai maggiorenni) che rendono veramente complesso pubblicare ritratti diversi dalla foto di classe con i compagni tutti in riga. Questo ovviamente vale anche per le foto scattate “alla folla” o all’aperto che possano ritrarre per caso un minore. Se anche il bambino non fosse il vostro soggetto principale, dovreste comunque fare attenzione a non includere volti riconoscibili di bambini all’interno delle vostre foto. In generale, anche se a farlo sono i genitori o i parenti, io sono estremamente contrario alla pubblicazione di foto che ritraggano bambini, a meno che queste non siano di soggetti ormai cresciuti o che la sua visione sia ristretta e protetta solo a persone che sanno di non dover divulgare quella foto pubblicamente.


Parlando invece di persone adulte la situazione si semplifica ma, paradossalmente, diventa piĂš complicata da gestire. Tutte le persone, infatti, hanno diritto a un qualche livello di privacy, anche le persone che per definizione, divenendo personaggi pubblici, non ne hanno piĂš diritto per scelta personale. Andiamo dunque per gradi:


Fotografare un VIP: i personaggi pubblici, per definizione, non hanno praticamente diritto alla privacy fintanto che si trovino in contesti pubblici e di nota locazione. Cosa significa? Semplicemente che se vi capita di incontrare Irina Shayk in un locale di Milano, dove sarà la madrina di un evento, allora potrete fotografarla quanto vi pare fintanto che il locale che la ospita ve lo permetta (eh sì, anche gli immobili hanno la privacy). Se invece la incontrate al supermercato sotto casa sua, lì dove magari porta i figli a scuola o in altre situazioni di vita privata, allora dovrete considerarla una persona “normale” e se vorrete fotografarla dovrete chiederle il permesso per pubblicarne gli scatti. Fotografare persone in luoghi pubblici: in molti pensano che essendo un luogo definito pubblico, allora si possano fotografare in maniera riconoscibile le persone che vi transitano. Questo è sbagliatissimo. Per essere più precisi, fotografare una persona, anche in modo che si possa riconoscere, è possibile ma è assolutamente vietato mostrare quella foto al pubblico (e.g. metterla su facebook). Se una persona è riconoscibile in una foto, è necessaria la sua autorizzazione affinché quella foto possa essere pubblicata. La legge su questo è un po’ ambigua, infatti se la foto è proprio relativa al luogo pubblico (per esempio una piazza famosa) e delle persone sono riconoscibili solo “per caso”, allora in teoria la foto sarebbe pubblicabile. Tuttavia è spesso molto difficile stabilire quale sia il limite che separa le due casistiche. La questione è totalmente diversa se il personaggio ritratto, seppur in primo piano o comunque inteso come soggetto della foto, non sia riconoscibile. In tal caso è possibile pubblicare la foto anche senza alcuna autorizzazione verbale o scritta da parte della persona interessata. Diritto di cronaca: fotografare un personaggio pubblico o anche comune per fini di informazione, didattici o giornalistici è coperto da alcuni aspetti legali differenti rispetto a quelli descritti in precedenza. Infatti, pubblicare immagini di persone riconoscibili per fini puramente didattici (nelle scuole, per intenderci) è possibile. Si possono pubblicare foto di persone a un concerto o anche usare la foto di un personaggio famoso, per esempio un cantante, in un libro o in un dépliant informativo. La cosa importante è che non ci sia nessuna forma di lucro: non si può fare merchandising su quel personaggio, cioè non si può vendere la foto, stamparla su una maglietta e venderla o farsi pubblicità. Tuttavia, la foto di un personaggio già noto, quindi pubblico, la si potrebbe mettere sulla copertina di un giornale o come parte di un articolo. Anche nella cronaca o nel diritto di informazione, i volti dei minori vanno sempre oscurati. L’unico caso in cui questo è evitabile riguarda la pubblicazione di minori molto distanti (e.g. bambini ritratti in un viaggio in Africa). Teoricamente anche in quest’ultimo caso la legge sulla privacy vale ugualmente, tuttavia è veramente molto improbabile che sorgano problemi, quindi in quel caso ci si rimanda all’etica e alla morale del fotografo in relazione all’uso che voglia fare delle foto in


questione. Pubblicizzarsi con le foto dei propri servizi: se si è fotografi di eventi o di altre tipologie che prevedano soggetti umani, come matrimoni, modelle, conferenze e così via non è comunque possibile utilizzare le foto che sono state fatte per pubblicizzarsi. Per esempio, non si può affiggere una foto della coppia di sposini che si baciano al tramonto sulla propria vetrina del negozio o nel proprio sito web. Per poterlo fare è necessario acquisire i diritti di utilizzo dell’immagine dei soggetti attraverso una liberatoria. Infatti, anche se le persone erano volontariamente davanti al vostro obiettivo, vige ancora la legge sulla privacy e quindi non potrete pubblicare nulla che li riguardi senza il loro consenso esplicito. Uso privato: definisce l’utilizzo di una fotografia in un contesto limitato e circoscritto alla visione di un pubblico controllato e selezionato. In parole semplici se si fa una foto di una bella ragazza in una piazza, la si stampa e la si appenda in casa, poiché il luogo è privato e si presuppone che soltanto un certo numero limitato e controllato di persone possa accedervi, allora è un uso privato. Le foto, in generale, di qualunque genere e tipologia, possono sempre essere sia scattate che riprodotte per uso privato. Bisogna però fare molta attenzione. Per esempio, pubblicare una foto su facebook in visione “limitata” a pochi amici sarebbe uso privato. Ma non appena uno degli amici prenda il link della foto e lo passi a una persona terza, allora questa condizione cadrebbe. Risulta quindi necessario fare molta attenzione a cosa si pubblica su mezzi di facile diffusione. Diritto di immagine e liberatorie: ogni persona ha il diritto di gestire l’uso della propria immagine. La legge tutela le persone in tal senso non solo con la legge sulla privacy ma anche con leggi specifiche che riguardano l’uso commerciale della propria immagine. Ciò non significa che una modella ha automaticamente il diritto di usare le foto che le scatta un fotografo. Facciamo un po’ di chiarezza: una coppia di sposi che paga il fotografo per avere un album di foto del matrimonio, sta pagando il servizio che prevede che il professionista usi le sue capacità per produrre delle foto usando la loro immagine, ma al tempo stesso stanno anche stipulando un contratto che li autorizza all’uso delle fotografie che il fotografo ha realizzato. Per capirci, i due sposi potranno decidere in qualunque momento di pubblicare in qualunque mezzo le foto che li ritraggono in quanto detentori del diritto d’uso della loro stessa immagine, tutori della propria privacy e usufruttuari delle risultato artistico del professionista. Viceversa, se un fotografo pagasse una modella per produrre il suo portfolio e nel contratto non fosse prevista una clausola esplicita, essa non avrebbe alcun diritto di utilizzare (e quindi pubblicare) le foto realizzate dal fotografo. Allo stesso modo, fintanto che la modella non abbia acconsentito in maniera esplicita attraverso una liberatoria, il fotografo potrà limitarsi solo all’uso privato delle foto che avrà realizzato. In un TFCD (su cui scriverò prossimamente) per esempio, sia


fotografo che modella si accordano affinché il diritto di utilizzo delle foto sia di entrambi (quindi le foto andranno sui loro rispettivi portfolio) e la modella normalmente firma una liberatoria che autorizza il fotografo a un limitato uso della sua immagine. La liberatoria è un documento che ha valore legale e che si utilizza per certificare che una persona autorizza esplicitamente un soggetto terzo all’uso della propria immagine. Tale documento è estremamente complesso da redigere in quanto è molto facile incorrere in situazioni che lo rendano nullo. Infatti il documento non può avere natura di tempo non determinato, cioè non si può cedere il diritto d’uso della propria immagine in maniera non definita e può non essere facile evitare di incorrere in situazioni a “livelli di grigio” sulle finalità e le tipologie, come per esempio l’uso di immagini che alcuni potrebbero reputare lesive del nome e della reputazione e altri no. In generale, la liberatoria deve essere redatta per un contesto specifico di tempo e spazio e limitata alle foto scattate in quella specifica sessione. Bisogna quindi che il documento indichi la data e la fascia oraria precisa degli scatti, il luogo dove questi vengono fatti, tipicamente il numero e la tipologia. Chiaramente la liberatoria deve contenere gli estremi dei documenti di entrambe le parti e di almeno un testimone che garantisca che il soggetto ritratto (o anche il fotografo) non sia stato costretto a firmare. Infine bisogna indicare chiaramente quello che sarà il fine di quegli scatti, infatti una modella potrebbe cedere il diritto d’utilizzo della propria immagine per fini artistici ma non commerciali. La mancanza di uno qualunque di questi aspetti renderà nullo il documento. Inoltre, il soggetto ritratto avrà sempre il diritto di revocare l’autorizzazione, e il fotografo dovrà quindi ritirare le pubblicazioni fatte, nei limiti di quanto gli sia possibile. Se per esempio l’immagine sia stata resa pubblica su mezzi non più di competenza del fotografo con l’autorizzazione del soggetto, dovrà essere la persona stessa a contattare tutti gli altri responsabili dei vari mezzi per ritirare eventuali pubblicazioni, cosa non sempre facilissima. Vari siti come “fotografi.org” o di microstock, come “iStockPhoto” hanno dei modelli precompilati che potete scaricare e usare liberamente, modificandoli (il meno possibile) secondo le vostre esigenze. Da notare come anche per un autoritratto, se volete vendere la vostra foto attraverso siti di microstock o comunque tramite soggetti terzi, dovrete allegare alla vostra foto una vostra liberatoria con la firma di un testimone. Detto ciò, è sempre necessaria la liberatoria per pubblicare la foto di una persona? La risposta è ovviamente no. Se fate la foto a un vostro amico o comunque a una persona con cui avete un rapporto che non sia di natura puramente commerciale o assolutamente distaccato, potrete sempre pubblicare le foto chiedendo il permesso anche verbale. Tenete sempre in considerazione che al minimo accenno da parte del soggetto ritratto di rimuovere una foto, non dovrete esitare nel cancellarla. Consiglio quindi di non pubblicare mai in condizioni in cui potreste perdere il controllo della fotografia stessa. La


legge prevede la valutazione del tacito assenso, cioè si cerca la prova che, al di là della liberatoria, il soggetto avesse autorizzato quella pubblicazione in quel contesto e in quelle modalità, ma è facile intuire che è sempre bene tutelarsi un po’ di più con una liberatoria scritta. Un’ultima nota molto importante: la liberatoria è normalmente stipulata in forma cartacea quando si tratta di lavori professionali, tuttavia questo non è stabilito in maniera stretta dalla legge. Un video fatto con lo smartphone è ugualmente valido fintanto che in esso vengano esplicitati gli stessi termini descritti in precedenza. Cosa fare quindi se mi fotografano e non do il permesso? La risposta è: “dipende”. Se non si vuole essere fotografati, la prima cosa da fare è cercare di non trovarsi in situazioni in cui qualcuno possa farlo contro la nostra volontà. Tuttavia, se dovesse accadere, per esempio perché un fotografo di un club decide di pubblicare degli scatti che vi ritraggono con una bella ragazza e un drink in mano (e la ragazza non è vostra moglie), avete il diritto di chiedere la rimozione della foto o l’oscuramento del vostro volto. Se ciò non dovesse accadere, allora avrete tutto il diritto di procedere per vie legali. Il tempo di reazione di chi pubblica è limitato, generalmente entro 48 ore. Ovviamente se qualcuno vi fotografa e non pubblica non potrete in alcun modo costringerlo (legalmente) a cancellare o distruggere le fotografie fatte. Insomma, valgono le stesse regole descritte sopra ma viste dal punto di vista opposto a chi sta dietro l’obiettivo.



Migliorare usando i social network Fotografia e social network: studiare e farsi criticare I social network sono una risorsa impagabile per imparare a riconoscere i propri errori e per migliorare notevolmente il proprio livello fotografico. In primo luogo, reti come 500px, Flickr e Instagram sono posti dove poter guardare i lavori di altri fotografi, studiarne la tecnica e la genialità e confrontare il proprio livello con quello degli altri. Una volta, gli unici confronti con fotografie di alto livello sarebbero stati possibili solo guardando a riviste e giornali dove avremmo trovato le foto dei più grandi fotografi del mondo. Oggi è invece possibile guardare ai lavori di altri fotografi di tutti i livelli, a partire dal proprio fino ad arrivare ai vari National Geographic e Magnum Photos. Anche i più noti come Facebook, Google+ e Twitter possono tornare estremamente utili, proprio perché a differenza degli altri si concentrano molto di più sull’interazione che la semplice condivisione di fotografie. Le reti sociali possono quindi essere un validissimo strumento per entrare in comunità di appassionati di tutti i livelli e chiedere consigli ad altri. Inoltre, le reti sociali sono luoghi dove le persone non parlano solo di fotografia ma si uniscono anche per parlare di altri interessi. Un ottimo modo per sfruttare i social network dal punto di vista della propria formazione di fotografo, può essere quella di focalizzarsi su un tema e parlare con le persone di quel tema, specializzandosi e offrendosi come fotografo. Supponiamo per esempio di parlare di cucina e di unirci a un gruppo di gente che condivide le proprie ricette, descrivendole in vari articoli. Se si è appassionati di cucina si potrebbe provare a realizzare qualcosa di semplice ma di grande impatto visivo da proporre nella comunità e valutare quindi le reazioni e le opinioni. Farsi criticare è il miglior modo per riconoscere i propri errori. Troppe spesso chi fotografa si intestardisce sul suo punto di vista, non accorgendosi di qualcosa che non va nella propria tecnica. Siti e forum dedicati alla fotografia, come tutti i vari social network già citati, sono luoghi perfetti dove potersi mettere in gioco, condividere le proprie foto e chiedere anche delle opinioni. Capiterà sicuramente almeno una volta di trovare una critica anche un po’ antipatica e dirsi che è solo invidia, per poi invece accorgersi che in realtà sono in molti a notare un certo difetto. Non bisogna cascare nell’errore di pompare il proprio ego sui vari “like” ricevuti su Instagram, Facebook o altro. Allo stesso modo non di deve guardare alle foto dei propri amici, che magari ci sembrano molto meno significative, artistiche e belle delle nostre, ma che prendono 300 cuoricini in pochi minuti. Infatti uno dei principali problemi nella crescita fotografica attraverso i social network è proprio la natura delle relazioni.


Soprattutto quando comincerai a fare delle foto meno comuni, noterai che i vari “mi piace” saliranno alle stelle e in tantissimi ti commenteranno dicendoti che hai fatto delle foto stupende. Il fatto che nessuno ti dica che la tua foto è sbagliata, brutta o semplicemente priva di un messaggio dovrebbe farti riflettere. Infatti la tendenza che si ha in questi luoghi virtuali è quella di mostrarsi solo alle persone fidate che, ovviamente, esprimeranno la loro preferenza verso la tua foto, esattamente come avranno già fatto con mille altre foto tecnicamente neppure lontanamente paragonabili alla tua. Dunque il numero di preferenze non è proporzionale alla qualità della fotografia. In sostanza bisogna essere realisti e godersi i complimenti degli amici, tuttavia essere coraggiosi e provare a mettersi in discussione proponendosi in luoghi dove si è un “signor nessuno”, accettando con spirito critico tutti i commenti, da quello più brutto a quello più bello, cogliendo in ciascuno di essi solo ed esclusivamente la parte costruttiva. Ovviamente non mancheranno i distruttori cronici (haters), che si limitano a commentare dicendo che una foto è brutta, sbagliata o incomprensibile, senza aggiungere motivazioni o suggerimenti. Di solito è bene evitare di intraprendere discussioni con queste persone perché hanno la tendenza a essere piuttosto brutali in maniera immotivata e spesso fine a se stessa. Molto meglio invece essere espliciti e dire che si sta imparando e che quindi i suggerimenti su come migliorare sono accettati di buon grado, quindi interagire con le persone che si dimostreranno disponibili e gentili. Infine, come da netiquette delle reti sociali, ricordati di non essere egoista e di essere partecipe anche tu, quindi dedica parte del tuo tempo anche a criticare le fotografie che altri di tuo pari livello o che vedi essere meno capaci di te propongono, cercando di essere tanto disponibile e gentile quanto vorresti che altri più bravi lo fossero con te.


Trasformare una vecchia reflex in una social network camera Hai comprato una reflex da qualche anno e poi l’hai dimenticata nel cassetto? Invidi tutti i tuoi amici che hanno comprato degli smartphone con fotocamere da 64Mpx mentre tu hai un modesto smartphone che fa tutto quello che serve ma la fotocamera sembra quella usa e getta trovata nell’uovo di pasqua? Sei un fotoreporter in erba ma la tua fotocamera non ti permette di inviare direttamente le foto alla redazione, quindi non arrivano in tempo e ti pagano meno? Scherzi a parte, esiste una soluzione molto rapida ed economica per risolvere questi e altri problemi: si chiama SD WiFi. Esistono ormai da diverso tempo delle schede di memoria SD che, una volta alimentate dalla fotocamera in cui sono inserite, creano un hotspot wifi a cui connettere il proprio dispositivo smart per scaricare le foto in tempo reale. Tra le più famose e affidabili ci sono le EyeFi e le Transcend WiFi. Le prime costano un po’ di più ma raggiungono dimensioni di archiviazione e velocità di scrittura mediamente migliori, mentre le seconde sono più economiche ma capaci di performance comunque degne di nota. Tutto ciò che serve è avere una fotocamera che usi le schede SD. Attenzione: i produttori elencano le fotocamere certificate per funzionare con tali dispositivi tuttavia, per esperienza personale, basta tendenzialmente che la fotocamera non abbia modalità di risparmio energetico troppo avide. Nel caso della Transcend WiFi, tra l’altro, il costo non è lontanissimo da SD di pari dimensione e qualità leggermente superiore (in termini di classe), per cui può comunque valere di fare un tentativo anche se la fotocamera dove avete intenzione di usarla non è elencata dal produttore (potrebbero semplicemente non averla provata). Come funzionano queste schede? In realtà è semplicissimo. Infatti basta inserire la scheda come una normale SD, scaricare l’apposita app, generalmente disponibile almeno per Android e iPhone, e il gioco è fatto. A questo punto sarà sufficiente far connettere il proprio smartphone alla rete wifi (seguendo le istruzioni disponibili nella guida della stessa app) e avviare il programma sul dispositivo. Tutto qui: sarà ora possibile navigare tra le foto già scattate, oppure usare modalità come la “Shoot & View” cioè guarda lo scatto subito dopo averlo fatto. Personalmente uso una Transcend WiFi e mi trovo molto bene. Le performance non sono certamente quelle di una Sandisk Extreme, tuttavia devo dire che per me sono sufficienti (come lo sarebbero per qualunque fotoamatore che non necessità di fare scatti a raffica continua da vedere subito). Inoltre in alcune fotocamere più avanzate, come la Nikon D7100, che hanno il doppio alloggiamento, è possibile utilizzare come scheda


primaria una ultra veloce e come secondaria una WiFi. In questo modo si ottiene sia il backup sia la immediata disponibilità per il download e la condivisione selvaggia sui social. Questa scheda SD è ottima sia per le reflex che per le compatte che non sono dotate di WiFi. Per molte reflex è anche possibile acquistare dei moduli wifi aggiuntivi che forniscono queste funzionalità come accessorio. Se è vero che le unità wireless permettono di ottenere alcune funzioni non disponibili con la scheda SD (come per esempio lo scatto a distanza), è anche vero che si tratta di accessori che modificano leggermente l’ergonomia e non è detto che non dia fastidio. Inoltre le unità WiFi delle reflex possono costare sensibilmente di più di una SD WiFi e tale costo potrebbe non essere giustificato per un non professionista. Ultimo suggerimento: ricordati che gli smartphone non sono normalmente in grado di gestire i formati raw delle reflex, quindi se vuoi condividere subito, ricordati di scattare le foto in JPEG o in modalità doppia RAW + JPEG.


Foto perfette per i social: pochi semplici consigli La soddisfazione di ricevere tanti bei commenti e “mi piace” sui social network è uno degli elementi che ha spinto moltissime persone ad avvicinarsi al mondo della fotografia, seppur in forma molto limitata. Con questo capitolo cercherò di dare un po’ di consigli su come proporre delle foto che lasceranno i vostri amici a bocca aperta. Innanzi tutto c’è da dire che la qualità della foto di base è sicuramente un elemento fondamentale. Infatti, se il vostro soggetto fosse banale e magari anche sgranato o mosso, qualunque effetto applicato non riuscirebbe comunque a ridare bellezza alla foto. Il primo consiglio è quindi quello di cercare di avere una buona foto di partenza. Sebbene non sia fondamentale, può essere utile scattare la foto con una fotocamera di qualità che vi permetta di inviare rapidamente la foto originale ad alta risoluzione al vostro smartphone (vedi capitolo precedente). Perché serve avere la foto più pulita e alla massima risoluzione possibile? Semplicemente perché potrebbe essere necessario ritagliarla o ruotarla per ottenere una composizione e una prospettiva più interessanti, oltre che applicare degli effetti che potrebbero creare degli artefatti in caso di risoluzione troppo bassa (e.g. i classici “cubettoni” monocromatici). Nell’esempio di questo capitolo, ho scattato una foto con una Nikon D5000 con obiettivo 35mm f/1.8. All’interno ho inserito la scheda Transcend WiFi che mi consente quindi di trasferire (anche mentre sono a passeggio) agilmente la foto scattata ad alta risoluzione sul cellulare. Questo passaggio ovviamente non è obbligatorio e nel caso di smartphone di alta qualità e condizioni di luce buona è quasi superfluo. Infatti dobbiamo ricordare che il target sono i vari Instagram, Facebook etc, che saranno visionati da altri smartphone, tablet o al massimo degli schermi che comunque riprodurranno le immagini con una dimensione massima di un paio di megapixel.


Mettendo da parte i mezzi con cui scatterai la foto, la prima cosa a cui devi pensare è, come sempre, la composizione. Sui social, soprattutto grazie a Instagram e sui competitori, il formato più utilizzato è sicuramente quello quadrato. Di conseguenza, a meno che tu non voglia fare uno scatto esplicitamente rettangolare (in uno dei formati classici), cerca di scattare focalizzandoti solo su uno dei due lati corti dell’immagine e ricordateti di non catturare dettagli importanti su tutti e due i lati corti (nella prima immagine lo scatto sbagliato in cui non è possibile ritagliare il soggetto con un quadrato, nella seconda quello corretto). Questo è importante per evitare di non poter avere un quadrato minimo che copra il soggetto e che costringe a ritagliare l’immagine malamente. Puoi farti aiutare da diverse app che scattano modificando l’immagine sullo schermo per mostrarvi solamente il quadrato (la stessa Instagram per esempio). Il trucco della app non è applicabile, ovviamente, se scatti con una fotocamera esterna, per esempio una reflex.


Una volta che la nostra foto è nella galleria dello smartphone, possiamo cominciare ad applicare le modifiche che la renderanno sicuramente un successone. Innanzi tutto bisogna procurarsi una app per modificare l’immagine con effetti interessanti. Ovviamente ce ne sono una infinità ma in questo capitolo mi limiterò a parlare di quelle che utilizzo io. La migliore app gratuita che ho trovato è Snapseed (adesso acquistata da Google). Questa app per me è fantastica in quanto fornisce un rapido insieme di strumenti di ritocco rapido che danno un controllo quasi totale sul risultato finale, dal ritaglio alla luminosità, saturazione e così via. Inoltre fornisce anche un insieme di filtri già pronti per essere usati che possono comunque essere regolati in ogni parametro (a differenza di Instagram che applica il filtro e consente di modificare poco la resa dell’immagine). Tra le applicazioni a pagamento non ho trovato rivali per Photoshop (in versione mobile). Considerando quello che fa, costa veramente poco e consiglio a tutti di comprarla anche se il suo utilizzo è meno immediato di Snapseed e richiede di conoscere già più o meno come funzionano i programmi di fotoritocco classici.

Rotazione Nonostante la fotografia tradizionale abbia tra le sue regole di base quella di avere l’orizzonte perfettamente “orizzontale”, nei social questo viene spesso superato ed è anzi qualcosa che rende più insolite e interessanti le foto, ma bisogna farlo nel modo giusto. Se stai condividendo un paesaggio di mare, per esempio, in cui avrai la natura incontrastata che mostra la sua imponenza, non azzardarti a mettere l’orizzonte in obliquo o sembrerà (molto ridicolmente) che le montagne e gli alberi stiano lentamente scivolando giù dal


mondo. La rotazione deve servire a dare dinamicità e impressione di movimento. App come Snapseed permettono di gestire questa rotazione in maniera semplice e intuitiva (e anche correttiva nel caso del mondo inclinato). Questa rotazione non deve essere eccessiva e deve sempre seguire un movimento “entrante”: in sostanza, se scatti l’immagine con la corretta inclinazione dell’orizzonte, devi immaginare che il soggetto principale ruoti nel senso in cui “entra” nell’immagine. Per esempio, se hai un muffin a destra della tua composizione, la rotazione sarà leggera e in senso orario, in modo da spostare il focus seguendo una linea a “vortice” che conduce verso il centro. Questo serve per mantenere l’attenzione dell’osservatore all’interno del frame guidandolo con il movimento descritto.


Contrasto e rumore Le immagini così come riprodotte dalle fotocamere possono spesso risultare un po’ piatte ed è quindi utile aumentare il contrasto. Per fare ciò si può utilizzare sempre la app per regolare direttamente il contrasto, oppure si possono applicare delle tecniche più avanzate. Per esempio, in base alle luci dell’immagine, si può sperimentare aumentando il distacco tra quelle che sono dette “ombre e luci”: scurire le ombre e i neri e schiarire le luci e i


bianchi, aumenterà notevolmente il contrasto senza alterare troppo i toni (cosa che invece accade in generale usando i controlli chiamati “contrasto”). Quello che sicuramente può aiutare maggiormente è il controllo “sharpness” o “nitidezza”. Si tratta di filtri predefiniti che permettono di identificare i contorni degli oggetti nella foto e aumentarne il contrasto rispetto alle superfici che invece verranno lasciate intatte. Aumentare il contrasto ha però uno spiacevole effetto collaterale che è quello di rivelare maggiormente il rumore (quei fastidiosi puntini bianchi che rovinano l’immagine). App come Photoshop possono ridurre drasticamente il rumore, rendendo però l’immagine un po’ “sfocata” e in generale meno nitida. Questo è però un’ottima base per applicare i filtri predefiniti di Instagram o di Snapseed.


HDR vs Drama (aka Dragan Effect) Due degli effetti più belli da usare con la maggior parte dei soggetti sono HDR e Drama. Il primo sta per High Dynamic Range (vedi note tecniche alla fine del libro), cioè immagini che tendono ad apparire più simili a quello che vede l’occhio umano. In realtà l’hdr in sé non ha molto di eccezionale nelle foto, ma viene spesso utilizzato per indicare elaborazioni che includano il “tone mapping”, cioè un tipo di processo dell’immagine che la fa apparire con toni brillanti, accesi e spesso spettacolari (anche se meno realistici). Snapseed ha questa funzione integrata e permette di stabilire con precisione quanto questo processo debba essere intenso. Questo filtro è fantastico per migliorare la saturazione dell’immagine e secondo me va utilizzato senza eccessi, cercando di ottenere un risultato che non sia troppo finto. Anche il filtro “Drama” è già predefinito in Snapseed. Questo applica fondamentalmente un aumento drastico di contrasto e una desaturazione che permettono di ottenere immagini con una spettacolare chiarezza e cariche di contrasto. Tale filtro è particolarmente indicato quando si fotografano scene con elementi sparsi che creano trame casuali come le nuvole nel cielo (provare per credere). L’effetto ottenuto è molto simile a un famoso tipo di processo noto come “Dragan Effect” (dal nome del suo inventore) per aumentare il contrasto. Mi capita di usare questo filtro solo per aumentare il contrasto generale dell’immagine, riducendolo al minimo necessario e aggiustando la saturazione in modo da ottenere il tono normale.


Saturazione A questo punto dell’elaborazione per la quale si suppone che si siano spesi più o meno 10 minuti, si può giocare a piacimento con la regolazione della saturazione, la quale permetterà di rendere l’immagine più o meno carica ed esagerata a seconda del soggetto, che sia un selfie oppure un paesaggio. Il mio consiglio è di non esagerare mai con la saturazione elevata perché tende a risaltare il rumore dell’immagine e a creare una fastidiosa grana (soprattutto quando il processo di elaborazione viene fatto da uno smartphone). La desaturazione può invece aiutare a dare un tono drammatico all’immagine e simulare viraggi quasi professionali verso il tema monocromatico.

Vignettatura Una cosa che in pochi notano ma che ha un fortissimo impatto sull’osservatore è la vignettatura. Tecnicamente si tratta di una distorsione della lente (quindi qualcosa di brutto) che però tende a rendere più scuri (a volte più chiari) i bordi dell’immagine. Poiché l’obiettivo ha una forma circolare, la cosa ha l’effetto di creare un effetto “tunnel”. La cosa stupefacente è che con veramente poco si riesce a rendere l’immagine particolarmente attraente verso il centro. La vignettatura infatti inganna l’occhio, il quale tende a cercare le zone più luminose e contrastate dell’immagine, facendolo restare incollato e interessato al centro dell’immagine dove noi avremo piazzato il nostro soggetto. La cosa renderà spesso una foto banale qualcosa che sarà comunque in grado di attirare l’attenzione e quanto meno incuriosire l’osservatore. Quanto sbilanciarsi con la vignettatura? Io sostengo che il valore giusto sia quello che ad immagine grande non è quasi visibile ma è particolarmente evidente nel formato “thumbnail” cioè piccolo.


Usare il Bianco e Nero In ultimo c’è il processo di “recupero” per eccellenza. Il bianco e nero ha sempre un certo fascino. Purtroppo in tanti ne abusano ma la cosa positiva per lo scopo di questo capitolo è che ancor di più sono quelli che si lasciano rapire dal solo contrasto dei due colori a prescindere dal contenuto dell’immagine. Com’è possibile? Il principio è molto semplice. Quando l’immagine è monocromatica, il nostro cervello deve elaborare una quantità di informazioni minore rispetto a un’immagine comune, tuttavia si tratta di contenuti “irreali” (il mondo è a colori). Questo spinge il nostro osservatore a rimanere rapito dal forte contrasto tra bianco e nero e intento a “capire” l’immagine. Questi sono alcuni degli elementi che permettono a fotoamatori di prendere tantissimi “like” anche con foto tutt’altro che eccezionali ma convertite in bianco e nero. Tuttavia non basta prendere una app qualunque e dirle di convertire l’immagine in un disegno monocromatico. Bisogna anche tenere in considerazione tutti gli aspetti descritti in precedenza con un particolare occhio di riguardo per il contrasto. L’immagine deve avere forti contrasti e risultare comunque comprensibile, altrimenti si annullerà il principio della bellezza del bianco e nero.


Rimanere realistici Per concludere, una cosa fondamentale è cercare di avere come risultato finale un’immagine che non sembri finta, altrimenti perderemo tutta la fetta di “like” delle persone che “detestano” le immagini esageratamente fittizie. Ecco quindi il risultato finale: a sinistra l’immagine originale (con contrasto aumentato e ritaglio a quadrato) mentre a destra il risultato finale da condividere.

Alcune cose che personalmente cerco di evitare, a meno che non sia proprio


l’elaborazione che desideravo fare, è il classico effetto seppia o anticato. Trovo questo genere di foto spesso banali e preferisco di gran lunga un viraggio monocromatico intenso che serva per dare la giusta temperatura alla foto in accordo con il contrasto. Una cosa che invece mi piace molto è l’effetto grunge anche se in quel caso si sfocia più sull’elaborazione grafica che si discosta molto dalla fotografia puramente detta per i social.



Nozioni tecniche I sensori digitali: Full Frame vs Crop Quando si parla di reflex (ma in generale di fotocamere digitali), il sensore è uno degli elementi più importanti per la qualità dell’immagine. Per l’acquisto di una fotocamera non contano tanto i megapixel, ma la dimensione e le effettive capacità del sensore. Senza scendere nei dettagli delle varie marche o perdermi in paroloni come CMOS, retroilluminazione, etc., vorrei focalizzare questo capitolo sulle differenze generali ed essenziali tra i sensori delle reflex più costose, noti come Full-frame, e quelli noti come Crop.

Innanzi tutto, per fare un esempio rapido e dare un contesto, prendendo la linea Nikon disponibile alla stesura di questo post, una D610 è una full-frame mentre una D7100 è una crop. In prima battuta verrebbe da pensare che, poiché le full-frame hanno un sensore più grande (e costano molto di più) allora siano sicuramente meglio. Questo è vero nella maggior parte dei casi, tuttavia i sensori crop hanno i loro vantaggi rispetto al fratello maggiore e hanno anche grandissimi meriti. Inoltre questo confronto ha come obiettivo quello di prendere il più vasto pubblico possibile come “target” per il confronto. Se infatti mi venisse chiesto chi vincerebbe in senso assoluto, se la scelta fosse per un professionista che scatta eventi e matrimoni, direi senza ombra di dubbio full-frame. Ma se dovessi prendere in considerazione altri tipi di professionisti, per esempio fotografi per cataloghi,


microstock o semplicemente entusiasti della fotografia e semi-professionisti, allora la scelta non sarebbe così ovvia e varierebbe da caso a caso. L’immagine all’inizio del capitolo mostra chiaramente quale sia la differenza principale che si può capire più facilmente imbracciando “le armi” e facendo un paio di scatti. Per poter provare con mano bisognerebbe quindi scegliere un punto dove posizionarsi (e non muoversi da li), scegliere una lente full-frame (e.g. 50mm) e fotografare lo stesso punto con tutti i sensori disponibili, cercando di mantenere al centro del rettangolo esattamente lo stesso punto di riferimento (e.g. un oggetto fisso). Essendo chiaro che la differenza principale tra Full-frame e Crop sia la dimensione, cerchiamo anche di prendere dei riferimenti: Full-frame significa letteralmente “cornice completa” o “immagine completa”. Per essere completa, l’immagine o il riquadro deve avere un riferimento che in questo caso è la dimensione dei 35mm della pellicola. Il sensore full-frame è chiamato in questo modo perché una fotocamera reflex dotata di questo tipo di sensore è in grado di riprodurre un’immagine che ricopre lo stesso frame che ricopre una macchina a pellicola. Il sensore crop è chiamato così, invece, perché essendo più piccolo ma usando lo stesso sistema di lenti, riesce a ricoprire una porzione più piccola, registrando quindi una parte del frame che si potrebbe osservare dalla stessa posizione e con la stessa lente, usando una 35mm. Questo concetto è applicabile anche ai sensori delle fotocamere compatte, mirrorless e degli smartphone che hanno generalmente sensori più piccoli. Esistono anche sensori più grandi come il medio e grande formato, ma quelli hanno degli utilizzi specifici e normalmente costano quanto un rene al mercato nero. Vediamo quindi qualche dettaglio in più che dovrebbe aiutare a capire chi dovrebbe usare una full-frame e chi no:

Condizioni di luce scarsa Quando scarseggia la luce, elemento principale per la fotografia, è fondamentale avere uno strumento che sia in grado di raccogliere quanto meglio possibile tutta la luce a disposizione. In questo contesto a parità di tempo di esposizione, apertura e lente, più è grande il sensore, più sarà grande ciascun pixel e più sarà alta la qualità dell’immagine. I sensori Full-frame vincono senza dubbi di sorta sui sensori crop che invece produrranno immagini meno buone. Bisogna puntualizzare che il problema non è soltanto il rumore (la grana bianchiccia che si sparge sull’immagine quando fotografiamo la sera) che sarà sicuramente molto più gestibile in un full-frame, ma anche la gamma dinamica (per semplificare, l’ampiezza di colori che il sensore sarà in grado di riprodurre) finale che peggiora e diminuisce all’incrementare del valore delle ISO. Quindi un sensore Full-frame non solo sarà in grado di produrre meno rumore, ma tendenzialmente a parità di rumore


anche la qualità dell’immagine risulterà comunque superiore in un full-frame.

Qualità dell’immagine Come per le condizioni di scarsa luce, la dimensione del sensore influisce pesantemente anche sui dettagli. Infatti, se si considera come parametro la nitidezza e la precisione di un’immagine, a parità di megapixel, essendo i pixel di un sensore crop più piccoli, rischiano maggiormente di perdere delle informazioni. La natura infatti è sicuramente più fluida di un reticolo di quadratini e quindi tanto più piccolo è il quadratino, tanto maggiore è il rischio che questo assuma un colore errato risultando poi meno dettagliato nel complesso. Anche in questo caso, il sensore full-frame ha un vantaggio schiacciante nei confronti di un sensore crop.

Paesaggi e grandangolari Guardando alla dimensione del sensore, è facile intuire che se osservo un paesaggio attraverso il mirino di una full-frame, a parità di posizione e obiettivo potrò ricoprire una maggiore porzione di quanto sia visibile. Questo è vero in senso assoluto perché anche supponendo di poter avere degli obiettivi di millimetraggio estremo per i sensori crop (non consideriamo le aberrazioni da distorsione prospettica), lo stesso sistema di lenti sarebbe sempre più “wide” cioè largo su un full-frame. Di conseguenza è matematico che il fullframe vinca anche in questo campo. In realtà, bisogna considerare che il problema dei paesaggi ultra grandangolari è ormai risolto via software con gli ormai potentissimi mezzi che sono in grado di fare “photo-merge” automatici alla perfezione. Tuttavia il più generico problema del grandangolo non può essere risolto così facilmente, soprattutto se si pensa a situazioni in cui il soggetto non sia un paesaggio immobile e le condizioni di luce non siano ottimali.

Sport, bird-watching e fotografia a distanza in generale A parità di megapixel, bisogna spezzare una lancia in favore dei sensori crop. Il fatto che siano più piccoli, infatti, favorisce il fattore di ingrandimento dei soggetti a parità di distanza (una costante spesso negli sport quando si sta a bordo campo). In condizioni di luce abbastanza buona, in questi casi la dimensione dei pixel è relativamente meno utile a fronte di un maggiore dettaglio nell’ingrandimento (sempre a parità di tutti gli altri fattori, lente inclusa). Un sensore crop, infatti, avrebbe un fattore di ingrandimento pari a circa 1.5x, e in sostanza basterebbe un obiettivo di lunghezza pari a 200mm per ottenere la stessa inquadratura che si avrebbe con un full-frame usando un obiettivo a 300mm. Che vantaggi si hanno? Oltre al maggiore ingrandimento, si ha anche la possibilità di ottenere dei risultati di pari livello (e a volte superiori) con lenti meno costose. Ovviamente bisogna ricordare che se non c’è limite di prezzo, basta


semplicemente comprare un obiettivo con una focale maggiore per raggiungere lo stesso fattore di ingrandimento, tuttavia, come per il grandangolo, lo stesso obiettivo potrebbe essere usato in un crop e avere un ingrandimento ancora maggiore. In sostanza è un cane che si morde la coda.

Microstock, cataloghi e fotografia macro Il microstock, la fotografia per cataloghi o da mini-studio e spesso anche vari tipi di macro, richiedono al fotografo il massimo ingrandimento possibile a livelli di definizione elevati e spesso comportano guadagni molto più bassi di altri tipi di fotografia dove il fullframe è indispensabile. In questi casi, fare economia di attrezzatura non solo è conveniente, ma soprattutto per iniziare è un requisito per non dover spendere tutta la propria carriera ad ammortizzare quanto acquistato. Se si considera che nella maggior parte dei casi, quando si fotografa per il microstock o per i cataloghi, si ha la possibilità di controllare perfettamente la luce, allora in questo caso una reflex a sensore crop con alta densità di pixel sarebbe di gran lunga più utile di una reflex full-frame che bisognerebbe dotare di obiettivi molto più costosi per ottenere gli stessi risultati.

Costi e obiettivi Quando si parla di prezzo, il full-frame perde drasticamente tanti punti. Gli obiettivi che lavorano bene su full-frame sono normalmente molto più costosi. Facendo un rapido esempio, il 35mm f/1.8 Nikkor utilizzabile su full-frame costa (alla data di pubblicazione) circa 600€. L’equivalente (e di pari qualità) per DX (cioè crop in lingua Nikon) costa circa 200€. Inoltre, i sensori crop possono usare tutti gli obiettivi che si possono usare in fullframe, prendendo tra l’altro solo la parte migliore dell’obiettivo, cioè quella centrale, mentre il sensore full-frame non sarebbe in grado di ottenere risultati accettabili se si scattassero foto con obiettivi studiati per i sensori crop. Questo è un grande vantaggio dei sensori crop, sia in termini economici per chi vuole risparmiare, ma anche in termini di scelta in quanto i sensori crop hanno a disposizione tutti gli obiettivi esistenti mentre i full-frame solo un sottoinsieme.

Conclusioni In conclusione, il sensore full-frame è sicuramente di qualità superiore, anche perché normalmente montato in corpi macchina dotati di caratteristiche avanzate e maggiore qualità generale, tuttavia è evidente come non siano per tutti e spesso sia anche meno vantaggioso rispetto all’utilizzo di una reflex con sensore crop. Se poi non si hanno limiti di budget, allora è ovvio che tutto quello che si fa con le crop, si può fare tendenzialmente bene e spesso meglio con una full-frame, quindi non esistono impedimenti allo scegliere il


sensore piĂš grande e costoso.


Reflex, Mirrorless e compatte La reflex è da sempre il sogno di moltissimi fotoamatori che vogliono avvicinarsi a qualcosa di più “professionale” sia perché convinti che attrezzatura più avanzata faccia automaticamente foto migliori, sia perché effettivamente la qualità e le possibilità offerte dagli strumenti alternativi non sia all’altezza. Negli ultimi anni sono state immesse nel mercato una serie infinita di fotocamere che non sono semplici compatte e che riportano in piccolo la maggior parte delle caratteristiche delle reflex, cioè le mirrorless. Alcuni ne hanno colto subito le potenzialità e si sono buttati a capofitto su questi dispositivi, altri sono rimasti scettici e hanno comunque preferito acquistare una reflex. Anticipo sin da ora che trattandosi di due tipi di fotocamere che hanno qualità altissima e potenzialità enormi, è veramente impossibile stabilire un vincitore assoluto in questo confronto e che quindi il verdetto finale sarà semplicemente limitato agli aspetti analizzati. La domanda da porsi è quindi: “qual è la fotocamera giusta per me tra una reflex e una mirrorless?” Per cercare di dare tutti gli elementi possibili utili a darsi una risposta, proverò a confrontare i due tipi di fotocamera in relazione ai seguenti aspetti: longevità, evoluzione della tecnica fotografica, qualità, costo, maneggevolezza e comodità, gestione delle immagini, flessibilità sugli stili fotografici. Prima di iniziare con la sfida, senza scendere troppo nel tecnico, diamo un po’ di definizioni: Una single-lens reflex (SLR), detta anche solo reflex, è una macchina fotografica che permette di guardare attraverso il mirino ottico, ciò che “vede” esattamente l’obiettivo. Ciò avviene grazie a un piccolo specchio che deflette la luce che passa attraverso la lente, facendola rimbalzare verso il mirino stesso. Tale specchio si alza durante lo scatto, facendo sì che la luce non vada più verso il mirino ma vada a colpire il sensore. Mentre se parliamo di “mirrorless” esse sono note anche come EVIL che è l’acronimo di Electronic Viewfinder Interchangeable Lens. Questo tipo di fotocamere permette di avere la possibilità di cambiare le lenti (esattamente come le reflex) ma utilizzano un mirino elettronico senza specchio (da questa caratteristica deriva il nome) e un sistema più compatto. L’immagine viene quindi catturata dall’obiettivo e costantemente ripresa dal sensore ed è normalmente visibile su di uno schermo LCD come nelle compatte. Le due tipologie di fotocamera hanno molte caratteristiche comuni ma anche moltissime differenze. Iniziamo con i confronti.

Longevità


Dal punto di vista della durata di questi apparecchi, c’è da dire che si tratta di oggetti progettati per durare nel tempo. A parte i difetti di fabbrica che possono capitare in ogni settore, sia le reflex che le mirrorless sono pensate per rimanere nelle mani di un fotografo per lungo tempo… non troppo però… c’è il prossimo modello che vi attende. Gli aspetti da valutare però sono differenti: la longevità del prodotto dipende anche da quanto sia facile mantenere il proprio prodotto a livelli soddisfacenti nel tempo. Se consideriamo che le reflex esistono nel mercato già da moltissimi anni, prima in pellicola e poi nella loro naturale evoluzione digitale, possiamo affermare che come l’ultimo modello di corpo macchina reflex Nikon sia ancora in grado di utilizzare le lenti di 30 anni fa, questa linea di business non cambierà molto facilmente. Non si può dire lo stesso delle mirrorless: magari faranno lo stesso percorso delle reflex, ma sono dispositivi molto giovani al confronto e solo la risposta del mercato nel medio e lungo periodo stabilirà se le case produttrici continueranno a investire in retro-compatibilità che potrebbero portarsi dietro vincoli ed errori difficili da togliere nell’evoluzione dei prodotti. Se analizziamo le potenzialità di evoluzione della tecnica fotografica c’è da considerare che il mondo delle reflex è già pieno di moltissimi accessori pensati e nati appositamente per il mondo reflex (lenti, luci, sostegni per video e stabilizzazione, etc.). Alcuni di questi esistono anche per le mirrorless ma molti produttori preferiscono concentrarsi sul mercato dei professionisti per cui si tratta spesso di adattamenti. Questo significa che il fotoamatore che inizi con una mirrorless ma che possa avere intenzione di fare “qualcosa di più” e di evolvere la propria tecnica e il proprio stile, potrebbe nel lungo periodo sentire comunque il bisogno di acquistare una reflex. Guardando a questo aspetto oggi, dunque, l’acquisto di una reflex risulta ancora più lungimirante rispetto a quello di una mirrorless, ma ovviamente bisogna anche considerare che anche una reflex entry-level potrebbe avere lo stesso problema e la differenza di costo sarebbe notevole. Se poi il fotoamatore sa già di non essere un “tipo da reflex” allora i due tipi sarebbero addirittura equivalenti.

Autonomia Le reflex (esclusi i modelli di fascia bassa) sono sempre dotati di batterie in grado di sostenere una sessione fotografica intensa come un matrimonio o un catwalk. Inoltre, per la maggior parte dei modelli viene venduto separatamente il batterypack che generalmente raddoppia la capacità della batteria. Le batterie delle reflex sono generalmente piuttosto grosse (rispetto alle batterie di una compatta) e devono essere ricaricate attraverso gli appositi caricabatteria. I batterypack (o grip) hanno anche un certo peso. Se si fa un uso blando della reflex e non si guardano compulsivamente tutti gli scatti appena fatti, una reflex può durare anche più di una settimana. In realtà di solito l’autonomia viene misurata


in “scatti”. Di contro, le mirrorless hanno batterie più piccole e molto spesso ricaricabili direttamente nella fotocamera (come avviene per compatte e smartphone). La maggior parte usa cavi standard che è facile trovare in giro e alcune addirittura usano gli stessi cavi degli smartphone più diffusi. Inoltre, nel caso sia utile, le batterie aggiuntive di una mirrorless possono essere portate in tasca in quanto più leggere e sicuramente più economiche delle batterie (originali) delle reflex. Una mirrorless può durare, sempre in base all’utilizzo che se ne fa, anche quanto una reflex e da questo punto di vista è generalmente più facile da gestire della sorella maggiore.

Funzionalità di base e avanzate e semplicità d’utilizzo Sulle funzionalità di base e avanzate c’è poco da dire. I due tipi sono praticamente equivalenti. Ciò che cambia è la qualità di ciascuna caratteristica. Potrà capitare, per esempio, che il flash incorporato di una reflex sia più potente e che abbia un tempo di sincronizzazione più flessibile, o che le modalità scena automatica (escluse le reflex di fascia alta) siano più o meno “d’effetto”. Tendenzialmente le mirrorless replicano in tutto e per tutto le funzionalità e i controlli che può offrire una reflex. Ovviamente una reflex offre molti controlli avanzati che una mirrorless non ha: per esempio il flash incorporato potrebbe essere in grado di fare da comando remoto per flash esterni e così via. Dal punto di vista della semplicità d’utilizzo, le mirrorless vincono sicuramente in quanto ereditano il requisito che hanno avuto per anni le compatte, cioè quello di essere pronte per scattare in un attimo e senza dover girare rotelle e premere pulsanti. Chiaramente le mirrorless cercano di offrire il totale controllo sull’immagine che da una reflex, ma il modo in cui il mercato le percepisce rimane ancora quello di essere le nuove “punta e scatta” di altissima qualità. Per quanto riguarda le reflex, anche i modelli di fascia bassa sono dotati di molti pulsanti e ghiere sparse qui e lì che si imparano a usare solo leggendo il manuale e comunque solo col tempo e la pratica (anche da un punto di vista ergonomico, cioè di facilità nel raggiungerli con le dita mentre si guarda dentro il mirino). Inoltre, le reflex di fascia più alta non hanno la modalità automatica e le modalità scena, che le rende inutilizzabili da chi non sia già familiare con questo tipo di fotocamere.

Qualità delle immagini Se l’utilizzo che si fa delle foto di una mirrorless o della più costosa reflex è quello di caricare foto su Facebook, allora non c’è quasi differenza percepibile di qualità. Parlando da un punto di vista prettamente tecnico, ovviamente questo punto si chiude subito notando che le mirrorless hanno in generale sensori più piccoli, meno sensibili e più soggetti a rumore (anche se per esempio la Sony ha prodotto delle mirrorless con sensore full-frame, cioè di pari dimensione a quelli di reflex professionali). Inoltre le lenti prodotte


per le reflex hanno ancora un investimento sensibilmente superiore da parte dei produttori e il risultato è che gli obiettivi disponibili per le reflex hanno normalmente una qualità ottica superiore.

Maneggevolezza e comodità Come per il punto precedente, anche qui non c’è paragone. Una reflex non è studiata e progettata per essere “sempre in tasca”. Una reflex è pensata per assolvere al compito di fornire al fotografo il massimo degli strumenti e della qualità che possa desiderare per godersi la fotografia. Le mirrorless invece tentano di portare questa qualità e questi strumenti nelle mani di fotografi che fino a poco tempo fa si potevano anche accontentare di una compatta. Questo punto è critico nella scelta: se io dovessi fare solo foto mentre vado in viaggio con gli amici, per avere bellissimi ricordi e qualche foto da incorniciare, di sicuro preferirei una mirrorless che mi garantirebbe una buona portabilità, poco peso da trasportare e ottima qualità fotografica. Chiaramente se il mio scopo fosse quello di mandare un primo piano di Cristiano Ronaldo che gioca la finale dei Mondiali alla Gazzetta dello Sport mi orienterei su qualcosa di diverso…

Gestione delle immagini Entrambi i tipi di fotocamera permettono di scattare in RAW, cioè il formato grezzo originale senza compressione. Entrambi i tipi di fotocamere (escluse quelle di fascia più alta) usano memorie SD. Gestire le immagini è quindi assolutamente equivalente in entrambi i casi e la cosa dipende solo dalla risoluzione del sensore. Tanti più megapixel, tanto più grande deve essere la SD e l’archivio dove dovranno essere memorizzate. Occhio che i formati raw non sono facili da gestire con programmi gratuiti, o per motivi di prestazioni, o per limitazioni nello sviluppo dell’immagine.

Opportunità professionali Chi pensa che un fotografo dotato di mirrorless (o di compatta di qualità elevata) non abbia speranze nel mercato professionale della fotografia si sbaglia di grosso. Avere una fotocamera di questo calibro significa infatti poter scattare foto che possono essere vendute su siti online di micro e macro stock o realizzare lavori di nicchia o specifici di un certo settore. Un foto-reporter, per esempio, non ha bisogno di una pesante reflex per fare dei reportage in diretta per il sito di media digitali. Allo stesso modo, un designer di cataloghi non deve per forza utilizzare l’attrezzatura all’ultimo grido per fare qualche foto “close up” di un po’ di gioielli. C’è da dire che tutte queste cose sono perfettamente fattibili anche con una reflex che ovviamente può aprire anche un mondo di altre possibilità, dal mondo del giornalismo, al fashion, agli eventi come matrimoni, battesimi, feste e così via. Per quanto


si possano ottenere foto di altissima qualità, nella mia esperienza non ho ancora visto un fotografo professionista, scattare le foto per il book di una fotomodella con una mirrorless, ma nessuno può dire che non succederà o che non sia già successo da qualche parte nel mondo.

Costo La quantità di soldi da investire nell’attrezzatura fotografica è sicuramente una delle maggior discriminanti quando si tratta di scegliere cosa acquistare. Esistono reflex entrylevel che hanno un costo molto contenuto ed esistono mirrorless che hanno prezzi elevati. Generalmente il costo di una mirrorless è di gran lunga inferiore se si paragonano le varie fasce di appartenenza: entry-level, medio e alto. Basti pensare che il corpo macchina di una reflex di livello “pro” può costare oltre 4.000€ e che le lenti per reflex full-frame che un professionista “non può non avere” (e.g. il 24-70 per un fotografo di matrimoni) possono costare anche 1.600€ o più. Il mondo delle reflex è un mondo costoso. Di conseguenza, si può pensare di paragonare economicamente (e qualitativamente) una entry-level con una buona mirrorless e si dovrebbe valutare di acquistare una reflex facendo un investimento più alto solo se si pensa di volersi evolvere stilisticamente e tecnicamente in maniera completa e, anche se non professionale, a un livello paragonabile a quello di un professionista.

Conclusioni Inutile dire che entrambi i tipi sono per chi vuole uno strumento con cui potersi veramente divertire a fotografare sul serio e sono un po’ sprecate per fare giusto un paio di foto per Instagram. Smartphone e compatte (fino alla fascia media) sono ancora lontane dalla qualità di questi due giganti nel mercato e sicuramente (anche in fascia alta) meno flessibili. Le reflex vincono praticamente su ogni fronte, ma tutto ha un prezzo, e se si punta alla qualità professionale è anche piuttosto alto. Per quanto mi riguarda, dico semplicemente che il mercato è pieno di ottime fotocamere che possono soddisfare i desideri di quasi tutti e che in generale vige la regola che “se non sei disposto a spendere quei soldi, allora quell’accessorio/fotocamera/lente non ti serve”.


Raw e Jpeg Al giorno d’oggi, tutte le reflex e le mirrorless (e anche alcune compatte di alto livello) possono scattare foto in RAW o in JPEG. Chi si avvicina per la prima volta alla fotografia digitale, rimane spesso confuso da questi due formati, dalle loro differenze e dai vantaggi e svantaggi che ciascuno possa avere. In questo confronto vorrei cercare di fare un po’ di chiarezza e dare qualche indicazione sul perché sia ancora possibile far scattare le macchine fotografiche, anche di livello pro, in JPEG, e del perché esista e sia importantissimo il formato RAW. Innanzi tutto comincerei spiegando cosa sono i due formati: RAW significa letteralmente (dall’inglese) “grezzo”, e rappresenta l’immagine “senza perdita di informazioni”. JPEG è un formato di immagine compressa che può avere diversi livelli di qualità definiti dallo standard e che non garantisce la compressione senza perdita di informazioni. Ogni marca (e in generale fotocamera) ha il suo formato RAW, per esempio la Nikon utilizza il formato NEF. Questi file grezzi, nonostante la compressione, sono generalmente più grandi dei file JPEG anche alla massima risoluzione. Per essere precisi, parliamo di compressione: un’immagine digitale a colori può essere vista come una serie di tre grosse matrici fatte da quadratini (o rettangoli/pixel) determinata dalla dimensione e dalla risoluzione del sensore. Ciascuna delle tre matrici rappresenta uno dei tre colori del modello RGB tra rosso, verde e blu (Red, Green Blue). In ciascuno dei quadratini c’è scritta l’informazione del valore di intensità di quello specifico colore che è rappresentata da un numero intero limitato (e.g. 256). Supponiamo che quindi più sia basso il valore (e.g. 0) minore sia l’intensità di quel pixel. Il colore risultante sarà la somma (nel modello RGB) dei tre quadratini che rappresentano un pixel dell’immagine, uno per ciascun piano. Per esempio, se un pixel fosse completamente bianco e dicessimo che il valore massimo di ciascun quadratino fosse 256, potremmo dire che il pixel bianco sarebbe composto da un quadratino rosso del valore di 256, uno blu di valore 256 e uno verde di valore 256. Allo stesso modo, se per esempio dicessi che un pixel è rosso intenso, potrei dire che il valore del quadratino rosso sia 256 mentre sia 0 per gli altri due, e così via. Se si prova ad aprire un’immagine con programmi simili a Photoshop, è possibile vedere che nel salvataggio si ha a disposizione un valore chiamato “profondità” che normalmente varia tra 8 e 16 bit. Quel valore determina i formati con cui possiamo salvare l’immagine (per esempio, selezionando 16bit sarà disponibile PNG, ma non sarà disponibile JPEG). Senza entrare troppo nel dettaglio dei modelli di colore, è facile capire che un’immagine non compressa ha una dimensione massima che è sostanzialmente la profondità (e.g. 8 bit per il formato JPEG) per il numero di livelli di colore (3 = R, G e B)


per il numero di pixel. Facendo due conti si capisce immediatamente come un’immagine di questo tipo (normalmente detta bitmap) può occupare quantità di spazio enormi. Per questo motivo esistono i formati “compressi”. Uno di questi è il JPEG, che come dicevo prima, permette di ridurre notevolmente la dimensione ma causa la perdita di alcune informazioni. Il principio su cui si basano gli algoritmi di compressione è quello secondo cui si possono applicare delle regole che richiedono meno spazio per descrivere la stessa cosa. Per esempio, se avessi una fila di cento 1, potrei descriverla con cento caratteri “1” oppure con quattro caratteri che “convenzionalmente” rappresentano il numero di cifre uguali consecutive e la cifra (e.g. 1001, = 100 uni). Algoritmi come il JPEG, preferiscono la compressione alla preservazione dell’informazione, ammettendo qualche compromesso. Per essere più chiari, il formato JPEG permetterebbe di rappresentare una fila di 1000 uni secondo la regola precedente, semplicemente indicandola come 9991, e facendo quindi perdere un uno. Il formato RAW è anch’esso un formato compresso ma garantisce che non si perda nessuna informazione (e per tale ragione occupa più spazio).

Qualità reale e percepita Riguardo alla qualità non c’è storia. Qualunque qualità possa essere fornita dal JPEG può essere presente anche in un RAW mentre non è vero il viceversa. Il file RAW ha molte più informazioni di un JPEG e di conseguenza è oggettivamente migliore come qualità. Da un punto di vista della percezione non è possibile fare un vero confronto semplicemente perché il file RAW rappresenta un’immagine in una forma che non è “visibile” all’occhio umano ma che deve essere tradotta in una matrice di pixel che è solo il risultato di uno sviluppo delle informazioni presenti e quindi ne è un sottoinsieme. La qualità percepita, dunque, a parità di megapixel, non è paragonabile tra un RAW e un JPEG in quanto dipende interamente dallo sviluppo.

Spazio su disco Un JPEG è generalmente molto più piccolo di un file RAW, ma nella realtà questo dipende da quanto è grande la varietà di colori all’interno della scena ritratta. Un JPEG molto variopinto e con forti contrasti potrebbe avere un fattore di compressione rispetto all’originale che, alla massima qualità, non si allontana poi tanto dal file RAW. In più, col passare del tempo, tutti i produttori di fotocamere stanno migliorando sempre di più gli algoritmi di compressione senza deterioramento dell’immagine delle immagini grezze, con il risultato che i file grezzi sono sempre più piccoli in proporzione alla dimensione dell’immagine in termini di megapixel. Il vantaggio dei JPEG è evidente quando si scende di qualità. Un file JPEG in formato basic può essere da 10 a 100 volte più piccolo del corrispettivo file RAW.

Possibilità di Post-processing


I formati RAW possono avere 16 o più bit per “quadratino”, pertanto hanno una gamma dinamica molto più estesa di quella di un JPEG. In termini semplici significa che se un JPEG può “contare” da 1 a 256 in ciascun pixel, un RAW potrebbe contare da 1 ad almeno 65535. Se si prova a immaginare la cosa in “scala di grigio” cioè con un solo livello anziché tre, è come dire che un JPEG può rappresentare 256 intensità dal nero al bianco, mentre il RAW almeno 255 volte di più. Questo si riflette sul fatto che in fase di sviluppo ed elaborazione dopo lo scatto, lavorare con un RAW permetta di fare molte più cose rispetto a un JPEG. Per esempio, in un RAW sarà molto più facile tirare fuori i dettagli dalle ombre in una foto che era stata esposta per catturare i dettagli in risalto al sole mentre non sarà probabilmente possibile il viceversa nel JPEG, dove i dettagli delle ombre saranno stati scartati per permettere alla fotocamera di rendere in maniera dettagliata e visibile le parti illuminate.

Software di elaborazione I JPEG vincono facilmente quando si parla di software di gestione ed elaborazione. Infatti ormai qualunque dispositivo informatico, dagli smartphone ai computer desktop, sono in grado di leggere, modificare e catalogare facilmente il formato universale JPEG. Lo stesso non si può dire del formato RAW che essendo proprietario di ciascun produttore, richiede dei software studiati appositamente per decodificarli. Questi software devono anche sapere come elaborare le informazioni decodificate. A differenza dei software per i JPEG, quelli anche di base per l’elaborazione o non sono molto efficaci oppure sono a pagamento (e non sempre economici).

Versatilità Anche in questo caso il JPEG vince sul RAW. In effetti il formato RAW non è molto versatile… anzi non lo è per nulla. L’uso reale del file grezzo è quello di essere un contenitore di tutti i dati possibili che rappresentano l’immagine da cui estrarre un formato visibile, per esempio un JPEG o un PNG. Il JPEG invece è un formato molto versatile, visibile su qualunque dispositivo e capace di avere diversi livelli di qualità ottimali per qualunque utilizzo, dalla stampa alla condivisione su social network e così via.

Conclusioni Per tirare le somme, direi che bastano pochi punti per notare che il formato RAW è sicuramente il formato migliore da utilizzare se si vuole avere il controllo delle proprie fotografie e la possibilità di spaziare in termini di sviluppo. Tuttavia è anche evidente come esistano svariate situazioni in cui il RAW non sia necessario: per esempio, se stessi facendo delle foto da condividere su facebook e senza particolare attenzione, a che cosa potrebbe mai servire fare foto da 24MB in formato RAW da dover quindi trasferire su un pc in modo da elaborarne un jpeg da poter quindi riportare sullo smartphone e poterla


condividere su Facebook? Non sarebbe mille volte più semplice scattare in JPEG su una scheda SD WiFi e trasferirla direttamente sul proprio smartphone, dove la si potrà elaborare rapidamente con snapseed o app simili? In generale ritengo che la soluzione migliore sia scattare sempre in RAW, soprattutto quando si fanno foto di un evento, per un lavoro o per qualunque cosa che non sia una semplice foto estemporanea. Chiaramente questo implica che si occuperà più spazio, quindi è possibile che se si fanno molte foto, i propri dispositivi di archiviazione come hard disk, chiavette e spazio cloud sul web possano esaurirsi in fretta. Un buon modo per ottenere un compromesso decente è quella di impostare la fotocamera per salvare tutti e due i formati, in modo da averne una versione subito disponibile per condivisione o altri usi, e di poter scegliere in seguito e con calma se mantenere il file RAW o no (senza doverlo prima sviluppare). Questa soluzione è molto valida, per esempio, se si scatta al un matrimonio di un amico e si vogliono “regalare” subito le foto in una di quelle cornici digitali, oppure se si vuole fare una foto durante una scampagnata e inviarla subito agli amici o in mille altre situazioni simili dove avere un JPEG di anteprima è molto più utile che avere un file grezzo da dover sviluppare. Tuttavia se la foto va sviluppata per bene (anche se poi il formato finale sarà JPEG a bassa risoluzione) non c’è storia: RAW, RAW e solo RAW.


Le regole alla base della composizione La composizione è un elemento fondamentale della tecnica fotografica è caratterizza la differenza tra un buono scatto da un pessimo scatto. Imparare le regole che stanno alla base della composizione è abbastanza semplice ma la parte difficile è farle diventare istintive e addestrare il proprio occhio fotografico. Per fare ciò esiste un solo modo: fotografare con costanza. Per comprendere come funziona la composizione bisognerebbe partire dai tempi antichi e da come essa sia stata studiata approfonditamente dai più grandi artisti della storia. La composizione, infatti, non è molto diversa tra un quadro dipinto e una fotografia, con la differenza che nella fotografia si ha meno controllo degli elementi che compongono la scena. La composizione è un insieme di elementi che fanno sì che il cervello umano, attraverso l’occhio, percepisca un’immagine bilanciata, piacevole e interessante, che lo inviti a studiarne i dettagli e a lasciarsi catturare dal messaggio che essa contiene. Per quanto poetica possa sembrare, la composizione è comunque fatta di regole che sono state ridotte e semplificate al massimo per essere comprensibili e riproducibili con semplice geometria. Il primo elemento della composizione, che ereditiamo dalla natura e dal suo studio nell’arte, è la sezione aurea. La sezione aurea, o rettangolo aureo, è una curva determinata dalla suddivisione dell’immagine in rettangoli seguendo la serie di Fibonacci. Essa determina una linea su cui bisognerebbe tracciare con crescente intensità gli elementi dell’immagine.


La sezione aurea è stata nel tempo semplificata, soprattutto in ambito fotografico, usando l’insieme di regola dei terzi e peso fotografico. La regola dei terzi è diventata la colonna portante della composizione fotografica, ormai nota alla maggior parte delle persone anche grazie alla sua presenza nei mirini elettronici di tutte le fotocamere, incluse le compatte e gli smartphone. In pratica bisogna prendere l’immagine e suddividerla in tre parti uguali sia verticalmente che orizzontalmente. Si otterranno così quattro punti di incrocio, ciascuno dei quali rappresenta un punto critico dell’immagine. Questi punti dovrebbero essere utilizzati per posizionare il soggetto principale e gli elementi che ne bilanciano il peso fotografico. Il peso di un oggetto in una fotografia dipende da vari fattori che possono andare dalla dimensione, al peso effettivo dell’oggetto alla sua quantità di dettagli. Un’immagine andrebbe sempre considerata come sopra una bilancia. Gli elementi che la caratterizzano sposteranno l’ago della bilancia verso destra o verso sinistra. L’occhio umano è più piacevolmente interessato a rimanere su di un’immagine bilanciata piuttosto che su una sbilanciata. Per esempio, se posizionassimo un uomo in primo piano sull’incrocio in basso a destra e lo inquadrassimo con un piano completo fino all’incrocio in alto della griglia, dovremo fare in modo che sulla parte a sinistra, e in particolare sugli altri due incroci, siano presenti degli elementi di sfondo che vadano a rendere significativo quello spazio, senza però distrarre dal soggetto principale. Lo spazio che serve a controbilanciare il soggetto principale è detto, per l’appunto, spazio negativo. La regola dei terzi e il peso fotografico sono elementi che normalmente sono più


semplici da identificare e da controllare nella composizione, tuttavia l’occhio umano è attratto e interessato anche da altri elementi che fanno sì che l’immagine risulti accattivante. Queste altre regole sono fondamentalmente geometriche e istintive.

In primo luogo, l’uomo è attratto dal colore rosso, il colore del sangue e che richiama pericolo e attenzione. Il colore rosso è le sue sfumature attivano subito l’attenzione dell’osservatore perché attivano i suoi ricettori più istintivi. Questa caratteristica può essere sfruttata per attirare l’attenzione su di una zona particolare del soggetto che si sta fotografando. Inoltre bisogna tenerlo in considerazione per evitare che nello sfondo ci siano elementi rossi che potrebbero distrarre l’osservatore, attirando l’attenzione nelle zone meno significative dell’immagine. Un’altra caratteristica che attira l’attenzione dell’occhio umano, sono contrasto e luminosità. L’occhio è attratto dalle zone più luminose ed è interessato dal contrasto. Ciò


significa che nella composizione bisognerebbe cercare di sfruttare la luminosità in modo che faccia focalizzare l’osservatore nelle zone interessanti. Questo spiega il perché le foto con una certa vignettatura un po’ retrò risultino spesso più intriganti. Il contrasto, a sua volta, invita l’occhio a guardare i dettagli, pertanto risulta più ovvio il perché un’immagine ricca di elementi e di zone completamente a fuoco possa dare un senso di confusione. In sostanza, nel comporre la scena, la semplicità è importante, dove per semplicità non si intende avere uno sfondo banale e uniforme, ma avere meno elementi di distrazione possibile. Il bokeh, cioè la sfocatura, sullo sfondo può aiutare a cambiare radicalmente il risultato finale di una fotografia. Una fotografia, come un dipinto, è caratterizzato da forme geometriche. Nei secoli è emerso che alcune delle cose che danno piacevole interesse o comunque che intrigano istintivamente l’occhio dell’osservatore sono le componenti geometriche che portano simmetria o temi ripetitivi. Per rendersi conto di ciò, potrebbe essere utile fare un esperimento, cioè fare una foto apparentemente banale e rendersi conto di quanto però possa essere interessante: prendiamo un piccolo pupazzo e poggiamolo sul pavimento (possibilmente di parquet o di mattonelle) e cerchiamo una prospettiva che faccia in modo che le linee del pavimento conducano l’occhio dall’alto della fotografia verso la linea orizzontale più bassa della griglia dei terzi, dove avremo posizionato il soggetto. Due semplici elementi geometrici, cioè simmetria e linee guida renderanno la fotografia molto meno banale di quello che potrebbe apparire inizialmente.


Un’altra regola importante nella composizione è riempire il fotogramma. Questa regola significa, in parole povere, fare in modo che nell’immagine siano presenti solo gli elementi di interesse, insieme agli spazi di respiro, facendo in modo che il soggetto principale abbia tutto lo spazio necessario per essere rappresentato correttamente. Questo è valido per tutte le fotografie, anche quelle delle vacanze: se si realizza una foto


ricordo di una persona con un monumento alle sue spalle, la foto dovrebbe ritrarre il soggetto a mezzobusto o a corpo intero, lasciando il corretto spazio al monumento, ma soprattutto riducendo al minimo lo spazio in basso dedicato alla strada o in alto per il cielo, elementi che non contribuiranno né alla bellezza del soggetto, né a ricordare il monumento visitato. Infine, quando si parla di composizione, bisognerebbe imparare a distinguere la parte statica e quella dinamica. In una fotografia ci sono elementi immobili, che fanno ovviamente parte della componente statica, ed elementi che invece sono in movimento, che si posizionano nella componente dinamica. Gli elementi statici possono essere utilizzati seguendo tutti i criteri precedentemente descritti, mentre quelli dinamici possono essere più complessi da gestire in quanto il loro movimento si tradurrà nella percezione di un peso o di una direzione che verrà poi seguita dall’occhio. Un uomo che cammina in una direzione creerà inevitabilmente un peso maggiore davanti a sé, riducendo drasticamente il peso alle sue spalle. Per comprendere al meglio la differenza percettiva, si può fare un veloce e semplice esperimento. Si prenda una parete bianca e un soggetto umano in movimento e lo si fotografi durante il movimento in tre istanti precisi: appena entrato all’interno dell’immagine e all’altezza della prima linea verticale della griglia dei terzi, in mezzo all’immagine e appena giunto alla seconda linea della griglia. La prima immagine sarà quella che risulterà più bilanciata e gradevole. La seconda immagine risulterà banale, mentre la terza sarà quella che darà un leggero fastidio percettivo dovuto allo sbilanciamento e al vuoto lasciato dietro il soggetto, oltre che all’impossibilità di sapere verso dove si muove il soggetto. Parlando di dinamicità della composizione è importante identificare i percorsi che si vengono a creare in un’immagine. Se si considera un ritratto dove siano presenti più volti, per esempio, bisognerebbe fare in modo che i volti vadano a costruire un percorso che guidi l’occhio dell’osservatore attraverso un movimento gradevole e piacevole, e non vada invece a creare linee spezzate. In conclusione è facile intuire che le regole si imparano velocemente ma che la composizione non è solo un insieme di regole ma uno studio che precede e segue ogni scatto. Una fotografia non è fatta, nella maggior parte dei casi, di un solo scatto ma di molti scatti attraverso i quali il fotografo studia il soggetto e ne identifica la migliore distanza, prospettiva e luce per catturare quel soggetto. La composizione è anche una questione di empatia: le regole si potrebbero sintetizzare nello studio di ciò che è familiare e ciò che non lo è. Nel primo caso si potrà dire che la composizione, se fatta di elementi geometrici che creano familiarità, allora sarà una buona composizione, piacevole alla vista, viceversa creerà tensione. La tensione, in un’immagine, potrebbe essere voluta poiché una fotografia non è solo un insieme di regole tecniche ma è la concretizzazione di


emozioni che si fondono nel “momentum�.


Apertura e Tempo di esposizione Saper fare delle belle fotografie richiede sicuramente creatività, occhio, intuito e soprattutto qualcosa da raccontare. Ovviamente per quanto queste cose siano fondamentali, è altrettanto importante conoscere almeno le basi fondamentali su cui si basa la tecnica. Quando si parla dell’ABC della fotografia, due parametri che bisogna imparare a capire e usare sono l’apertura e il tempo di esposizione. Questi due parametri, infatti, determinano la correttamente esposizione della foto. Inoltre, oltre a far sì che l’immagine sia sovraesposta o sottoesposta, tali parametri determineranno se il soggetto e lo sfondo saranno a fuoco, mossi o totalmente sfocati. Essi sono la chiave per la riuscita di una buona foto. Nella definizione propria della fotografia, un diaframma corrisponde ad un’apertura circolare o poligonale, che si trova all’interno dell’obiettivo. Essa ha il compito di controllare la quantità di luce che raggiunge il sensore (o la pellicola, nel caso di fotocamere analogiche) per la durata di tempo in cui rimane aperto l’otturatore. Il tempo di esposizione è invece il tempo durante il quale l’otturatore, cioè il componente che determina se la luce debba impressionare il sensore o meno, rimane aperto. Da queste definizioni si può intuire che l’apertura indica quanta luce colpisce il sensore e il tempo di esposizione ci dice per quanto. L’esposizione finale della foto è il risultato dei due parametri precedenti, cioè per quanto tempo facciamo entrare una data quantità di luce attraverso l’obiettivo. In questo articolo proveremo a capirli con meno tecnicismi e più esempi pratici. Quando mi capita di spiegare la dinamica dell’esposizione a persone che non hanno mai sentito parlare di fotografia, mi piace usare un paragone che rende l’idea, a mio avviso, in maniera molto semplice e immediata: il rubinetto che riempie un bicchiere.


Il bicchiere rappresenta l’esposizione che vogliamo ottenere, cioè la quantità totale di luce che il nostro sensore può contenere prima di perdere acqua (ovvero informazione). Il rubinetto da cui esce l’acqua rappresenta fonte della luce che colpisce il sensore e l’acqua, infine, rappresenta la luce. Come è facile provare di fronte a qualunque rubinetto, vi renderete conto che per riempire il bicchiere fino a metà o fino all’orlo, a seconda di quale sia il nostro desiderio, è necessario una precisa quantità di tempo che dipende da quanto più apriamo il rubinetto. Per completare l’esempio, il “quanto” apriamo il rubinetto è la nostra apertura del diaframma, e il “quanto tempo” è il nostro tempo di esposizione. Da questo esempio è chiaro che quello che fa un fotografo è fondamentalmente scegliere un bicchiere (sensore, per esempio quello montato dentro una reflex crop o una full-frame), scegliere quanto vuole riempirlo (per esempio fare un ritratto in chiave alta, cioè con forti luci che avvolgono il soggetto), e osservare l’acqua che riempie il bicchiere fino al punto desiderato… ecco, questa è la parte difficile. In effetti, guardare l’acqua che riempie un bicchiere è semplice, mentre è praticamente impossibile fare lo stesso con le fotografie. Come fare dunque per imparare? Le reflex o in generale le fotocamere di livello un po’ più alto di una semplice compatta, normalmente danno la possibilità di utilizzare delle modalità semi-automatiche che possono cominciare ad aiutarci a capire come calcolare rapidamente dei valori che siano più o meno corretti e che potremo correggere rapidamente dopo qualche scatto di prova. Queste modalità sono note normalmente come “modo A”, cioè con priorità di apertura, in cui il fotografo può scegliere il valore dell’apertura del diaframma (cioè “quanta acqua” entra a parità di tempo nel bicchiere) e la fotocamera calcola il tempo di esposizione, o “modo S” in cui avviene il contrario, cioè si sceglie per quanto tempo l’acqua (la luce) scorre e la fotocamera deciderà automaticamente quanta ne scenderà in quel periodo di tempo. Una volta imparate a usare queste due modalità ci si renderà conto che ci saranno molte limitazioni, per esempio l’impossibilità (o la difficoltà) a decidere “quanto riempire il bicchiere”. La fotocamera infatti cercherà sempre di calcolare i parametri automatici per riempire il bicchiere nel modo che essa ritiene più corretto. Il modo migliore per imparare a dominare questi due parametri è passare al “modo M”, cioè totalmente manuale. Questo permetterà di scegliere anche quanto il bicchiere dovrà essere riempito. Le unità di misura per calcolare questi due parametri sono la “f” per il diaframma, i cui valori sono anche spesso chiamati come stop, e i secondi. Una foto scattata a 1/100s avrà quindi un tempo di esposizione pari a 1 centesimo di secondo. La “f” ha invece dei valori che hanno spesso poco senso per chi non vuole mettersi a


calcolare formule strane. Di solito è possibile vedere valori come 1.4, 1.8, 2.8, 5.6 etc. Questi valori rappresentano il risultato di un’equazione che serve a dirci, in parole povere, che tanto più è piccolo il valore della f, tanta più luce entra nel sensore. Effettivamente spesso risulta insolito vedere un numero che rappresenta qualcosa di grande se è piccolo e viceversa. Dopo un po’ però ci si abitua. La cosa importante da sapere è che quei numeri non sono scelti a caso e che ci permettono comunque di calcolare velocemente la quantità di luce perché vale ancora il rapporto proporzionale per cui se passo da f/1.4 a f/2.8, avrò dimezzato la quantità di luce perché, come spiegato prima, 2.8 è il doppio più chiuso di 1.4 (1.4 x 2 = 2.8). Più precisamente la progressione degli F-Stops (cioè dell’unità di misura dell’apertura) non è lineare rispetto all’etichetta numerica come potrebbe lasciare intendere l’esempio 1.4 x 2 = 2.8, perché per esempio 5.6 x 2 sarebbe in realtà f/8, ma rispetto a quello che si intende proprio per F-Stop. Ecco una pratica tabella riassuntiva:

Valore

1

2

4

8

16

32

64

128

256

1.4

2

2.8

4

5.6

8

11

16

22

proporzionale

Valore f/

512

1024

2048

4096

8192

16384

32768

32

45

64

90

128

180

256

Questa tabella rende più esplicita la proporzione di quello detto prima: se per esempio imposto l’apertura a f/8, starò facendo entrare, a parità di tempo di esposizione, il doppio della luce che entra a f/11 e la metà di f/5.6. Il tempo di esposizione è normalmente una caratteristica del corpo macchina che è in grado di aprire e chiudere il diaframma (e quindi effettuare un’esposizione) con un certo tempo minimo e un certo tempo massimo, passando per una serie di intervalli precisi come orologi svizzeri. L’apertura è invece una caratteristica dell’obiettivo. Di solito, gli obiettivi meno costosi, hanno apertura massima vicina a f/3.5 e minima vicina a f/16. Obiettivi professionali e in genere più costosi possono raggiungere aperture di f/2.8 (se zoom) e di f/1.4 (se a lunghezza focale fissa). Ovviamente esistono eccezioni come obiettivi a focale fissa che vanno a 1.2 (come il leggendario Canon 50mm) o zoom ultraavanzati come il Sigma 18-35 che al momento della stesura di questo capitolo è l’unico


zoom in commercio con apertura focale massima fissa a f/1.8. Di solito su tutti gli obiettivi si può leggere il valore di maggiore interesse, cioè la massima apertura focale, sulla ghiera o sulla parte anteriore vicino alla lente frontale. Quando si legge un valore singolo (e.g. f/2.8) vuol dire che lungo tutte le possibili lunghezze focali, l’apertura non varia (e.g. 17-50 f/2.8 significa che sia a 17mm che a 50mm si potrà avere un’apertura pari a f/2.8). Quando invece il valore è composto, allora vuol dire che alla minima lunghezza focale si avrà il valore massimo dell’apertura, mentre alla massima lunghezza focale si avrà quello più basso (e.g. 18-55mm f/3.5-5.6 significa che l’apertura massima del diaframma sarà di 3.5 a 18mm e scenderà a 5.6 a 55mm di lunghezza focale). In generale, obiettivi dotati di grandi aperture focali possono essere (e normalmente lo sono) più grandi e pesanti per via dei complessi sistemi di lenti e la necessaria larghezza del vetro attraverso cui passerà la luce. I valori di questi due parametri non servono solo a determinare l’esposizione della fotografia (che tra l’altro dipende anche da un altro fattore fondamentale che è il valore delle ISO di cui si parla in un apposito capitolo), ma rappresentano i pennelli nelle mani del fotografo. Infatti, una volta stabilita la composizione, il fotografo dovrà decidere che livello di profondità e dinamicità dare alla propria fotografia. Apertura e tempo di esposizione permettono di stabilire tutto ciò. A parità di esposizione, infatti, variare il tempo di esposizione permetterà al fotografo di dare staticità o movimento ai propri soggetti. Per esempio, se si volesse bloccare in un’immagine la corsa di un cavallo, si dovrebbe usare un tempo di esposizione più corto della velocità con cui l’animale galoppa. Se invece si volesse dare il senso di rapidità con cui il cavallo si muove, basterebbe usare un tempo più lungo, facendo così ché nella foto le zampe risultino volutamente mosse. Ottenere il risultato che si immagina non è facile e sintetizza tutte le doti del fotografo. L’unico modo per imparare è provare. Un modo molto facile per cominciare a imparare è studiare l’acqua. Prova a metterti di fronte a un lavandino e fare scorrere un po’ d’acqua a filo. Metti la fotocamera su di un treppiede e prova a fare degli scatti in modo S a differenti velocità. Se avrai delle condizioni di luce ottimali, noterai che tanto più basso sarà il tempo di esposizione, tanto più facilmente riuscirai a vedere la sequenza di gocce che scendono dal rubinetto. Se invece userai un tempo di esposizione più lungo, vedrai l’acqua scendere in un unico flusso (un po’ come a occhio nudo). Di seguito degli esempi che cercano di mostrare la differenza tra foto effettuate variando questi due parametri, a parità di ISO e obiettivo. In questo caso, le foto sono scattate con una Nikon D5000 e un 35mm f/1.8.


Per quanto riguarda l’apertura, invece, il discorso si fa più complesso e intrigante. L’apertura del diaframma determina infatti qual è la profondità di campo della foto. In altre parole l’apertura del diaframma determina la quantità e la qualità del bokeh, cioè la sfocatura dello sfondo e degli oggetti in primissimo piano rispetto al soggetto. Per capire questo concetto, bisogna passare da quella che è nota come fotocamera pinhole: immagina di avere una fotocamera con davanti un obiettivo che sia largo quanto il più piccolo dei raggi di luce. Ora prova a immaginare il soggetto e la scena che fanno partire dei raggi di luce da ciascuno dei punti possibili, tracciando una linea che passa attraverso il pinhole e colpisce il sensore. Si riesce a intuire che ogni singolo raggio di luce sarà talmente preciso che ogni singolo punto della scena ripresa sarà perfettamente dettagliato. Se cominciassimo ad allargare il buco dell’obiettivo, noteremmo che il raggio, più piccolo del


buco, potrebbe passare non da una singola linea retta, ma da più possibili linee rette. Ciò che accade nella realtà è proprio questo. Ciascun raggio di luce colpisce in maniera precisa il centro del “buco” come se fosse in un “pinhole”, tuttavia, essendo più piccolo e potendo spostarsi dalla linea retta principale, colpirà con meno energia anche dei punti vicini, risultando più blando e “sfocato”. Questo sarà tanto più accentuato tanto più lontana sarà la sorgente del raggio di luce rispetto al piano di messa a fuoco, cioè quel punto in cui invece tutti i raggi sono precisi e perfetti.

L’esempio precedente cerca di semplificare in maniera veramente basilare la matematica dietro all’effetto che si ottiene aprendo o chiudendo l’obiettivo. Per capirlo più semplicemente, basta dire che, tanto più aperto è l’obiettivo (e.g. f/2.8) tanto più sfocato sarà lo sfondo e tanto più staccato ed evidenziato risulterà il soggetto. Questo è molto importante, per esempio, per i ritratti, dove bisogna focalizzare l’attenzione dell’osservatore sul soggetto ritratto e non distrarlo con lo sfondo. Sempre traendo spunto dalla spiegazione precedente, lo sfondo risulterà tanto più sfocato (e quindi con maggiore bokeh), tanto maggiore sarà la distanza dello sfondo. Di conseguenza si può ottenere uno sfocato gradevole in due modi: aprendo il diaframma, oppure avvicinandosi al soggetto e facendo quindi aumentare il rapporto tra la distanza del piano di messa a fuoco dallo sfondo.


ISO Tra i parametri che è possibile utilizzare per ottenere una corretta esposizione c’è anche la sensibilità ISO. Infatti, oltre a decidere quanta luce debba entrare dall’obiettivo e per quanto tempo debba colpire il sensore o la pellicola, è anche possibile scegliere quanto questa luce sia intensa a parità di tempo di esposizione per ciascun punto del sensore o della pellicola. Quando ancora non c’era il digitale, questo dipendeva dalla pellicola stessa e quindi non era possibile scegliere di cambiare il valore ISO durante una sessione fotografica, a meno di cambiare il rullino (e di perdere le foto non ancora scattate). Le pellicole avevano quindi un valore di ISO che ne definiva la “velocità”. Una pellicola lenta era una pellicola che necessitava di più tempo rispetto a una pellicola più veloce, per ottenere la stessa esposizione. Il problema delle pellicole molto veloci, e quindi capaci di avere delle corrette esposizioni anche in condizione di scarsa luce, era la grana visibile sul risultato finale. Oggi, con il digitale, chiameremmo questa grana “rumore” anche se non si tratta propriamente della stessa cosa. Più la sensibilità ISO è alta, maggiore sarà l’intensità luminosa registrata nello stesso intervallo di tempo. Per rendersi conto di ciò, è possibile mettere la macchina fotografica su di un cavalletto e impostarla su M (modalità completamente manuale), fissare una certa apertura del diaframma e un tempo di esposizione e scattare la stessa foto con i vari valori di ISO. Si potrà notare che tanto più alto sarà il valore ISO, tanto più luminosa risulterà la foto. Aumentando di troppo questo valore si noterà che l’immagine si riempirà di vari puntini bianchi detti rumore digitale. L’uso delle ISO è molto utile per poter gestire le situazioni di scarsa luminosità in cui non sia possibile aumentare il tempo di esposizione. Un esempio classico è un servizio di matrimonio: le chiese sono luoghi molto meno illuminati di quel che si percepisca. L’occhio umano, infatti, compensa l’oscurità facendoci percepire il tutto come regolarmente illuminato. Il sensore, invece, non ha la stessa capacità di adattamento in quanto è comandato dalle impostazioni che regolano l’esposizione (tempo, apertura, etc.). Da quando esiste il digitale si sente sempre di più di fotocamere in grado di raggiungere valori altissimi e che promettono qualità anche al buio. Ma cosa significa realmente aumentare o diminuire le ISO nel mondo del digitale? Sebbene il termine sia stato ereditato dal mondo analogico della pellicola, la sensibilità ISO per i sensori CMOS e similari è qualcosa di completamente diverso. Esso è infatti un guadagno di potenza utilizzato per amplificare il segnale catturato dal sensore. In pratica, se la luce registrata avesse un valore di 10, raddoppiando il valore ISO, questo sarebbe memorizzato come 20 (semplificando). Questo guadagno di potenza non è, ovviamente, gratuito. Cosa succede


quando si alza il valore delle ISO? La maggior parte delle persone parlerebbero subito del rumore, tuttavia questo non è il problema più grosso. Il rumore infatti, costituito dai puntini bianchi che sembrano rovinare l’immagine, è dovuto a quei punti del sensore che a causa del guadagno utilizzato, non riescono a calcolare bene il valore preciso della luce in quel punto e quindi ne registrano un valore non realistico. Tale rumore può spesso essere facilmente ridotto usando dei filtri sulla luminanza o altri processi software che sono in grado di ridurne l’impatto sull’immagine finale. Il problema più grosso che riguarda l’aumento delle ISO è la perdita di gamma dinamica del sensore. La cosa è ovvia se si analizza il suo funzionamento da un punto di vista più “matematico”. Il sensore digitale è per definizione una struttura discreta, capace di memorizzare dei valori definiti che vanno, per esempio, da 1 a 256, secondo la taratura di base. Supponiamo che il sensore lavori al meglio e in condizioni definibili normali al valore di ISO pari a 100. Ciò significa che mantenendo questo valore di sensibilità, quando si effettuerà uno scatto, ciascun punto del sensore sarà in grado di memorizzare 256 valori. Semplificando al massimo, supponiamo di raddoppiare le ISO. Ciò significa che il sensore raddoppierà il valore registrato. Ciò significa che se la luce registrata fosse 1, allora il pixel relativo a quel valore memorizzerebbe 2. Se il valore fosse 3, allora memorizzerebbe 6. Inoltre, qualunque valore al di sopra il 128, risulterebbe in un pixel totalmente bianco o “bruciato”, cioè 256, che abbiamo supposto essere la massima capacità di ciascun punto del sensore. Naturalmente i sensori di oggi hanno una capacità di gran lunga superiore a 256 e non si comportano in maniera così lineare e matematica ma sono in grado di gestire il guadagno o di ricostruire parte dell’informazione e questo è anche parzialmente la causa del rumore. Tuttavia questa semplificazione fa capire come aumentando le ISO si perde effettivamente parte della capacità del sensore di riprodurre i colori e le tonalità. Di conseguenza, tanto più si aumenteranno le ISO quanto più piatta potrebbe risultare l’immagine in termini di colore e contrasto. Chiaramente esistono degli intervalli dei valori di ISO per cui è molto difficile che l’occhio umano riesca a percepire la perdita di gamma dinamica. Normalmente, salvo condizioni in cui sia necessario andare oltre, operare nei valori che rientrano tra 100 e 800 è ancora accettabile anche nelle fotocamere entry-level. Le fotocamere professionali, per esempio le full-frame, sono capaci di gestire valori di ISO che raggiungono anche i 6400 senza che sia facilmente percettibile la perdita di informazione. A questo punto è chiaro quanto sia importante scattare sempre con le ISO quanto più basse possibile, senza però doversi limitare o pensare che andare un po’ “più su” sia sbagliato. Meglio una foto con un po’ meno di gamma dinamica e qualche puntino di rumore, ma a fuoco e ben definita, che una foto senza rumore ma completamente sotto esposta o inutilizzabile a causa dell’effetto mosso dovuto al tempo di esposizione più


lungo.


Bilanciamento del bianco Osservando la luce, come spiegato nel capitolo dedicato a questo tema, è possibile notare che non tutte le sorgenti luminose sono uguali e variano in base alla loro temperatura. In una scena ripresa da una fotocamera, più sorgenti luminose con temperature differenti possono mischiarsi e modificare sensibilmente quello che sarà il risultato finale in termini di resa del colore. Il bilanciamento del colore è quel processo di regolazione manuale e automatico affinché i colori dell’immagine siano resi fedelmente alla scena ripresa. Come al solito, il cervello umano corregge senza che ce ne accorgiamo, molte caratteristiche del mondo circostante. Infatti, anche se illuminata da una luce calda e tendente al giallo, il nostro occhio vedrà una parete bianca come una superficie candida. Solo facendo molta attenzione e concentrandosi sul soggetto, ci si renderà conto che in realtà quel colore non è effettivamente bianco come sembra a causa della luce che lo colpisce. Sia la pellicola che il sensore digitale non sono in grado di correggere questi valori in maniera automatica, proprio perché si tratta di elementi meccanici o elettronici che effettuano delle misurazioni fondamentalmente matematiche. Normalmente, per avere una resa realistica e corretta dei colori, esistono delle formule che partono dal presupposto che il colore neutro sia corretto e per tale ragione si parla più spesso di bilanciamento del bianco (o dei grigi, o del neutro). Quando si fotografava in analogico, la capacità di gestire una certa temperatura era demandata fondamentalmente alla pellicola e dunque per ciascun rullino non era possibile avere foto con un bilanciamento del bianco adattato a ogni scatto. Nel digitale questo è molto più semplice da gestire e può essere modificato per ciascuna foto. Per i sensori digitali, la correzione del bilanciamento del bianco funziona in maniera relativamente semplice ed è importantissima. Innanzi tutto, per rendersi conto che il valore non sia corretto, è sufficiente guardare ai colori neutri contenuti nell’immagine. Per esempio, se una persona ritratta nella scena avesse un abito bianco, e questo tendesse all’azzurro o al giallo, allora significherebbe che la fotocamera non sta catturando correttamente i colori. Affinché la macchina sia in grado di gestire correttamente l’informazione, essa partirà da un presupposto che è il seguente: dato un pixel che è definito come bianco e dato il valore rilevato (per esempio giallo), il sensore assumerà che anche tutti gli altri colori siano stati “sporcati” da quella stessa quantità di giallo, pertanto questo valore verrà sottratto anche a tutti gli altri pixel. Nella maggior parte dei casi, le moderne fotocamere sono in grado di analizzare


la scena e comprendere automaticamente quale sia il punto di bianco da prendere come riferimento, tuttavia alcune volte è necessario l’intervento umano che “insegni” alla fotocamera quale sia il punto da analizzare. Tutte le reflex e le fotocamere digitali hanno ormai la possibilità di utilizzare dei valori già calcolati. Normalmente queste impostazioni si possono trovare sotto i menu indicati dalle lettere “WB” cioè White Balance. Queste impostazioni sono molto chiare e coprono la grande maggioranza dei casi, per esempio luce diurna, lampade a incandescenza, luce al tungsteno, flash, cielo nuvoloso, etc. Alcune fotocamere, soprattutto quelle professionali o più avanzate di una entry-level, sono in grado di effettuare una rilevazione manuale che viene fatta facendo fare uno scatto di prova che abbia al centro dell’immagine quello che sarà il punto di bianco. Il risultato dell’analisi sarà un numero che indica la misurazione in Kelvin, e che permetterà di catturare le immagini con i giusti parametri per i tre canali principali: rosso, verde e blu. Per comprendere meglio come gestire il bilanciamento del bianco, suggerisco quindi di prendere un soggetto e fotografarlo sperimentando con le impostazioni della fotocamera. Per esempio, prova a fare un ritratto usando un flash e impostando il bilanciamento del bianco su luce diurna o su lampadina a incandescenza e osserva come cambia il risultato. Comprendere il funzionamento del bilanciamento del bianco è importante per evitare di commettere errori come mischiare fonti luminose estremamente diverse tra loro od ottenere foto che abbiano dei colori innaturali e poco gradevoli. Scattando in raw, è possibile in fase di sviluppo correggere un bilanciamento del bianco errato, tuttavia è possibile che parte dell’informazione vada comunque persa qualora le foto non siano state effettivamente riprese con le corrette impostazioni.


Lunga esposizione e modalità Bulb Le fotocamere dotate di impostazioni manuali, generalmente consentono di scegliere il tempo di esposizione a intervalli predefiniti che variano dal più rapido, per esempio 8 millesimi di secondo, a quello più lungo, normalmente di 30 secondi. Esiste tuttavia una modalità che è fondamentale per le lunghe esposizioni e si chiama Bulb. Tipicamente questa modalità d’utilizzo è contrassegnata semplicemente dalla lettera B e la si raggiunge proseguendo oltre i 30 secondi nell’impostazione del tempo di esposizione. Questa modalità funziona in modo molto semplice e intuitivo, cioè la fotocamera apre la tendina dell’otturatore nel momento in cui si preme il pulsante di scatto e la richiude nel momento in cui questo viene rilasciato, dando il completo controllo del tempo di esposizione al fotografo. La modalità B serve per tutte quelle foto in cui 30 secondi non sono sufficienti per la lunga esposizione che si realizzando, per esempio per un light painting al buio. Questa pratica è molto divertente e permette di dare sfogo alla creatività e non sarebbe possibile se si avessero solo 30 secondi di tempo per completare il proprio disegno di luce. La lunga esposizione può essere fatta anche in piena luce, accompagnando l’uso della modalità bulb con gli opportuni filtri ND, cioè a densità neutrale. Questi filtri possono essere di varia intensità, generalmente indicata da un numero crescente come potenza di 2 (e.g. ND2, ND4, ND8, etc.). Grazie a questi filtri e a seconda della scena che si riprende, è possibile realizzare, per esempio, gli scatti di un torrente d’acqua con l’effetto dell’acqua in movimento in stile fiabesco. Un accessorio fondamentale per l’uso della modalità B è sicuramente il cavo di controllo remoto. Esistono cavi anche molto economici che si sostituiscono al normale pulsante di scatto e hanno anche una caratteristica in più, cioè quella di poter bloccare il pulsante. Senza questo accessorio non sarebbe possibile, infatti, allontanarsi dalla macchina fotografica senza lasciare il pulsante e interrompere quindi lo scatto.


42 - F/13, 6s, ISO-200, 19mm, Tamron 17-50 su Nikon D5000 La difficoltà principale nell’uso della modalità B è il calcolo del tempo necessario a una corretta esposizione. Se per il light painting questo è praticamente impossibile, per uno scatto regolare, come fotografare le scie luminose lungo una strada o in generale realizzare una lunga esposizione notturna, esiste invece un modo anche


relativamente semplice. Infatti è possibile usare un po’ di matematica, sapendo che al variare di alcune specifiche impostazioni, andremo ad aumentare o diminuire proporzionalmente la quantità di luce catturata. Per esempio, è noto che raddoppiare il valore della sensibilità ISO significa raddoppiare la luce catturata. Questo concetto è riassunto dalla parola stop. In fotografia uno stop è considerabile come un “quanto di luce”, cioè una quantità definita di luce che è misurabile dalle impostazioni della fotocamera. Aumentare o diminuire l’esposizione di uno stop significa raddoppiare o dimezzare la quantità di luce che colpisce il sensore. Riprendendo quindi l’esempio della sensibilità ISO, passare da 200 a 400 significa aumentare di uno stop la quantità di luce. Anche aumentare il tempo di esposizione da 1 secondo a 2 secondi significa aumentare di uno stop, in quanto la stessa quantità di luce fluirà per il doppio del tempo. Anche l’apertura può aumentare o diminuire gli stop, tuttavia questa potrebbe avere impatti sulla parte creativa perché potrebbe modificare significativamente la profondità di campo che era stata scelta. In ogni caso, data la definizione di stop, si può intuire che per effettuare esposizioni superiori a 30 secondi, usando la modalità B, si può utilizzare l’esposimetro della fotocamera per calcolare il valore di esposizione con certe impostazioni, per esempio a 8 secondi, con apertura f/5.6 e ISO 800, e fare poi il calcolo di conseguenza: andare a 64 secondi di esposizione (da calcolare con un cronometro) significa aumentare l’esposizione di 3 stop rispetto alla misurazione iniziale (8, 16, 32, 64), di conseguenza, ciò che dovremmo fare, sarebbe dimezzare il valore delle ISO per 3 volte e portarlo quindi a 100 (800, 400, 200, 100). Ovviamente questo calcolo può essere considerato abbastanza preciso anche se è molto difficile, senza l’ausilio di un cavo di controllo costoso e avanzato che permetta di effettuare una esposizione di esattamente 64 secondi, tuttavia è sempre possibile approssimare.


La modalità “Mirror Up” Guardando tra le varie modalità di scatto della fotocamera reflex digitali, è possibile trovare la modalità chiamata “MUp”. Si tratta di un acronimo per “Mirror Up”. Questa modalità può essere attivata usando direttamente la ghiera nei modelli più avanzati, oppure cercando nei vari menu delle impostazioni. Ovviamente l”attivazione di questa modalità cambia tra un modello di fotocamera e un altro, tuttavia il suo funzionamento è piuttosto semplice e abbastanza simile in tutte quante. Utilizzando la modalità “MUp”, stiamo dicendo alla fotocamera di scattare in due fasi. La prima pressione del tasto di scatto farà alzare lo specchio (quello che ci permette di osservare l’immagine attraverso l’obiettivo e che distingue una reflex da tutte le altre macchine fotografiche), mentre una seconda pressione farà iniziare l’esposizione. Normalmente una sola pressione fa entrambe le cose: si alza lo specchio e si imprime l’immagine nel sensore. A cosa serve questa modalità? La modalità di scatto “MUp” è utilissima in almeno due contesti:

- Fotografare ad alta velocità - Fotografare su un supporto statico come un treppiedi

Infatti, quando si effettua uno scatto in modalità di scatto normale, il movimento dello specchio può causare delle leggerissime vibrazioni che il sensore è comunque in grado di percepire. Inoltre la fotocamera dovrà attendere che lo specchio sia alzato prima di poter cominciare a catturare la luce. Diventa quindi facile intuire che se si vuole fare fotografia ad alta velocità, per esempio congelare il momento in cui esplode un palloncino o si rompe un bicchiere in caduta libera, è necessario che il tempo che intercorre dal momento dello scatto all’effettiva esposizione sia minimo. Usare la modalità “MUp” riduce drasticamente i millisecondi che separano la pressione del pulsante dallo scatto effettivo. Nel secondo contesto, invece, soprattutto per le lunghe esposizioni, l’assestamento delle vibrazioni prodotte dal movimento dello specchio può richiedere qualche attimo. Se si inizia a scattare subito, i sensori particolarmente sensibili potrebbero registrare un micromosso poco visibile a occhio nudo, ma perfettamente identificabile quando si analizza l’immagine alla dimensione pari al 100%.


Punti di messa a fuoco La mia prima fotocamera digitale, una Fujifilm compatta con cui ho scattato tantissimo e che avevo tendenzialmente sempre con me, non mi permetteva né di sapere quanti punti di messa a fuoco avesse, né quanti ne stesse usando. Era tutto automatico. Cominciai a scoprire cosa fossero e a cosa servissero quando nella mia prima reflex, una Nikon D50, vidi 5 rettangolini al centro del mirino che, ogni volta che iniziavo la pressione sul pulsante di scatto, lampeggiavano. Ma cosa sono i “punti di messa a fuoco” veramente? In realtà questi punti sono delle aree dell’immagine dove la fotocamera, tramite l’obiettivo (oppure l’obiettivo stesso), cerca di posizionare con varie tecniche (una su tutte la massimizzazione della nitidezza attraverso il contrasto) il piano di messa a fuoco. Ciò significa che quando si utilizza l’autofocus, cioè la messa a fuoco automatica di cui ormai sono dotate tutte le macchine fotografiche e quasi tutti gli obiettivi, ciò che avviene è che questo piano viene spostato in avanti e indietro rispetto all’obiettivo, finché non raggiunge il massimo punto di nitidezza relativo alla piccola area selezionata intorno al rettangolino scelto. La domanda successiva è: ho lasciato alla fotocamera la scelta automatica dei punti di messa a fuoco, come fa a capire e cosa succede se ne sceglie più di uno? Quando si lavora in modalità completamente automatica, la fotocamera cerca di “intuire” cosa vogliamo mettere a fuoco, per esempio se riconosce dei volti (le più avanzate usano anche il riconoscimento della scena) o se molti dei punti di messa a fuoco raggiungono la massima nitidezza in punti vicini tra loro. In quel caso, bisogna considerare che le zone che saranno a fuoco nell’immagine, saranno tutte quelle che, stabilita la posizione del piano di messa a fuoco, rientreranno all’interno della profondità di campo (determinata dall’apertura del diaframma). Da queste premesse è facile intuire che se si vuole avere il massimo controllo di cosa mettere a fuoco e di come gestire la sfocatura, è necessario evitare modalità troppo automatiche. In fotografia macro, per esempio, dove la profondità di campo può essere ridottissima e la messa a fuoco è fondamentale, si usa spessissimo la modalità manuale. Cercando di fare un po’ d’ordine, di solito nelle fotocamere ci sono almeno 3 modalità:

3D o “matrix” a seconda dei modelli: si tratta della modalità i cui si ha meno controllo e in cui si lascia alla fotocamera la scelta, in base ai punti di messa a fuoco resi disponibili, di posizionare il piano di messa a fuoco in modo che sia quanto più forte possibile lo stacco tra lo sfondo (sfocato) e il soggetto (a fuoco).


Modalità dinamica a più punti: a seconda della fotocamera, in pratica vengono selezionati un certo numero di punti (e.g. 9) tra quelli disponibili e la fotocamera si preoccupa di ottenere la migliore messa a fuoco possibile calcolando il risultato a partire da quei nove punti Modalità manuale: si tratta della modalità con il massimo controllo in cui si sceglie manualmente uno dei punti disponibili in cui la fotocamera cercherà di posizionare il piano di messa a fuoco nel modo più preciso possibile.

Il numero di punti di messa a fuoco varia da modello a modello. Prendendo come esempio la sequenza Nikon D50 (5 punti di messa a fuoco) la D5000 (9 punti di messa a fuoco) e la D7100 (51 punti di messa a fuoco), possiamo notare che con l’evoluzione, tutte le marche hanno aumentato drasticamente la quantità. Ci sono tuttavia vantaggi e svantaggi nell’uso di tutti i punti disponibili. Sia chiaro, meglio averne di più, ma è una buona cosa anche poter scegliere di usarne soltanto 9 o 21 o 45. Il perché risiede nel fatto che, quando si opera in modalità manuale, e quindi si vuole avere il massimo controllo della posizione del piano di messa a fuoco, avere 51 punti tra cui muoversi può rendere difficoltoso spostarsi da un punto all’altro del fotogramma. Infatti, se si compone la scena e poi si volesse mettere a fuoco in un punto preciso in alto a destra, e poco dopo si volesse mettere a fuoco in basso a sinistra, ci si dovrebbe muovere utilizzando la pulsantiera della fotocamera di punto in punto fino a giungere a quello desiderato. Meno punti significa meno tempo per raggiungere la posizione desiderata. In realtà si tratta molto più di abitudine che di altro. Le fotocamere reflex anche entry-level sono infatti dotate ormai da diversi anni, della possibilità di selezionare la modalità di autofocus che più si avvicina allo stile. In particolare si possono usare due o tre tipi di modalità predefinite (userò principalmente la dicitura Nikon):

AF-S: Significa letteralmente “AutoFocus Single” (su Canon è One-Shot) è significa che una volta che avrà messo a fuoco, la fotocamera terrà quella distanza del piano di messa a fuoco fintanto che non sarà effettuato lo scatto o finché non verrà rilasciato il pulsante. AF-C: Significa “AutoFocus Continous” (AI Servo su Canon) cioè la fotocamera tenterà continuamente di mettere a fuoco il soggetto, quindi mantenendo la pressione del pulsante di scatto, se ci si dovesse spostare, la fotocamera aggiusterà la distanza del piano di messa a fuoco.


AF-A: non è una vera modalità, significa “AutoFocus Auto” (su Canon è AI Focus) e in questo modo la fotocamera cerca di stabilire quale delle precedenti due modalità sia la più corretta in quel momento.

In che condizioni si utilizzano le due principali modalità (singolo e continuo)? Nel caso in cui si debba seguire un soggetto, per esempio il cagnolino che corre per casa, sarà sicuramente più utile la modalità continua, in quanto la distanza tra il cane e la fotocamera potrebbe variare anche rapidamente e non si avrebbe il tempo, facendolo a mano, di aggiustare il focus. La modalità singola è invece utile per avere il massimo controllo della profondità di campo in relazione alla distanza del piano di messa a fuoco. Infatti in modalità AF-S è possibile selezionare una distanza di messa a fuoco e bloccarla e successivamente spostarsi per ottenere il risultato che la fotocamera potrebbe considerare scorretto ma che è invece quello che si desidera fare. Personalmente utilizzo molto spesso la modalità AF-S perché mi piace avere il controllo massimo sullo scatto finale e con questa modalità posso permettermi di tenere un singolo punto di messa a fuoco, per esempio al centro, mettere a fuoco e poi comporre la scena. Ovviamente la modalità cambia a seconda di quello che devo fare. Il controllo della messa a fuoco è una cosa fondamentale da valutare nelle proprie reflex e bisogna trovarsi a proprio agio su come modificare velocemente le impostazioni. Molte reflex tra le entry-level forniscono solo dei comandi a livello del menu principale per modificare queste impostazioni. Modelli più avanzati, professionali o semiprofessionali come la D7100 hanno invece dei comandi che è importante imparare a conoscere bene. In quest’ultima, per esempio, per poter cambiare la tipologia di messa a fuoco (da 3D a singolo punto alla modalità dinamica a più punti) e la modalità (AF-S, AFC, AF-A), è sufficiente tenere premuto il pulsantino vicino all’attacco dell’obiettivo, dove c’è anche la levetta della messa a fuoco manuale o automatica, e girare le ghiere che normalmente si usano per modificare tempo di esposizione e apertura. Chiaramente questa caratteristica cambia da modello a modello, quindi suggerisco (se non la si trova velocemente dando uno sguardo ai vari pulsanti) di consultare il manuale di istruzioni e poi di iniziare a sperimentare da subito per trovare il proprio stile il prima possibile. Molto spesso capita che ad affidarsi al sistema automatico di scelta dei punti di messa a fuoco si perda tempo o precisione. Ovviamente questo accade perché la macchina fotografica è solo un mezzo che può essere rapidissimo nel compiere certe scelte, ma non c’è garanzia che tali scelte siano esattamente quelle che il fotografo voleva fare in quel dato istante. La messa a fuoco è una di quelle casistiche in cui certe volte è importante


poter avere il massimo controllo del punto in cui è necessario mettere a fuoco l’immagine. Per rendere questa operazione quanto più semplice, veloce e flessibile le fotocamere forniscono al giorno d’oggi una serie di strumenti potentissimi. Guardando tra le specifiche delle varie reflex, come anticipato, possiamo vedere che i costruttori millantano numeri esorbitanti: chi propone 39, chi 45 chi 51 punti di messa a fuoco tutti sparsi sulla dimensione del sensore. Sicuramente avere tantissimi punti è molto utile per sfruttare al meglio le capacità automatiche della fotocamera ma è importante sapere come funzionano i singoli punti per poterne avere il massimo controllo. Innanzi tutto è importante distinguere quanti e quali siano i punti detti “crosstype”. Anche questa caratteristica è spesso ben evidenziata dai costruttori ed è effettivamente significativa per la velocità e la precisione di messa a fuoco della fotocamera. In generale i punti di messa a fuoco possono dividersi in lineari e incrociati. Ovviamente quelli incrociati (o cross-type) sono più efficaci ed efficienti di quelli lineari. Questo fa immediatamente capire che in generale si riuscirà a mettere a fuoco più velocemente usando i punti cross-type che gli altri.

Data questa premessa è possibile intuire che la tecnica della messa a fuoco a singolo punto (cross-type) e seguente ricomposizione dell’immagine sia molto apprezzata da fotografi reporter che devono rapidamente mettere a fuoco in un punto (senza effettuare tracking, cioè inseguire il soggetto come accade per esempio nello sport). Questa tecnica si oppone a quella che prevede invece lo spostamento del punto di messa a fuoco in fase successiva alla composizione dell’immagine, tecnica normalmente più utilizzata per i


paesaggi. Di solito il punto centrale è di tipo cross-type, ed è anche il più veloce da guardare attraverso il mirino, quindi un modo per avere il massimo controllo del punto di messa a fuoco e la massima velocità è proprio quello di selezionare il punto centrale e utilizzare la tecnica della ricomposizione successiva. Infine, è importante anche scegliere come utilizzare questo punto cross-type in modo che il software della fotocamera riesca a bloccare il fuoco con precisione nel modo più rapido possibile. Per imparare come fare è necessario capire come funzionano i punti di messa a fuoco e, di conseguenza, come si sono evoluti i cross-type. In realtà le fotocamere più moderne usano come base di partenza lo stesso metodo che veniva utilizzato anche dalle prime reflex con messa a fuoco manuale, ovvero la ricerca della fase. Alcune fotocamere utilizzano il criterio del massimo contrasto per ciascun punto, tuttavia questo può risultare, in molti casi, meno efficiente in quanto consiste nello spostare elettronicamente o meccanicamente il punto di fuoco dell’obiettivo in avanti o indietro confrontando il valore del contrasto tra le due misurazioni. In parole povere, la fotocamera osserva la scena utilizzando due mirini separati e affiancati, i quali possono spostarsi in maniera sincrona per puntare a una certa distanza. Ciò viene fatto utilizzando la semplice geometria di un triangolo isoscele. Se si guardasse attraverso il mirino di una reflex a pellicola si noterebbe un piccolo cerchio al centro all’interno del quale si vedrebbe il centro dell’immagine spezzato (come mostrato dalla fetta di cassata al forno) in due parti, quella superiore e quella inferiore, rispettivamente l’immagine legata al mirino di sinistra e quella legata a quello di destra. La messa a fuoco consisterebbe proprio nell’allineare (a occhio nel caso manuale) le due metà, facendo sì che corrispondano. Ripensando per un attimo al triangolo isoscele, potremmo dire che se le immagini superiore e inferiore fossero perfettamente allineate, allora la distanza del soggetto sarebbe esattamente l’altezza del triangolo. Ebbene, le fotocamere moderne fanno esattamente la stessa cosa, tuttavia lo fanno automaticamente analizzando i pixel di quella porzione di immagine all’interno del punto di messa a fuoco selezionato.


Per comprendere meglio la spiegazione precedente basta guardare lo schema semplificato dell’immagine precedente. In alto vediamo due triangoli con la stessa base e due lati una volta rossi e una volta verdi. Il soggetto è rappresentato da un rettangolo nero. Questo schema deve essere visto come se si osservasse la scena dall’alto. La linea nera alla base del triangolo rappresenta il punto di messa a fuoco con i due punti di osservazione ai due lati (cerchi blu). Si può notare come dal punto di vista di ciascuno dei due osservatori, il risulti posizionato con un angolo leggermente diverso. Le linee rosse rappresentano una messa a fuoco sbagliata, infatti l’altezza del triangolo supera la distanza tra il sensore e il soggetto. Le linee verdi rappresentano una buona messa a fuoco. La fotocamera, attraverso i punti di messa a fuoco (oppure il fotografo nel caso di messa a fuoco manuale), varia l’altezza di quel triangolo allungandola o accorciandola per poter selezionare il punto più corretto. Nel caso automatico ciò avviene usando al ricerca di fase. Tale ricerca di fase è rappresentata dai due schemi immediatamente sotto il triangolo che rappresentano una vista frontale del soggetto, quindi come se osservassimo attraverso la fotocamera. Infatti il soggetto risulta più spostato a sinistra o a destra nel caso rosso, mentre è perfettamente allineato nel caso verde (lo si può notare dalla linea centrale spezzata). Ciò avviene per via della diversa prospettiva dei due punti e della proiezione dell’immagine data la distanza dal sensore. Lo stesso effetto di disallineamento lo si può provare se si osserva un dito posto davanti al volto coprendosi alternativamente gli occhi e ci si concentra sulla sua posizione in relazione allo sfondo. I punti di messa a fuoco che utilizzano la ricerca della fase sono deboli sulle


immagini poco contrastate e in generale non sono in grado di funzionare nel caso di scene in cui si abbiano solo linee orizzontali (e.g. un paesaggio che ritratta l’orizzonte sul mare). L’evoluzione di questi punti a ricerca di fase sono i punti descritti in precedenza, cioè quelli di tipo “cross-type”. Questi punti sono fondamentalmente una versione doppia dei precedenti, in cui l’immagine non viene allineata solo orizzontalmente ma anche verticalmente, suddividendola quindi due volte. A questo punto si può affermare che il modo più veloce per mettere a fuoco con precisione sia quello di selezionare un punto cross-type (di solito li centrale), puntare verso la parte più contrastata dell’area dove si desidera mettere a fuoco e, nel caso in cui siano presenti solo linee verticali o orizzontali, inclinare leggermente la macchina fotografica in modo che le linee risultino oblique. Una volta raggiunta la messa a fuoco si potrà premere il pulsante di scatto a metà e bloccare la messa a fuoco, ricomporre e infine scattare. Un’ultima nota al riguardo: bisogna fare in modo che la modalità di messa a fuoco automatica sia impostata sulla priorità di scatto e non sulla priorità di soggetto, cioè la modalità “AF” che prevede che una volta messo a fuoco un soggetto, la fotocamera non tenti mettere a fuoco nuovamente se dovesse cambiare la scena.


Scattare in controluce Il controluce si verifica tutte quelle volte in cui si scatta una fotografia guardando più o meno direttamente la fonte di luce principale. Il controluce è spesso usato in modo creativo dai fotografi ma il più delle volte può diventare un fattore difficile da gestire che può rovinare o rendere impossibile fare la foto che si desidera realizzare.

43 - F/11, 1/320s, ISO-100, 70mm, Tamron 24-70 su Nikon D7100

Il primo ostacolo è alcune volte la fotocamera stessa. Infatti, se ci si affida al calcolo automatico dell’esposizione, la fotocamera cercherà di stabilire (o di suggerirci) quale sia la migliore esposizione sulla base di un importante parametro, cioè l’area di esposizione. Supponiamo di voler fotografare lo scorcio cittadino attraverso la finestra in una giornata soleggiata. Quello che accadrà sarà che, componendo l’immagine e provando a mettere a fuoco, la fotocamera calcolerà l’esposizione corretta per la scena esterna,


facendo risultare la parte della finestra completamente nera o molto sottoesposta. Questo è normale in quanto la gamma dinamica del sensore, cioè la sua capacità di raccogliere informazioni relative alla scena, non è in grado di fare quello che invece riesce a fare l’occhio umano. Posto questo dato di fatto, supponiamo di voler mantenere la stessa inquadratura ed esporre correttamente la finestra, lasciando che la città risulti quindi molto sovraesposta o addirittura bruciata. Lasciando scegliere l’esposizione alla fotocamera, ciò che accadrà sarà che non riusciremo a ottenere questo risultato. Per poterlo fare, infatti, è necessario fare sì che il calcolo dell’esposizione venga effettuato per la zona più scura. In questo caso esistono vari modi per risolvere il problema: prima di tutto è possibile utilizzare il tasto AE-L che significa “Auto-Exposure Lock”. Questo tasto è utilissimo quando si usa la modalità automatica o semi-automatica (e.g. modo A) per dire alla fotocamera di bloccare il calcolo dell’esposizione alla scena attuale. Tornando allo scatto precedente, sarebbe quindi sufficiente inquadrare la sola zona scura, premere il tasto AE-L, e quindi ricomporre la scena che include la finestra. In questo modo la fotocamera manterrà la stessa esposizione precedente nonostante la forte luce proveniente dalla finestra. Un altro modo per controllare l’esposizione è quello di utilizzare le aree di esposizione in modo puntuale. In quasi tutte le reflex, infatti, è possibile scegliere su quali aree la fotocamere debba far lavorare l’esposimetro, cioè quel componente che rileva la luminosità della scena e in base ai parametri fissi, calcola tutti gli altri. Di solito esistono 3 modalità:

Scena intera: di solito indicata da un simbolo che vede il riquadro dell’immagine pieno. Questa modalità prende tutta l’immagine e calcola l’esposizione in modo che il totale dell’immagine risulti correttamente esposto. Questo ovviamente può rendere facile fare foto correttamente esposte in maniera automatica nella maggior parte dei casi, ma potrebbe essere fortemente limitante nel caso in cui si voglia invece avere il totale controllo dell’esposizione. Modalità aree centrali: indicata con un punto al centro e un cerchio che lo include, serve per concentrare il calcolo dell’esposizione al centro tenendo però in considerazione le sue zone limitrofe. Questa modalità è molto utile quando si vuole avere un buon controllo ma mantenere ancora molti vantaggi del totale automatismo. Modalità puntuale: indicata da un riquadro e un punto al centro, serve per focalizzare l’esposimetro solo sul punto centrale dell’immagine e permette di avere il massimo controllo dell’esposizione. Per esempio, usata insieme al tasto AE-L, permette di puntare il centro dell’immagine verso l’area esatta dove vogliamo calcolare l’esposizione,


bloccarla e poi ricomporre.

Chiaramente se si utilizza la modalità completamente manuale, il tasto AE-L non serve, ma la scelta della modalità per il calcolo dell’esposizione è ancora importantissima perché determinerà il comportamento dell’indicatore di esposizione visibile nel mirino. Guardando dentro il mirino, in basso si può vedere una serie di trattini con a sinistra un segno - e a destra un + (o viceversa, dipende dalla fotocamera), e un trattino che si sposta dal centro verso il meno o il più a seconda dei parametri di apertura e tempo di esposizione scelti. Quell’indicatore rappresenta il risultato del calcolo effettuato dall’esposimetro che ci sta suggerendo, in base alla modalità scelta, se con quei parametri l’immagine sarà sovraesposta (+), correttamente esposta o sottoesposta (-). Una volta appreso come controllare l’esposizione, il problema non sarebbe comunque risolto. Come si fa a gestire il controluce? In effetti questo dipende molto dal risultato che si vuole ottenere, tuttavia il modo migliore per gestire il controluce non è spostarsi (perché probabilmente non si avrebbe più la composizione desiderata) ma usare delle luci di compensazione. Per esempio, se si sta fotografando una coppia di sposi con il tramonto alle spalle, sarà necessario puntare su di loro un flash che li colpisca direttamente in modo da illuminare la scena più vicina e compensare così la luminosità dello sfondo. Chiaramente l’esposizione andrà calcolata sulla luce del sole alle spalle del soggetto. Un altro modo per gestire il controluce (quando si intende avere un’esposizione uniforme nonostante forti contrasti) è quello di usare la modalità HDR. Molte fotocamere moderne hanno già questa modalità inclusa, altre invece possono essere usate insieme a opportuni software a cui bisogna fornire le foto scattate tramite il “bracketing”. Quest’ultima è una tecnica secondo cui si effettuano almeno 3 scatti (ma possono essere anche 5 o più) a differenti esposizioni di cui una corretta e bilanciata per tutta l’immagine che faccia da riferimento, e le altre sottoesposte e sovraesposte. La limitazione dell’HDR è dovuta al fatto che si devono fotografare tendenzialmente scene statiche oppure si ha la necessità di poter scattare con tempi di esposizione brevissimi in quanto tale tecnica prevede la fusione di più immagini che quindi, se i soggetti si spostano, potrebbero non risultare uniformi.


Bokeh, ovvero quella gradevole sfocatura Si avvicina Natale e si cominciano a vedere in giro cartoline fotografiche usate per gli auguri. Ti viene l’idea di fare anche tu gli auguri in questo modo, ma vuoi usare una tua foto e non una che si trova già in giro. Prendi un vassoio di biscotti natalizi appena sfornati, lo smartphone o la piccola compatta che tenevi nel cassetto, scatti la foto e… mmm… non è venuta esattamente come quelle che ti hanno ispirato… le guardi attentamente e le confronti per cercare di capire dove sono le differenze. La prima cosa che noti è sicuramente la luce, molto più controllata e naturale nella foto della cartolina, ma la seconda cosa che risalta all’occhio sono quei deliziosi pallini di luce morbida sullo sfondo che fanno tanto “luci di festa” e che nella tua foto non ci sono. A questo punto provi a mettere il tuo vassoio di biscotti natalizi davanti all’albero di Natale con le sue lucine e scatti e… mmm… no… ancora nulla… ma come si fa a ottenere quelle belle palline sfocate? Uno sfondo sfocato e ben controllato fa la differenza tra una foto amatoriale a una dall’aspetto professionale per due semplici ragioni: in primo luogo perché stacca e incornicia il soggetto, esaltandolo e quindi facendo focalizzare l’attenzione su di esso e rendendo lo scatto più interessante. L’occhio, infatti, si sofferma principalmente sulle aree più luminose e contrastate dell’immagine, pertanto uno sfondo sfocato e studiato per incorniciare il soggetto, renderà la foto più piacevole. In secondo luogo perché, come spiegato, non è sempre facile ottenere questo tipo di effetto e dunque è socialmente più probabile che si associ un buon bokeh a uno scatto professionale. Questo è un classico scenario dove cominciano a emergere i limiti tecnici delle fotografie realizzate con strumenti come smartphone o fotocamere compatte. La sfocatura dello sfondo è chiamata bokeh, dal termine giapponese che indica proprio la sfocatura, e al giorno d’oggi è utilizzata nel gergo fotografico per indicare la qualità della sfocatura che riesce a produrre un certo obiettivo. Dal breve racconto che introduce questo capitolo è facile intuire che un buon bokeh richiede gli strumenti adatti, non necessariamente super professionali, ma sicuramente non sempre alla portata di tutti. In questa sezione cercherò di spiegare come ottenere il miglior bokeh possibile con gli strumenti che si possiedono, siano essi una reflex o uno smartphone. Ovviamente esistono innumerevoli tecniche di fotoritocco per migliorare o addirittura inventarsi l’effetto bokeh, ma mi limiterò ad analizzare come lo si ottiene in maniera naturale. Innanzi tutto, per capire come ottenere il miglior bokeh possibile, è necessario parlare di profondità di campo, piano di messa a fuoco e compressione dell’immagine. La profondità di campo è sostanzialmente quella distanza fisica davanti e dietro il piano di


messa a fuoco in cui i soggetti ritratti sono a fuoco. Praticamente, considerando che esiste un piano esattamente perpendicolare (semplificando) all’obiettivo detto piano di messa a fuoco, cioè la distanza a cui un soggetto è esattamente a fuoco, si può dire che più ci si allontana da questo piano, maggiore sarà la sfocatura e ovviamente, minore sarà la profondità di campo, più intensa sarà la sfocatura man mano che ci si allontana da tale piano. Questo significa che il primo limite da affrontare sia l’apertura del diaframma. La lente utilizzata dal dispositivo con cui si effettua lo scatto ha un numero minimo che implica il massimo che si può ottenere da quell’obiettivo. Per capire al meglio l’effetto che l’apertura del diaframma ha sul bokeh, è sufficiente fare una prova di questo tipo: - Posiziona la macchina fotografica su di un treppiedi - Metti sullo sfondo delle luci puntiformi, per esempio quelle di un albero di Natale, e un soggetto davanti all’obiettivo - Imposta la macchina fotografica in modalità “priorità di apertura”, cioè tu scegli l’apertura del diaframma e la macchina fotografica sceglierà il resto. Scatta alla massima apertura disponibile (e.g. f/2.8) e poi, senza cambiare le posizioni di soggetto, sfondo e fotocamera, rifai la stessa foto usando un’apertura molto più bassa (e.g. f/7). Il risultato renderà evidente quanto sia importante l’apertura del diaframma per il bokeh. A questo punto, posto che l’apertura del diaframma stabilisce quanto grande sarà la porzione di spazio davanti a noi a fuoco e quindi quanto intensa sarà la sfocatura dello sfondo, si può passare a studiare la compressione. Infatti, per enfatizzare il bokeh, si può anche cercare di aumentare la distanza tra il soggetto e lo sfondo e usare una lunghezza focale più grande. Aumentando la distanza tra il soggetto e lo sfondo, si sta in sostanza facendo sì che lo sfondo si trovi in una zona più distante dal piano di messa a fuoco. Data la premessa sul piano di messa a fuoco e la profondità di campo, è facile intuire che maggiore sarà la distanza tra il soggetto e lo sfondo, tanto più sfocati e indefiniti saranno i “pallini”. Questo effetto è massimizzato se ci si avvicina quando più possibile al soggetto. Facendo ciò, infatti, si sposterà il piano di messa a fuoco quanto più vicino possibile all’obiettivo, aumentando l’effetto di compressione con lo sfondo. L’ultimo passo per ottenere il massimo dal bokeh è quello, per l’appunto, di aumentare la lunghezza focale. Usando un teleobiettivo, per esempio, la compressione dell’immagine sarà di gran lunga maggiore rispetto all’uso di un grandangolare. Per intenderci, la compressione è quell’effetto che fa apparire vicini dei soggetti che in realtà


sono lontani. Poiché la foto è una rappresentazione bidimensionale di un contesto tridimensionale, il rapporto delle dimensioni tra i soggetti dipende fondamentalmente dalla lunghezza focale utilizzata. Per spiegare meglio il concetto, farò un esempio estremo: supponiamo di mettere due persone a distanza di dieci metri l’una dall’altra. Se provassimo a fotografare la prima da una distanza di un metro (la seconda sarebbe quindi a undici metri dall’obiettivo), nel risultato finale vedremmo immediatamente la differenza di dimensioni. Questo accade perché, nonostante i due soggetti abbiano le teste di dimensioni più o meno uguali, una si troverà molto vicina all’obiettivo e l’altra no, creando l’effetto di differenza di dimensioni. Ciò è vero anche a occhio nudo, cioè tanto più un oggetto è lontano quanto più piccolo appare. Supponiamo adesso di metterci a mille metri di distanza dai due soggetti. Adesso la distanza tra loro sarebbe quasi insignificante rispetto alla distanza dall’obiettivo. Di conseguenza, se li fotografassimo con un super tele obiettivo in grado di realizzare un primo piano ai due, noteremmo come la differenza di dimensioni della testa risulterebbe quasi nulla. Questo effetto è dovuto proprio a ciò che viene detta compressione. Per riassumere, tanto maggiore è la distanza dell’obiettivo da soggetto e sfondo (a parità di inquadratura del soggetto principale), tanto più “compressa” apparirà la distanza tra il soggetto e lo sfondo. In relazione al bokeh, ciò significa che, tanto maggiore sarà la lunghezza focale, tanto più larghi appariranno i pallini sfocati delle luci nello sfondo. Come possiamo quindi mettere in relazione le tre cose? In realtà è piuttosto semplice: una volta stabiliti i limiti fisici di soggetto e scena, sarà sufficiente fare quanto segue: - Porre la maggiore distanza possibile tra il soggetto e lo sfondo, avendo cura di porre delle luci quanto più puntiformi possibili. - Impostare la lente della macchina fotografica alla massima apertura possibile e alla lunghezza focale più alta. - Avvicinarsi quanto più possibile al soggetto. A questo punto sarà necessario fare un po’ di “lavoro di fino”, poiché, in caso di obiettivi con apertura variabile in base alla lunghezza focale, potrebbe essere necessario decidere di rinunciare a un po’ di apertura per allungare un po’ la distanza e viceversa. Inoltre, anche la lunghezza focale e la distanza potrebbero essere vincolate o quanto meno influenzate dalla composizione e dalle distanze con il soggetto. Per fare un esempio, supponiamo di usare uno smartphone. Tipicamente lo


smartphone non avrà uno zoom (quello digitale non conta in questo caso), pertanto non sarà necessario preoccuparsi della parte complessa descritta nel paragrafo precedente. A questo punto, ammesso che lo si possa fare, bisognerà dire allo smartphone di scattare con la modalità ritratto o comunque con l’apertura del diaframma maggiore possibile (numero della f più basso possibile, e.g. f/3.5 = apertura maggiore di f/5.6). Seguendo quindi le indicazioni sulle distanze, ecco che avrai ottenuto il meglio possibile con il mezzo a tua disposizione. Nelle foto di esempio in questo articolo, è possibile vedere la differenza tra delle foto scattate con un obiettivo Tamron 24-70 f/2.8 ma con diverse impostazioni. La prima è stata scattata a 70mm con apertura f/2.8; la seconda e la terza rispettivamente a 50mm f/2.8 e 50mm f/5.6. Per avere un’idea più chiara dei limiti tecnici, anche avendo una reflex, se si usasse il classico obiettivo kit, 18-55mm f3.5/5.6, la terza foto sarebbe il massimo che si potrebbe ottenere. Tuttavia, considerando che il Tamron in questione ha la capacità di mettere a fuoco da molto vicino, il risultato reale sarebbe ancora meno accentuato per via della minore compressione.



Infine, ecco un suggerimento “bonus”: la forma delle luci sfocate e puntiformi dello sfondo è tonda solo perché quella è la forma del diaframma da cui la luce passa. Prova a ritagliare una stella al centro di un foglio di carta e metterlo davanti all’obiettivo, facendo sì che la luce quindi passi solo attraverso quel foro e riprovate a fotografare l’albero di Natale come sfondo… lascio a te scoprire cosa succederà.


HDR La sigla HDR significa in inglese High Dynamic Range ed è una tecnica di creazione di immagini a partire da esposizioni multiple della stessa scena. Questo termine è diventato famoso grazie a diversi software che in realtà fondevano questa tecnica con un’altra detta tone mapping, capace di dare dei colori molto accesi e surreali alle foto. Alla fine del primo decennio di questo millennio, si vedevano in giro (e si continuano a vedere tuttora, alla stesura di questo testo) moltissime foto di questo tipo. Con l’avvento delle applicazioni per smartphone, questo tipo di foto si è diffuso a macchia d’olio grazie a filtri preconfezionati che permettevano a tutti di ottenere questo effetto.


La critica più aspra che è stata mossa verso i praticanti dell’HDR (misto a tone mapping) era proprio l’apparenza completamente surreale della foto. In realtà, posto che una fotografia non deve necessariamente essere la rappresentazione della realtà ma è un messaggio che il fotografo vuole trasmettere attraverso colori impressi in un sensore, ciò che rende l’immagine poco realistica è proprio il tone mapping. Questa tecnica consiste nel creare una mappa di colori che trasforma i pixel originali secondo una serie di regole


matematiche che vengono inserite nei software con cui si realizzano questo tipo di foto e che l’utente può regolare cambiando alcuni parametri. Tuttavia, eliminando il tone mapping, l’HDR è invece un modo per rappresentare la realtà in maniera molto più vicina a quella che percepisce l’occhio umano. HDR infatti è un termine che si riferisce alla gamma dinamica del sensore e il termine “high” indica un aumento della scala disponibile nel sensore in uso. La fotocamera, infatti, non è in grado di gestire luci e ombre in maniera sufficientemente ampia da coprire lo stesso spettro visibile all’occhio umano. Per semplificare: se un uomo osservasse una scena con forti contrasti, per esempio un parco in una giornata di sole attraverso una finestra all’interno di una stanza buia, il suo occhio riuscirebbe a vedere distintamente i colori del parco e del cielo, ma al tempo stesso sarebbe in grado di distinguere i dettagli delle pareti in ombra che lo circondano nella stanza buia; se si provasse a fare la stessa cosa con una fotocamera ci si renderebbe conto che sarebbe possibile fotografare soltanto il parco fuori dalla finestra, facendo risultare le pareti completamente sottoesposte, oppure sarebbe possibile esporre correttamente le pareti ma tutto ciò che si trova al di là della finestra sarebbe completamente bruciato. Questo è proprio il tipico caso in cui si ricorre all’HDR. La tecnica dell’HDR consiste nell’effettuare più scatti a diverse esposizioni, minimo 3, di cui uno centrale all’esposizione che si considera corretta mediamente per la scena ritratta e poi una certa quantità che siano sottoesposti (ma che in realtà espongono correttamente le ombre) e una stessa quantità che siano sovraesposti (cioè catturano la giusta quantità di luce per le zone più chiare). Un software si occuperà quindi di fondere le immagini insieme per generare il risultato finale. Ormai quasi tutti gli smartphone hanno la modalità HDR nella loro fotocamera e a questo punto dovrebbe essere chiaro il motivo per cui lo smartphone ci chiede di stare completamente fermi mentre facciamo uno scatto in HDR. Ovviamente questa tecnica ha dei limiti piuttosto evidenti: in primo luogo non è possibile effettuare scatti in HDR con soggetti in movimento, poi è necessario utilizzare dei supporti per mantenere la fotocamera ferma durante gli scatti altrimenti il software potrebbe non essere in grado di produrre il risultato finale. Molte reflex di ultima generazione, sia entry-level che professionali, permettono di scattare in modalità HDR ma nel caso questa funzione non sia disponibile è sufficiente che sia possibile effettuare il bracketing. Questa tecnologia permette di impostare il numero di scatti consecutivi da effettuare e la distanza di esposizione tra i vari scatti. Tali scatti potranno essere elaborati successivamente con programmi come Adobe Photoshop o Gimp per realizzare il risultato HDR finale.


Riferimenti Da non professionista amante della fotografia, autodidatta ed estremamente curioso, spero di avere raccolto in questo libro un insieme di argomenti interessanti che abbiano potuto stimolare la tua crescita fotografica. Se hai gradito questo libro, puoi continuare a seguirmi su photography.cahung.it, dove pubblico costantemente aggiornamenti e nuove foto e sui principali social network dove è possibile anche commentare e chiedermi ulteriori informazioni. Per accedere ai contenuti riservati ai possessori di questo libro usa il codice: “isegretidellaluceâ€?.



Volume 2 Introduzione – Tecnologia e Ispirazioni Questo libro contiene una serie di concetti teorici e di spiegazioni tecniche relative alla fotografia e presuppone che si siano già acquisite le conoscenze degli argomenti trattati nel primo volume “I Segreti della Luce – Da Zero a Fotoamatore Esperto”. Seguendo la scia del primo volume, gli argomenti non sono trattati come un classico corso di fotografia, piuttosto sono discussi in maniera non strutturata una serie di tematiche che possono aiutare a migliorare abbondantemente il proprio livello di conoscenza tecnica della fotografia. Se dal primo volume ci si deve aspettare di avere gli stimoli per arrivare a essere un fotografo amatoriale esperto partendo da zero, in questo caso ci si può aspettare di apprendere alcune tecniche avanzate e nozioni che sono la base per comprendere realmente come produrre e trattare immagini digitali del miglior livello possibile in base ai propri mezzi. I paragrafi di questo libro si dividono principalmente in tre aree e per ciascun capitolo di ognuna delle aree viene posta una domanda che spiega l’importanza degli argomenti al suo interno: la prima tratta i concetti fondamentali che stanno alla base di un’immagine digitale, spiegando quindi come essa è composta, come viene memorizzata e quali sono gli strumenti più adatti e le loro caratteristiche, cioè gli obiettivi. Questi concetti sono fondamentali per la seconda parte, cioè imparare a conoscere la luce anche con basi di fisica, per saperla sfruttare al meglio con i mezzi tecnologici a propria disposizione. Questa seconda parte include anche una lista che spiega quali sono i principali modificatori di luce usati in fotografia, quale sia il loro utilizzo e le differenze tra di loro. Infine, per applicare i concetti a qualcosa di più quotidiano, il libro tratta un genere fotografico dove la tecnica (e gli strumenti tecnologici) possono fare la differenza, cioè il ritratto, esponendo i principali metodi di illuminazione e i loro effetti sul corpo umano, seguendo il processo dallo scatto fino allo sviluppo ed elaborazione delle immagini. Per chi si aspetta un “corso avanzato”, mi preme sottolineare che non esiste e non può esistere un singolo corso del genere e non lo si può racchiudere in un libro. I corsi, come i libri o qualunque materiale didattico non può che essere solamente uno stimolo ad accrescere qualcosa che è principalmente fatto di emozione, intelligenza e anche di tecnica. Se è vero che i corsi, come questo, possono dare spiegazioni manualistiche e formulette matematiche, in


fotografia esistono innumerevoli specializzazioni che richiederebbero ciascuna interi trattati dedicati. Si deve pensare alla fotografia come alla medicina: non può esistere un solo libro o corso di medicina avanzata; esiste la medicina di base, che è comune a tutti i medici e che in fotografia corrisponde con il sapere di tutto un po’, dal triangolo dell’esposizione alle lunghezze focali agli F-Stops, e poi esistono le specializzazioni. Ciascun medico diverrà, dopo anni di studio ed esperienza, un cardiologo, un oculista o un ginecologo. Allo stesso modo un fotografo diverrà uno specialista di matrimoni, di ritratti, di pubblicità commerciale o di microstock e così via. Quali sono dunque i prerequisiti per utilizzare questo libro al meglio e qual è il suo scopo? Innanzi tutto è necessario, come già anticipato, avere acquisito le nozioni descritte nel primo volume che sono la base, infine serve come sempre solo una fotocamera e tanta volontà di esercitarsi e mettere in pratica tutto ciò che si impara. Lo scopo di questo libro rimane lo stesso del precedente, cioè quello di dare sempre più strumenti ai lettori affinché sappiano usare al meglio e al massimo delle loro potenzialità, gli strumenti di cui sono in possesso. La fotografia si fa con cuore, mente e occhio ed è frutto dell’operato del fotografo, non dei mezzi che usa. Buona luce e buona lettura!



Concetti fondamentali Di fronte all’opportunitĂ di realizzare lo scatto della tua vita che vorrai pubblicare su di un importante giornale stampato e online, sei disposto ad affidare il controllo del risultato finale ad automatismi sconosciuti, ignorando tutto il processo che va dalla cattura della luce al suo sviluppo? Se la risposta è no, allora hai bisogno di conoscere la tecnologia che produce le immagini digitali.


Cosa è un’immagine digitale Un’immagine digitale è una rappresentazione matematica di ciò che viene comunemente associato con un contenuto visivo. Ai tempi della pellicola, un’immagine era un insieme di componenti chimiche che si stendevano in maniera continua sulla carta, fissando dei colori e dei contorni che rappresentavano la realtà impressa dalla reazione della luce con tali reagenti. Con l’avvento del digitale, la prima cosa che è avvenuta è stata la discretizzazione di questo “oggetto”. Un’immagine digitale, infatti, può essere considerata come un insieme di piccoli quadratini di vari colori talmente piccoli da non farci percepire gli “spigoli” tra un punto e l’altro dell’immagine, registrati da un componente elettronico in grado di misurare l’intensità della luce incidente su di esso. Ciascuno di questi punti è chiamato pixel, dall’inglese “Picture Element”, ed esso rappresenta il colore di quel punto nella specifica posizione dell’immagine. Dati questi presupposti, un’immagine può essere concepita come uno spazio discreto e delimitato tridimensionale in cui i due assi principali, X e Y, rappresentano le coordinate cartesiane di ciascun pixel, e la terza dimensione, cioè l’asse Z, rappresenta il colore. Il grafico che segue esemplifica (e semplifica) ciò che potrebbe rappresentare una fotografia di 1000x1000 pixel con la capacità di rappresentare 256 colori.


Ogni pixel ha la capacità di rappresentare un numero di colori pari alla potenza di 2 relativa al numero di bit. Infatti, un’immagine rappresentata da 24 bit (e.g. il formato JPEG), è in grado di rappresentare 2^24 colori, cioè più di 16 milioni di colori, sufficienti per creare immagini realistiche. Semplificando, supponendo che ciascun pixel sia rappresentato da un valore a 8 bit, potremo avere un massimo di 256 colori (e.g. prime immagini in formato GIF). Questi concetti sono importanti per capire quanto sia importante la capacità del sensore di rappresentare, almeno in forma teorica, i colori per ciascun pixel. Questo è determinato dal sensore e dalla sua gamma dinamica. La convenzione con cui viene associato un colore a uno specifico numero intero, per esempio quella che descrive il fatto che 0 sia il colore nero, è dettata da ciò che viene chiamato “spazio di colore”. Da un punto di vista matematica, esistono vari modelli che rappresentano lo spazio di tutti i colori presenti nello spettro luminoso. Le fotocamere, al giorno d’oggi, utilizzano il modello RGB, cioè Red-Green-Blue che combina componenti di questi tre colori per generare tutti i colori possibili. Altri modelli meno utilizzati ma comunque utili, soprattutto in post-produzione, sono HSV, cioè HueSaturation-Volume, modello in ci il colore viene rappresentato dalla tinta, la sua saturazione e il valore, cioè un numero può essere ricondotto alla sua


intensità (modelli simili sono HSI e HSL). Spesso in applicazioni di fotoritocco, come Adobe Photoshop, valori come tinta e saturazione sono utilissimi per modificare la resa dell’immagine. Parametri come la vividezza aggiungono ulteriore complessità non lineare al rapporto tra RGB e altri modelli che sfruttano la saturazione. Nelle immagini digitali, oggi, ogni pixel viene rappresentato da un ulteriore spazio tridimensionale in cui i tre assi sono R, G e B, ciascuno dei quali ha almeno 8 bit (e.g. JPEG). Stiamo quindi parlando di uno spazio di valori discreti di 256x256x256 valori. Sebbene sia possibile rappresentare tutti i colori con un singolo valore, è importante capire che la separazione dei tre valori per ciascun canale è fondamentale per la post-produzione selettiva. Per esempio, se si suppone di voler azzerare le componenti di blu e verde e valutare solo quanta luce “rossa” sia stata catturata dal sensore, basterebbe portare al valore zero i due canali rimanenti. Modificare i valori per ciascun canale permette di lavorare in maniera piuttosto intuitiva sui valori tonali che si avvicinano a quel canale. Per esempio, aumentare l’intensità dei valori dei pixel del canale rosso permetterebbe di esaltare maggiormente il rossetto e i dettagli della carnagione in un ritratto. Infine, se si parla di immagini digitali, è necessario parlare di compressione. Uno dei formati maggiormente noti e diffusi è il formato JPEG. Questo formato è divenuto importante perché capace di comprimere i dati senza ledere eccessivamente la qualità dell’immagine. Infatti è possibile calcolare matematicamente lo spazio occupato da un’immagine. Se prendessimo un’immagine a 24 megapixel, che per semplicità indichiamo come 24 milioni di pixel, se prendiamo il formato grezzo a 24 bit, significherebbe avere un totale di 24.000.000 * 24 bit, cioè 72 milioni di byte (1 byte = 8 bit), cioè circa 68 MegaBytes. Risulta immediato capire che questa dimensione è piuttosto onerosa anche per chi archivia immagini oggi, figuriamoci anni orsono quando questo formato vide la luce per la prima volta. La compressione permette di ridurre questo spazio aggregando pezzi di informazione. Un esempio di compressione può essere visto come segue: supponiamo di poter rappresentare i dati con numeri da 1 a 10 e consideriamo il numero 2222. Tale numero occupa 4 caratteri (consideriamo il carattere come la nostra unità di misura dello spazio). Se decidessi di usare una convenzione per cui le informazioni vengono divise in due numeri, il primo rappresentante la quantità di caratteri del secondo, ci accorgeremmo che lo stesso numero potrebbe essere rappresentato come 42, cioè 4 volte 2, occupando solo 2 caratteri. Viene automatico vedere come questo semplice


algoritmo non sia efficiente in caso di informazioni molto sparse, per esempio su un numero come 1234, la traduzione diverrebbe 11121314, occupando il doppio. Il problema, in questo caso, è il fatto che non vogliamo perdere informazione e abbiamo un dato molto sparso. Il formato JPEG usa degli algoritmi capaci di ottimizzare questo tipo di informazione che, infatti, funziona bene con immagini dove ci sono spazi di colore che si discostano di poco, per esempio cieli azzurri o prati verdi. L’altra peculiarità del JPEG è quella di usare un tipo di compressione con perdita di informazioni, cioè capace di ridurre la quantità di spazio a discapito anche delle informazioni presenti, pur mantenendo la massima verosimiglianza con l’immagine originale. Ricapitolando esistono due tipi di compressione: con perdita di informazioni, come quella usata dal formato JPEG, e senza perdita di informazioni, come quella dei file RAW delle fotocamere reflex. Nel primo caso non sarà possibile, una volta compressa l’immagine, ritornare alla versione originale, mentre nel secondo caso non si perderà nessun bit di quanto sia stato catturato dal sensore. Una volta compresi i concetti base della compressione, è possibile capire come sia importante usare i parametri giusti durante l’esportazione o conversione di un file grezzo in un’immagine jpeg da condividere sui social, pubblicare su un sito, stampare o inviare su uno smartphone. La scelta della qualità del JPEG, tipicamente espressa in percentuale, indica di quanto siamo disposti a scostarci dall’originale pur di salvare spazio sul disco. Eccessiva compressione può causare problemi alle immagini, soprattutto in aree uniformi come il cielo, chiamati pixelazione e ghosting, cioè rispettivamente la presenza di artefatti visivamente spiacevoli come grossi quadrati spigolosi o come gradienti che formano degli scalini molto accentuati tra i vari valori che li compongono, come mostrato dagli esempi di seguito:



Lo spettro luminoso e spazio di colore La parola fotografia significa disegno di luce (o disegno fatto con la luce). Tralasciando i significati filosofici, è immediato capire come la luce giochi un ruolo più che fondamentale. Diventa quindi fondamentale imparare a conoscere questa grandezza fisica e il modo in cui essa si comporta con gli occhi degli esseri umani, dal momento che saranno loro a osservarne gli effetti. Lo spettro luminoso, ovvero ciò che descrive matematicamente il comportamento della frequenza delle onde di energia che rappresentano la luce, può essere suddiviso principalmente in due aree: la luce visibile e la luce invisibile. Infatti la luce non è una singola onda tutta uguale, bensì è composta da tante possibili frequenze che, interagendo in maniera diversa con i materiali che colpiscono o attraversano, modificano il loro effetto sul mondo circostante, producendo dai colori che siamo abituati a distinguere, alle bruciature della pelle durante l’estate. La luce è energia e la frequenza con cui l’onda che la rappresenta viene caratterizzata determina se saremo in grado di percepire con il nostro occhio la sua presenza e il suo colore. L’occhio umano è in grado di percepire la luce che si muove tra le frequenze di 400 e 790 THz. I dispositivi elettronici utilizzati per riprodurre immagini, come gli schermi LCD o LED di smartphone, televisori e cornici digitali, sono capaci di emettere tendenzialmente quel tipo di radiazioni. Ciò che si trova al di sotto è detto infrarosso, mentre sopra lo spettro visibile ci sono ultravioletti, raggi X e Gamma. Una domanda che sorge spontanea è: “come fanno le telecamere infrarossi a mostrarci la luce infrarossa?”. La risposta è che semplicemente sono in grado di catturare quel tipo di radiazione luminosa e applicando una semplice operazione matematica di traslazione, permettono a un dispositivo elettronico di riprodurre quel tipo di informazione in modo che sia “comprensibile” dal nostro occhio. Quindi, in realtà, noi non vedremo mai davvero la luce infrarossa ma al massimo una sua rappresentazione. Dati questi presupposti è facile intuire che il sensore di una fotocamera, che è fatto per catturare le radiazioni, deve essere ottimizzato per scartare tutta l’informazione inutile per l’occhio umano. Infatti, la maggior parte delle fotocamere, sia reflex ma anche di fascia più bassa, montano dei sensori che sono sensibili solo a luce inferiore a quella ultravioletta e vengono schermati da un filtro infrarosso che blocca tutte le frequenze al di sotto della luce visibile. In questa maniera il sensore otterrà un segnale quanto più pulito


possibile dalle radiazioni che colpiranno il componente elettronico fotosensibile. La luce, in quanto radiazione di energia, non viaggia costantemente nel vuoto, ma attraversa, colpisce o rimbalza sui materiali che incontra durante il suo percorso. Gli obiettivi sono speciali pezzi di vetro o cristallo, trattati con reagenti chimici, tali per cui sono capaci di veicolare i raggi luminosi verso il sensore. La qualità di un obiettivo, infatti, si misura nella sua capacità di selezionare correttamente solo i raggi utili, di non alterarne la lunghezza d’onda in maniera significativa, e di non disperdere energia nel tragitto che percorre la luce dalla parte frontale della lente fino al sensore.

Nel corso della storia, diversi matematici hanno tradotto lo spettro visibile in modelli matematici capaci di rappresentare ciò che vediamo. Alcuni tra i modelli matematici di maggiore interesse, come anticipato nel paragrafo precedente, sono gli spazi di colore. Il più importante in fotografia è sicuramente lo spazio RGB. Questo spazio di colore è stato studiato per mappare tutti i colori possibili dello spettro visibile in una serie di valori discreti, cioè memorizzabili su di un supporto capace di usare solo numeri interi con un limite minimo e un limite massimo (i famosi 24 bit per pixel, suddivisi in 8 bit per ciascun canale). Il ruolo del sensore è quello di mappare le radiazioni nei vari punti di questo modello, nel modo più accurato e preciso possibile.


Il modello RGB (quello illustrato in alto è quello studiato da Adobe nel 1998) è un modello detto “additivo”, cioè si considera che i valori positivi sono sommati al valore 0 che rappresenta il nero. Questo modello è utilizzato nel digitale perché, in effetti, i colori partono da un dispositivo che deve aggiungere elementi luminosi a partire dal “buio” per riprodurre un colore. Lo schermo di un computer è nero quando è spendo e per rappresentare il bianco dovrà aggiungere a ciascun pixel il massimo valore possibile di tutti e tre i canali. Quando invece si parla di supporti fisici, come la carta fotografica, il modello usato è il CMYK (Ciano, Magenta, Giallo e Nero) che è matematicamente l’inverso del modello RGB. Ogni colore dello spazio RGB può essere direttamente mappato con un colore nel modello sottrattivo CMYK.


Proprio per la differenza di supporto per le immagini, quando le si scattano ed elaborano in digitale e poi le si vuole stampare, è importante studiare e impostare i corretti profili di colore e calibrare il monitor in modo che ciò che si vede a video sia quanto più fedele possibile a ciò che si vedrà sulla carta stampata.


Formati di sensore Il sensore è una della parti più importanti della fotocamera poiché è il componente elettronico fotosensibile incaricato di raccogliere la luce e di tradurla in informazioni precise che rappresentino l’immagine. Nel mercato delle fotocamere, tra i non-fotografi, c’è poca conoscenza dell’importanza del fattore di forma del sensore e ci si concentra molto di più sul numero di megapixel, misura più commerciale che reale. La qualità di un sensore non è limitata al numero di pixel che contiene, ma anche alla gamma dinamica registrabile da ciascun pixel, la resistenza a fattori di disturbo come il calore o le interazioni con i pixel vicini, la capacità di tagliare le lunghezze d’onda inutili ai fini di un’immagine che sarà visionata da un essere umano e molte altre. Questo tipo di componente rientra nella categoria dove è innegabile che, a parità di altri fattori, più è grande e migliori saranno le prestazioni. Quando si sentono in giro “pettegolezzi” su fantomatici smartphone in grado di produrre immagini della stessa qualità di una reflex, si sta parlando di un controsenso per definizione. Infatti, se si applicasse la stessa tecnologia presente in quello smartphone a un sensore più grande, verosimilmente si avranno sicuramente risultati migliori. In commercio, oggi esistono vari fattori di forma che influiscono in maniera sostanziale nel definire vari mercati, da quello definito come “consumer” a quello professionale. I più noti sono i seguenti: Inferiori a 1 pollice: tipicamente usati in smartphone fotocamere compatte di fascia medio-bassa. Micro 4/3 e 1,5 pollici: usati in fotocamere compatte di fascia più alta e mirrorless. APS-C, APS-H: formati anche detti “crop” usati nelle reflex di fascia “consumer”. Full-Frame (o Small-format): formato equivalente alla dimensione della pellicola da 35mm. Medium-Format: formato utilizzato nella fotografia professionale di moda o commerciale. Nel mondo della pellicola esistevano anche altri formati, come il “Large-Format”, che attualmente in digitale sarebbe impensabile oltre che


estremamente costoso dato che già le fotocamere come le Hasselblad medio formato possono arrivare a costare oltre i 20.000 euro. Come per la qualità, vale anche la regola che più grande significa anche più costoso. La domanda che si pongono in tanti è: “qual è il migliore formato?”. La verità è che non esiste una risposta assoluta a questa domanda poiché anche se si disponesse di un budget tale da potersi permettere una fotocamera medio formato, siamo sicuri che andare in giro con un mattone da 2 o 3 chili del volume di un robot da cucina sarebbe la soluzione migliore per la fotografia quotidiana? Nonostante sia importante capire quale sia il formato più idoneo per le proprie tasche e il tipo di fotografia che si pratica, è sicuramente più utile capire che tipo di vantaggi si possono ottenere in base al fattore di forma. Di conseguenza bisogna analizzare alcuni punti che si relazionano direttamente con la dimensione del sensore: Risoluzione: sebbene ormai si riescano a miniaturizzare talmente tanto i pixel da avere sensori di dimensione abbondantemente inferiore al pollice con oltre 20 megapixel, è chiaro che un sensore più grande avrà una superficie maggiore e, pertanto, applicando la stessa tecnologia di miniaturizzazione si potrà avere sempre una risoluzione maggiore. In sostanza, se domani gli smartphone saranno capaci di avere 50 megapixel su un sensore da un pollice, una reflex sarà capace di averne 250. Resistenza ai disturbi: ogni elemento del sensore che genererà un pixel dell’immagine è fisicamente posizionato vicino ad altri. Ciascuno di questi elementi, in quanto componente elettrico ed elettronico, genererà campi elettromagnetici, calore e altri stimoli fisici che potrebbero interagire con gli elementi vicini. Quanto più è grande il sensore quanto più facile sarà mitigare questi elementi. Per esempio, quando si fanno lunghe esposizioni, uno dei problemi è il rumore dovuto al surriscaldamento di alcuni punti del sensore. In un dispositivo più grande sarà più facile far dissipare il calore prima che questo abbia impatto sui pixel vicini, generando così, alla fine, un’immagine più pulita. Precisione: un sensore più grande significa, a parità di risoluzione, pixel più grandi. Se si immagina ogni singola radiazione come un getto d’acqua e ogni singolo pixel come un secchio, si può facilmente capire che quanto più piccolo sarà il secchio quanto più probabile sarà


che il singolo getto d’acqua vada a riempire non soltanto il pixel a cui era destinato ma anche quelli vicini. Nei sensori più piccoli, se le radiazioni colpiscono più pixel, accadrà che la risoluzione effettiva dell’immagine, quindi quella percepibile dall’occhio umano o stampabile, sarà di gran lunga inferiore a quella di un sensore più grande. Gamma dinamica: un sensore più grande, in forza dei punti precedenti, potrà più facilmente sfruttare i bit disponibili per ciascun pixel per rappresentare con precisione i colori catturati. Basti pensare al fattore di precisione. Se si prendesse, per esempio, un sensore più piccolo in cui ciascun pixel viene colpito dalla sua radiazione ma anche dalle altre, anche se fosse capace di catturare immagini a 24 bit, al pari di una full frame, ogni pixel avrebbe una componente additiva di rumore dovuta ai raggi che erano destinati ai pixel vicini, rendendo di fatto inutili una parte dei 24 bit matematicamente a disposizione e, di conseguenza, riducendo il numero di colori che il sensore sarà effettivamente in grado di riprodurre. Fattore di ritaglio (crop): se si pone la stessa lente di fronte a sensori di diverso taglio e si inquadra la stessa scena dallo stesso punto di osservazione, si noterà che data la costruzione fisica dell’obiettivo, l’immagine risulterà tanto più ritagliata quanto più piccolo sarà il sensore. Poiché gli obiettivi grandangolari sono difficili da costruire per via delle distorsioni prospettiche e la tecnologia necessaria per realizzarli, oltre che per i limiti fisici dei dispositivi che dovranno usarli, un sensore più piccolo avrà sempre maggiori difficoltà a coprire angoli di campo piuttosto larghi e anche a parità di angolo di campo, un sensore più grande permetterà di avere una quantità di distorsione di gran lunga inferiore rispetto a fattori di forma molto più piccoli. Il diagramma seguente mostra un esempio di quanto cambia la dimensione di un’immagine in base al fattore di forma del sensore.


Nero: medio formato Verde: full frame Giallo: crop Rosso: Micro 4/3 Azzurro: Mirrorless Marrone: Smartphone e compatte


L’importanza dei megapixel Sebbene, come già spiegato, il sensore sia molto più dei suoi megapixel, da un punto di vista sia matematico che qualitativo, essi sono comunque importanti in quanto rappresentano la risoluzione dell’immagine finale, cioè la sua massima qualità teorica. In pratica, se avessimo un sensore grande quanto una pellicola di grande formato, ma composto da appena 4 pixel, l’immagine finale non potrebbe sicuramente rappresentare nemmeno un piccolo oggetto della realtà. Il termine megapixel significa letteralmente milioni di pixel. Ciascun sensore ha un valore che viene di solito approssimato all’intero più vicino, o al massimo a una cifra decimale (e.g. 24,1 MP). In realtà, per conoscere il vero valore bisogna moltiplicare il numero di pixel orizzontali per il numero di quelli verticali che il sensore è in grado di catturare. Per esempio, se il sensore fosse capace di catturare immagini di dimensione pari a 1920x1080 pixel, significherebbe che avremmo un sensore di risoluzione pari a 2.073.600 pixel, cioè circa 2MP. I numeri indicati non sono casuali, infatti 1920x1080 è la risoluzione di un monitor FULL-HD. Stando a quanto detto, basterebbe una fotocamera con un sensore di poco più grande di 2MP per catturare video in altissima risoluzione. Tuttavia ciò sarebbe possibile solo nel caso di un sensore perfetto accoppiato con una lente capace di trasmettere la luce in maniera altrettanto perfetta. Questo spiega uno dei motivi principali per cui per realizzare un video ad altissima risoluzione sono necessari sensori che hanno molti più megapixel. Per capire l’importanza dei megapixel è sufficiente immaginare di scattare una fotografia in cui siano presenti vari dettagli, come un filo di lana che pende da uno scaffale. A parità di tutte le possibili altre condizioni, la quantità di pixel sarà importante perché, supponendo che il filo di lana sia grande esattamente quanto un singolo pixel di un sensore di risoluzione pari a 12MP, significa che con un sensore pari a 6MP, ciascun pixel andrà a catturare una porzione di immagine che includerà il filo di lana e parte dello sfondo dietro di lui, sintetizzandola in un singolo valore e, di conseguenza, perdendo dettagli dell’immagine reale. Quando si parla di risoluzione è importante distinguerne almeno due tipi: Risoluzione effettiva: il numero di pixel che rappresentano l’immagine e che non ha nessun legame con la dimensione di stampa della foto, ma rappresenta la sua dimensione effettiva relativa al dispositivo digitale


che la mostra. Per esempio, mostrando un’immagine di risoluzione pari a 1920x1080 su di un monitor di dimensione pari a 30 o 50 pollici di diagonale, l’unico parametro importante sarebbe la risoluzione del monitor stesso. Infatti pur avendo un’immagine di risoluzione superiore, ciò che verrebbe mostrato sarebbe sempre e comunque un’immagine di risoluzione pari a quella del monitor a prescindere dalla sua dimensione. I display retina introdotti da Apple sono dei display dove la risoluzione e la densità dei pixel è pari al massimo percepibile dall’occhio umano, pertanto le immagini dotate di una risoluzione “perfetta” per quei monitor risulterebbero (teoricamente) al massimo della loro qualità. Risoluzione spaziale: questo valore viene espresso in DPI, cioè “dots per inch” o punti per pollice. Nel caso delle immagini digitali si può parlare anche di PPI, cioè “pixels per inch”. In tal caso si sta definendo anche un parametro che definisce la dimensione effettiva di un’immagine digitale, sia che si parli di effettuarne l’acquisizione tramite uno scanner, sia che si parli di stampa. La densità di punti di cui è capace un supporto va a limitare fortemente il senso della risoluzione effettiva dell’immagine digitale. Si pensi per esempio a una stampante di bassa qualità, capace di stampare a una massima risoluzione spaziale di 10 DPI. Se anche venisse mandata in stampa un’immagine da 500MP, una volta stabilita la dimensione del supporto, per esempio un foglio A4, la stampante sarebbe obbligata a fare un riduzione della densità andando di fatto a selezionare solo alcuni dei pixel effettivi dell’immagine. Quando nei programmi di fotoritocco si decide la densità dell’immagine, per esempio 300dpi, si sta fondamentalmente ottimizzando il formato digitale (e le informazioni al suo interno), affinché siano utilizzabili da dispositivi che siano capaci di utilizzare quei valori, in termini di risoluzione spaziale. Ciò che influisce pesantemente sulla qualità finale e reale dell’immagine è l’obiettivo. Infatti, la risoluzione del sensore, e quindi i megapixel totali, rappresentano come già detto solo la qualità massima teorica dell’immagine nel caso in cui non vi siano elementi di disturbo tra un pixel e l’altro. Tuttavia è ancora più importante delle caratteristiche fisiche ed elettroniche del sensore, l’obiettivo che viene messo davanti ad esso. La sorgente di informazione è l’insieme delle radiazioni luminose che devono essere convogliate dalle lenti verso il sensore. Una lente di scarsa qualità provocherà dispersione delle radiazioni e incidenze non perfette sul sensore.


Considerando la coppia sensore e obiettivo si può ottenere la risoluzione finale, effettiva, di un’immagine. Il concetto di risoluzione effettiva può essere spiegato con un’unità di misura introdotta da un famoso laboratorio di test di fotocamere e obiettivi chiamato DxOMark, nota come megapixel percepiti. Nonostante questo sito non abbia una reputazione sempre considerata positiva, è innegabile che i suoi ideatori abbiano messo in piedi una serie di verifiche di laboratorio che possono misurare in maniera fondamentalmente oggettiva (ma magari qualche volta non proprio equa o sensata) le prestazioni di obiettivi e fotocamere in termini di qualità meramente matematica. La quantità di megapixel percepiti è sostanzialmente la risoluzione che avrebbe avuto un’immagine prodotta da un dato sensore tramite uno specifico obiettivo se la si riduce fino a ottenere un’immagine teoricamente perfetta. Per esempio, si supponga di prendere in esame la fotocamera di uno smartphone capace di acquisire ben 24 megapixel e la si metta in coppia con due pessimi obiettivi. Il test di laboratorio darà dei risultati molto differenti sia tra loro che dalla risoluzione teorica: nel primo caso potrebbe dare, per esempio 4 megapixel percepiti, mentre nel secondo solo 1,2. Per capire meglio questa unità di misura è possibile osservare nell’immagine seguente un esempio di come i due obiettivi potrebbero creare risultati completamente diversi.


Questo esempio spiega perchÊ degli obiettivi di qualità scadente, soprattutto se accoppiati a sensori molto piccoli, producano immagini pessime. Infatti si può notare come nel primo caso la radiazione vada a colpire 6 pixel del sensore, riducendo di fatto (semplificando) la risoluzione a 1/6 del massimo possibile, in quanto ci vorranno ben 6 pixel reali per rappresentare il singolo dettaglio di quella radiazione luminosa. Nel secondo caso i pixel impattati sono addirittura 20.


Gamma dinamica La gamma dinamica, in fotografia, indica la capacità del sensore di catturare un intervallo di intensità luminose in un singolo istante di tempo. Un’immagine digitale è in grado di rappresentare dal nero più oscuro fino al bianco più assoluto, pertanto la gamma dinamica di un’immagine digitale è virtualmente completa, tuttavia i dispositivi di acquisizione delle immagini, come anche l’occhio umano, hanno la capacità di catturare solo una certa differenza di intensità luminose allo stesso tempo e avranno bisogno di utilizzare un qualche genere di guadagno per potersi spostare dal limite minimo al limite massimo. Per capire il concetto di gamma dinamica usando la propria esperienza personale, è possibile condurre un semplice esperimento: ci si sieda in una stanza buia di fronte a un monitor acceso con un foglio elettronico bianco con testo nero e si ponga nella sua immediata vicinanza un foglio grigio con delle scritte di poco più scure. Ci si rende immediatamente conto che è praticamente impossibile per il nostro occhio leggere contemporaneamente ciò che è scritto in entrambe le parti poiché la differenza di intensità luminosa è eccessiva per il nostro occhio. Spostando l’attenzione da un punto all’altro si noterà anche come l’occhio riesca gradualmente ad abituarsi a uno o all’altro testo. Nel caso dell’occhio umano il guadagno è dato dall’iride che è capace di agire da diaframma che regola la quantità di luce che va poi a colpire il sensore, cioè la retina. L’occhio umano è in grado di percepire contemporaneamente una gamma dinamica di circa 10-14 stop. Chiaramente l’uomo è in grado di far scivolare questo intervallo adattando la vista alla situazione e coprendo di istante in istante una gamma dinamica di gran lunga superiore a quella delle fotocamere attuali. Per i sensori il concetto non è molto diverso. Un sensore può infatti catturare l’intensità luminosa con un intervallo che è compreso tra un minimo e un massimo valore istantaneo. Questo rende, difatti, difficile o impossibile riuscire a esporre correttamente nella stessa foto le zone in ombra e le zone in luce. Di conseguenza, maggiore sarà la gamma dinamica del sensore, più dettagli saranno presenti nell’immagine finale. Alcune tecniche che si possono usare in fotografia digitale per aumentare la gamma dinamica di un’immagine rientrano nella sfera dell’HDR (High Dynamic Range). Allo stesso modo di come differiscono la risoluzione teorica da quella effettiva, la gamma dinamica di un sensore può essere messa in relazione con il massimo teorico di cui è capace un’immagine digitale. Se si considera, per


esempio, il formato JPEG a 8 bit per canale, il massimo teorico rappresentabile sarà pari a 2^24 colori, ovvero 2^8 = 256 livelli di intensità per ciascun canale. Tuttavia questo valore è, come anticipato, puramente ideale, infatti se il sensore fosse in grado di catturare solo 128 livelli di intensità per ciascun canale, il risultato non sarebbe più il massimo possibile ma risulterebbe pari a 7 bit per canale, cioè 2^21 colori. Infine, pur supponendo che l’immagine digitale sia perfetta e contenga esattamente tutti i colori possibilmente rappresentabili, il problema della gamma dinamica si ripresenterebbe nel momento in cui tale immagine dovesse essere riprodotta da un supporto come un monitor o una stampante, i quali sono dispositivi che potrebbero a loro volta essere limitati nella capacità di riprodurre i colori dell’intera gamma dinamica in ingresso. Questo spiega anche il perché le stampe fotografiche fatte in casa, per quanto possano essere di qualità, non potranno mai risultare pari a quelle ottenute tramite servizi professionali altamente specializzati.



La reflex e gli obiettivi Le fotografie sono fatte dai fotografi e non dalle fotocamere, ma sapere quale obiettivo usare e conoscere la tecnologia che sta dietro le quinte può essere molto utile. Saprai quale obiettivo portare con te durante il reportage per il tuo primo lavoro da fotoreporter?


Come funziona una reflex La fotocamera reflex prende il nome dal suo caratteristico meccanismo di riflessione della luce (1) che, attraverso uno specchio (2) e un pentaprisma (6) mostra l’immagine così come catturata dall’obiettivo direttamente all’occhio dell’osservatore. Questo meccanismo è rimasto fondamentalmente invariato dai tempi in cui fu inventato ed è migliorato in termini di prestazioni, riduzione delle vibrazioni causate dal movimento meccanico dei componenti e qualità e ingrandimento dell’immagine mostrata al fotografo. Sebbene questo sistema possa apparire datato e venga considerato superato da dispositivi mirrorless (cioè senza specchio), il mirino ottico e lo specchio continuano ad avere ancora dei notevoli vantaggi sia nel campo professionale che in generale sotto molti punti di vista. Infatti, il fatto che l’occhio venga colpito dall’immagine che viene riflessa tramite gli specchi, fa sì che il fotografo possa vedere in tempo reale (alla velocità della luce), l’inquadratura e non rischi di perdere l’attimo a causa di un ritardo dovuto alla differenza tra la cattura della luce e la resa dell’immagine in uno schermo digitale. Sebbene il ritardo delle mirrorless di fascia alta sia stato praticamente ridotto al minimo e sia paragonabile al tempo che impiega lo specchio a porsi in posizione sollevata (4), un altro dei vantaggi dell’avere uno specchio è il consumo ridotto di energia. Infatti, nelle mirrorless c’è sempre un sensore attivo che cattura l’immagine e dei processori che la elaborano per mandarla a un display che, a sua volta, consumerà energia rimanendo sempre acceso. In una reflex non ci sono display attivi a meno di utilizzare una modalità “live-view”, e il sensore viene alimentato solo quando lo specchio si alza e l’otturatore inizia a fare il suo lavoro.


Come è possibile notare dal diagramma, la reflex lavora catturando la luce attraverso un obiettivo con una lente tipicamente convessa alla sua estremità, capace di far rifrangere le radiazioni luminose convogliandole in direzione del sensore. La rifrazione causerà inevitabilmente una perdita di qualità della luce perché ne disperderà una parte in direzioni non precise. Il raggio andrà dunque a colpire lo specchio, generando un’immagine rovesciata, esattamente come accade per l’occhio umano. L’immagine sarà poi raddrizzata dal software. Per quanto riguarda il mirino, invece, lo specchio rifletterà l’immagine in alto, dove passerà attraverso un vetrino di messa a fuoco (5) e colpirà il pentaprisma che si occuperà, attraverso le riflessioni geometriche, di mostrare l’immagine all’occhio umano nella sua posizione originale. Al momento dello scatto, lo specchio si alzerà e non sarà più possibile guardare l’immagine nel mirino ottico. Dal momento in cui lo specchio sarà fuori dalla traiettoria della proiezione delle radiazioni luminose, il sensore verrà attivato e una tendina meccanica, chiamata otturatore, permetterà alla luce di impressionare il sensore per un tempo pari al tempo di esposizione impostato dal fotografo. In quei frangenti, il sensore catturerà la luce e produrrà l’immagine grezza, la quale sarà poi elaborata dal processore interno della fotocamera per comprimere i dati senza perdita di dati, o per generare formati sviluppati automaticamente come JPEG, a seconda delle impostazioni desiderate dal fotografo stesso.


Le reflex sono solitamente capaci di montare ottiche intercambiabili ma è importante capire che ogni marca produce delle lenti specifiche per i propri dispositivi e che possono essere usate da altri solo grazie ad adattatori. Il motivo di ciò non sta solo nell’elettronica e nella baionetta, ma anche nella capacità di messa a fuoco. Infatti il sensore è posto a una distanza ben precisa dall’obiettivo e quella distanza è matematicamente calcolata nella maniera più precisa possibile per consentire al sistema di lenti di produrre un’immagine perfettamente messa a fuoco. Quando una lente ha un difetto di questo tipo si parla, infatti, di front o back focus. Questo dovrebbe far capire che se si intende usare un obiettivo di una marca differente, che non sia stato appositamente costruito per una fotocamera di una certa marca, sarà necessario usare adattatori di alta qualità che vadano a coprire esattamente la distanza necessaria per consentire la corretta messa a fuoco.


Come funziona un obiettivo Gli obiettivi si distinguono in due tipi: zoom e fissi. Gli obiettivi fissi sono tipicamente di qualità migliore rispetto agli zoom in quanto sono ottimizzati per una singola lunghezza focale e tutte le lenti al loro interno sono specializzate per convogliare la luce al meglio possibile verso il sensore con la minor dispersione di luce possibile. Un obiettivo zoom funziona con un sistema di lenti che può essere semplificato con uno schema come quello mostrato di seguito.

Le due lenti alle estremità rappresentano la parte frontale e quella posteriore dell’obiettivo, che rimane tendenzialmente fissa all’interno del tubo dell’obiettivo. All’interno si può immaginare una lente che, al ruotare della ghiera di zoom, si muova in avanti o indietro, modificando il modo in cui la luce vada a incidere sulla lente posteriore. Come si può vedere nel primo caso, la lente interna, posizionata vicino a quella frontale, fa sì che dei raggi che colpiscono l’obiettivo vengano “allargati”, producendo così di fatto un effetto di ingrandimento dell’immagine finale e tagliando fuori i raggi più esterni (riducendo quindi l’angolo di campo). Nel secondo caso ci si trova in una situazione detta “normale”, cioè in cui ciò che viene catturato viene in qualche modo riportato allo stesso modo sull’obiettivo finale, mentre nel terzo caso i


raggi vengono “compressi”, facendo in modo che più raggi possano andare a incidere insieme sul sensore (aumentando l’angolo di campo). Per quanto riguarda la messa a fuoco, al sistema di lenti precedenti va aggiunta una lente che può essere posta sia davanti all’obiettivo (tipicamente gli obiettivi con l’attacco dei filtri che si muove) o interna (con la possibilità di usare filtri senza il rischio che vengano spostati durante la messa a fuoco). Date queste premesse è possibile intuire che maggiore sarà l’escursione in termini di lunghezza focale, più complesso sarà il sistema di lenti all’interno e maggiori saranno le problematiche legate ad aberrazioni e dispersione della luce.


Zoom vs Ottiche fisse Stando a quanto spiegato in precedenza, è ovvio che quando si vuole ottenere il massimo della qualità, sia in termini di risoluzione effettiva che di qualità dell’immagine, una lente a focale fissa sarà migliore di una lente zoom. Con questo non voglio dire che gli zoom siano tutte pessime lenti o che non sia possibile ottenere ottime foto, anzi al contrario esistono degli zoom capaci di risultati strabilianti. Inoltre gli zoom hanno il grandissimo vantaggio di essere molto versatili e consentire di cambiare l’inquadratura anche senza muoversi, cosa molto utile quando si è impossibilitati a usare i piedi per spostarsi e per ingrandire o ridurre la dimensione del soggetto nell’immagine. Usare una lente a lunghezza focale fissa è un ottimo esercizio per studiare la prospettiva e per focalizzarsi sulla composizione, tuttavia non è il modo migliore per imparare a riconoscere i difetti tipici dei vari obiettivi e il modo per contrastarli. Le ottiche fisse infatti saranno sempre ottimizzate per ridurre al minimo le distorsioni e le aberrazioni poiché non avranno la complessità di gestire il modo in cui la luce si comporterà quando attraverserà i complessi sistemi mobili di uno zoom. Ecco alcuni dei vantaggi delle lenti zoom: Permettono di studiare diverse lunghezze focali con uno sforzo minore sia in termini economici che di tempo. Sono molto più utili anche per i fotografi professionisti che operano in settori dove non è possibile perdere tempo a cambiare l’obiettivo molto spesso, per esempio fotoreporter o matrimonialista. Consentono di lavorare sull’inquadratura e sulla composizione in maniera più creativa perché oltre a potersi muovere con i piedi si può modificare l’angolo di campo a parità di prospettiva. Anche le lenti a lunghezza focale fissa hanno i loro vantaggi ovviamente: Sono tipicamente più economiche di zoom di qualità equivalente Possono raggiungere aperture del diaframma maggiori grazie a una complessità inferiore delle lenti Hanno una qualità superiore rispetto a uno zoom impostato alla stessa lunghezza focale



L’obiettivo giusto per ogni foto A prescindere dalle differenze tra zoom e ottiche fisse, è importante comprendere che esiste l’obiettivo giusto per la foto che si vuole realizzare. Infatti se si immagina la fotografia come qualcosa che scaturisce dalla mente e dall’occhio del fotografo, essa esisterà prima ancora di essere catturata da un sensore. Ciò significa che una volta stabilita la composizione e tutti i vari elementi dell’immagine, soltanto una certa lunghezza focale utilizzata da un certo punto di osservazione che caratterizzerà la prospettiva, potranno dare il risultato atteso. Cercando in giro per il web è facile trovare la classica suddivisione degli utilizzi degli obiettivi in base alla loro lunghezza focale, spesso con superflue o prolisse spiegazioni: Grandangolare: paesaggi, astrofotografia e architettura Normale: reportage, street photography Teleobiettivo: ritratto, natura e sport Questi sono degli esempi, assolutamente validi e corretti, che sintetizzano ciò a cui si arriva studiando la base della lunghezza focale. Io vorrei invece soffermarmi su degli aspetti diversi, più legati all’aspetto legato alla narrazione attraverso le immagini, quello che in inglese chiamano storytelling. L’obiettivo grandangolare ha la caratteristica di poter racchiudere tantissimi dettagli in una sola immagine, grazie al suo angolo di campo molto ampio, addirittura estremo in obiettivi come i fish-eye. Questo tipo di lente è capace di raccontare storie di grandissimo impatto, mettendo nella stessa foto soggetti molto lontani tra di loro. Infatti, sebbene gli utilizzi dell’esempio precedente siano i più classici, l’uso di un obiettivo grandangolare con un soggetto molto vicino, permetterà di farlo apparire molto grande e di includere nello stesso tempo una grande quantità di informazioni nello sfondo, accentuando la distanza tra i vari elementi. Questo può essere un fortissimo strumento per evidenziare l’importanza di un soggetto rispetto ad altri e non solo in valore assoluto.


Questa foto mostra un cosplayer durante una fiera che allunga la sua spada verso il suo avversario. Grazie all’uso di un grandangolare anche piuttosto spinto, la lama che è il soggetto della foto, appare enorme e spropositatamente possente rispetto a tutto il resto, tanto da far apparire anche le altre persone nello sfondo come qualcosa di importante per il contesto ma irrilevante nei suoi confronti. La lunghezza focale che viene chiamata normale, generalmente attorno ai 50mm su pellicola da 35mm ovvero su full-frame, è chiamata in questo modo perché tende a dare un’idea molto realistica di ciò che viene ritratto, in quanto cerca di rappresentare il mondo per come l’occhio umano è abituato a vederlo. Per tale ragione questi obiettivi hanno molto successo nel fotogiornalismo, tuttavia lo scopo di un obiettivo normale non è quello di documentare meramente i fatti. Esso è infatti il più potente strumento per catapultare l’osservatore in mezzo alla scena e fargli vivere lo scatto. Non a caso fotografi come Henri Cartier Bresson erano capaci di scatti potentissimi con questa lunghezza focale. L’essere in mezzo alla scena significa essere fisicamente in prossimità di ciò che si riprende e infatti, come diceva il fotografo di guerra Robert Capa: “se la foto non è buona, allora non eri abbastanza vicino”.


Come mostra questa foto del monumento installato a Budapest in memoria di alcune particolari vittime della guerra e della tirannia, la forza di un


obiettivo normale sta proprio nel portare l’osservatore vicino alla scena senza creare distorsioni prospettiche, raccontandogli le sensazioni di un luogo attraverso l’immedesimazione del punto di vista. Pertanto, mentre l’uso di un grandangolare può essere potentissimo per enfatizzare in maniera surreale un concetto o un soggetto, l’uso del normale trova la sua forza nell’essere uno strumento perfetto per trasportare il soggetto esattamente dove il fotografo lo immagina, per esempio seduto sulla riva del Danubio a commemorare i caduti. I teleobiettivi sono lenti associate all’ingrandimento di un soggetto lontano. Da questa caratteristica derivano gli utilizzi più classici descritti nell’elenco iniziale. In realtà il vero scopo di un obiettivo di questo tipo è quello di isolare quanto più possibile il soggetto, donandogli tutta la sua importanza e rimuovendo ogni elemento di disturbo. La caratteristica di avere un angolo di campo molto piccolo e l’effetto di compressione dello sfondo, fanno sì che questi obiettivi siano perfetti per far sì che l’osservatore non abbia altra scelta che concentrarsi solo ed esclusivamente sul soggetto poiché tutto il resto è stato tagliato fuori.

Nell’immagine di questo pappagallo australiano è possibile notare come il volatile sia immerso in un morbido e avvolgente verde e non vi siano altri elementi all’infuori di lui nella composizione, facendo in modo che


l’animale spicchi e sia l’unico soggetto possibile grazie alla sfocatura dello sfondo e all’eliminazione di qualunque elemento al contorno.


Aberrazioni ottiche Tutti gli obiettivi soffrono di qualche genere di aberrazione. La lista non è particolarmente lunga e ciascuna di queste distorsioni ha la sua soluzione in post-produzione: Distorsione a barile (barrel): questo tipo di distorsione colpisce principalmente gli obiettivi grandangolari ma diventa una caratteristica peculiare quando ci si spinge sugli ultra grandangolari e fish-eye. Questo tipo di distorsione prende il nome dal barile poiché tende a far sembrare le immagini più gonfie e bombate al centro e curve verso i bordi. Distorsione a cuscino (pincushion): è un tipo di distorsione inversa rispetto alla precedente in cui le linee tendono a piegarsi verso l’interno, molto più comune in obiettivi con lunghezze focali piuttosto lunghe. Distorsione a baffo (mustache): si tratta di un caso meno frequente che mescola entrambe le distorsioni, spesso accomunato con gli obiettivi zoom.

Tutte queste tipologie possono essere risolte in post-produzione con la tecnica del warping, cioè applicare delle funzioni matematiche per spostare letteralmente i pixel da una posizione all’altra come se si volessero raddrizzare le linee mostrate dal diagramma precedente. Questa tecnica è difficilmente applicabile a mano libera ma ormai è stata automatizzata in moltissimi programmi di sviluppo digitale come Adobe Lightroom, Adobe CameraRaw, Photoshop e varie alternative sia commerciali che gratuite. Le aberrazioni cromatiche sono invece dovute al modo in cui la luce passa attraverso le lenti. Le più comuni sono i riflessi verdi dovuti alla luce diretta presente nell’inquadratura, nota in inglese come flaring o ghosting, e la


presenza di colori porpora sui bordi di soggetti particolarmente contrastati, chiamato purple fringing. Questo tipo di aberrazioni vanno trattate manualmente con il fotoritocco e in generale non esistono tecniche completamente automatiche capaci di risolvere questi problemi. Per quanto riguarda il flaring, sarà necessario rimuoverlo, se possibile, clonando parti dell’immagine, mentre per il color fringing sarà sufficiente utilizzare un programma di fotoritocco che possa usare livelli e maschere (Gimp, Photoshop, PaintShopPro, etc) e utilizzare una versione sfocata dell’immagine come livello applicato ai colori dell’originale, mascherato su tutta l’immagine tranne che sui bordi che presentano il problema.


La profondità di campo Nel primo volume è stato introdotto il concetto di bokeh e profondità di campo e in questo paragrafo voglio aggiungere un po’ di precisazioni relative alle basi di ciò che definisce la profondità di campo e la sua relazione con gli altri fattori. La profondità di campo dipende esclusivamente da tre fattori: apertura del diaframma, lunghezza focale e distanza del punto di messa a fuoco. Esistono delle formule matematiche per cui è possibile calcolare, in base a questi tre fattori, la profondità di campo in centimetri. Queste formule sono facilmente reperibili in rete ma onestamente le trovo poco utili ai fini dell’utilizzo quotidiano da parte del fotografo. Ritengo che sia molto più importante comprendere il rapporto di proporzionalità che intercorre tra queste grandezze. Iniziamo con il parlare dell’apertura del diaframma. Come già anticipato, l’apertura del diaframma, misurata in f-stop, è uno dei principali e più incidenti fattori nell’ampiezza della profondità di campo. Si può dire che indipendentemente dagli altri fattori, aumentare l’apertura, cioè diminuire il valore della F, la profondità di campo diminuisce. Questo è infatti il motivo per cui usare un diaframma di F/2.8 generi uno sfocato molto accentuato. Tuttavia non è possibile stabilire in termini di centimetri, di quanto aumenti o diminuisca se non in relazione alla lunghezza focale e alla distanza di messa a fuoco. Le seguenti immagini mostrano la differenza al variare dell’apertura del diaframma, mantenendo costanti la lunghezza focale (50mm) e la distanza di messa a fuoco (indicata con X).


50mm – f/2.8 – Distanza X

50mm – f/5.6 – Distanza X


50mm – f/9 – Distanza X Se si prende in esame il caso degli smartphone, che sono generalmente caratterizzati da apertura del diaframma e lunghezza focale della lente fisse, l’unica cosa che può variare è, la distanza di messa a fuoco, ovvero la distanza dal soggetto. Questa distanza, infatti, causa una variazione non indifferente della profondità di campo. In questo caso la relazione indica che più ci si avvicina al soggetto e quindi più si avvicina la distanza dal piano di messa a fuoco, più diminuisce la profondità di campo (e di conseguenza lo sfocato nello sfondo). Le immagini seguenti mostrano la differenza di profondità di campo mantenendo fissa sia l’apertura del diaframma (F/2.8) che la lunghezza focale (50mm) ma variando le distanze con A > B > C.


50mm – f/2.8 – Distanza A

50mm – f/2.8 – Distanza B


50mm – f/2.8 – Distanza C Chiaramente, gli esempi precedenti fanno capire quanto sia diverso, da un punto di vista della composizione e della resa finale in termini di profondità di campo, il comporre correttamente l’immagine o l’effettuare uno zoom digitale, cioè un ritaglio dell’immagine originale. Infatti, se si confrontassero due immagini a parità di composizione, di cui però una sia stata catturata occupando l’intera immagine avvicinandosi al soggetto e l’altra ritagliando da una foto in cui il soggetto era stato ripreso da una distanza maggiore, si noterà una notevole differenza della profondità di campo, a parità dei vari fattori di apertura e lunghezza focale o distanza dal soggetto. L’ultimo dei fattori che influenza la profondità di campo è la lunghezza focale. All’aumentare della lunghezza focale diminuisce la profondità di campo. Le immagini seguenti, ritratte a parità di distanza di messa a fuoco e apertura del diaframma, ma riprese con una lente da 35mm e una da 50mm, mostrano come nel secondo caso la profondità di campo sia diminuita sensibilmente.


50mm – f/2.8 – Distanza X

35mm – f/2.8 – Distanza X Questi fattori di proporzionalità dovrebbero far capire immediatamente il perché in fotografia macro, dove la distanza dal soggetto è minima, gli obiettivi sono praticamente dei teleobiettivi, e l’apertura è la massima possibile per poter usare un tempo di esposizione bassissimo per congelare l’azione, generino un problema non indifferente, cioè che sia molto difficile


avere una sufficiente profondità di campo per avere un insetto interamente a fuoco. In realtà è importante capire che la profondità di campo dipende fondamentalmente dalla composizione, cioè dall’insieme dei tre fattori precedenti e si può dire che in generale, mantenendo la stessa composizione in relazione al soggetto principale, cioè lo spazio che occupa all’interno dello scatto, cosa che implica modificare la lunghezza focale e la distanza di messa a fuoco (ovvero la distanza dal soggetto), ma non l’apertura del diaframma, la profondità di campo rimarrà pressoché invariata. Infatti, come è possibile notare il soggetto è sempre lo stesso ed è più o meno la costante delle varie immagini, e nonostante le diverse lunghezze focali, le linee rosse sul metro mostrano come la profondità di campo sia rimasta pressoché invariata in tutte e tre, sempre circa di 4 centimetri:


70mm @ F/2.8


50mm @ F/2.8


24mm @ F/2.8 Ciò che accade è facilmente analizzabile prendendo la prima foto come riferimento: data una profondità di campo a 70mm, F/2.8 e distanza pari a X cm, la riduzione della lunghezza focale a 50mm farebbe aumentare la profondità di campo tuttavia, ricomponendo l’immagine e facendo sì che la scarpetta occupi la stessa porzione dell’immagine, sarà necessario avvicinarsi al soggetto e, di conseguenza, ridurre la distanza dal piano di messa a fuoco a Y cm, con Y < X. Così facendo la profondità di campo sarà ridotta e tale


variazione andrà a bilanciare quella generata dalla riduzione della lunghezza focale, mantenendola così a circa 4 centimetri. Un’altra cosa da tenere in considerazione quando si parla di relazione tra profondità di campo, apertura focale e piano di messa a fuoco, è che sebbene in teoria tale piano sia, per l’appunto, un piano ortogonale con la linea che unisce il soggetto e la fotocamera, in realtà, poiché la scena di fronte al fotografo potrebbe essere particolarmente larga, il piano è in realtà una superficie curva. Si supponga per esempio di fotografare un gruppo di persone (magari una foto di tutti gli invitati a un matrimonio): tipicamente si faranno disporre tutti i soggetti su di una linea orizzontale, perpendicolare a quella che unisce il soggetto (cioè il gruppo), dal fotografo. In questo caso, un’apertura troppo bassa potrebbe generare un problema di messa a fuoco.

Le soluzioni sono due, come mostrato dallo schema: o si fanno mettere le persone ad arco, facendo avvicinare i soggetti più laterali in modo che ruotando su se stessi la distanza dalle persone al centro del gruppo sia la stessa da quella ai lati, oppure si dovrà utilizzare un’apertura focale più piccola in


modo da avere una maggiore profonditĂ di campo.


Utilizzo dei filtri L’ultimo argomento di natura prettamente tecnologica riguarda i filtri ottici. Con l’avvento del digitale e con il progredire delle tecnologie di elaborazione automatica delle immagini digitali, molti dei filtri che si usavano una volta sono diventati praticamente inutili. Il più chiaro esempio sono i filtri monocromatici, cioè quelli capaci di creare effetti di viraggio di colore. Esistono tuttavia una serie di filtri che non possono in alcun modo essere replicati in post-produzione, a prescindere dalla loro utilità. Ecco i più importanti, come vengono usati e perché non possono essere simulati in post produzione: Filtro polarizzatore: la luce polarizzata è una componente delle radiazioni che colpiscono il sensore, alterando significativamente il modo in cui l’immagine viene resa. I riflessi sull’acqua, per esempio, sono tipicamente composti per lo più di luce polarizzata, pertanto usando un filtro polarizzatore si riuscirebbe a “vedere attraverso l’acqua”. Senza scendere nel dettaglio artistico e pratico del loro utilizzo, è chiaro che in post-produzione è impossibile inventare ciò che non è stato in prima battuta catturato dal sensore, pertanto questi filtri rimangono qualcosa che, anche nell’era del digitale, sono insostituibili con un algoritmo. Questi filtri sono spesso chiamati CPL o Circular Polarizer. Il nome deriva dal fatto che sono composti da due strati, un anello che si attacca all’obiettivo e uno capace di ruotare. In base all’angolo di incidenza della luce, l’effetto del polarizzatore sarà più o meno intenso. Questi filtri possono essere anche molto costosi ed è quindi più conveniente comprarne uno della dimensione massima per coprire tutti gli obiettivi e usare degli anelli adattatori. Per riconoscere un buon polarizzatore è sufficiente fare il test del monitor. Poiché la luce emessa da un monitor è quasi completamente polarizzata, un buon CPL sarà in grado di oscurarlo completamente. Basterà infatti porre il filtro davanti al monitor e ruotarlo fino a raggiungere il punto più scuro. Se questo sarà quasi completamente nero, allora il filtro è di buona qualità, nel senso che è in grado di tagliare quel tipo di radiazioni, tuttavia questo non garantisce che quel filtro non avrà effetti sulla luce che invece servirà per comporre l’immagine.


Filtro infrarosso: la luce che viaggia sulla frequenza degli infrarossi non è visibile dall’occhio umano. Questo filtro è normalmente già montato sopra il sensore ma immaginando di rimuoverlo, significherebbe che la fotocamera potrebbe produrre immagini che includono anche questa lunghezza d’onda. In realtà quello a cui ci si riferisce di solito con la terminologia “filtro infrarosso” è l’esatto opposto e si usa per la fotografia a infrarossi, cioè un filtro che blocca qualunque lunghezza d’onda superiore a infrarossi. Accoppiando quindi la rimozione del filtro infrarosso del sensore e ponendo davanti alla lente un filtro che taglia via tutto il resto, sarà possibile catturare la luce che l’occhio non vede. Anche questo è qualcosa che, a partire da una fotocamera normale e quindi da un’immagine classica, non è riproducibile in post produzione. Esistono varie tecniche di sviluppo capaci di simulare l’effetto delle foto infrarossi, tuttavia i dettagli dell’immagine sono sempre e comunque quelli prodotti dalla luce visibile e non dalla vera luce infrarossi. Ancora una volta, questo tipo di filtri non è sostituibile da un algoritmo.


Filtro a densità neutrale: si tratta di filtri che non modificano nulla (teoricamente) sulla resa dell’immagine e si occupano semplicemente di attenuare l’intensità della luce che passa attraverso il sensore. Questi filtri servono per realizzare lunghe esposizioni anche in situazioni di forte intensità luminosa (e.g. le tipiche cascate con effetto scia dell’acqua). Sebbene non sia possibile riprodurre l’effetto di un ND con un semplice algoritmo, poiché equivarrebbe a cambiare il tempo di esposizione di una foto dopo averla scattata, esiste una tecnica nota come stacking che consente, con un po’ di pazienza, un treppiedi e il giusto software, di fare a meno di questi filtri. Le situazioni in cui essi diventano insostituibili sono le scene con una gamma dinamica estremamente ampia (un tramonto) in cui si vuole esporre correttamente sia il cielo che la scena al di sotto dell’orizzonte. In tal caso l’unico modo per realizzare uno scatto singolo (quindi non HDR) con tale gamma dinamica è usare un filtro ND graduato. Come per i polarizzatori è utilissimo avere dei filtri più grandi del più grande degli obiettivi e poi adattarli usando degli anelli appositi.



Prendere il controllo della luce In molti sostengono di voler fotografare usando solo la luce naturale. Ma davvero il flash è il male? E se anche si utilizzasse solo la luce del Sole, sei sicuro che non si possa controllare il modo in cui essa influisce sulla scena?


F-Stops vs T-Stops La luce viene controllata in primo luogo scegliendo gli strumenti e le impostazioni corrette. Di solito la luce viene misurata in Stop di luce, cioè quanti che descrivono una scala utile per il calcolo matematico dei vari parametri, per esempio dimezzando il tempo di esposizione si scende di uno stop, e raddoppiando l’apertura si aumenta di uno stop, pertanto ci si aspetta che l’esposizione rimanga per lo più invariata. Uno dei parametri più importanti è, in questo contesto, l’apertura del diaframma che è calcolata matematicamente in base ai parametri meccanici dell’obiettivo. L’apertura è misurata in F-Stops, per esempio f/2.8. Tuttavia è importante notare che ogni obiettivo non è capace di trasmettere l’intera intensità luminosa. Infatti, in base alla sua qualità, si avrà una parziale dispersione di luce. Esistono quindi delle misurazioni empiriche che vengono fatte in laboratorio, per esempio dal già citato DxOMark, che permettono di conoscere quelli che vengono definiti come T-Stops, cioè Stop di trasmissione della luce. La conoscenza dei T-Stops è utile perché quando si effettua il calcolo finale degli stop di luce, sapere che il proprio obiettivo “perde” un certo quantitativo di luce e che la si dovrà recuperare aumentando l’intensità delle sorgenti luminose oppure aumentando sensibilità o tempo di esposizione.


Sorgenti luminose e ombre Esiste una relazione molto stretta tra le sorgenti luminose e le ombre. Infatti non c’è foto senza sorgente luminosa e non c’è luce che non produca ombra. In una scena ogni sorgente luminosa genera una serie di raggi di luce che colpiscono i soggetti e generano le ombre. Prendendo in esame un singolo oggetto e una singola sorgente luminosa si avrà una sola ombra. Più sorgenti luminose genereranno più ombre. Questo è da tenere sempre in considerazione perché, sebbene per un singolo soggetto piccolo rispetto alla foto la cosa potrebbe non essere un problema, se si stesse realizzando un ritratto allora bisognerebbe stare attenti alle ombre generate da ogni singola parte del volto, dal naso agli incavi degli occhi. Aggiungere più luci che illuminano il soggetto è una cosa da fare con cura. Un esempio di ombre multiple si ha durante le partite di calcio in notturna. Infatti, essendo i giocatori illuminati da 4 lati e da fari di pari intensità, cioè che succede è che sul terreno verranno proiettate 4 ombre equivalenti.

Il primo modo per controllare le ombre è quello di modificare l’intensità luminosa di una o più sorgenti luminose. In questo modo, infatti, esponendo per la sorgente più luminosa, le ombre prodotte dalle altre tenderanno a essere sbiadite, ammorbidite o addirittura assorbite dalla differenza di intensità. Si definisce durezza dell’ombra lo spazio con cui essa tende a sbiadirsi fino a confondersi con lo spazio illuminato. Di conseguenza si definirà un’ombra dura quando si avrà un taglio repentino, quasi netto, tra ombra e luce, mentre


si definirà morbida quando essa sfumerà gradualmente verso la parte luminosa della scena. La relazione che intercorre tra durezza dell’ombra e sorgente luminosa è semplicemente legata alla dimensione relativa della sorgente stessa nei confronti dell’oggetto che proietta l’ombra. In generale si può dire che tanto più piccola sarà la sorgente di luce, osservata dal punto di vista del soggetto, quanto più dura sarà l’ombra. Ciò accade perché se la sorgente luminosa è piccola, i suoi raggi verranno bloccati e assorbiti maggiormente dal soggetto, mentre se questa è molto grande, allora essi tenderanno ad avvolgere di più il soggetto, attenuando le ombre per via dell’effetto di somma delle sorgenti luminose che, in questo caso, saranno le riflessioni sull’ambiente circostante al soggetto. La dimensione di una sorgente luminosa può variare in due modi: utilizzando modificatori in grado di far riflettere la luce e creare un singolo fascio più grande, come i softbox, oppure modificando la distanza della stessa sorgente luminosa rispetto al soggetto. Si immagini per esempio di avere un softbox perfetto (senza dispersione) che misuri 2 metri per lato, cioè 4 metri quadrati di superficie. Se questo modificatore fosse posto a 2 metri dal soggetto. Per indurire le ombre lo si potrebbe spostare di 2 metri indietro, riducendo la superficie fino a un quarto della sua superficie relativa originale.


Legge dell’inverso del quadrato Quando si inizia a utilizzare il flash, soprattutto quando lo si pone lontano dalla fotocamera, si cominciano ad avere i primi “problemi” nell’ottenere il risultato desiderato. Alle volte lo sfondo è troppo illuminato, altre volte è troppo scuro, alcune volte ancora, fotografando gruppi, ci si rende conto che quelli in prima fila brillano come diamanti e quelli immediatamente dopo sono invece in ombra. Tutti questi fattori sono più semplici da controllare quando si conosce il comportamento fisico della luce. La legge matematica che descrive questo comportamento si chiama “inverso del quadrato”. In realtà, in fisica, questa definizione indica qualunque tipo di equazione che affermi che una specifica grandezza è in inversamente proporzionale in modulo, rispetto al quadrato della distanza dalla sorgente della stessa grandezza. Detto così suona un po’ complicato, ma in realtà è più semplice di quanto si pensi. In inglese, la riduzione della luce si chiama “falloff“, termine tecnico spesso usato anche in altre lingue. La riduzione della luce consiste nella differenza di luce tra due oggetti ritratti (colpiti da una sorgente come un flash). Capendo come funziona il falloff in base alla legge dell’inverso del quadrato per la luce, è possibile controllare la scena e il posizionamento dei flash sulla base di quanto si vuole ottenere. Nel posizionare un flash, viene naturale pensare che quanto più vicina sia la sorgente luminosa al soggetto, tanto più intensa sarà la luce che lo colpisce. Questo è verissimo ed è molto intuitivo, tuttavia il più comune errore che si possa fare è quello di pensare che si raddoppia la distanza tra il soggetto e la sorgente luminosa, si dimezza l’intensità della luce. In realtà, poiché la proporzionalità inversa è con il quadrato della distanza, significa che ogni volta che si raddoppia la distanza, l’intensità luminosa sarà pari a 1/4 di quella precedente.


Prima di parlare di numeri, vediamo quali sono le implicazioni più immediate: Quanto più è vicina la luce al soggetto, quanto maggiore sarà l’effetto di falloff, e quindi la differenza di intensità luminosa tra il soggetto principale e ciò che gli sta dietro. Pertanto se si vorrà creare un effetto drammatico in cui lo sfondo diventi particolarmente scuro, basterà applicare questa legge e avvicinare soggetto e sorgente luminosa, per rendere tutto ciò che c’è dietro, molto più scuro. Quanto più ci si allontana dalla sorgente luminosa, quanto meno si noterà la differenza poiché il falloff finale diventerà sempre più (proporzionalmente) piccolo. Pertanto se si vorranno fotografare soggetti a distanze differenti e mantenere un’esposizione corretta per entrambi, sarà necessario allontanarli dalla sorgente luminosa. Lo schema seguente fornisce una maggiore chiarezza del concetto e pone dei numeri che dovrebbero chiarire come calcolare gli stop di luce da aggiungere o togliere per ottenere l’effetto desiderato.


Come si può apprezzare dall’immagine seguente, se il soggetto (l’esplosione d’acqua) è posto vicino alla sorgente luminosa (il flash), lo sfondo risulta quasi completamente invisibile perché la fotocamera sarà impostata per catturare la luce secondo un triangolo dell’esposizione corretto per il 100% della luce la quale, essendo generata molto vicino al soggetto, avrà una velocissima riduzione, in questo caso fino al 5% circa, risultando di fatto impossibile da catturare dal sensore.

Nello scatto successivo, le impostazioni sono molto simili, tuttavia il flash è


relativamente lontano dal soggetto, pertanto il falloff tra frutta e sfondo è veramente piccolo, quasi impercettibile.

Una volta appreso come controllare il falloff delle sorgenti luminose, sarĂ molto piĂš facile costruire la scena a partire dalle luci e, di conseguenza, imparare a usare anche piĂš sorgenti luminose per ottenere gli effetti desiderati.


Flash: uno strumento indispensabile Gli ultimi due scatti precedenti mostrano come in certe situazioni l’uso del flash sia importantissimo per ottenere il risultato. Il flash si usa in studio, di giorno e di notte. La cosa più sbagliata che si possa pensare è che il flash serva solo quando non c’è luce. Il flash viene utilizzato anche di giorno, soprattutto nei ritratti e nelle foto commerciali. Diventa poi fondamentale se si ha intenzione di congelare l’azione o il movimento in ambienti controllati o in cui si vuole ottenere la massima gamma dinamica, quindi senza sacrificare le ISO, e non si può utilizzare un tempo di esposizione molto basso. Il flash può essere usato anche in light painting come tempo di esposizione ancora più basso del minimo consentito dalla fotocamera. Infatti, il lampo di un flash può durare molto meno del minimo tempo di esposizione consentito anche dalle migliori reflex e se si sta effettuando una posa bulb, sarà proprio il lampo del flash il nostro otturatore. Per imparare a usare il flash è utile apprendere alcuni concetti fondamentali come temperatura di colore, numero guida e tipologia. I flash, di solito, emettono una luce bianca che si aggira attorno ai 6000 Kelvin. Questo valore è di solito indicato nelle specifiche e permette, nelle fotocamera più avanzate, di impostare correttamente il valore del bilanciamento del bianco in modo da ridurre i tempi di post produzione se si usa un file raw, o che permette di avere un file jpeg ben bilanciato. Tuttavia la luce del flash può essere modificata con delle coperture plastiche dette gel. I due tipi principali di gel sono di colore arancione e azzurro. Il primo viene usato quando si ha la necessità di “riscaldare” la luce del flash in modo da bilanciare le altre luci, per esempio quella ambientale. Si supponga, per esempio, di dover scattare all’interno di una casa illuminata dalla calda luce di un tramonto. Se si utilizzasse il flash così com’è, senza nessuna copertura, si otterrebbe una foto in cui i colori interni, illuminati dal lampo bianco, sarebbero correttamente riprodotti ma quelli nello sfondo, illuminati dalla luce del sole del tramonto, sarebbero completamente sbagliati. Viceversa, se si provasse a impostare il bilanciamento del bianco sulla temperatura esterna, i colori all’interno apparirebbero violacei e azzurri. In questo caso il gel arancione permette alla luce del flash di uniformarsi a quella esterna, permettendo una corretta esposizione e tonalità. L’uso dei gel in maniera creativa può consentire di ottenere interpretazioni molto interessanti della scena, variando le tonalità o creando scenari surreali. Una volta appreso come gestire la temperatura di colore del flash, è


opportuna imparare a calcolare l’intensità necessaria a illuminare la scena. Ogni flash è caratterizzato da un numero guida. Questo numero rappresenta la capacità del flash di illuminare, a ISO pari a 100, un soggetto al massimo della sua intensità data una certa distanza e una certa apertura del diaframma. La formula esatta è: diaframma = numero guida / distanza. Ciò significa che, se per esempio un flash avesse numero guida 40 e il soggetto si trovasse a 10 metri, bisognerebbe usare un diaframma di f/4 per avere una corretta esposizione con il flash alla massima potenza. Questo tipo di calcoli permette, con l’esperienza, di calcolare a occhio il valore della potenza del flash o dell’apertura da utilizzare nel caso non si abbia a disposizione un costoso esposimetro con lettura dell’intensità istantanea dei lampi. L’ultima cosa importante da studiare riguardo ai flash è la tipologia, cioè flash da studio o lampeggiatori portatili (i comuni flash da slitta). Conoscere vantaggi e svantaggi degli uni e degli altri permette di scegliere l’attrezzatura appropriata per ottenere il risultato voluto nel modo più efficiente ed efficace possibile. Ecco quindi una serie di caratteristiche che differenziano i due tipi di flash: Vantaggi Flash da Studio

Flash portatili

Raggiungono potenze di gran lunga maggiori rispetto ai flash portatili

Sono leggeri e compatti e possono essere trasportati ovunque

Hanno un tempo di ricarica per la massima potenza molto basso e costante

Consumano relativamente poco

Permettono l’uso di molti modificatori come softbox, beauty dish, griglie e riflettori

Si integrano generalmente con i sistemi di misurazione della fotocamera TTL (Through The Lens), cioè comportandosi in base alla scena ripresa

Sono duraturi e capaci di moltissimi lampi e se si brucia la lampada può essere sostituita

Ne esistono anche di discretamente economici ma che sono capaci di prestazioni


professionali Di solito hanno la possibilità di utilizzare una luce guida, accesa in modalità continua e proporzionale alla potenza del flash, che consente al fotografo di avere una sorta di anteprima della fotografia in tempo reale

Sono maneggevoli ed è facile modificarne le impostazioni, in molti modelli anche direttamente dalla fotocamera (e.g. nei flash e fotocamere Nikon di fascia alta)

Svantaggi Flash da Studio

Flash portatili

Sono generalmente molto costosi, sia in termini di prezzo che di consumo energetico, oltre che essere ingombranti

Possono avere un tempo di ricarica troppo lungo per lavori in studio

Non possono essere usati in esterna a meno di accoppiarli con costose batterie specializzate

Hanno una potenza limitata, spesso sufficiente per lavori in esterna e in piccoli studi, ma insufficiente per lavori in grandi studi

Per essere usati richiedono lunghi cavi di sincronizzazione o trigger radio esterni

Se si brucia la lampada, è difficile se non impossibile sostituirla e bisognerà acquistare un flash nuovo

I flash da studio sono sicuramente qualcosa che serve solo in casi specifici e per dei generi più legati alla moda e alla pubblicità e sono molto pratici in tali situazioni. Tuttavia i flash portatili si prestano molto bene anche a lavori simili, fintanto che la potenza richiesta non sia troppo elevata. Raggiungere la qualità e la potenza di un flash da studio con dei flash portatili significa, sostanzialmente, affrontare la stessa spesa per avere qualcosa di molto meno pratico.



Foto in chiave alta e chiave bassa Quando si parla di prendere il controllo della luce, si intende anche imparare a trasmettere un tipo di “umore” usando i giusti toni. Tipicamente i toni chiari vengono associati a un umore positivo, allegro o comunque vicino a un’atmosfera semplice mentre i toni scuri vengono usati per trasmettere un umore negativo, malinconico, intrigante o di mistero. Due tecniche che rappresentano due gemelli diversi in fotografia sono le foto in high key, o chiave alta, e low key, o chiave bassa. Nel primo caso parliamo di prevalenza di toni alti e chiari mentre nel secondo è il viceversa. Entrambe le tecniche hanno una cosa in comune, cioè che c’è un forte contrasto tra i toni chiari e quelli scuri e che l’immagine è, in genere, composta per lo più dai toni non predominanti. Queste due tecniche sono molto utili per evidenziare un soggetto o un dettaglio e farlo risaltare all’interno della scena. La scelta della luce è molto importante in entrambi i casi perché è lo strumento principale per ottenere il risultato. Nel caso della fotografia in chiave alta, si prediligono luci ampie e morbide, poste a una discreta distanza dal soggetto in modo tale che il falloff sia quasi impercettibile e addirittura, in certi casi più estremi, completamente assente. Infatti, un high key estremo tende a sovraesporre quasi tutta la scena lasciando visibili solo i dettagli che ci interessano, come gli occhi nell’esempio seguente:


Quasi tutte le reflex permettono di utilizzare la funzionalità di compensazione dell’esposizione. In caso si vogliano realizzare foto in high key e non lo si faccia con una modalità interamente manuale, sarà sufficiente utilizzare tale modalità, impostando una compensazione di almeno 2 stop di luce. Una sorgente distante e ampia farà il resto. Sarà importante anche fare in modo che il metodo di calcolo dell’esposizione scelto sia puntuale e che si misuri sul punto in cui si cercano i dettagli, come per esempio il nero delle pupille degli occhi. Se si analizza invece il caso opposto, poiché è tipicamente necessario fare sparire lo sfondo, si dovranno usare luci più dure e più vicine al soggetto, in modo che il falloff vada a creare uno sfondo nero avvolgente. Anche in questo caso sarà necessario selezionare attentamente il soggetto e isolarlo, tuttavia non ci sarà bisogno di utilizzare compensazione dell’esposizione.




Lunga esposizione Padroneggiare le lunghe esposizioni significa conoscere la luce e come essa interagisce con il mondo non solo in un singolo istante, ma durante lo scorrere del tempo.


Il triangolo dell’esposizione con tempo superiore a 30 secondi Quando si parla di lunga esposizione, si arriva spesso a parlare di scatti che superano i 30 secondi totali in cui l’otturatore rimane aperto. Se per gli scatti che si trovano al di sotto di questo valore, di solito si può fare affidamento all’esposimetro della fotocamera per avere un insieme di misurazioni affidabili da cui partire per il triangolo dell’esposizione composto da tempo, apertura e sensibilità, quando si supera questa quantità di tempo le cose sembrano farsi più complicate. Tuttavia esiste un modo molto semplice per continuare a sfruttare l’esposimetro della fotocamera anche quando si usa la modalità bulb e si espone per più di 30 secondi. Per fare ciò ci si può basare sul concetto di Stop di luce e sul fatto che la nostra unità di base saranno proprio i 30 secondi. Lo stesso vale anche per fotocamere che non arrivano a 30 secondi. Il metodo si basa su iterazioni successive. Supponiamo per esempio di voler fare un’esposizione da 90 secondi. Il primo passo sarebbe quello di fissare i valori di ISO e apertura del diaframma a 30 secondi usando l’esposimetro. Supponiamo che la prima misurazione ci dia: 30 secondi – f/8 – ISO200 Raddoppiare il tempo di esposizione significherebbe aumentare l’esposizione di uno stop, quindi potrei decidere di dimezzare le ISO o ridurre l’apertura di uno stop per ottenere lo stesso valore: 60 secondi – f/8 – ISO100 A questo punto, aggiungere altri 30 secondi significherebbe aumentare l’esposizione, a partire da quella dei 60 secondi, di mezzo stop. Ancora una volta potrei provare a ridurre l’apertura di mezzo stop (non potendo ridurre la sensibilità ISO di soli 25 unità): 90 secondi – f/7.1 o f/6.3 – ISO100 (e.g. su Nikon non esiste il mezzo stop pari a f/6.7 tra i valori f/5.6 e f/8, per cui si dovrebbe procedere empiricamente


con uno dei due valori disponibili tra f/7.1 e f/6.3). In questo modo sarĂ possibile calcolare in maniera approssimata, ma abbastanza precisa, il valore dei parametri per la giusta esposizione di una foto con tempo superiore al massimo consentito dalla fotocamera.


Scie di luce Le fotografie note come lunghe esposizioni sono molto affascinanti e quasi tutti coloro che si avvicinano alla fotografia un po’ più avanzata, prima o poi, si trovano a voler sperimentare qualcosa di questo genere. Di solito le lunghe esposizioni vengono usate per fotografare paesaggi in cui sono presenti elementi fissi spettacolari, come paesaggi, montagne o alberi, e degli elementi mobili, come acqua e nuvole. Usando una lunga esposizione si riuscirà a raccontare una storia legata a quel luogo e non soltanto a congelarne un istante.

Questa tecnica fotografica è meno accessibile di altre da un punto di vista tecnologico poiché richiede normalmente una fotocamera con controlli manuali, capace di esposizioni di decine di secondi o addirittura di usare la modalità “bulb“. Esistono diversi modi in cui si possono realizzare delle fotografie in lunga esposizione, ma tutti hanno in comune una cosa: l’uso di un supporto fisso per tenere completamente immobile la fotocamera. Opzionali ma di sicuramente molto utili sono anche un telecomando e l’uso della modalità “Mup“. Il caso più semplice, prevede che si fotografi in condizione di luce scarsa. Per esempio, scattare sulle strade di una città trafficata dopo il


tramonto potrebbe permettere di ottenere foto con scie di luce molto accattivanti. In questo caso, tutto ciò di cui si ha bisogno sono una fotocamera capace di raggiungere un tempo ragionevolmente lungo per ottenere una corretta esposizione della fotografia e un supporto come un treppiedi. In questo caso è spesso impossibile ottenere foto di questo tipo con smartphone o con qualunque fotocamera che non sia comunque in grado di ottenere una foto correttamente esposta.

Ma cosa fare quando si desidera realizzare una lunga esposizione di giorno e in condizioni di luce molto forte? La soluzione sono i filtri ND. Un filtro ND, cioè a densità neutrale (Neutral Density), come già spiegato non modifica la luce in nessun modo quando passa attraverso l’obiettivo, ma si limita ad attenuarne l’intensità. I filtri ND sono spesso accompagnati da un numero che indica quanto proporzionalmente viene abbattuta l’intensità. Tanto più alto sarà il valore accanto alla sigla ND, tanto più lunga potrà essere l’esposizione. I filtri ND di buona qualità, cioè che non causino un degrado nelle immagini, possono costare anche parecchio. Se si vuole solo sperimentare, uno qualunque andrà bene. E cosa fare se non si ha un filtro? In realtà esiste un modo molto


semplice per realizzare lunghe esposizioni anche senza avere tutta questa attrezzatura. L’unica cosa che serve veramente è un bel treppiedi o un supporto stabile. Per realizzare una lunga esposizione in pieno giorno, è sufficiente utilizzare una tecnica nota come “stacking“, cioè esposizioni multiple che andranno a sovrapporsi e ad unirsi facendo la media matematica per ogni pixel. Per esempio, supponiamo che abbassando la ISO al massimo e scegliendo un’apertura del diaframma di f/4, il tempo di esposizione massimo per non bruciare la foto sia di 1/30 di secondo. Quello che sarà possibile fare sarà eseguire, meglio se con un telecomando, una serie di 30 scatti consecutivi da unire dopo in post produzione. Usando la media matematica, infatti, unire 30 scatti consecutivi da 1/30 di secondo equivarrà a generare un’immagine catturata con un singolo scatto di un secondo intero, facendo in modo che le parti ferme dell’immagine risultino correttamente esposte, mentre quelle in movimento, per esempio il letto di un fiume in un paesaggio, risultino mosse come in una vera lunga esposizione. Molte fotocamere reflex permettono di fare questo già all’interno della fotocamera stessa, per esempio nelle ultime Nikon è possibile cercare nel menu la funzione “esposizione multipla”. Ma anche in assenza di questa funzionalità, tutti i programmi di fotoritocco più conosciuti, come Photoshop, Gimp, Paint Shop Pro e così via hanno la possibilità di farvi caricare tutte le immagini sovrapposte e di miscelarle facendone la media. Un consiglio nel caso si usi la post produzione: per le parti fisse dell’immagine può essere sensato usare un singolo scatto che verrà poi “mascherato” nella parte fluida dalla mistura delle altre. Ciò è utile per evitare che anche laddove il dettaglio dovrebbe essere altissimo, ci possano essere sfocature da micro-mosso dovute ai continui movimenti dello specchio della fotocamera. Quest’ultima tecnica è quella che viene usata anche dagli smartphone tramite diverse app. Infatti gli smartphone difficilmente saranno in grado di fare lunghe esposizione vere, eppure alcune app permettono di realizzare comunque fotografie con le scie di luce o paesaggi con l’acqua che sembra svanire in una nube uniforme.


La tecnica ETTR La tecnica nota come ETTR, in inglese “Expose To The Right”, si utilizza quando è necessario tirare fuori il massimo possibile dei dettagli di un’immagine e si ha pochissima luce a disposizione. Ovviamente si tratta di una tecnica molto specifica per alcune situazioni come l’astrofotografia, e finisce spesso col necessitare ISO piuttosto elevate e, di conseguenza, dei sensori capaci di resistere al rumore e al tempo stesso di mantenere una buona gamma dinamica.

Questa tecnica nasce nel digitale e non è applicabile alla pellicola poiché prevede che si sovraesponga l’immagine fino a raggiungere la massima luminosità di alcuni pixel, che possono anche essere una buona parte dell’immagine, per poi ridurre l’esposizione in post produzione in modo da riportare la foto a un risultato utilizzabile.


La tecnica prende il nome dalla distribuzione nell’istogramma. Infatti in una foto catturata usando l’ETTR si potrà notare come l’istogramma sarà completamente sbilanciato verso le alte luci e privo di contenuti dai mezzi toni in giù. La base di questa metodologia sta nel calcolare empiricamente la massima esposizione che si può generare da una scena, suddividendo ovviamente le porzioni dell’immagine per luminosità, in modo da poter comporre lo scatto finale usando più immagini. Si consideri per l’appunto l’astrofotografia e si immagini di voler scattare una foto della via lattea in una zona dove essa non sia direttamente visibile a occhio nudo. In questo caso, l’unico modo per ottenere un risultato accettabile è quello di effettuare uno scatto di questo tipo. I passi per realizzarlo sono i seguenti: 1. Calcolare il massimo tempo di esposizione per evitare scie di luce non

desiderate, per esempio degli astri. In questo caso specifico esiste una legge empirica chiamata “regola del 500” in cui il numero di secondi è calcolato come 500 diviso la lunghezza focale dell’obiettivo a 35mm. Per esempio, usando un 14mm su di una fotocamera APS-C con un fattore di crop pari a 1.5, avremmo: 500 / (14 * 1.5) = 23,80 secondi circa 2. Selezionare l’apertura del diaframma massima possibile, per esempio

f/2.8, in relazione ai limiti dell’obiettivo e della profondità di campo necessaria. 3. Modificare la sensibilità ISO fino a quando l’esposimetro non darà il massimo della sovraesposizione misurabile. 4. Effettuare uno scatto di prova e osservare l’istogramma 5. Se sono presenti pixel bruciati (tipicamente visibili con la funzionalità “alte luci”) verificare che siano relativi a parti dell’immagine che verranno sovrapposte successivamente con uno scatto correttamente esposto e comunque assicurarsi che non vi siano aree di cielo che abbiano perso informazione. Nel caso in cui si possa osare ancora, sia in termini di rumore che di esposizione, allora bisognerà raddoppiare le ISO. Se invece si è superato il massimo, allora si dovrà scendere a metà tra il valore massimo e quello immediatamente precedente, per esempio: 1. Al primo scatto con ISO 800 ci accorgiamo di avere ancora spazio, raddoppiamo a 1600


2. Il secondo scatto mostra già diversi pixel bruciati, dunque vado a

metà (se possibile, altrimenti al punto più vicino) tra ISO800 e ISO1600, per esempio ISO 1250. 3. Supponiamo che questo scatto lasci ancora spazio, allora andremo a metà tra 1250 e 1600, ovvero al valore più vicino. Se non ci sono valori tra 1250 e 1600 allora abbiamo trovato il massimo per la nostra fotocamera, cioè 1250.


Timelapse e Hyperlapse Prima di chiudere il capitolo sulle lunghe esposizioni, vorrei introdurre due tecniche che si piazzano a metà tra fotografia e video e per le quali mi limiterò a dare qualche parola chiave con cui approfondire nel web: timelapse e hyperlapse. La prima tecnica consiste nel girare un video che porta l’osservatore in un viaggio nel tempo. La si realizza facendo una serie lunghissima di scatti che diverranno poi un video. I fotografi sono avvantaggiati in questa tecnica rispetto a chi prova a realizzare un timelapse da un semplice video, in quanto hanno il pieno controllo di ciascun fotogramma. L’hyperlapse è invece un particolare tipo di timelapse in cui la fotocamera viene spostata tra uno scatto e l’altro e, anche se non è obbligatorio, mantiene il focus su un punto preciso della scena per tutta la durata del video finale. Per mettere in pratica queste tecniche servono un supporto stabile, per esempio un treppiedi, una fotocamera capace di scattare foto intervallate oppure un telecomando con intervallometro incorporato, un programma capace di trasformare una sequenza di immagini in un video, come VirtualDub o i programmi di Adobe. Ovviamente la parte più importante sarà il fotografo che dovrà scegliere l’inquadratura e avere tanta pazienza poiché per girare un video di 2 minuti potrebbero essere necessari anche più di 50 minuti. Inoltre, per gli hyperlapse, serve anche qualcosa che sia in grado di muovere la fotocamera in maniera lenta e costante: una buona soluzione è agganciare la fotocamera, se non è troppo pesante, sopra un timer da cucina di quelli che ruotano (negozi come l’IKEA possono essere molto utili in questo caso). Per calcolare ogni quanto effettuare uno scatto, bisogna partire da due parametri che sono: la durata desiderata del video finale, il tempo da comprimere in quella durata. Poiché il numero di fotogrammi al secondo si aggira tra i 24 (formato PAL, tipico dei film) e i 30 (formato NTSC, tipico dei documentari), basterà applicare la formula seguente: Secondi totali dell’evento / (secondi totali del video * fotogrammi al secondo) = intervallo in secondi Ovviamente il valore della formula potrebbe dare un risultato non intero. In tal caso bisognerà arrotondare al valore più vicino concesso da fotocamera e


intervallometro. Per esempio, se volessimo comprimere 60 minuti in soli 2 in formato cinematografico, dovremmo fare 3600 / (120 *24) = una foto ogni 1,25 secondi cioè 4 foto ogni 5 secondi. Ecco dunque alcuni suggerimenti su come ottenere il miglior risultato: Anche se il video finale avrà una risoluzione molto bassa rispetto a quella delle foto, scattare sempre alla massima risoluzione per avere più spazio di manovra in post-produzione, in modo da poter ritagliare, ruotare o fare altre operazioni che potrebbero sottrarre pixel al risultato finale. Utilizzare un tempo di esposizione di almeno 1/30 di secondo o più, in modo da avere un effetto fluido tra i vari fotogrammi. Infatti tanto più corto sarà il tempo di esposizione, quanto più congelata risulterà la scena, causando un effetto di movimento piuttosto innaturale nel video finale. Impostare la fotocamera sulla modalità manuale, in modo da garantire la consistenza di tutti i fotogrammi del video, e utilizzare programmi come Adobe Lightroom o le sue alternative open source, che sono in grado di sincronizzare le modifiche non distruttive fatte in una singola immagine del timelapse. Se si realizza un hyperlapse, provare il movimento prima, magari girando un video, in modo da poter calcolare con precisione il tempo necessario da far trascorrere da un punto all’altro.


Suggerimenti Per concludere il capitolo sulla lunga esposizione, vorrei provare a mettere insieme un po’ di suggerimenti e idee generiche per praticare e migliorare nell’uso di questa tecnica. Innanzi tutto parlerei di attrezzatura. Per poter ottenere risultati di buona qualità sono sicuramente molto utili, se non addirittura fondamentali, un cavalletto stabile e un telecomando. Entrambi possono costare da pochissimo a cifre molto importanti. Il mio consiglio è quello di risparmiare sul telecomando, per il quale alla fine basta avere la possibilità di bloccare il pulsante di scatto quando si lavora in modalità bulb, tuttavia sul cavalletto farei un investimento più elevato. Infatti, se è vero che si può rendere un treppiedi più stabile appendendo dei pesi che lo spingano verso il basso, non è altrettanto vero che un cavalletto scadente sarebbe in grado di sopportare tale peso, oltre al fatto che non è detto che si avrà sempre a disposizione della zavorra con cui stabilizzarlo. L’acquisto di un filtro a densità neutrale può essere utile ma non è fondamentale, soprattutto se le lunghe esposizioni che si hanno in mente riguardano prevalentemente la notte. Infine, l’unica cosa veramente importante per la fotocamera è che abbia la possibilità di scattare in modalità bulb e abbia una discreta resistenza al rumore perché in alcuni casi sarà imprescindibile l’uso di sensibilità ISO piuttosto elevate. Per quanto riguarda cosa scattare, è vero che il web ormai è pieno di tramonti con il mare ben liscio e onde che si fondono con la spiaggia, o cascate che appaiono come lunghe e candide scie uniformi, tuttavia ritengo anche che chi si avvicina a questo genere non debba preoccuparsi troppo dell’originalità dello scatto, ma piuttosto si debba concentrare sull’apprendere la tecnica e realizzare degli scatti che lo soddisfino in senso assoluto e non relativo al lavoro altrui. Degli ottimi soggetti sono quindi le scie stellari, le cascate, i tramonti in riva al mare, le strade trafficate di una città o le piazze affollate. Praticare la fotografia con la lunga esposizione è un ottimo metodo per costringersi a pensare di più prima di premere il pulsante di scatto in quanto ogni singola foto richiederà diverso tempo, costringendoci a rinunciare alla modalità “mitragliatrice”. Realizzare una lunga esposizione forzerà il fotografo a pensare bene alla composizione, al messaggio e ai colori che vorrà inserire all’interno dell’immagine, facendo sì che non venga allenata solamente la tecnica ma tutto l’insieme delle conoscenze e competenze del fotografo.




Apprendere attraverso il ritratto Non sai come imparare velocemente le tecniche avanzate della fotografia, dall’utilizzo del flash all’uso delle varie lunghezze focali? Hai provato a cimentarti con il ritratto?


Strategie di illuminazione per il ritratto Il ritratto è uno dei generi che permette di apprendere moltissime cose sulla fotografia in generale. Infatti, per ottenere buoni risultati bisogna conoscere le tecnologie utilizzate per creare luce e per modellarla, bisogna avere occhio critico e saper creare composizioni interessanti mettendo in relazione se stessi con il soggetto e il contesto. Un ritratto fatto bene porta sempre la firma dello stile di un fotografo e non è mai uguale a quello di un altro fotografo. La cosa più importante nella fotografia di ritratto è imparare a conoscere come la luce modifichi la percezione del corpo umano, specialmente del viso, accentuando o attenuando difetti e rendendo più o meno intrigante o allegra l’espressione di una persona. Esistono vari modi per illuminare il soggetto, ma alcuni sono dei classici intramontabili e rappresentano la base per ogni fotografo che voglia imparare a usare correttamente il flash e realizzare dei ritratti di qualità. Flat La strategia di illuminazione flat (piatta) viene spesso usata per ritratti di moda. Si tratta di un tipo di luce che tende ad annullare tutte le ombre dal viso del soggetto. Le fotografie fatte con questo tipo di impostazione tendono a evidenziare tutti i dettagli della pelle e a dare contrasto. La realizzazione di questa strategia può essere ottenuta in vari modi, per esempio utilizzando due luci di pari intensità poste a circa 45 gradi lateralmente (da entrambi i lati) dal soggetto oppure con una grossa luce posta davanti a lui (se si ha solo una luce).


In aggiunta si possono avere un riflettore da porre sotto il viso del soggetto, utilizzato per riempire eventuali ombre dovute alla posizione leggermente sopraelevata della luce, e una luce posteriore, tipicamente limitata all’illuminazione dei capelli e usata per dare tridimensionalità all’immagine. In entrambi i casi la sorgente di luce deve essere abbastanza larga in relazione al soggetto da poterlo avvolgere interamente in modo da annullare le ombre ed esaltare il volto del soggetto. Questo tipo di luce è buono per primi piani di soggetti particolarmente avvenenti, tuttavia, se applicato su tutto il corpo, poiché azzera le ombre, tenderà a ridurre la dimensione percepita di muscoli, seno e altre parti del corpo che appariranno più piatte e uniformi.


Paramount o Butterfly La strategia butterfly (a farfalla) o Paramount prende il nome dall’effetto


d’ombra che viene creato dalla luce posta più in alto rispetto alla testa del soggetto. In questa modalità, la luce rimane frontale come nel caso flat, tuttavia la sorgente di luce viene sollevata in modo da creare una luce tipica degli studi cinematografici (da cui il nome Paramount) e una piccola ombra sotto il naso a forma di farfalla (da cui il nome butterfly). Come per la precedente strategia, si può usare un riflettore posto davanti e sotto il soggetto in modo da ammorbidire queste ombre, specialmente sotto gli occhi e sotto il naso. La luce posteriore, o backlight, è opzionale ma sempre molto utile per dare profondità alla foto.

L’utilizzo di questa strategia è molto simile al flat, cioè ritratti glamour di moda e in generale di persone, specialmente ragazze, dalla pelle perfetta. Questo tipo di illuminazione esalta i difetti della barba e i peletti sul viso, oltre che accentuare la dimensione del volto di persone non particolarmente magre o con nasi importanti. La strategia Paramount può essere trovata molto spesso nelle foto delle copertine di riviste glam e di moda.


Loop La strategia nota come loop (ad anello) è caratterizzata da una piccola ombra


che si crea attorno al naso. Questo tipo di illuminazione è una delle più semplici, usate e comuni, tuttavia anche una delle più efficaci per un ottimo risultato per ogni ritratto, per esempio di tipo formale, business o da album di fine anno a scuola. La strategia loop si ottiene utilizzando una luce posta poco più in alto della linea degli occhi, generalmente tra i 30 e 45 gradi, e altrettanto spostata lateralmente.

L’ombra accanto al naso sarà tanto più accentuata quanto maggiore sarà la grandezza del naso e quanto più vicina sarà la sorgente di luce al soggetto. Per ridurre il contrasto basterà allontanare la luce e porre un riflettore accanto al soggetto per riempire leggermente le ombre. Come per tutti gli altri casi, la luce alle spalle del soggetto è opzionale e può aggiungere profondità. La strategia loop è adatta in quasi tutte le situazioni e a tutti i visi, tuttavia ha il difetto di rischiare di risultare banale, cioè una foto da tutti i giorni.


Rembrandt La strategia Rembrandt prende il nome dal famoso pittore e dalla sua


caratteristica tecnica di rappresentazione delle persone. Nei ritratti dell’artista è possibile notare come sotto l’occhio del lato in ombra del soggetto si venga a formare un piccolo triangolino di luce, tanto più accentuato quanto più vicina e intensa è la sorgente di luce principale (key light). Questo tipo di risultato si ottiene ponendo una luce a circa 45 gradi più in alto della linea degli occhi e allo stesso modo lateralmente. Le ombre possono essere ammorbidite con il solito riflettore. I ritratti fatti con questo tipo di luce risultano di maggiore impatto visivo poiché creano un contrasto tra i due lati del volto che può essere anche molto accentuato.

Le ombre della strategia Rembrandt tendono a creare molto contrasto e sono perfette per accentuare, per esempio, i muscoli addominali di un uomo o il petto di una donna. Questo risultato si otterrebbe facendo posizionare il busto del soggetto in modo che sia completamente laterale rispetto alla luce principale, pur mantenendo il volto in direzione della fotocamera. Se opportunamente utilizzata, questa tecnica può essere usata per scolpire il corpo del soggetto e ridurre o aumentare il peso e la dimensione percepiti dall’osservatore. L’uso della tecnica Rembrandt può risultare più complesso rispetto alle altre tecniche perché aggiunge più complessità e più variabili nelle scelte che deve fare il fotografo ed è infatti una delle strategie più usate per caratterizzare il proprio stile di ritratto.


Split L’ultima delle strategie piÚ classiche si chiama split. Come suggerisce il nome,


questa tecnica serve per spezzare letteralmente in due parti separate il soggetto. La luce principale viene posta lateralmente rispetto al viso e ne illumina fondamentalmente solo metà. L’uso di un riflettore permette di diminuire e ammorbidire il contrasto, facendo riemergere parte dei dettagli della metà in ombra. In questa strategia, la luce posteriore, se usata, mantiene il suo scopo originale, tuttavia per evitare di creare luce sulla parte scura del soggetto, viene posta lateralmente e generalmente tagliata con uno snoot o un pannello nero.

La tecnica di illuminazione split crea effetti molto teatrali e di alto impatto e viene utilizzata per trasmettere immagini cariche di mistero, fascino, sensualità e ogni genere di emozione intensa. Di solito questo tipo di illuminazione è usata nelle foto in low key.


Broad e Short Le strategie di illuminazione loop, Rembrandt e split possono essere usate in


due modi differenti: broad e short light. La differenza sta nella posizione che viene fatta assumere al soggetto e che determina se la parte illuminata del volto sarà più larga di quella in ombra (broad) o minore (short). Lo schema mostra un esempio in cui le rette arancioni rappresentano la larghezza del volto e quelle gialle indicano quanto del volto viene illuminato.

Tipicamente l’effetto di tipo broad si ottiene facendo ruotare il capo del soggetto in modo che osservi lontano dalla sorgente luminosa. In questo modo la luce avvolgerà tutto il viso fino a prendere tutto il naso e una parte larga del volto sarà rivolta verso la fotocamera. Facendo invece ruotare il volto verso la luce principale, accadrà l’esatto opposto (short) cioè il volto risulterà illuminato fino a dietro il naso e la parte illuminata sarà molto più corta di quella in ombra, se osservata dal punto di vista della fotocamera. La tecnica short viene usata per snellire i lineamenti e per aggiungere teatralità e contrasto, spesso associata a ritratti in chiave bassa, mentre quella broad viene usata in chiave alta e in generale in ritratti più illuminati, allegri e solari.


Broad

Short


TF*: ovvero come fare pratica Come già introdotto nel volume precedente, lavorare in regime di mutuo vantaggio con modelli e modelle è un ottimo modo per fare pratica nel campo del ritratto, investendo del tempo in formazione e pratica, sia che lo si faccia per puro studio, sia che lo si faccia per crearsi un portfolio di partenza per un’attività professionale. Esistono molti siti dove è possibile ricercare persone interessate a posare gratuitamente per delle foto. Ecco una serie di cose da fare o non fare quando si cerca di lavorare in TF*: Iscriversi ai gruppi dedicati al TF per la propria città o regione: va bene iscriversi a tutti i siti e gruppi social possibili, tuttavia, per evitare di avere molto rumore è bene limitarsi a quelli dove si può, oggettivamente, reperire del lavoro. Bisogna evitare di iscriversi a tutti i gruppi e di inserire annunci compulsivamente o si verrà marchiati come spammer dopo pochissimo tempo. Il mondo del TF* è più piccolo di quanto si pensi quindi ci si sta un attimo a precludersi qualunque tipo di lavoro. Inoltre, controllare i siti e le community a cui ci si iscrive permette di evitare di perdere tempo nell’inserire annunci anche ben curati in luoghi dove si trovano solo persone che si stanno facendo pubblicità per la loro attività professionale. Essere onesti: è inutile spacciarsi per ciò che non si è. Bisogna essere chiari nel dire se si è professionisti o meno, quale tipo di lavori si fanno e così via. Tutte le modelle hanno ogni giorno a che fare con pervertiti che vogliono solo vederle svestite ed è quindi importante evitare di apparire come uno di loro per qual si voglia motivo. Bisogna quindi essere chiari su quale sia lo scopo del lavoro che si propone, esponendo l’idea e cercando di chiarire sin da subito dove stia il mutuo vantaggio tra le parti. Tenere una lista di location in cui scattare: organizzare dei lavori in TF* non è facilissimo per via del budget estremamente limitato. Non bisogna vergognarsi quindi di chiedere la disponibilità a locali in giro per la città o al comune per posti pubblici presso i quali si ha bisogno di un permesso. Avere un posto sempre a portata di mano può essere molto utile anche per shooting organizzati all’ultimo momento. Infine bisogna ricordarsi che ci sono degli “studi fotografici” che possono costare anche molto poco, come gli spazi di coworking o le camere


d’albergo disponibili anche per mezze giornate e in bassa stagione. Proporre sempre di lavorare in gruppo: quando si lavora in TF* bisogna ricordarsi che le persone che vi partecipano, tendenzialmente, non si conoscono. Soprattutto per le modelle può essere inquietante andare a fare uno shooting con uno sconosciuto in un magazzino abbandonato. Per rassicurare il soggetto (e anche voi stessi), proponete sempre di portare un assistente e delle persone che possono mettere il soggetto a suo agio. Anche il fotografo deve stare attento, in fondo è lui quello che va in giro con migliaia di euro sulle spalle. Essere professionali: anche se si scatta in TF* o non si è un professionista, bisogna sempre affrontare uno shooting di questo tipo come se fosse un lavoro. In primo luogo ne beneficerà la qualità, ma soprattutto si farà un’esperienza di gran lunga più costruttiva. Di conseguenza bisogna curare ogni dettaglio al massimo delle proprie possibilità (e tasche), pianificando gli scatti, la location, i cambi d’abito, lo scopo delle foto e i loro possibili utilizzi, le persone coinvolte e così via. Consegnare i lavori finiti: anche se si è lavorato gratis, a meno di diversa contrattazione, le foto scattate andranno potenzialmente a finire nel book della modella o del modello, pertanto è sempre bene, sia che si fotografi per la gloria che per lavoro, fornire i propri lavori completi fino allo sviluppo e al fotoritocco. Meglio concordare questo prima di fare lo shooting per evitare problemi in seguito. Redigere contratto e liberatoria: soprattutto se si scatta con persone sconosciute è bene procurarsi in qualche modo una tutela, sia che sia una email o una conversazione registrata a video. È importante prepararsi dei testi pronti da usare in cui si chiede il permesso di utilizzo delle foto e in cui si spiegano i termini in cui si lavorerà, per esempio il numero minimo di foto, quante verranno sviluppate e ritoccate e in che termini e, soprattutto, che non fornirete “tutti gli scatti, anche quelli venuti male” né tanto meno i file “raw”. L’utilità di avere questi testi sta nel fatto che per ogni sessione in TF* non si dovrà ripartire da zero ma si potranno ritoccare giusto quei due o tre punti che verranno concordati con la modella. Partecipare a eventi di moda: che siano fiere del fumetto piene di cosplayer o che sia un aperitivo elegante durante la settimana della moda, se si ha intenzione di trovare qualcuno che voglia farsi fotografare, gli eventi sono un posto perfetto. Il solo fatto di girare con una reflex al collo attirerà gli sguardi dei vanitosi e di chi vuole


far immortalare il proprio abito o costume. Chiedere sempre il permesso prima di pubblicare è un obbligo, ma questi eventi sono un’occasione perfetta anche per trovare gente con cui instaurare rapporti di collaborazione duratura. A prescindere dal modo in cui si riescano a reperire i modelli e le modelle, le categorie di persone che si possono trovare sono, riassumendo e semplificando, le seguenti: Ragazzi e ragazze che vogliono delle belle foto: si tratta di persone spesso giovanissime che non hanno nessuna conoscenza del mondo della moda e del ritratto e vogliono semplicemente delle foto da poter condividere con gli amici o da appendere al muro. Chiaramente questo tipo di persone, normalmente, è poco disposto a pagare per un servizio fotografico ma ha il vantaggio di non voler neppure essere pagato, che ne fa un perfetto candidato per fare pratica di ritrattistica. È importante trattare queste persone esattamente come clienti anche perché se si ha intenzione di utilizzare le foto nel proprio portfolio si dovrà ottenere anche il loro permesso. La qualità delle foto che si può ottenere è spesso limitata perché per i contenere i costi è difficile trovare location e mua (Make Up Artists) a costo zero. Professionisti alle prime armi che vogliono lanciarsi: essendo persone che vogliono affacciarsi al mondo del “modeling” avranno bisogno, esattamente come i fotografi, di una serie di lavori di portfolio di base con cui iniziare. Chiaramente ci sono solo due vie per fare ciò: pagare un professionista oppure trovare qualcuno che abbia la stessa necessità. Ecco il motivo che rende questo tipo di persone perfette per i TF*. In questo caso bisogna più che mai comportarsi in maniera professionale e fornire il miglior risultato possibile perché entrambi, fotografo e modello, avranno bisogno di quelle foto. Nelle liberatorie si dovrà indicare chiaramente il fine di utilizzo delle fotografie e la possibilità per entrambi di utilizzarne un insieme definito e concordato. Il problema principale nel trovare persone di questo tipo sta nella grandissima quantità di fotografi che sono disposti a fotografare gratis delle belle ragazze senza guadagnarci assolutamente nulla. In questo modo, soprattutto per le modelle e i modelli, è facile cadere nella tentazione di diventare “approfittatori” e alla fine avere foto gratis.


Professionisti che hanno bisogno di rinnovare il portfolio a basso costo: si tratta dell’occasione più ghiotta per un fotografo professionista alle prime armi nel mondo della moda o della ritrattistica in quanto questo tipo di persone, essendo professionista già avviato, ha sicuramente una serie di caratteristiche di bellezza e capacità di apparire fotogenico non da tutti. Queste persone possono addirittura aiutare il fotografo a cresce e a imparare a guidare una sessione di ritratto. Il problema nel reperire queste persone è che sono ambitissime dai fotografi che vogliono lavorare in TF*, quindi per poter essere selezionati come fotografi per il rinnovo portfolio, soprattutto in modalità di mutuo vantaggio, bisognerà avere qualcosa di buono da offrire come qualità dell’immagine. Un ulteriore vantaggio è che, a questo livello, si riescono spesso a trovare anche altri professionisti che vogliono rinnovare il proprio portfolio o farsi pubblicità, come agenzie per location o make up artists. Approfittatori: la categoria peggiore e, purtroppo, più diffusa. In questa categoria possono rientrare persone di tutte le precedenti categorie e si tratta di persone che non vogliono semplicemente belle foto, vogliono sostanzialmente un servizio professionale gratis senza dare nulla in cambio. Riconoscere queste persone è spesso più facile di quel che si pensi e, sebbene si possa cadere nella tentazione di voler comunque approfittarne per fare esperienza, si rischia molto spesso di rimanere bruciati e di sentire lamentele per mesi sulla qualità del lavoro. Personalmente ritengo che se si riconosce un approfittatore bisogna allontanarsene il prima possibile.


Condurre una sessione di ritratto La fotografia non è fatta di sola tecnica né di sola tecnologia, ma è fatta principalmente di persone. Quando si fotografano esseri umani, la parte umana è sicuramente una delle parti più importanti e saper guidare la squadra che lavora per una sessione di ritratto è una dote che il fotografo deve coltivare per poter ottenere risultati di buona qualità e soddisfare il cliente. Una volta trovata una modella o un modello con cui scattare, è importante lavorare su una serie di aspetti che saranno fondamentali per la buona riuscita del progetto. Pianificare: una sessione di ritratto è un progetto e, come in ogni altro campo professionale in cui si lavora per progetti, la pianificazione è un aspetto chiave. Non si può pensare di improvvisare sempre e di riuscire a lavorare sempre in questa maniera. Pianificare significa andare in anticipo nel luogo dove si effettueranno gli scatti, studiare la luce naturale, gli ostacoli, la logistica e gli spazi. Il fotografo dovrebbe sempre essere già nel luogo dove si terranno gli scatti, prima che arrivi il resto della squadra. Determinare gli spazi: come ogni progetto che si rispetti, una sessione di ritratto deve essere gestita dando a ciascuno i suoi spazi. Bisogna fare in modo che la modella o il modello abbiano spazio per cambiarsi, truccarsi e rilassarsi. Bisogna sempre mettere a proprio agio il soggetto da fotografare e non dargli nessuno spazio in cui isolarsi un momento non è di certo una buona strategia. Questo vale per tutti coloro che lavorano al progetto, quindi se è presente un mua, si deve fare in modo che abbia uno spazio pulito e confortevole dove poter lavorare e preparare la modella. In molti si dimenticano di alcuni aspetti fondamentali riguardo agli spazi, per esempio l’avere a disposizione un bagno pulito e profumato e un’area dove mangiare qualche snack e bere un sorso d’acqua. Se sono presenti degli assistenti (o se si è assistenti) bisogna definire con chiarezza quali siano i limiti e fino a dove essi possano spingersi senza intralciare il lavoro degli altri. Fissare tempi e risultati: un progetto che non ha un obiettivo è fallito in partenza. Sin da subito deve essere chiaro che cosa si vuole ottenere, sia come numero di scatti che come qualità e quantità. Bisogna essere chiari sull’uso che si vorrà fare o concedere delle


fotografie e si dovranno mettere dei paletti in modo da non deludere le aspettative. Per esempio si può stabilire che per ogni ora di shooting si otterranno circa 3 foto post prodotte come prodotto finito e vari provini non pubblicabili. Un altro riferimento utile può essere quello di calcolare i tempi morti, per esempio di cambio abito e trucco che di solito può occupare da mezzora a un’ora a seconda della complessità. Una volta stabilita la quantità di tempo disponibile per ciascun cambio, allora si dovrà calcolare quanti cambi e quante foto si potranno realizzare al massimo. Lo stesso vale per la post produzione. Bisogna tenere in considerazione quante ore di postproduzione saranno necessarie per ogni ora di shooting o, più in generale, per ogni insieme di scatti. Essere il leader del progetto: affinché il progetto funzioni c’è bisogno di qualcuno che sia capace di guidare tutta la squadra. Di solito questa figura è identificata con il fotografo che deve essere il primo a mettere tutti a proprio agio, a imbastire le relazioni tra le persone e a condurre e scandire i tempi. Come fotografo bisogna fare attenzione nel non invadere gli spazi degli altri, soprattutto bisogna essere pronti a mostrare le pose e i dettagli che vuole realizzare mettendosi in prima persona sul palcoscenico, evitando tra le altre cose di toccare il soggetto o avvisandolo prima di entrare nel suo spazio, per esempio, il fotografo dovrebbe dire qualcosa come “posso spostare questa ciocca di capelli?” prima di allungare la mano e anche solo sfiorare la fronte del soggetto. Dato per assunto che tutti i passi precedenti siano ormai ben acquisiti, allora ci si può concentrare sulle fasi di uno shooting di ritratto. Quello che segue è solo un esempio di come personalmente conduco una sessione di ritratto di moda, per esempio per il portfolio della modella, e non rappresenta un modo assoluto di lavorare. In primo luogo si può iniziare con degli scatti a corpo intero, lasciando la modella libera di interpretare espressioni e pose che le piacciono. Questa fase serve anche per rompere il ghiaccio e per capire con che tipo di persona si ha a che fare. Infatti anche le modelle professioniste potrebbero avere bisogno di qualche minuto per sciogliersi un po’. Se si è fortunati, in queste fase può uscire fuori qualche foto interessante e molto naturale, ma non bisogna contarci tanto. Tra le altre cose se si dovranno fare più cambi e diversi trucchi, l’idea è di iniziare con i look più semplici e i trucchi più naturali e andare via


via aggiungendo carattere e dettagli, in modo di non causare imbarazzo e far “bloccare” la modella. La prima fase serve anche per capire quanta fiducia abbia il soggetto in se stesso. Questo è importantissimo anche per capire come interagire con lui o lei. Infatti per alcuni potrebbe essere deleterio vedere ogni singolo scatto poiché è normale che in una intera sessione vengano fuori delle facce improponibili. Per alcuni, vedersi con espressioni ridicole è il modo più veloce per inibirsi e diventare rigidi come un bastone di scopa. Per altri, specialmente per i professionisti, è invece molto esaltante e utile per capire come modificare anche di poco le varie pose in modo da ottenere il risultato desiderato. In questi casi è utile dotarsi di un adattatore WiFi e fare in modo che dopo ogni scatto il modello o il suo agente possano vedere il risultato su di un tablet e correggere i dettagli o la posa di conseguenza. Una volta rotto il ghiaccio è importantissimo trovare quale sia il lato più fotogenico del soggetto e soprattutto quale sia quello che preferisce. Questo è anche molto importante per i ritratti di famiglia o in generale di clienti che compreranno le foto solo se saranno soddisfatti del risultato, cioè quelle in cui il fotografo sarà riuscito a tirare fuori il meglio di loro. Per poter realizzare ciò in alcuni casi è possibile fare una sequenza di scatti con luce neutra, in cui il soggetto viene ritratto in almeno 9 posizioni diverse del viso: guardando a sinistra, al centro e a destra e, per ciascuna di queste, guardando in basso, all’altezza degli occhi e in alto. Da questa sequenza il fotografo (e anche il soggetto) potranno determinare quale sia il lato migliore su cui concentrarsi. L’interazione verbale è forse la parte più importante per creare il giusto rapporto tra fotografo e soggetto. È importante mantenere una conversazione abbastanza continua con la modella e soprattutto rendersi conto del fatto che quando si spengono le luci dello studio e si accendono quelle dei flash, lei non vede nulla e nessuno. Bisogna dare continui riscontri alla persona ritratta, che non significa ripetere continuamente “bene, brava, si, ok, così” come si vede spesso in giro. L’idea è quella di dare almeno un parere su ciascuna delle pose per la quale si scatteranno più foto. Non bisogna avere paura di dare anche un riscontro negativo, l’importante è trovare un modo che non venga frainteso e non inibisca il soggetto. Per esempio, anziché dire frasi del tipo “in questa posa il tuo naso è orribile”, si potrebbe dire che “nella posa a tre quarti il tuo volto rende meglio anche nelle ombre su naso e zigomi”. Uno degli elementi che rende più facile ottenere il risultato è fare in modo che il soggetto si senta sicuro di sé. Ciò significa cercare di trovare il


modo di capire quali siano i difetti fisici di cui è cosciente e comportarsi di conseguenza. Se per esempio il soggetto facesse autonomamente notare di avere il naso grosso, allora sapremmo anche che ne ha già consapevolezza e che quindi sarà meno probabile che si inibisca nel vedere una foto in cui il difetto venga accentuato. Dopo avere stabilito il rapporto con il soggetto, modella o cliente che sia, si potrà iniziare a lavorare sulle pose e cercare di ottenere il risultato. Bisogna tenere in considerazione il fatto che posare è stancante e che quindi, sebbene il fotografo carico di adrenalina potrebbe voler tirare avanti per ore, la modella potrebbe avere bisogno di una pausa ogni ora o due. Inoltre, poiché la foto è probabilmente nella mente e negli occhi del fotografo, ma non in quelli della modella, bisognerà armarsi di pazienza e provare a mostrare fisicamente la posa, a costo di apparire ridicoli. L’ultimo suggerimento su come portare avanti una sessione di ritratto riguarda l’impostazione dei parametri e delle luci. Per ottimizzare, e per dare anche spazio al relax per la modella o il modello, è utile avere un assistente che possa posizionarsi al posto del soggetto mentre si fanno cambi e prove. In questo modo si possono ottimizzare i tempi perché mentre il fotografo imposta luci e parametri la modella può cambiarsi o truccarsi, e i membri della squadra avranno modo di approfittarne per respirare e riposarsi tra una sessione di scatti e l’altra.



Lo sviluppo digitale Sviluppare una foto in digitale non ha molto di diverso da quanto si faceva con la pellicola, con la differenza che gli strumenti sono sicuramente più semplici da usare (se si sa cosa si sta facendo). Lo sviluppo non è fotoritocco, che implica la lavorazione manuale di componenti dell’immagine diversi da come il sensore li ha catturati (e.g. rimuovere i brufoli dal viso di una modella). Lo sviluppo digitale è un processo che include una serie di passi fondamentali nel completamento del processo creativo e che permettono al fotografo di dare un’interpretazione totale all’immagine che ha catturato attraverso la fotocamera. Non sarebbe un peccato realizzare uno scatto con composizione ed esposizione perfetta, e poi lasciare che sia la fotocamera a svilupparlo da sola?


L’istogramma Da quando esiste la fotografia digitale, i fotografi hanno a disposizione uno strumento che prima non era nemmeno immaginabile in analogico. Esso è infatti una caratteristica che acquisisce il suo senso e la sua utilità proprio con l’abbandono dell’analogico.

A cosa serve l’istogramma? Questo grafico permette di vedere immediatamente quale sarà l’esposizione della fotografia, a prescindere dalle limitazioni fisiche e tecniche del monitor su cui stiamo osservando la sua anteprima. L’istogramma fornisce infatti informazioni sulla distribuzione delle intensità luminose su tutta l’immagine. Tutte (o quasi) le fotocamere reflex permettono di sovrapporre alla foto questa informazione. In poche parole l’istogramma ci permette di capire se abbiamo buttato via informazione o no e quanto ancora possiamo spingerci oltre con le impostazioni. Innanzi tutto bisogna dare qualche definizione. Un istogramma altro non è che un grafico bidimensionale (quindi con due assi) che rappresenta la distribuzione di frequenza delle intensità luminose. In parole povere, abbiamo sull’asse delle ascisse (quello orizzontale) il valore di luminosità che va da 0 al valore massimo consentito dalla gamma dinamica della fotocamera. Se supponiamo di avere un valore massimo di 100 (puramente esemplificativo), significa che abbiamo 100 punti discreti lungo l’asse delle ascisse. Sull’asse delle ordinate, invece, avremo il numero di pixel che corrispondono a quella specifica intensità. In pratica, se facessimo una foto completamente buia a una risoluzione di 1 milione di pixel, avremmo un istogramma con un solo punto con


coordinate [0, 1mln]. Se la nostra foto fosse fatta per metà da pixel completamente neri e per metà da pixel completamente bianchi, sempre ipotizzando un valore massimo di intensità luminosa pari a 100, avremmo due punti dell’istogramma, uno di coordinate [0, 500k] e l’altro di coordinate [100, 500k]. Se si osserva l’immagine in alto, è facile intuire che in una vera fotografia, il grafico si distribuisce in maniera sparsa e non certamente in pochi punti. Ma come può una cosa così matematica, aiutare i fotografi che non vogliono cimentarsi con tanti tecnicismi? In primo luogo è la fotocamera stessa a dare un primo aiuto basato sull’istogramma. Di solito è infatti possibile attivare la funzione di allerta sulla perdita di informazione, cioè pixel completamente neri e pixel completamente bianchi. In natura, infatti, è piuttosto difficile fotografare dei neri che siano veramente neri (punto 0) o dei bianchi che siano veramente bianchi (punto 100). Quando ciò accade è di solito perché si sta sovraesponendo o sottoesponendo la fotografia. Il primo aiuto è quindi quello già anticipato all’inizio del post, cioè quello di aiutarci con l’esposizione. L’istogramma si divide principalmente in 5 zone: I neri: sono tutti quei pixel scuri che rappresentano le parti quasi completamente prive di luce Le ombre: sono tutti quei pixel che, come dice il nome stesso, rappresentano le ombre, cioè pixel scuri ma relativi a zone dell’immagine ancora ricca di dettagli L’esposizione (mezzi toni): la zona dell’immagine che dovrebbe rappresentare la corretta esposizione Le luci: cioè tutti quei pixel che generalmente rappresentano superfici ampiamente illuminate I bianchi: cioè i pixel che rappresentano sorgenti luminose o colori estremamente chiari e brillanti Partendo da questa divisione, risulta più semplice capire come la visione di un istogramma ci permette di stabilire quanto si possa lavorare anche in fase di sviluppo dell’immagine per ottenere il risultato desiderato. Per esempio, aumentare la distanza tra neri e bianchi aumenterà il contrasto dell’immagine.


Un altro esempio di come un istogramma possa essere utile è nella fotografia notturna. Infatti, di notte è spesso necessario fare diversi tentativi prima di trovare la giusta esposizione. In realtà, sapendo leggere l’istogramma, bastano due soli scatti: il primo per avere un punto di riferimento, il secondo per avere le informazioni per la foto finale. Infatti, supponiamo di scegliere delle impostazioni che generino un istogramma che occupi la metà sinistra: questa informazione ci dice che dovremmo poter aumentare ancora di circa uno stop l’esposizione senza perdere pixel. Guardando l’istogramma del secondo scatto sarà facile stabilire quali cambiamenti apportare per ottenere l’esposizione desiderata. Anche le foto HDR beneficiano delle informazioni che da l’istogramma. In questo caso, infatti, bisogna fare in modo che gli scatti, di solito tre, producano degli istogrammi che, se sovrapposti, non perdano informazioni e vadano a riempire in maniera del tutto uniforme il grafico. Nei ritratti, soprattutto quando si è all’aperto e non si ha il pieno controllo della luce di riempimento, l’istogramma è fondamentale per capire quanto sarà possibile recuperare le ombre e quindi riportare “alla luce” la parte in ombra del viso. Un ultimo esempio, tra i mille che se ne potrebbero fare, è la tecnica nota come ETTR, cioè “Expose To The Right“. In questa tecnica, particolarmente usata in astrofotografia, si tenta di ottenere l’immagine più luminosa possibile senza perdere informazioni, cioè senza avere pixel bianchi o “bruciati”. Guardando l’immagine qui sotto, si può notare come l’istogramma sia completamente diverso da quello dell’immagine in alto. Confrontandoli si riesce a vedere rapidamente come nel primo caso la foto con colori dominanti scuri sia più spostata verso sinistra e abbia un picco di bianchi dovuto alle carte, mentre nel secondo caso, la foto molto luminosa produce un istogramma molto spostato sulla destra.


Programmi di sviluppo digitale come Adobe Lightroom permettono di vedere e studiare l’istogramma nei suoi minimi dettagli, usando semplici controlli e mostrando l’istogramma sia complessivo dell’immagine che la sua scomposizione nei vari colori fondamentali della fotografia. Prendere il controllo dell’istogramma è veramente utile, facile e importantissimo sia nel mondo digitale che in quello analogico, per esempio per la stampa. Infatti per sapere se la foto risulterà stampata bene (senza perdere dettagli), basterà assicurarsi che l’istogramma sia correttamente distribuito. Insomma, lo scatto perfetto (o quasi) è giusto dietro una bella curva.


Gestire il contrasto con le curve Una volta capito come gestire l’istogramma è possibile cominciare a sviluppare l’immagine modificando il tipo di impatto che essa ha sull’osservatore, usando il contrasto. Le curve sono uno strumento importantissimo per regolare finemente i dettagli e il tono dell’immagine. Questo strumento può essere applicato sia a tutti i pixel dell’immagine che ai singoli canali. Una curva si presenta inizialmente come una linea diagonale su di un asse cartesiano. Questa situazione è detta anche “come scattato”.

Con queste impostazioni l’immagine sarebbe resa in maniera molto neutra, cioè con colori e toni abbastanza uniformi e meno contrastati rispetto a quanto visto dall’occhio umano:


Quando si lavora con le curve si stabilisce quale dovrà essere il valore di uscita di ogni pixel sulla base del suo valore originale. Sull’asse delle ascisse avremo quindi i valori in ingresso dai più scuri ai più chiari, da sinistra a destra, mentre sull’asse delle ordinate saranno presenti i valori di uscita. Per aumentare il contrasto basterà dare alla linea diagonale retta una forma di una S inclinata. Così facendo, infatti, si farà in modo che i toni più chiari risultino più brillanti, mentre quelli più scuri appaiano ancora più decisi e intensamente cupi.


Il risultato di questa regolazione sarebbe un’immagine sicuramente con più carattere, su cui ancora è necessario lavorare, ma che sarebbe già caratterizzata dai livelli di contrasto desiderati. Ecco le due immagini a confronto:

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Aliasing e altri artefatti L’aliasing è quel fenomeno dovuto alla natura discreta dell’immagine. Poiché l’immagine è fatta di tanti piccoli rettangolini, essa può facilmente rappresentare delle linee verticali o orizzontali in maniera perfetta, tuttavia avrà sicuramente difficoltà a rappresentare delle linee diagonali. Infatti, se si immagina di utilizzare una griglia in bianco e nero e si prova a rappresentare una linea diagonale, ciò che otterremmo sarebbe una scala seghettata come nel primo esempio. Ciò accade anche quando, in fase di sviluppo, si aumenta troppo il contrasto. Il filtro anti-aliasing di molte fotocamere serve proprio ad attenuare questo effetto grazie alla riduzione di contrasto nelle zone particolarmente caratterizzate da molti dettagli.

L’aliasing viene ridotto inserendo dei valori intermedi nei punti dove le linee dovrebbero essere coperte solo parzialmente. In questo modo, osservando l’immagine nella sua interezza, i vari livelli di intensità diversa in prossimità dei dettagli faranno sì che le linee appaiano continue e non spezzettate, tuttavia avranno anche l’effetto di ridurre il contrasto.



Passo passo verso il risultato Il file raw è grezzo, cioè contiene informazioni così come catturate dal sensore, pertanto non avrà di base il contrasto, la nitidezza, i colori e i toni che ci aspettavamo e men che meno saranno quelli della realtà da cui si è partiti. Il file raw è come l’insieme degli ingredienti per una torta. Prendere la farina e mescolarla a caso con latte, zucchero e uova non farà sì che il dolce riesca bene. Per sviluppare una foto digitale bisogna innanzitutto conoscere le caratteristiche del proprio sensore, in modo da sapere in maniera rapida quali modifiche applicare sin da subito per partire da un semilavorato. Per esempio, alcuni modelli di fotocamera non hanno un filtro anti-aliasing pertanto sarà probabile che non si dovrà effettuare particolare lavoro per aumentare la nitidezza, tuttavia si dovrà sicuramente lavorare di più sulla possibile grana di rumore che apparirà sulle superfici uniformi. Un possibile flusso di lavoro per sviluppare un’immagine digitale potrebbe essere quello descritto di seguito, partendo dal presupposto che ognuno dovrebbe trovare il metodo che più si addice al proprio stile e ai tempi a disposizione:


1. Correzione delle distorsioni ottiche dovute all’obiettivo: di solito

programmi di sviluppo in camera chiara (o digitale), come Adobe Lightroom o il suo rivale open source Darktable, sono dotati di una base di dati contenente la lista di moltissimi obiettivi. Questi profili conoscono già i problemi delle varie lenti come vignettatura, aberrazione di tipo distorsione (e.g. pincushion, barrel, etc). Applicare queste modifiche è semplicemente un click e aiuta ad avere già un primo risultato più piacevole poiché vengono applicate delle correzioni per quanto riguarda le distorsioni prospettiche, la vignettatura, la saturazione e l’esposizione. Nell’esempio in basso si possono notare, per esempio, i bordi dell’immagine che vengono schiariti e la distorsione prospettica al centro che viene corretta.

2. Correzione dell’esposizione: quando si lavora con un file grezzo, si può

rimanere sorpresi di quanti stop di luce si possono recuperare. Correggere l’esposizione significa dunque guardare all’istogramma e portare le varie curve nel punto giusto del diagramma, separando, laddove possibile, la gestione dei neri e delle ombre, da quella delle luci e dei bianchi, mantenendo la parte dell’immagine che si è utilizzata come riferimento per l’esposizione, nell’area più centrale e bilanciata dei mezzi toni. In questa fase è già possibile aumentare o diminuire il


contrasto: infatti, comprimendo l’istogramma, cioè alzando neri e ombre e abbassando luci e bianchi, si avrà un effetto molto morbido sull’immagine, quasi retrò, mentre distendendo l’istogramma si otterrà un’immagine più decisa e dai contorni netti e precisi.

3. Regolazione di contrasto e rumore: aumentando il contrasto, si rende

inevitabilmente più visibile il rumore dovuto alla luminanza, tipico dei sensori digitali. Questo rumore si può notare più facilmente sulle superfici uniformi e non è dovuto alle alte ISO. Ogni sensore ha una sorta di impronta digitale, un rumore di fondo che applica a tutte le immagini, dovuto alle caratteristiche fisiche di ciascun pixel. Tutti i programmi di sviluppo hanno la possibilità di applicare dei filtri di correzione della luminanza che si occupano, fondamentalmente, di applicare una convoluzione matematica di una maschera di pixel su tutta l’immagine. In termini semplici, questi software fanno scorrere una maschera di pixel su tutta l’immagine calcolando per ciascuno di essi, un nuovo valore basato sulla media del suo intorno. Questo metodo permette al programma di attenuare o far sparire del tutto il rumore. I parametri possono essere di solito regolati facilmente anche da chi non ha idea di cosa significhi “convoluzione”, tuttavia è altrettanto immediato l’effetto negativo dell’aumentare l’intensità del filtro di


riduzione del rumore, cioè la perdita di contrasto. In tal caso è necessario trovare un giusto compromesso tra la riduzione del rumore e il contrasto. Alcune tecniche per aumentare il contrasto pur riducendo il rumore includono l’applicazione di una maschera basata su un filtro passa alto, cioè un sistema matematico che rileva i bordi degli oggetti sull’immagine e permette di creare una maschera di contrasto tale da tirare fuori i dettagli nei punti dove è presente del contrasto e di lasciare più morbide le parti uniformi. Ancora una volta, programmi come Lightroom e Darktable permettono di fare ciò usando delle semplici barre di regolazione. È importante effettuare questi passaggi prima degli altri e dopo l’esposizione perché modificare luminanza e contrasto potrebbe avere effetti sulle altre regolazioni che andrebbero altrimenti calibrate nuovamente.

4. Regolazione del bilanciamento del bianco: nel caso in cui l’immagine

sia stata scattata in raw, è possibile correggere eventuali problemi dovuti all’errata selezione del bilanciamento del bianco nella fotocamera al momento dello scatto, oppure dovuti a fonti di luce che non erano state correttamente misurate dalla stessa.


5. Ritaglio e correzione della composizione: questo passo è fondamentale

nel caso in cui non si sia riusciti a ottenere la giusta composizione subito nella fotocamera. Effettuare il giusto ritaglio direttamente al momento dello scatto è importantissimo per poter sfruttare tutti i pixel dell’immagine, tuttavia può sempre capitare che non si riesca a tenere l’orizzonte perfettamente dritto, o che qualcuno sia appena entrato nella nostra inquadratura, giusto nel momento dello scatto.


6. Regolazione dei toni, della saturazione e della vividezza: ogni

immagine ha il suo carattere e questo è dato anche dai colori che la compongono. Questo passaggio deve essere fatto sempre dopo aver corretto bilanciamento del bianco e contrasto poichÊ gli altri due valori potrebbero alterare significativamente la saturazione e il tono di molti colori nella scena.


7. Applicazione di maschere locali: in alcuni casi potrebbe essere

necessario applicare delle regolazioni locali, per esempio un filtro graduato sull’esposizione in un’immagine di un tramonto in riva al mare, per bilanciare la luminosità del cielo con l’esposizione della spiaggia. Vari programmi consentono un livello di dettaglio quasi pari a quello dei programmi di fotoritocco, permettendo, per esempio, di illuminare gli occhi in un ritratto e sbiancare i denti. Nell’esempio in basso si può notare come un filtro graduato applicato da destra verso sinistra, permetta di recuperare i dettagli del cielo e del palazzo giallo sullo sfondo senza alterare piante e fiori.


8. Applicazione degli effetti di stile: se la foto non avesse ancora una

“firma” del suo autore, l’aggiunta di viraggi cromatici, vignettatura artistica e altri effetti di regolazione può rappresentare il tocco finale. Per i profani del fotoritocco è un po’ come applicare un filtro di Instagram, ma anziché usarne uno preconfezionato, lo si inventa secondo il proprio gusto. In questo caso, giusto a titolo di esempio, è stato effettuato un viraggio cromatico verso il giallo ed è stata aggiunta un’accentuata vignettatura scura sugli angoli, per dare un gusto un po’ vintage.


9. Esportazione dell’immagine nel formato più adatto: una volta

sviluppata l’immagine bisognerà esportarla nel formato corretto per il suo utilizzo. Per esempio, se la si vuole stampare si dovrà fare attenzione che il profilo di colore sia quello standard (di solito sRGB) e che la risoluzione sia ottimizzata per 300dpi.


Stacking o esposizione multipla La tecnica della esposizione multipla, o stacking, esiste sin dai tempi della pellicola. Ovviamente il digitale ha reso questa tecnica molto più semplice e accessibile anche per i profani della fotografia. Il metodo si basa su di un concetto molto semplice che prevede che si effettuino molti scatti che dovranno successivamente essere allineati, anche se questo passaggio è opzionale a seconda del risultato che si vuole ottenere, e poi fusi insieme, pixel per pixel, usando una formula matematica per il calcolo del valore di ciascun punto dell’immagine. Il metodo matematico che sta alla base può essere basato sul principio del massimo valore, cioè in cui viene scelto il pixel con il valore maggiore, tra tutti i pixel di pari coordinate di ciascuna foto (per esempio tutti i primi pixel in alto a sinistra con coordinate “1,1”), il minimo valore, che è l’esatto opposto, la media o la mediana dei valori di tutti i pixel.


Per realizzare una foto del genere, si potrebbe usare la modalità bulb con un’apertura del diaframma abbastanza bassa da permettere al sensore di raccogliere la luce per tutto il tempo necessario. Il problema in questo caso sarebbe che non avrei nessuna scintilla definita per via della continua esposizione e la luce prodotta dalla candela illuminerebbe troppo l’ambiente circostante, rovinando il buio che esalta le scintille. Come fare dunque per ottenere una lunga scintilla “congelata” nel tempo? La soluzione in questo caso si chiama stacking con metodo statistico del massimo. Per questa tecnica servono: Una fotocamera con capacità di scattare molte foto al secondo e in maniera continua Un telecomando Un treppiedi Una “sparkling candle” La prima cosa da fare è preparare la composizione: bisogna mettersi in un angolo buio in modo che le scintille provochino meno ombre e riflessi possibili. Usando un soggetto temporaneo è quindi necessario mettere a fuoco alla distanza a cui si troverà la candela, quindi spostare l’obiettivo su messa a fuoco manuale. A questo punto si devono impostare i parametri di esposizione facendo in modo di avere la sensibilità al minimo possibile (la mia era a 100), il tempo di esposizione non superiore a 1/100 di secondo e l’apertura necessaria affinché le scintille (che sono molto brillanti) si vedano (io ho usato f/4, ma sarei potuto andare più in basso). Uno scatto in queste condizioni e a candela spenta dovrebbe risultare in uno schermo completamente nero.


Una volta accesa la candela, non resta che scattare foto a ripetizione finché non abbia finito di scintillare. Il risultato sarà un insieme di foto di tanti istanti “congelati”. Queste foto potranno quindi essere caricate su un’applicazione di sviluppo (e.g. Adobe Lightroom) per essere elaborate in modo da ottenere lo stesso risultato per tutte le foto (e con poco sforzo). Una volta generati i file jpeg, basterà usare un programma capace di usare il metodo statistico per ottenere rapidamente il risultato finale. Io ho usato Adobe Photoshop ma anche Gimp e altri free software hanno questa funzionalità. In Photoshop basta aprire il menu e andare alla voce “script” e subito dopo scegliere “statistiche”. Dalla schermata si potrà scegliere il set di foto da usare e il metodo statistico. Io ho usato il metodo “massimo”, cioè per ogni punto dell’immagine composta dai miei 15 livelli sovrapposti viene selezionato quello più luminoso. In questo modo, lo sfondo rimane quanto più scuro possibile, mentre la parte della “storia” della scintilla risulta completa dall’inizio alla fine e con tante scintille congelate a mezzaria.



Esercitare l’occhio fotografico Per chiudere questo libro, vorrei parlare di alcuni esercizi pratici che svolgo personalmente e che ritengo siano molto utili per allenare una delle componenti più importanti in fotografia, cioè il proprio occhio. Sicuramente il fatto di scattare fotografie in ogni occasione è fondamentale. Ormai oggi si ha una fotocamera sempre a disposizione, anche se non si porta la propria reflex con sé: lo smartphone. In secondo luogo trovo che sia utilissimo confrontarsi giornalmente con video trovati sul web, fotografi che condividono le loro conoscenze su canali video o su forum, senza preoccuparsi di apparire troppo “principianti” poiché in fotografia nessuno è nato sapendo già tutto. La fotografia gira tutta attorno a come si osserva il mondo. Conoscere il parere di altri, girare il mondo e toccare con mano nuove culture è un modo che aiuta sicuramente ad aprire la propria mente a modi alternativi di guardare la realtà. Si può essere certi che seppur si descrivano i requisiti di una foto per un soggetto specifico, due fotografi difficilmente faranno la stessa identica foto. Per allenare questa componente io mi sono impegnato nel praticare l’arte dello storytelling almeno una volta a settimana. Questo significa scegliere una storia da raccontare, che può essere di vita vera, simile a un reportage, o fittizia, e creare una continuità di stile, messaggio e immagine. Il mio progetto si chiama “A Tale Of Blacks & Whites” e può essere visionato nel mio blog: http://www.cahung.it. Un altro esercizio che trovo particolarmente utile è quello di fermarmi almeno una volta al giorno e cercare una fotografia esattamente nel punto in cui mi trovo, anche se fosse la zona più insignificante del tragitto tra l’ufficio e casa. All’inizio può sembrare difficile e ci si può ritrovare a ripetersi che “non c’è nulla da fotografare”, tuttavia dopo le prime volte si cominceranno a trovare dettagli interessanti nascosti in piccoli screzi sull’asfalto, in contrasti improvvisati tra un passante e un cartellone pubblicitario e così via. Non è necessario cercare la foto da condividere con gli amici alla ricerca di approvazione. Si tratta piuttosto di foto che potrebbero anche rimanere nascoste nello smartphone o venire addirittura cancellate pochi istanti dopo avere realizzato il senso del proprio scatto. La sola ricerca di una composizione interessante non è, tuttavia, sufficiente ad allenare ogni aspetto che riguarda la fotografia. Citando Bresson, una foto si fa mettendo sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio, quindi bisogna anche ingegnarsi per far funzionare le tre cose insieme.


Un’interessante esercizio ispirato a uno che ho trovato in un libro molto interessante intitolato “Il fotografo non si annoia mai”, di Marco Scataglini, è quello di scegliere un soggetto e trovare delle parole a caso da accostargli. Nel suo esempio vuole fotografare un mazzo di fiori e sceglie le parole scorrendo le pagine di un di un libro in cui prende delle parole a caso, per esempio scegliendo due numeri casuali che rappresentano il numero di pagine e l’ennesima parola di quella pagina. Sempre nel suo esempio trova le parole: “cruciale”, “minuto” e “faccia”. Come è possibile notare, l’accostamento di queste tre parole con un mazzo di fiori trasformano subito la semplice foto di un mazzo di fiori, magari in un vaso anonimo, in una scena in cui c’è un uomo visibilmente in ansia che corre alla stazione per dare un mazzo di fiori a una donna che sta partendo col prossimo treno. Ovviamente non sempre la foto sarà facilmente realizzabile, ma il fatto stesso di averla immaginata avrà aiutato a mettere insieme i tre elementi di base per una buona fotografia. Infine, citando Ferdinando Scianna e il suo libro “Lo specchio vuoto”, ritengo che un ottimo esercizio sia quello di osservare le proprie foto, andare indietro nel passato e guardarne almeno una al giorno e fare autocritica. Il motivo è molto semplice: una foto non esiste in un singolo istante e non rappresenta solo quel momento storico. Una foto cambia, muta il suo significato e il modo in cui si presenta insieme a noi stessi. La foto è frutto del modo in cui il fotografo ha deciso di rappresentare la realtà in un tempo definito, e riguardarla in un secondo momento, anche a distanza di anni, ci permetterà di osservare come siamo cambiati noi stessi e come si è evoluto il nostro modo di guardare il mondo che ci circonda.



Fonti http://photography.cahung.it http://www.wikipedia.org Htp://www.youtube.com http://froknowsphoto.com/ http://www.mattgranger.com/ http://bokeh.digitalrev.com/ https://fstoppers.com/ http://www.dxomark.com Lo specchio vuoto – Ferdinando Scianna I segreti della luce – da zero a fotoamatore esperto; Carlo Alberto Hung Il fotografo non si annoia mai – Marco Scataglini


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