I Racconti 2009

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SOMMARIO

Il circo dei narratori

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Sikitikis Brain Dept.

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A cielo aperto

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Dove soffia maggio

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Il Duello

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Francesco Abate

di Michela Murgia

I Racconti di Monumenti Aperti Š2009

di Marcello Fois

Primo Quaderno a cura di Giuseppe Murru

di Gian Luca Floris

coordinamento scrittori Francesco Abate progetto grafico e impaginazione MangioDesign fotografie dei monumenti Manuel Putzolu illustrazioni e ricerca iconografica Tiziana Martucci e Manuel Putzolu si ringrazia per la stampa Arti Grafiche Pisano

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Il circo dei narratori Quella città, Signore, è circondata dal mare, e dagli stagni, circondata dall’acqua, rosa e bianca, dei riflessi del sole.* Questa città, Signore e Signori, è la Capitale, amata e odiata. Ordunque, Grandi e Piccini, prego si accomodino a scoprire l’inimmaginabile. Queste case, sobborghi o castelli, queste piazze e anche i vicoli, sognano profumo di metropoli ma a volte puzzano di piccola società. Si vantano di essere primi in Sardegna, e un po’ se ne vergognano perché, seppur regione a statuto e anima speciale, agli occhi dei perfidi (ma forse più a quelli degli imperdonabili invidiosi) sono confine contaminato di selvaggia Africa. Questa città, Signore, è dei de nosu, dei maurreddinos, dei casteddaios tontos, dei nobili e dei borghesi, di pescatori e teste calde, di piglia in culo, spiriti pii, ruffiani, ballerine, geni, fini e grezzi, illustri menti, santi, maestri, truffatori, generosi e cuori spenti. Questa città, Signori, è di tutti quelli che ci sono passati per una missione e poi via, di chi

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Francesco Abate

voleva andarsene alla chetichella e c’è dovuto restare per l’ eternità, chi è giunto per trovare fortuna e fortuna trovò. Chi sognò gloria e incappò nella miseria puzzolente e perniciosa. Chi le ha dato tutto e chi mai niente. I falsi e gli indimenticabili. Chi, infine, l’ha fatta bella e chi l’ha umiliata, ma al fine pagò o, state certi, pagherà. Anime saziate e spiriti angosciati, vincitori e vinti, umiliati e indomiti, offesi e prepotenti, come in altre mille città, tutti loro anche qui hanno goduto della loro esistenza o si sono trascinati nella fatica del vivere.

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Tutti loro, Dame e Cavalieri, Soldati e Massaie, sono Cagliari e Sardegna. Le loro vicende sono ovunque: negli angoli delle strade, negli androni dei palazzi, all’ombre delle palme. Fra gli odori delle muffe e dei sali, dell’appiccicoso vento del mare o del furioso maestrale. Le avventure di tutta questa gente che non è finita nei libri di Storia, ma che la Storia ha fatto, sbucano dai sottani, fanno capolino dietro le vecchie mura bianche, serpeggiano fra i tetti rossi e le terrazze che guardano il porto. Le storie di questa umanità sono la storia di questa Terra, di questo golfo che si riflette al sole con placida serenità. Sono episodi, piccole puntate di un grande romanzo, che non aspettano altro che essere raccontate, ricordate, salvate dall’oblio del tempo e della corsa verso un futuro che chissà cosa ci lascerà. Ed ecco dunque, Nobili e Ciarlatani, che arriva un manipolo di cantori. Una prima avanguardia cui altre ne seguiranno. Tre scrittori e quattro musici che, come rabdomanti in cerca d’acqua, sono andati a stanare, nei territori più affascinanti e segreti, le storie fantastiche e incredibili, crudeli e divertenti, tanto pazzesche da sembrar vere. E quando le hanno trovate le hanno riportate alla luce e si sono fatti aprire le porte di quei luoghi che il quotidiano vivere chiude o socchiude allo sguardo dei più. Da quest’anno, Notabili e Sigaraie, Monumenti Aperti è anche questo. È l’anima della città, e di chi l’ha vissuta, che svela le sue falde più segrete e suggestive. Lo fa attraverso lo sguardo di uno scrittore che qui ci è nato e pasciuto ma spesso, sulla scia dell’opera lirica che canta,

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deve lasciare (il mirabolante Gianluca Floris), di chi per primo dopo tanti silenzi ha riportato l’epica di questa terre sui fogli di libri che viaggiano e hanno viaggiato sino agli estremi del pianeta (il gran precettore Marcello Fois). Ma anche filtrata dalla lente innamorata, e al contempo capace di un’affilata lucidità, (l’amazzone Michela Murgia) di uno sguardo straniero (perché a volte bastano poche miglia per trovare nuovi continenti) che può cogliere ciò che spesso sfugge a Voi che l’avevate sotto il naso sin dal primo vagito. Questi tre scrittori, Cari Visitatori, così diversi fra loro per stili, carriere, speranze e velleità, narrano questa città, e i suoi cittadini non sui legni dei teatri ma nei veri luoghi dove le vicende sono state riesumate e subito riportate alla luce. Lo fanno non in solitudine ma con un gruppo di saltimbanchi delle sette note, i Sikitikis, giunti dall’estremo oriente degli stagni di questo dominio d’acqua e colline, che, lasciati i panni che indossano sui palchi del rock’n’roll, si riuniscono nel progetto Brain Dept per sonorizzare non solo le parole degli scrittori ma persino le pietre, i marmi dove prende vita la narrazione.

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Un primo esperimento a cui presto ne seguiranno altri. Ma lasciando da parte il futuro e pensando al presente è ora che si vada a incominciare il nuovo tragitto. Camminando, spostandosi di luogo in luogo, fra i quartieri storici, per due giorni avventure e fatti semplici prendono corpo. Una fortuna esserci. Un peccato mancare. Signore e Signori. Ma ciò che trova armonia, unica, nel momento in cui narratore e pubblico sono una sola cosa, viene cristallizzato, per gli assenti e i desiderosi di un ricordo, in questo libretto. Anche lui primo di una serie. Ordunque si accomodino, Signore e Signori, Grandi e Piccini, nel fantastico padiglione delle piccole grandi storie. Fra verità e innocenti inganni del nostro Circo.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

Colonna sonora originale dei racconti a cura di

SIKITIKIS BRAIN DEPT. Alessandro Spedicati Gianmarco Diana Enrico Trudu Daniele Sulis Nasce nel 2000, parallelamente al progetto di musica pop denominato SIKITIKIS.

Sikitikis Brain Dept.

Il “dipartimento cervello” si è specializzato nella rielaborazione di musica per il cinema, nella sonorizzazione live di immagini tratte da film d’epoca, nella realizzazione di colonne sonore originali per cinema, reading di letteratura, piece teatrali. BRAIN DEPT. ha collaborato con: Subsonica, Wu Ming, Enrico Pau, Massimo Carlotto, Paolo Parpaglione, Francesco Abate, Charles Pierce, Colin Stetson, Vito Miccolis, Robertina Magnetti, Fr3nk, Brian Wade, Hiroshima Mon Amour, Mario Sesti, Ale Bavo, Matteo Spedicati, Mario Sesti, Teatro Ambra Jovinelli, Lucido Sottile, Umbria Film Festival.

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MICHELA MURGIA

A CIELO APERTO

A cielo

aperto In Sardegna fa freddo, non credete a chi vi dice il contrario. A volte nevica persino, e non solo sulla punta del Gennargentu. Mentre fuori dall’isola oggi tutti sono convinti che ci faccia sempre bel tempo e che il sole ci splenda anche di notte, sono pochissimi i sardi che credono che in Sardegna non faccia tanto freddo, e io scommetto che sono tutti nati dopo l’inverno del ’42, perché un freddo come quell’anno non si era mai visto e non si è visto mai nemmeno dopo, e anche se poi ci fu la famosa nevicata del ’56 non fu la stessa cosa, perché nel ’56 fece freddo dappertutto – mica si chiama per niente “la famosa nevicata del 56” - invece nel ’42 c’era un gelo nell’aria che restò famoso solo tra di noi a Cagliari, e quando hai la sensazione di essere solo a morire di freddo, sarà una suggestione, ma quel freddo lo senti di più. Però non è che si sta parlando del tempo, perché a

Teatro Civico

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Michela Murgia

dire la verità la temperatura era solo la nostra seconda preoccupazione. La prima era la guerra, e il fatto che un sacco di gente fosse al fronte in un posto chiamato Altopiano di Asiago, in trincea, a difendere il confine dell’Italia dentro buche che poi - nella Cagliari che conosciamo adesso - sono diventate famose come vie, con nomi tipo via Monte Sabotino, via Trincea delle Frasche o via Trincea dei Razzi, che se scopro chi ha cambiato la R con la C nel cartello della via gli spacco tutti i denti, che in quella trincea c’è morta gente, e io di quella gente conoscevo anche i nomi. Non di tutti, certo. Ma di qualcuno sì. Uno era Ciccitu Ghisu, il babbo di Antonino Ghisu, detto da tutti Gino, un barroso di prima categoria che però ci aveva di buono una cosa che eravamo costretti sempre a perdonarlo: era pazzo per le scenette. Lui le chiamava così, le scenette. Si inventava delle storie incredibili, di fantasmi, di santi, di preti, di banditi, di mariti cornuti, di bestie parlanti di ogni tipo… e poi si metteva a raccontarle facendo le voci e le facce di tutti i personaggi, maschi, femmine o animali, senza vergogna di niente, mentre noi a guardarlo ridevamo così tanto che finiva sempre che a qualcuno gli scappava la pipì, anche se c’era la guerra, e anche se un sacco di gente

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MICHELA MURGIA

era al fronte in un posto chiamato Altopiano di Asiago, suo babbo compreso. Per questo motivo piano piano avevamo quasi smesso di chiamarlo Gino, che comunque con il suo nome di battesimo non c’entrava niente, e lo chiamavamo Torràu Scékspir. Quando Torràu Scekspir si mise in testa la storia delle campane di San Saturnino era dicembre, e nell’aria tirava aria brutta, oltre che fredda. Si aveva la sensazione che la guerra la stessimo perdendo, perché le notizie che arrivavano erano soprattutto di morti, e il duce alla radio si sentiva che era molto meno pimpante di prima. Così, per non sapere né leggere né scrivere, un sacco di gente aveva fatto armi e bagagli e aveva lasciato la città per andare nei paesi, perché erano in tanti a sospettare che i tedeschi ci avrebbero tirato presto qualche brutto scherzo. Tzia Luisa, la nonna di Brunetto Cabras, che a ottantadue anni non si era voluta muovere da Marina manco a pagarla, diceva che i crucchi ci avevano fatto perdere la prima guerra e se stavamo a vedere ci facevano perdere anche la seconda; ogni volta che glielo sentivi dire, dentro i buchi infossati degli occhi ci potevi vedere la voglia rabbiosa di re-

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stare viva fino a poter dire “ve l’avevo detto”. Io invece speravo che morisse, un po’ per non darle la soddisfazione, e un po’ perché aveva un alito che sembrava avesse un topo morto incastrato in gola, e l’odore quando ti abbracciava ti rimaneva poi addosso per diversi minuti. Però questo a Brunetto non glielo dicevo, dopottutto sempre nonna gli era, ed eravamo amici. Noi, io, Brunetto, Franziscu, Giulio Su Proprio, Antioghedda e Torràu Scékspir di anni nel ‘42 ne avevamo quindici, chi più chi meno, e anche se la guerra durava da quasi tre anni ci sembrava di averla sempre conosciuta, ci sembrava di esserci nati con i babbi in guerra, perché l’uomo è una bestia strana, se gli dai abbastanza tempo entra in confidenza con qualsiasi bruttura, e forse è un bene, perché se ci metti troppo ad abituarti alle cose faticose, finisce che poi a farle ti stanchi di più. Non so se noi fossimo abituati fino a quel punto, perché comunque a volte mi sembra che ci stancavamo. Ma non era un dolore… era più come aver perso la memoria, come se non ci ricordassimo più tanto bene come era la vita quando non c’era la guerra; succede a volte con le persone che hai conosciuto da piccolo, e ti hanno tenuto in braccio, e ti hanno dato un dolce o ti hanno portato a spasso, e poi le incontri a dodici anni e non le riconosci più, e davanti ai sorrisi speranzosi di quelli che ti dicono “ti ricordi, sono zia Giuanna!” ti vergogni a dire di esserti dimenticato che faccia avevano, sennò sembri ingrato, o superficiale. A noi succedeva così con la pace. Se per caso fosse arrivata all’improvviso, forse lì per lì non l’avremmo nemmeno riconosciuta

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

A CIELO APERTO

subito, però eravamo educati bene e avremmo fatto finta di ricordarcene, finchè non ci fossimo tornati in confidenza veramente. Però Antonino Ghisu detto Torràu Scékspir, lui alla pace ci pensava. Era convinto che la guerra stesse finendo, che avremmo vinto, e che mancasse pochissimo al giorno in cui il babbo sarebbe tornato dalla trincea tutto decorato, e allora – diceva - avremmo potuto risistemare Cagliari, che non era poi messa male, nonostante tutto. A volte ne parlavamo di notte nascosti in casa di Antioghedda, dopo che lui aveva fatto una delle sue scenette ed eravamo riusciti a smettere di ridere. E allora dicevamo cosa avremmo fatto dopo che la guerra fosse finita… e Franziscu voleva studiare ingegneria navale e fare navi e costruire una flotta più forte per la prossima guerra, e Giulio – detto Su Propriu, perché non aveva mai un’idea sua, se gli chiedevi cosa pensava di una cosa su cui qualcuno si era già pronunciato, ti guardava fisso come se stesse pensando e poi esclamava: Su propriu. Mischino Giulio, tanto sveglio non era, ma aveva un cuore come una casa, e infatti voleva fare il dottore e curare tutti quelli che adesso dal medico non potevano andarci; Antioghedda - era il periodo che Giulio le piaceva, prima che le piacessi io - prontamente si attaccava a dire che lei gli avrebbe fatto da infermiera… Io invece con più modestia volevo aprirmi un negozio di alimentari, che la gente dopo la guerra avrebbe avuto così fame che si sarebbero fatti affari d’oro anche solo vendendo lenticchie. Fu lì che Gino tirò fuori la cosa delle campane di San Saturnino.

Io invece voglio fare l’attore, e metterò in scena per la prima volta l’opera di un grande commediografo. Noi lo abbiamo guardato come se fosse scemo. Primo, che fare l’attore non era un lavoro, a quello ci credeva solo lui. Secondo, nessuno di noi aveva idea di che cosa fosse un commediografo (ma sembrava una cosa brutta), e terzo, mentre lo diceva aveva tirato fuori una specie di libretto e ce lo agitava davanti come uno spiritato, e allora davvero ci convincemmo che stesse facendo una delle sue scenette improvvisate.

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Restammo a sentirlo, per vedere come finiva. Si alzò in piedi, mentre noi seduti sulle scale lo guardavamo. Ho pensato che dopo la guerra ci sarà da ricostruire, e serviranno soldi. Voglio preparare uno spettacolo per raccogliere offerte per la ricostruzione. Uno spettacolo di cosa? – chiesi io, e a quella domanda fu lui a guardare me come se fosse scemo. Di teatro! Il più divertente e toccante spettacolo di teatro che Cagliari abbia mai visto da quando è morto Shakespeare! Ma perché, Shakespeare era di Cagliari? – mi sussurrò Su Propriu dubbioso. La nonna era di Sant’Elia … - mai farsi scappare l’occasione di prendere per il culo Su Propriu.

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Aaah… - fece segno lui di capire, e mi ripromisi di sfotterlo più tardi per quello. Intanto Torràu Scékspir aveva ripreso a progettare, e sembrava serio. Ho trovato negli armadi del teatro civico una commedia bellissima, scritta in sardo, che sarebbe proprio la cosa perfetta per fare uno spettacolo di questo tipo. Tanto la guerra sta per finire, e noi faremo cosa bella se cominciassimo a tenerci pronti per l’evenienza… Noi? – disse Franziscu. Certo! È una commedia con diversi personaggi, non posso farli tutti io, finchè siamo tra di noi è un conto, ma poi se si sale sul palco davanti alla gente le cose bisogna farle bene… Ma noi non siamo attori! – Antioghedda era una tipa pratica, nonostante la sconcata temporanea per Giulio. Nessuno nasce attore, come nessuno nasce dottore. Si studia, ci si prepara… vi preparerò io! Oh, oh, abbellu… io non salgo su nessun palco, che a fare lo scemo non sono capace… - Brunetto cominciava a capire l’idea di Gino, e non gli piaceva per niente. E poi dove si farebbe questa cosa? Chiameremo tutta la gente nel sottoscala di casa tua? – lo chiesi io, perché ero

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curioso di vedere dove Gino volesse arrivare. Lo faremo al teatro civico, a Castello! – lui rispose come se fosse una cosa ovvia. Eh, Torràu Scékspir! A te lo danno il teatro per fare le scenette! Questa non è mica una scenetta: è una GRANDE commedia di un maestro del teatro. Noi stemmo zitti, aspettando il seguito di quello che prendeva sempre più le sembianze di un delirio di onnipotenza. A volte Gino ne aveva, ed erano sempre divertenti. È l’opera prima di Antonio Garau, il commediografo oristanese! Si intitola Is campanas de Santu Sadurru. Unu corpu ‘e paia a murru, ti ‘onint. – finì solennemente Franziscu, che attore non sarà stato, ma aveva una certa vena poetica. A differenza di noi, Scékspir non mostrò di apprezzarla. C’è poco da prendere in giro, è un testo che fa pisciare dal ridere, ed è facile, sono solo tre atti, c’è anche una parte di femmina… - disse Gino agitando i fogli, mentre lanciava un’occhiata ad Antioghedda. Non è cosa, Scékspireddu. Io non mi ricordo manco dove abito, figurati se imparo una parte a memoria. Credimi, ci metti di meno che a diventare ingegnere navale. E poi proveremmo tanto, abbiamo il teatro a disposizione! Ma che dici? È vuoto, ti dico, ed è aperto. La notte nei palchetti a volte va gente a dormire, ma di giorno non c’è nessuno, la porta di servizio è aperta… - mi sembrava che avesse qualcosa da nascondere mentre lo diceva, e infatti aggiunse - …io

ci vado ogni tanto. In quel momento me lo immaginavo Gino in piedi sul palco, quando durante il giorno la gente che ci dormiva era in giro a cercare roba per riempirsi la pancia, e me lo vedevo che si metteva al centro dietro il sipario aperto e faceva le scenette da solo, provando le battute che si era scritto, magari prima di farle a noi la sera quando ci riunivamo a casa di Antioghedda. Adesso non so dire perché, ma quell’immagine mi ammorbidì qualcosa dentro, e mi venne voglia di dargli un po’ retta, così, tanto non è che avessi chissà cosa da fare. …e di cosa parla la storia? – gli chiesi. E lui cominciò a raccontare. Il giorno dopo prima delle dieci del mattino se ci fosse stato qualcuno nei paraggi difficilmente ci avrebbe visto mentre entravamo al teatro dalla porta di servizio di via De Candia. La città era piena di soldati tedeschi, ma avevano altro da fare che correre appresso ai ragazzini, e comunque uno in quegli anni a Marina non arrivava manco a sedici anni se non imparava come sparire al momento giusto. Il teatro civico era impolverato come un muratore, non lo pulivano da un sacco di tempo, ma nonostante questo era comunque una delle cose più belle che avessimo mai visto. Era tutto bianco dentro, con gli stucchi dorati intorno ai palchetti, con le poltroncine morbide, e grande, minimo aveva ottanta palchi, una volta forse li ho anche contati per scommessa con Giulio. Era un posto bellissimo, ed era bello soprattutto il silenzio, quell’acustica perfetta che lo rendeva un posto separato dal mondo: che fuori ci fosse

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inverno o guerra, lì dentro te ne saresti dimenticato, se ci restavi abbastanza tempo. Noi di tempo cominciammo a passarcene tanto davvero. Non andavamo più in giro nei vicoli e non ci infilavamo più nelle case a vedere se qualcuno sfollando aveva lasciato indietro qualcosa di utile, tanto le case di quei quartieri non avevano molto da rubare nemmeno quando erano abitate. Torràu Scékspir prese la cosa subito molto sul serio: ci spiegò bene la storia del protagonista, un certo Triagus che faceva di mestiere sia il barbiere che il tabaccaio, e che voleva mettere in scena una rappresentazione per raccogliere i soldi per ricomprare le campane alla chiesa di San Saturnino del suo paese. Si capiva da subito che quella parte la voleva tenere per sè, perché in fondo quel Triagus voleva fare la stessa cosa che aveva in testa anche lui. A noi restavano da fare i personaggi degli amici e dei paesani, e quel Garau, il commediografo che l’aveva scritta, era bravo davvero, perché erano tutti personaggi che ci sembrava di conoscere davvero, e li assomigliavamo ora al tale, ora a quell’altro del quartiere. Per tutto dicembre Torràu Scekspir ci insegnò come andavano recitate le parti: le leggeva perché le imparassimo, le recitava per noi per farci vedere come andavano rese sul palco, e poi ci faceva provare se avevamo capito. Brunetto si dimostrò un attore penoso: la maggior parte delle volte si dimenticava la battuta, e se per caso se la ricordava, si metteva a ridere mentre la diceva, ci faceva ridere tutti, e non combinavamo più niente. Franziscu invece era bravino, e persino Giulio, una volta imparata a memoria la

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A CIELO APERTO

parte del prete, sembrava nato per fare messa. Antioghedda si divertiva molto nella sua parte, e quando diceva le battute era tale e quale a sua madre, con lo stesso tono di voce. Siccome serviva anche un’altra donna e nessuno la voleva fare, si decise che l’avrei fatta io. Mi conciarono con degli stracci sotto il maglione per fare le tette, e un fazzoletto in testa, ma ogni volta che entravo in scena travestito, Brunetto esclamava che sembravo sua nonna, e allora io dicevo che i crucchi ci avrebbero fottuti anche in questa guerra, e loro smettevano di recitare e ridevano, perché sembravo un po’ mascufemmina, e un po’ davvero la nonna di Brunetto. Quando scendeva il buio tornavamo a casa prima del coprifuoco e a casa non dicevamo dove eravamo stati, perché qualcosa ci suggeriva che le nostre madri non avrebbero trovato la nostra iniziativa così divertente come sembrava a noi. Avevano ragione. Mentre noi ci organizzavamo per provare agli inizi dell’anno nuovo, Elmas fu bombardata dagli aerei inglesi, e ci furono sei morti. A Cagliari non successe nulla, ma si erano sentiti i colpi per tutta la città, e la gente rimasta nelle case si aspettava qualcosa di brutto da un momento all’altro. Non c’erano rifugi antiaerei a Cagliari, non li aveva costruiti nessuno, perché chi ci pensava che noi potessimo essere importanti, c’era il mare di mezzo, in Sardegna non si decideva niente, bombardare noi ci sembrava una perdita di bombe. Ma evidentemente non era così per la contraerea americana. Il 7 febbraio ci passarono in testa almeno 50 aerei, e a titolo di avvertenza tirarono bombe di nuovo a Elmas e tutto intorno alla

città. Fino a quel momento avevamo avuto freddo, avevamo avuto anche fame, ma non avevamo ancora avuto veramente paura. Gino diceva che era segno che la guerra stava finendo davvero, ma io pensavo che invece per noi era cominciata in quel momento, e con la gente del quartiere decidemmo di trovarci un rifugio dove andare quando i bombardamenti veri e propri fossero cominciati sul serio. C’era una specie di grotta sotto Piazza d’Armi, una vecchia cava romana sopra alla quale avevano costruito le case, ma l’apertura per andare sotto era rimasta, nascosta dietro un cespuglio di capperi, e sotto c’era un certo numero di stanze scavate nella roccia, e un incredibile lago sotterraneo con l’acqua chiara e dolce, la potevi bere, e talmente profonda che ci potevi magari anche navigare con un chiattino piccolo, se volevi. L’unico problema era che dal soffitto delle grotte cadeva di continuo acqua come se piovesse, e a causa di questo non potevi starci per molto tempo; ma se uno deve scegliere tra pioggia di bombe e pioggia di acqua, all’umidità alla fine non è che ci fai troppo caso. Il problema era che il 7 febbraio le sirene per avvisare che era in arrivo un bombardamento non avevano funzionato, quindi ci prendemmo l’abitudine di guardare il cielo, sperando che il tempo di avvistamento fosse sufficiente per raggiungere le grotte prima che gli aerei raggiungessero noi. Ma non avevamo nessuna intenzione di rinunciare ai nostri progetti, o di stare chiusi in casa a guardare la finestra tutto il tempo. Il patto era che durante il giorno avremmo provato al teatro, e che uno di noi

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stesse sempre sulla porta a turno ad ascoltare il cielo, perché altrimenti da dentro non ci saremmo resi conto di niente. Adesso sembra strano dire che mentre la città si preparava ad essere bombardata, noi provavamo una commedia in un teatro, ma se non hai visto la guerra, non sai che ti costringe a inventarti normalità imprevedibili. Potevamo anche scegliere di vivere sempre con le mani sulla testa terrorizzati dalla morte che incombeva dal cielo, ma in quel momento scegliemmo invece di costruire una cosa che avrebbe visto la luce solo a combattimenti finiti: era il solo modo che avevamo per fare resistenza alla paura, e di paura ne avevamo tanta. Per dieci giorni andò avanti così, e provavamo e provavamo anche se le parti ormai le sapevamo quasi a memoria. Durante il giorno a volte capitava che qualcuno degli sfollati restasse dentro il teatro nel palchetto, a dormire o mangiare il poco che si trovava, e così noi ci abituavamo a recitare davanti ad occhi estranei. Quando avevamo cominciato a pensare che il peggio fosse passato, il peggio arrivò sul serio. Mercoledì 17 Febbraio 1943 le fortezze volanti e i caccia pesanti passarono su Cagliari alle 2 del pomeriggio, e facemmo appena in tempo a raggiungere le grotte prima che gli aerei americani sganciassero a tappeto sul centro della città un gran numero di bombe di medio calibro e di spezzoni incendiari. In via Sant’Efisio, tra la chiesa di Sant’Anna e quella di Santa Restituta, morirono 96 persone che non avevano fatto in tempo a trovare le grotte, o non ne conoscevano l’esistenza. 255 rimasero ferite, e la città era in ginocchio. Noi da sotto il pavi-

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mento di Piazza d’Armi avevamo sentito i boati per quasi quaranti minuti, e le nostre madri non avevano permesso che uscissimo prima che fosse passata almeno un’ora dalla fine del bombardamento. Uscimmo bagnati come pulcini, e mentre la gente correva alle proprie case per vedere se erano rimaste in piedi, la prima cosa che facemmo noi fu andare a vedere che cosa ne era stato del teatro civico. Non so grazie a quale invocazione, ma stava ancora in piedi. La caduta degli ordigni si era concentrata soprattutto sul porto, e la sua conservazione ci sembrò un miracolo, un segno del destino, o più probabilmente della protezione di San Saturnino. L’essere vivi e avere ancora intatto quello che per noi era il punto di partenza della futura ricostruzione ci rendeva felici nonostante tutto, e anche se passammo il resto del giorno a dare una mano a tutti quelli che non erano morti, non smettemmo un attimo di guardare il cielo per timore che tornassero gli aerei a finire il lavoro. Per una settimana stemmo attenti specialmente alle ore del primo pomeriggio, perché avevamo capito che erano quelle preferite per gli attacchi, arrivati sempre tra le due e le tre. Io me li immaginavo quei piloti che si sedevano a tavola a mangiare alla una e poi, in fase digestiva quando il resto delle persone si lascia prendere dal torpore della digestione, con la pancia piena questi saltavano sugli aerei e venivano a lanciarci le bombe. Scékspir da quel giorno cominciò a dire che

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ormai la guerra era alla svolta finale, e anche noi dovevamo darci da fare, e fare una prova generale per essere pronti, perché ormai – lo sentiva – era questione di giorni. Si decise quindi che la prova definitiva sarebbe stata al mattino di venerdì 26 febbraio, prima di pranzo, molto prima degli aerei, così nessuno avrebbe dovuto restare fuori a fare la guardia. Alle dieci del mattino eravamo pronti sul palco, nei palchetti c’era qualche persona che sapeva cosa dovevamo fare, e dentro il teatro c’era il solito silenzio irreale, lo stesso che ci deve essere dentro a una scatola buttata nel fuoco, finchè il fuoco non arriva a mangiarsela dentro. Fu una grande prima la nostra, Antonio Garau s’aristanesu sarebbe stato fiero di vedere che bel lavoro avevamo fatto con Is Campanas de Santu Sadurru. I 4 gatti che c’erano a spiarci risero persino, e ci sembrò una cosa bellissima che qualcuno potesse ancora trovare una risata nel macello che era Cagliari nel febbraio del ‘43. Prima dell’una eravamo fuori dal teatro correndo come capre tra le macerie, soddisfatti di noi e del sole che nonostante il freddo cane trovava il coraggio di illuminarci lo stesso. La primavera e la pace non erano mai state più vicine, o così ci sembrò in quel momento. Ma ci sembrava male. Alle tre del pomeriggio una ventina di B17 arrivò su Cagliari da Capo Carbonara vomitando 50 tonnellate di bombe sulla linea immaginaria tra Bonaria, Castello e Stampace. Per meno di dieci minuti il cielo fu pieno di zanzare di ferro che facevano un rumore infernale, e io non pregai mai come quel giorno. Quando se ne andarono il bollettino disse che c’erano

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stati 73 morti e 286 feriti, che il Teatro Civico era stato sfondato completamente e che il Bastione di San Remy, colpito da 3 bombe, aveva perso l’arco con parte delle scale. Io invece quel giorno persi Antonino Ghisu detto Gino e anche Torràu Scékspir, che morì a sedici anni in piazza del Carmine in una buca larga otto metri che aveva fatto una bomba sola. Quando la guerra dopo qualche mese finì davvero, mi sembrò che non servisse più a nessuno, adesso che non c’era lui a dire come e quando dovevamo fare la scenetta per la ricostruzione. È strano, ma anche se adesso il teatro civico è stato rimesso a posto quasi come lo conoscevamo noi, io quando lo guardo mi ricordo del freddo cane di quell’inverno del ’42, di Gino e di Brunetto, di Franziscu, di Giulio e di Antioghedda, e non posso fare a meno di pensare che puoi rimettere a posto quasi tutto. Ma tutto no.

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A CIELO APERTO

Michela Murgia

Sono nata in Sardegna, e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe. C’è tempo. Nel 2006 ho pubblicato per la ISBN edizioni Il Mondo deve sapere, il diario tragicomico di un mese di lavoro alla Kirby. Nel 2007 ho collaborato alla stesura del soggetto e della sceneggiatura cinematografica del film Tutta la vita davanti, ispirato al libro. Ho scritto per Marie Claire, Diario, L’Espresso, il Manifesto, Formiche, PeaceReporter, Argo, l’Unità, Liberazione, Epolis e il magazine on line Emigrati Sardi. Ho una rubrica fissa sul settimanale L’Arborense, e collaboro con JobTalk, il blog sul lavoro del Sole24Ore. Miei contributi sono apparsi sulla Smemoranda 12 mesi 2009 e sul Dizionario Affettivo della Lingua Italiana (Fandango edizioni). Nel 2007 ho scritto per l’antologia sull’identintà sarda Cartas de Logu, curata da Giulio Angioni e edita dalla CUEC. Nel 2008 è uscito per i Tascabili Einaudi Viaggio in Sardegna - undici percorsi nell’isola che non si vede, una guida narrativa per perdersi in Sardegna inserito nella collana Geografie. Nello stesso anno ho scritto anche per l’antologia Questo terribile intricato mondo, una raccolta di dodici racconti politici uscita per i supercoralli di Einaudi. Nel 2009 sono usciti miei racconti sulle antologie Sono come tu mi vuoi (Laterza Contromano), Lavoro da morire (Einaudi ET) e nella raccolta Contos che accompagna il documentario Passaggi di tempo di Gianfranco Cabiddu (Fandango Libri).

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MARCELLO FOIS

DOVE SOFFIA MAGGIO

Dove soffia

maggio Ci sono giorni di maggio in cui il pallore dell’aria ricopre la campagna di una tristezza vaghissima. E può accadere di convincersi che sia proprio quella malinconia sottile a determinare il senso di qualcosa di indefinito, come un nodo alla gola. Ecco, in quel maggio, in quel preciso giorno, forse solo per un istante, si sentì la febbre sottile del mutamento. Una patologia necessaria, un passaggio scontato. I vecchi dicevano che se ci si trovava in campagna in quel preciso istante si poteva sentire con chiarezza lo stridore del seme che si spaccava lacerato dalla lama del germoglio richiamato verso la luce da una potenza incontrastabile. E si poteva sentire il canto della gemma e il lamento della terra che era timore e sollievo. Andando avanti in quel lasciarsi andare si poteva imparare ad interpretare il linguaggio estroso delle bestie e dare il via alla corsa impazzita dei presentimenti.

Basilica di San Saturnino

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Marcello Fois

Ora fate conto che in un giorno di maggio di questi, una donna non più giovane, reduce da un sonno agitato, sbalzata fuori dal suo letto prima della luce da un pensiero tremendo, condotta all’aperto dal giorno che nasce e da un’inquietudine insanabile; ecco fate conto che quasi senza accorgersene questa donna si sia trovata poco fuori dalla città, o dal paese, o dal villaggio, in piena campagna, nella solitudine grassa dell’aroma del timo e del finocchietto selvatico, nella desolazione appassionata del rovo e del cardo, nell’attesa tremante del bocciolo di borragine e della capsula di euforbia. O nel deserto dove dicono che non ci sia vita, ma che invece brulica di silenzio. Tutto intorno a lei concorre a definire un sentimento che non ha nome. Nel costato di questa donna batte un cuore come un uccello in gabbia. Si è alzata, è uscita di casa, per non dovere spiegare cosa sente, per non essere costretta a raccontare il peso che la tormenta. Lei sa dove vuole arrivare, ma le pare di correre contro al tempo quando le case non soffocavano lo spazio, quando correre significava respirare il vuoto. Generazioni su generazioni hanno contribuito a sostanziare quell’isolamento, la Storia ha soffiato contro quell’edificio che è quasi una figura dell’anima.

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MARCELLO FOIS

Comunque è stato un brutto sogno, talmente brutto che svegliarsi improvvisamente è stato sì precipitare, ma, allo stesso tempo salvarsi. Perciò quella donna, ancora al buio si è vestita e ha corso come ha potuto verso la campagna come fosse mare aperto. Cose troppo, troppo brutte aveva visto in sogno: bambini partoriti in un catino arrugginito, i suoi figli che mostravano i toraci laceri, e cani col muso schiumante. Così, in fretta, all’alba, nella semioscurità del giorno che si annuncia, si veste alla cieca e corre fuori… Poi ha visto una montagna di cadaveri quella donna, e non si sa nemmeno dove li ha visti, perché erano ammucchiati in una stanza chiusa ed erano tutti giovani, tutti figli di qualche povera madre che li aspettava chissà dove. Perciò, sbarrando gli occhi contro il soffitto della sua stanza da letto, quella donna ha spalancato la bocca come se non riuscisse più a respirare e ancora, nonostante gli occhi aperti e il sonno rotto, sente in corpo una pena impossibile da sopportare. Si mette a sedere sul letto e guardandosi intorno si rende conto di essersi finalmente svegliata e vede suo marito che ancora russa, così conclude che non sono ancora le cinque. Ecco, scivola fuori dal letto come una biscia, nonostante la camicia da notte cerchi di trattenerla, con un colpo di reni si è messa in piedi. Il gelo del pavimento le rivela l’orrendo amaro in bocca e la mano che le stringe lo stomaco. Sa lei quello che deve fare, sa lei che se non uscirà da quella casa e non correrà a mettersi in salvo, l’intero edificio potrebbe imploderle addosso e

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DOVE SOFFIA MAGGIO

sui suoi figli e su suo marito che dorme. Perché quella donna considera indissolubili quanto ha visto in sogno e la sua presenza in casa. Si è convinta che solo uscendo da lì potrà salvare la sua famiglia, il suo tetto, dalla distruzione. In cucina, nonostante la penombra, vede il chiarore del piano di marmo del tavolo e del foglio di giornale in cui si annuncia il conflitto che tutti chiamano mondiale. Perciò adesso, sotto a quanto rimane di quelle volte, si sente protetta dalla guerra che sempre ci accompagna… Come penetrare nell’occhio del ciclone dove tutto è sereno, protetta da quel senso di pace prova a respirare. Qui passarono i Cartaginesi e i Romani e gli Aragonesi. Qui fu pace, anche quando intorno era furore. Contro se stessi, contro la propria paura: è qui che bisogna stare. Mondiale voleva dire che da tutto il mondo sarebbero stati chiamati a combattere. Qualcuno se li ricordava ancora i reduci di tutte le battaglie, senza una mano, senza un occhio, e non si trattava di guerre mondiali, figuriamoci. A quella donna la parola “mondiale” sembra enormemente peggiore, peggiore della parola “guerra”. Che a guerreggiare, con se stessa, con i vicini, con le confessioni, con i trasferimenti improvvisi, c’era abituata. Ma il mondo, dio santo, il mondo era un’altra cosa. Per questo quando il marito era tornato nel pomeriggio a dire che ormai la Guerra Mondiale era scoppiata lei all’inizio tirò un sospiro di sollievo che tanto, si disse, noi che abbiamo a che fare con questa guerra? E invece no, perché spiegava il figlio grande, quando si dice mondiale si

dice tutti. Anche quelli che apparentemente se ne restano in pace a casa loro e fanno finta che nulla, nulla succeda. Guerra e mondiale pensò la donna, le parole più brutte che esistano. E mentre stava facendo questo pensiero, ecco che il marito, per confermare quanto andava dicendo sventola la prima pagina del quotidiano dove c’è scritto GUERRA, in nero come se fosse la dicitura di una lapide. Lei si segna e sospira per trattenere fuori di sé il brutto pensiero che la sta avvolgendo, ma è una lotta impari. Infatti appena abbassa la guardia ecco che un

macigno le frana sul petto. Per tutto quel giorno quasi non parla, ma non certo perché non abbia niente da dire, al contrario tutto quello che ha da dire la spaventa. Ora misura con un altro metro tutte le dicerie. Di uomini che vengono precettati a forza, di bastimenti carichi di soldati come fossero animali, di posti chissà dove in cui quelle creature sono portate a morire. Di colori inadeguati, di religioni ina-

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MARCELLO FOIS

deguate, di razze inadeguate. E di governi che dicono che i figli non sono più figli, ma soldati. Ancora raccontavano che in guerra gli uomini recitano in terra l’ira dei cieli, con tuoni e lampi, e tremori. E che alla fine vince solo chi muore di meno. Per tutta la notte si è detta queste cose, senza capire come mai intorno a lei possa regnare il silenzio, come mai tutti gli altri nella casa possano riposare. Solo lei ha paura delle parole? Quella donna ha sepolto molti dei suoi figli e molti altrui ne ha visto seppellire. E sa che maledizione senza rimedio sia sopravvivere alle proprie creature. E’ una valanga che fa crollare gli edifici, un alito velenoso che uccide col respiro, una piena che allaga e trascina via, una tormenta che frusta le rocce. Quella donna conosce ogni catastrofe nella sua

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carne. E sa che l’unico modo per evitare il crollo è quello di fuggire da quella stanza, da quella casa, da quelle parole: guerra e mondiale. Ma dove andare? Mondiale significa dappertutto… Corre fuori. Corre come può, tenendosi la tunica, la gonna, in grembo perché non l’intralci. Lasciando che il fazzoletto le scivoli via sul vicolo. Lontano, lontano deve andare. Ancora di più perché è ancora troppo vicina alla sua casa. Lontano, dove prima era aperta campagna o, persino, deserto, dove soffia maggio, dove nella notte fu decapitato un martire bambino. Eccola che corre incontro alla sua pace e sussurra una preghiera: fammi abbastanza forte da resistere a me stessa, fammi abbastanza debole da cedere alla pace. Eccola arrivata. Si siede sul pavimento e guarda in alto, per quanto la riguarda il mondo potrebbe essere crollato e con esso la stupida vanagloria di chi lo abita per un tempo risibile, ma lo tratta come se fosse immortale. Là dentro non succede nulla: è pace. Come è stato, come sempre sarà.

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Marcello Fois (Nuoro, 1960) è uno scrittore, commediografo e sceneggiatore italiano. Nel 1986 si laureò in italianistica presso l’Università di Bologna. Nel 1989 scrisse il suo primo romanzo, Ferro Recente che, grazie a Luigi Bernardi della Granata Press, fu pubblicato nel 1992 in una collana di giovani autori italiani, nella quale furono pubblicati anche i primi libri di Carlo Lucarelli e Giuseppe Ferrandino. Sempre nel 1992 pubblicò Picta, con cui vinse (ex aequo con Mara De Paulis) il Premio Italo Calvino; nel 1997, Per Nulla (con cui inizia la collaborazione con la casa editrice Il Maestra-

Marcello Fois

le), ricevette il Premio Dessì. Nel 1998, ancora per Il Maestrale, uscì Sempre caro, primo romanzo di una trilogia (proseguita con Sangue dal cielo e L’altro mondo), ambientata nella Nuoro di fine Ottocento e che ha come protagonista un avvocato, Bustianu, personaggio per cui Fois si è ispirato ad un avvocato e poeta nuorese realmente esistito: Sebastiano Satta. Con Sempre caro nel 1998 ha vinto il Premio Scerbanenco. Con Dura madre ha invece vinto nel 2002 il Premio Fedeli e nel 2007 riceve il Premio Lama e trama alla carriera. Oltre che alla narrativa, Fois si è dedicato anche alla sceneggiatura, sia televisiva (Distretto di polizia, L’ultima frontiera) che cinematografica (Ilaria Alpi. Il più crudele dei giorni), e al teatro per cui ha scritto L’ascesa degli angeli ribelli, Di profilo, Stazione (un atto unico per la commemorazione delle vittime della strage alla stazione di Bologna), Terra di nessuno e Cinque favole sui bambini (trasmesso a puntate da Radio 3 Rai). Dal suo racconto Disegno di sangue, pubblicato nel 2005 nell’antologia Crimini, è stato tratto un episodio dell’omonima fiction televisiva, trasmesso nel 2007 da Rai 2. Ha scritto anche un libretto operistico tratto dal romanzo di Valerio Evangelisti Tanit. Nel 2007, con il romanzo Memoria del vuoto, edito da Einaudi nel 2006, ha vinto il Premio Super Grinzane Cavour per la narrativa italiana, il premio Volponi e il premio Alassio 100 libri.

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GIANLUCA GIANLUCAFLORIS FLORIS

IL DUELLO

il

duello Il posto l'ho scelto io: è questo. Davanti a questa chiesetta. Anche l'ora l'ho scelta io. Al tramonto, tra poco. Gli ho detto: «vediamoci al tramonto in castello nella piazzetta davanti alla chiesa di santa Maria del Monte di pietà». Questa chiesetta è stata la sede dell'Arciconfraternita del Monte di pietà, che si preoccupava dell'assistenza dei condannati a morte. Quale posto più adatto? Poi io sapevo che questa chiesa oggi è custodita dal Sovrano Militare Ordine dei Cavalieri di Malta, e difendere il proprio onore è prerogativa di ogni nobile Cavaliere degno di questo nome. E allora eccomi qui ad attendere. Ad aspettare che arrivi l'ora.Tra poco, signori, assisterete al duello! Ad un vero duello al primo sangue in difesa dell'onore... del MIO onore!

Santa Maria del Monte

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I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

di Gianluca Floris

Un Cavaliere... un vero Cavaliere nobile e senza paura, armato del proprio onore e del proprio valore... Perché, sapete, io ho sempre un po' pensato di essere un cavaliere e di dover vivere la mia vita secondo quei dettami. Da molto tempo, da quando ero diventato in grado di corteggiare le donne, per la precisione, pensavo che una vita dovesse essere vissuta secondo i princìpi del codice cavalleresco, per essere una vita degna. La donna era da difendere davanti perfino alla propria vita, l'amicizia e la parola data dovevano essere rispettate a costo del proprio e dell'altrui sangue, la difesa della propria signorìa erano tutte cose da anteporre alla difesa della propria esistenza. Un cavaliere antepone l'onore anche davanti alla propria stessa vita. E io penso che nobile è chi il nobile fa. Gentiluomo è chi da gentiluomo si comporta. Io mi sono sempre sentito un gentiluomo, anzi, di più: appunto, un cavaliere. Pensavo a questo quando ho lanciato la sfida a quel pidocchio. Ed ero quasi sicuro che non avrebbe accettato la sfida. E invece oggi verrà qui. Tra poco qui assisterete al duello! Il sangue laverà quest'onta!!! Eppure non avevo mai pensato che ad un Cavaliere indomito, ad un onorevole difensore dei valori più alti della vita, potesse far un baffo un sentimento così basso come la paura... La pri-

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GIANLUCA FLORIS

ma volta che ho sentito il suo soffio nella mia gola, la prima volta che per un attimo mi si è fermato il fiato nel petto gonfio, non ci volevo proprio credere. Pensavo di poterla inghiottire come si fa con le pastiglie grosse, quelle degli antibiotici, che dopo passa tutto. La paura invece viene a tutti, e arriva sempre prima, raramente durante, e dopo scompare lasciando il posto all'euforia. E infatti il primo brivido di paura mi è venuto quando attendevo che lui scegliesse l'arma con la quale ci saremmo dovuti battere. Sapete quale era la mia paura? Che scegliesse un'arma con la quale io non ero pronto a battermi. Avevo il terrore che scegliesse la spada. Non lo so perché avrebbe dovuto scegliere quell'arma, ma le paure non sono mai razionali. Io avevo paura che i suoi famigli mi comunicassero di preparare la spada. Perché io, la spada, non l'ho mai frequentata. Lo so che un tempo tutti i gentiluomini avevano fra gli istitutori anche un maestro d'armi, ma oggi è diverso. Non abbiamo frequentato gli stessi collegi esclusivi, al massimo frequentavamo la stessa cricca... alla Carapigna o al Dettori... Ma tirare di scherma non è precisamente una cosa che noi gentiluomini di Cagliari abbiamo in comune. Noi gentiluomini di Cagliari abbiamo in comune il Dettori o il Cambosu... al massimo qualche squadra di pallacanestro o il tennis club. E non

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sarebbe la stessa cosa giocarsi l'onore a Tennis o con un giro di Francia a pallacanestro. No, non sarebbe la stessa cosa. Il duello è una cosa seria. E infatti, per fortuna, quello lì non ha scelto la spada, NO. Tra poco saremo qui a sfidarci a duello, ciascuno coi propri padrini e ci batteremo con la pistola!! Non andatevene... un poco di pazienza ancora e assisterete al duello! Al vero Duello!! Ma voi lo sapete come funziona veramente un duello? Intendo un duello vero, di quelli che ci si fa male? Io ho scelto la modalità del duello con la pistola con spari alternati. Ci metteremo a venti metri l'uno dall'altro poi a me toccherà il primo colpo. Poi, se non l'avrò colpito, toccherà a lui. Se nessuno dei due ha colpito l'altro, ognuno farà un passo avanti verso l'avversario e così via fino a che uno dei due non sarà colpito per primo, così è stato deciso. Sarà un duello al primo sangue.

E, visto che c'ero, ho scelto come modello di pistola una delle più potenti che ci siano in circolazione. Perché voglio essere sicuro che, se il mio colpo gli scalfisce la spalla, gli porterò via anche mezzo braccio.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

IL DUELLO

Me l'hanno spiegato come fare, e mi sono anche allenato a farlo. Si prende la mira con il braccio teso allineato con la spalla. Si mira al centro del petto e si fa fuoco entro dieci secondi dal segnale del giudice. Senza pensarci troppo. Ché voglio che voi oggi vediate il colore del sangue. Voglio che vediate quello smidollato piangere per il dolore. Le armi le ho scelte io, l'offeso. Qui, tra poco, il duello! Qui, davanti alla chiesa dei cavalieri, degli ultimi veri cavalieri. Come io mi sento nel cuore: un cavaliere che combatte senza paura per il proprio onore! Senza PAURA! E invece, solo dopo che si era tutto deciso, solo dopo che avevamo stabilito anche le armi da dover usare, è arrivata la paura più feroce, quella che ti morde la pancia e che ti accorcia il respiro, che te lo ferma in gola, in mezzo alle spalle. La paura che dapprima me lo sussurrava, ma che poi me lo urlava nelle orecchie: "E se dovessi essere io il primo a dover morire? Se fosse lui il primo a mandare a segno il colpo?" Non avevo mai pensato di poter morire, ma adesso era quello il vero urlo della mia paura. Che mi assordava qualunque senso, che ancora adesso mi fa star male e che non mi permette di pensare ad altro... Io adesso, a pochi minuti dal duello, ho terrore, ho paura di dover morire. Ho paura che queste facce che vedo, quest'aria che respiro, siano le ultime cose che sentirò. Ho terrore di posare lo sguardo sulle cose che mi potrebbero sopravvivere, sulle persone che potrebbero assistere alla mia morte... Ho paura. Lo so che non è dignitoso e che non

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GIANLUCA FLORIS

è onorevole ma ho paura, paura di morire. È la paura più brutta, quella della morte, la paura che veramente ti paralizza... Ma come, direte voi, non dicevi di aver vissuto tutta la vita come un vero cavaliere? E adesso, che devi combattere e mettere da parte ogni esitazione in nome dell'onore, ti fai paralizzare dalla paura? Ma su coraggio! Combatti! Mi direte voi. Tra poco sarà l'ora del duello!!!! Si fa presto a dire: coraggio. Si fa presto a dire: Onore. Ma cosa è poi l'onore se si perde la vita? È meglio morire con onore o vivere con l'onta? Sì, sì lo so che un tempo, per tutta la mia vita ho affermato che fosse cento volte meglio morire con onore. Ma ora la morte me la vedo di fronte e sono impaurito, paralizzato, terrorizzato. Allora sapete che cosa mi è venuto in mente? Sapete perché sono nascosto qui in quest'angolo come un bandito, come un rapinatore, come il più viscido dei ladri? Perchè mi passa per la mente un'idea: io sto qui nascosto, e quando lui passa di qui, senza accorgersi di me, gli sparo all'improvviso. Senza aspettare il duello regolare e senza dargli la possibilità di sfuggire alla mia giustizia, alla punizione giusta per avere insultato me e la mia vita. Ho pensato questo: che quel pidocchio in realtà non vale nulla, non è un gentiluomo come me, non ha un animo nobile come il mio. Ho pensato che non è uno che si è mai messo il problema di rispettare alcun codice cavalleresco. Ho pensato che quindi lo devo semplicemente punire per il fatto di aver insultato il mio onore davanti

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a tutti. Per quello lo punirò. Come arriverà in questo spiazzo l'ultima cosa che vedrà sarò io che gli punto la pistola contro. Poi gli piazzo un proiettile di Phyton in mezzo al petto. Tutto qui. Tra poco, all'ora del duello. Qui! E a chi mi opporrà il fatto che è un comportamento poco onorevole, risponderò alla francese: "je m'en fout!!". Quel pidocchio ha insultato il mio onore e avrà la punizione che si merita. E sarò io, "moi même", a punirlo.

Che senso ha difendere il proprio onore con un atto decisamente vigliacco? Volete saperlo? Beh, di spiegazioni e di giustificazioni ne posso trovare a bizzeffe. Per esempio: di che onore vogliamo parlare? Io sono sardo e, da quando la nostra terra è stata abbandonata dalla corona di Spagna, durante la guerra di successione spagnola, non abbiamo più avuto nessun onore. Non abbiamo più

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

IL DUELLO

avuto nessun signore che ci difendesse, al quale obbedire, ribellarci, al quale affidare il futuro nostro e delle nostre terre. Non abbiamo avuto una gloriosa Corona come quella di Spagna che ci potesse fare da bandiera. Nessun onore, più. Non abbiamo avuto onore, noi sardi, quando da allora ci siamo piegati al volere di qualsiasi conquistatore e padrone, che fosse Asburgo o Savoia, che fosse tedesco o americano o canadese. O italiano. E non venitemi a parlare dei sardi che sono eroicamente morti durante la grande guerra per difendere la loro patria... BALLE! Lo avete letto tutti Lussu, lo avete letto tutti Cicito Masala... Lo sapete benissimo che era una generazione di sardi che gli ufficiali piemontesi imbottivano di alcool e di droga

perché trovassero l'incoscienza di andare a farsi sparare all'uscita delle trincee!! Lo sapete che non andavano all'attacco per difendere l'onore della patria, ma perché se si fermavano o se tornavano indietro, erano gli altri reparti di "italiani" compatrioti a sparare su di loro. Non ce n'è onore del mandare a morire una generazione intera. Non parlatemi di quell'onore! Non ne ho io di onore sardo. Io appartengo alla terra che ha venduto la salute dei suoi figli in cambio delle fabbriche di veleno petrolchimico, io appartengo a quella terra che ha permesso di usare sulle sue spiagge e sulle sue acque i proiettili radioattivi in cambio di qualche stipendio. Io sono sardo e di onore da difendere, veramente, non ne ho.

E poi io sono anche italiano: io appartengo a quella nazione che ha cessato di farsi ammirare dalla storia da più di duemila anni. Appartengo alla razza degli italiani, gente che non

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GIANLUCA FLORIS

apprezza e non sa tutelare le sue ricchezze, gli italiani che hanno sempre fatto un'arte della ricerca del vantaggio personale a discapito del bene comune. Io sono di stirpe italiana, di quella Italia che ha barattato la democrazia per allearsi con il più forte, anche se era un folle assassino. Appartengo a quell'Italia che, pur di inseguire uno sciagurato vantaggio personale, ha promulgato le leggi razziali. Io appartengo a quell'Italia che giudica la gente in base alla provenienza etnica, io di onore non ne ho più da almeno venti secoli. Io sono italiano e non ho nessun onore da difendere. L'unico onore che conosco è quello del mio personale vantaggio!!! Io sono italiano e onore non ne voglio…Io sono furbo!! Ma lo sapete che sono tutte scuse, lo sapete che non avrò mai il coraggio di fare quello che vi ho detto. Io rimarrò ancora un po' nascosto nell'ombra e me ne andrò via di nascosto senza farmi vedere. Perché non ho nemmeno il coraggio di fare quella azione così vigliacca. Io, di quel tipo di coraggio, non ne ho. Io, di quel tipo di onore da "Adelante caballero!!" non so più che farmene, e ve lo voglio dire.

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Perché credo che ci sia un tempo per ogni cosa sotto il sole e credo che oggi non sia più il tempo dell'onore a disprezzo della vita. Credo che oggi il tempo sia diverso, che dopo il tempo della guerra sia venuto il tempo difficile, duro, disperato, della pace. Io scelgo di restare vivo e di non ammazzare più nessuno.

I RACCONTI DI MONUMENTI APERTI

Gianluca Floris

Gianluca Floris inizia la sua attività come autore di testi per la radio a soli sedici anni. In seguito inizia la sua attività di sceneggiatore e autore di testi per l’audiovisivo, attività che continua tutt’oggi, alternando una intensa produzione di racconti non destinati alla pubblicazione. Nel 2000 pubblica il suo primo romanzo “I Maestri Cantori” per le edizioni Il Maestrale di Nuoro. Una spy-story utilizzata come pretesto per raccontare il mondo della lirica con le meschinerie e le debolezze che di solito non passano oltre il sipario. Nel 2003 debutta come autore teatrale con la piece “Radiologo” a Torino e nel 2005 scrive e dirige, con il coregista Lorenzo Fontana, lo spettacolo “Il Lato Destro” per lo stesso Teatro Baretti nel capoluogo piemontese. Ipotizzando come vera la presenza di un operatore professionista nel teatro della strage di via Fani, si ricostruisce la vita di un mercenario degli anni settanta e le dinamiche che lo avrebbero portato a partecipare alla azione di fuoco che permise il rapimento di Aldo Moro. Da questo lavoro teatrale Gianluca Floris nel gennaio 2006 trae l’omonimo libro “Lato Destro” per la casa editrice cagliaritana CUEC. Il 19 settembre del 2006 esce il suo primo romanzo per una casa editrica nazionale: “La Preda” per l’editore Mondadori nella collana Colorado Noir. Il 24 febbraio del 2009 esce per PIEMME editore il suo secondo romanzo per un editore nazionale ed il suo quarto in assoluto: “L’inferno peggiore”. Gianluca Floris svolge attività di formazione e di aggiornamento per allievi e docenti curando seminari e corsi di analisi del linguaggio sia letterario che audiovisivo.

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PRIMO QUADERNO

COMUNE DI CAGLIARI

PROVINCIA DI CAGLIARI

CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA

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