connectionS | issue # 2
CONNECTIONS | issue # 2
Maps è un magazine indipendente, online e cartaceo, con cadenza trimestrale, che si pone l’obiettivo di indagare l’area del Mediterraneo partendo dalla pubblicazione di progetti fotografici. Tema del secondo numero è CONNECTIONS: l’esistenza intesa come trama complessa di imprescindibili relazioni. Relazioni come connessioni tangibili o metafisiche. Connessioni umane, connessioni con i luoghi, connessioni con la natura, connessioni con la memoria. Connessioni come geografie emotive. Maps is an independent online and printed magazine, published quarterly, that aims at researching and showcasing photographic projects about the Mediterranean area. The second issue is all about CONNECTIONS: the existence thought as a complex network of unavoidable relations. Relations as tangible or metaphysical connections. Human connections, connections with places, connections with nature. Connections with memories. Connections as an emotional geography.
C re d i t i / C r e d i t s © Copyright Maps Magazine, 2016 Connections | Issue #2 - Settembre / September 2016 Tutti i diritti sono riservati / All rights reserved Editors-in-chief Arianna Angeloni Teodora Malavenda Logo e grafica / Logo and graphic design Sara Bellia Contributor / Photo Editor Ilaria Crosta Traduzioni / Translations Keith Dobinson Sibilla Maggio Caterina Ramella Gal Autori / Authors Ido Abramsohn Emanuele Camerini Giacomo Fierro Flaviana Frascogna Francesco Levy Rumore Pair (Domenico D’Alessandro & Maria Palmieri) Alessandro Ruzzier Anna Saint Ange Rocco Venezia Guest writers Marina Freri Arianna Rinaldo Foto di copertina / Coverphoto Rumore Pair (Domenico D’Alessandro & Maria Palmieri)
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E d i t o r ' s No t e A r i a n n a A n g e l o n i & Te o d o r a M a l a v e n d a 6
Un t i t l e d A n n a S a i n t A n g e 16
No t e s f o r a s i l e n t m a n E m a n u e l e C a m e r i n i 28
H i c e t n u n c G i a c o m o Fi e r r o 36
Ne k y i a R o c c o Ve n e z i a 48
L a n d s c a p e’s v a r i a t i o n s A l e s s a n d r o R u z z i e r 60
M a p p i n g m i g r a t i o n s , m a p p i n g t h e f u t u re A r i a n n a R i n a l d o 62
B o u n d a r y a s a f r a m e R u m o r e Pa i r ( D o m e n i c o D ’ A l e s s a n d r o & M a r i a Pa l m i e r i ) 76
Un d e r t h e vo l c a n o F l a v i a n a Fr a s c o g n a 86
O b j e c t s : a t w o-p a r t d o c u m e n t a r y I d o A b r a m s o h n 96
A z i m u t h s o f C e l e s t i a l B o d i e s Fr a n c e s c o L e v y 108
Te s t o d i / Te x t b y M a r i n a Fr e r i
CONNECTIONS | issue # 2
E d i t o r ' s No t e A r i a n n a A n g e l o n i & Te o d o r a M a l a v e n d a / E d i t o r s - i n - c h i e f
Le connessioni, in ogni loro forma e declinazione, si sono rivelate fondamenta del nostro lavoro e un impulso costante per la nostra curiosità. In qualsiasi ambito, geografico o umano, le connessioni rappresentano il telaio, la struttura e la condizione necessaria su cui si costruisce ogni legame.
La tecnologia mobile favorisce lo spostamento e la ricezione di informazioni sempre più rapide e invasive; permette la condivisione delle mappe, dei percorsi e delle informazioni. In quest’epoca contemporanea di confini pericolosi e rotte esclusive, l’uomo sembra arrendersi a una misura che non gli corrisponde.
Il Mediterraneo stesso, macroarea geografica e culturale, focus del nostro percorso editoriale, si è sempre fondato su connessioni che, in tempi diversi, hanno assunto carattere specifico.
Guardiamo al Mediterraneo come a un sistema fortemente complesso ‒ e connesso ‒ nella sua profonda stratificazione. Questo aspetto ne fa una realtà in continua mutazione, in bilico perenne tra la tutela e la custodia delle tradizioni da una parte e l’innovazione dall’altra. Sono connesse le metropoli alle adiacenti aree industriali, connesse a loro volta alle aree rurali, dirimpettaie di una natura inattesa che l’uomo vuole ritrovare ricreando il legame perduto. Oggi questo legame originario con la natura si è espanso fino a raggiungere l’universo. Un luogo sconosciuto ed infinito che stiamo scoprendo rapidamente e che, grazie alle innovazioni tecnologiche, ci permette di guardare il nostro pianeta da punti di vista nuovi.
Furono connessioni quelle tra i vari porti commerciali, in tempi lontani e imparagonabili a quello attuale, che determinarono scambi, incontri, mescolanze e che gettarono il seme prezioso della promiscuità, antitesi della purezza, architrave portante di una realtà ampia e profondamente complessa. Furono connessioni quelle tra i coloni greci e le popolazioni native della Campania, della Calabria, della Puglia e della Sicilia che sancirono l’inizio di un’epoca culturalmente florida, la quale diede un impulso fondamentale allo sviluppo di civiltà. Furono connessioni, secoli dopo, quelle dell’Impero Romano in piena espansione. Connessioni tra invasori e invasi, tra modi di vivere e vedere il Mondo, tra lingue, usanze e tradizioni. Per mare, per terra, per aria e nell’universo, per conoscere luoghi misteriosi e inesplorati. Le connessioni hanno contrastato, in ogni epoca, la tendenza innaturale all’isolamento. Hanno garantito trasformazioni umane e sociali, sviluppo ed espansione; sono state anche portatrici di rivalità, tensioni e conflitti. Connessioni garantite da missive, da corrispondenze epistolari, da strumenti sempre più rapidi e dal nascere di nuove, grandi, idee di libertà e di riscatto. In tempi più recenti sono state proprio le connessioni digitali, in prima battuta, a far scoccare la scintilla di quella Primavera Araba, innescata da speranze e desideri.
La tecnologia, i telescopi, gli shuttle ci restituiscono costantemente immagini oniriche del nostro mondo. Una Terra in cui non esistono confini ma solo geografie celesti che risplendono come diamanti e che racchiudono i misteri di nebulose e altri mondi. Lì le connessioni appaiono eteree e contemplative, dominate unicamente da forme e conflitti cosmici. Dallo spazio anche le popolazioni si mescolano, appaiono come luci dai colori brillanti delle galassie ma la Terra respira e continua ad alimentare le sue dinamiche secolari, la sua veemenza, i suoi buchi neri, il suo ardore. Buona lettura.
Connections, in every form and declination, have always been the foundations of our work and a constant impulse to our curiosity. In any field, both geographic or human, connections represent the framework, the structure and the necessary condition to build relations.
Mobile technology enables moving and receiving information increasingly faster and in a more invasive way; it allows sharing maps, routes and information. In these contemporary times of dangerous borders and exclusive routes, people seem to give up to a measure that doesn’t match.
The Mediterranean, a macro geographical and cultural area, focus of our editorial path, has always been based on connections that, at different times, have acquired a specific character.
We look to the Mediterranean as a highly complex system – and connected – within its deep stratification. This aspect makes it a constantly changing reality, constantly hanging between protection and custody of traditions on one hand and innovation on the other. Cities are connected to the adjacent industrial areas, which are connected to the rural areas of unexpected nature which people want to find recreating the lost bond. Today this original bond with nature has expanded until reaching the universe. An unknown and endless place that we are discovering quickly and that, thanks to technological innovations, allows us to look at our planet from new points of view.
Those links between various trade ports, in ancient times, were connections, that are now incomparable to current ones which determined exchanges, meetings, mixtures and threw the precious seed of promiscuity, antithesis of purity, bearing lintel of a wide and deeply complex reality. Those connections were among the first Greek colonists and native people of Campania, Calabria, Apulia and Sicily which marked the beginning of a prosperous era as far as culture is concerned, which gave a fundamental impetus to the development of civilization. Connections were, centuries later, the Roman Empire in full expansion. Connections between invaders and invaded people, including ways of living and perceiving the world, comprising languages, habits and traditions. By sea, land and by air and in the universe, in order to discover mysterious and unexplored places. Connections have countered, in every age, the unnatural tendency to isolation. They guaranteed human and social transformations, development and expansion; they were also carriers of rivalries, tensions and conflicts. Connections, which have been guaranteed by letters, correspondences, by increasingly faster instruments and by the arise of new and great ideas of freedom and redemption. In more recent times digital connections were just those which made, in the first instance, the spark of the “Arab spring” shooting out, triggered by hopes and wishes.
Technology, telescopes, shuttles return to us, constantly, dreamlike images of our world. A land where there are no borders but only celestial geographies that shine like diamonds and encases the mysteries of nebulae and other worlds. There, the connections appear ethereal and contemplative, only dominated by forms and cosmic conflict. Even from space populations blend, they appear as galaxies’ brightcoloured lights but the Earth breathes and continues to fuel its secular dynamics, its vehemence, its black holes, its ardor. Enjoy it.
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Un t i t l e d Anna Saint Ange
Con il termine endemico, in biologia, ci riferiamo a determinate specie, animali o vegetali, circoscritte ad un dato territorio. La storia dell’uomo ha profondamente cambiato questi confini. Prendendo e spostando siamo riusciti a ricreare habitat che altrimenti sarebbero distanti molti chilometri, al fine di creare ed implementare il nostro, portando tutto ad una dimensione più umana.
With the term Endemic, in biology, we refer to a plant or animal that is prevalent or limited to a particular locality.
 Man's history has profoundly changed these borders. By removing and displacing we have been able to recreate habitats, that would have otherwise distant kilometres apart to create and implement what is ours and bringing everything to a more human dimension.
Il progetto in particolare nasce dal bisogno di riscoprire i miei luoghi, la mia natura, preservata e conservata, a volte semplicemente reinterpretata.
The project in particular was born from a need to rediscover my habitat, my nature, preserved or sometimes simply reinterpreted.
annasaintange@outlook.com
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No t e s f o r a s i l e n t m a n Emanuele Camerini
Questo è un viaggio iniziatico.
This is a voyage of initiation.
È il racconto dell’accettazione progressiva di un’altra parte di sé stessi, dell’uguale in mutazione; in una parola, del nuovo, in una delle sue molteplici forme. Si decide ad affrontare le emozioni attraverso le immagini di famiglia e le fotografie scattate durante un viaggio, intrapreso proprio alla riscoperta della memoria e dei ricordi legati alla figura paterna. Camerini è come un archeologo: le schegge della propria esistenza sono andate a finire nei punti più profondi della memoria e, per ricostruire questi ricordi, l’autore attraversa fisicamente i luoghi dell’infanzia.
It’s a story of the gradual acceptance of another part of the self, of the twin in mutation; in one word, it is about the new, in its manifold meanings. The images were created on a singularly-focused journey that was undertaken to rediscover memories connected to the artist’s father. Through family photographs and his own dreamlike images, Camerini accesses his emotions and at the same time behaves like an archaeologist ‒ the splinters of his own existence are buried in the deepest layers of his memory, and in order to reconstruct these memories, he travels again through the places of his childhood.
Per questo ascende le montagne che era solito frequentare durante le vacanze estive, dorme in tenda e va a rivedere gli stessi panorami. Raccoglie pezzi che si trasformano in isole di arcipelaghi sconosciuti, intrattiene piccole corrispondenze digitali con il padre che, estraneo al suo viaggiare, chiede, da genitore, dove dormirà, cosa mangerà. Vola, e nel volare si posa nei punti instabili del suo io. Il racconto è lieve e delicato e il resto della famiglia resta in silenzio. Per parlare al padre, Camerini usa la macchina fotografica e le immagini si trasformano in un linguaggio, in un tentativo di spiegazione. Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente, citando Barthes, e come la memoria dell’infanzia è legata indissolubilmente a quelle immagini di famiglia, l’autore utilizza questo linguaggio per fissare attimi di esistenza. Si registra nel suo cambiamento: è un uomo e crea un autoritratto, uno specchio del sé.
He climbs the same mountains that he used to visit during summer holidays; he sleeps in a tent, and contemplates these familiar landscapes; he collects fragments that shape themselves into unknown archipelagos; he has brief digital correspondences with his father, who ‒ unaware of his travels ‒ asks, as a parent would do, where he will sleep, what he will eat; he flies, and while flying he lies on the precarious sides of his own self. The narrative is soft and delicate, and the rest of his family remains silent. To speak to his father, Camerini uses his camera, and the pictures become a whole new language, an attempt at explanation. To quote Roland Barthes, “What the Photograph reproduces to infinity has occurred only once: the Photograph mechanically repeats what could never be repeated existentially”, and as the childhood memory is indissolubly bound to those family pictures, Camerini uses this language to secure moments of his existence. He registers the change within himself: he’s a man who creates a self-portrait, a mirror of himself.
L’esperienza mistica, l’ascesa, la solitudine diventano momenti necessari all’auto-realizzazione. Per capire bisogna mettersi alla prova, salendo, scalando, sudando, ascoltando e mostrando e rendendo pubblico un significato privato: questa storia è nostra perché crescere è un’esperienza di tutti.
This mystical experience ‒ the ascent, the solitude ‒ all become essential moments to his self-fulfillment. To fully understand, one has to challenge oneself; ascending, climbing, sweating, listening, showing, and exposing something private to the public. This story is everyone’s story, because growing up is everybody’s experience.
Padre e figlio si incontreranno? Vi incontrerete? La domanda resta aperta: le relazioni sono creature instabili nella nostra esistenza.
Will father and son meet again? Will you meet yourself? The question is left open: relationships are evolving creatures in our lives.
Testo di Giulia Ticozzi
Text by Giulia Ticozzi
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Hic et nunc G i a c o m o Fi e r r o
Le relazioni sono mutevoli nel tempo, siano esse tra persone o persone e luoghi. L’evoluzione di un legame può portare a confusione o confitti interiori, ma non per questo ne affievolisce l’intensità.
Relationships are all-changing in time, either between people or people and places. The evolution of a bond can lead to confusion or internal conficts, but this doesn’t necessarily abate its intensity.
Hic et nunc è luoghi, luoghi che sono stati qualcosa e che ora non sono più. La loro raffgurazione rispecchia il rapporto che ne deriva: l’immagine è l'appunto di un ricordo o di un’emozione distorti dal tempo, è l’espressione del bisogno di riappropriazione.
Hic et nunc are places, places that were something and now are no longer. Their depiction refects the connection that derives from them: an image is a reminder of a memory or an emotion distorted by time, it is the manifestation of the desire to repossess.
La notte è il buio che appiattisce e restituisce una visione neutrale delle cose; la luce parzializza la realtà disvelandola passo dopo passo e permettendone un’analisi lenta. È la contrapposizione posta in essere tra quiete e confitto che crea armonia nel divenire.
Night is darkness that irons out and gives back a neutral view of things; light divides reality into parts unveiling it little by little, allowing a slow analysis. It is the juxtaposition originated from quiet and chaos that creates harmony in our becoming.
cargocollective.com/giacomofierro
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Ne k y i a R o c c o Ve n e z i a
Nekyia è un concetto usato dal filosofo C. G. Jung nei primi anni del XX secolo come parte della sua Psicologia Analitica. Per lui il Nekyia rappresentava “l’introversione della mente cosciente negli strati più profondi della psiche incosciente”. Più semplicemente, esso era un viaggio per il ripristino dell’intera psiche dell’individuo.
Nekyia is a concept used by the philosopher C. G. Jung in the early 20th century as part of his Analytical Psychology. For him Nekyia represent the “introversion of the conscious mind into the deeper layers of the unconscious psyche.” More simply, an inner journey of restoration for the whole psyche.
Ma la parola Nekyia deriva dall’antico rituale Greco con il quale i fantasmi dei defunti venivano invocati ed interrogati sul futuro. Diversi siti in Grecia e in Italia erano dedicati a queste pratiche ma, l’unico oracolo della “morte” esistente nell’antica Grecia, è ritenuto essere situato sulle sponde dell’Acheronte, un fiume che nasce e sfocia nell’attuale regione dell’Epiro nella Grecia nord-occidentale. I grandi poemi classici ‒ l’Odissea, l’Eneide e più tardi nell’Inferno della Divina Commedia ‒ sottolineano il forte rapporto fra la mitologia della morte ed il fiume, usando l’Acheronte come il sacro confine che separa la vita terrena da quella dell’oltretomba.
However, the word Nekyia comes from the ancient Greek ritual by which deceased’s ghosts were called up and questioned about the future. A number of sites in Greece and Italy were dedicated to this practice but the only oracle of death in ancient Greece is believed to be located on the banks of the Acheron, a river that nowadays rises and flows in the region of Epirus in north-western Greece. The great classic poems ‒ Odyssey, Aeneid and later Divine Comedy’s Inferno ‒ also underlined the strong relation with the mythology of death of the river, using the Acheron to indicate the sacred boundary between the mortal life and afterlife.
I protagonisti di questi poemi devono intraprendere una discesa negli inferi e dopo aver affrontato prove e dialoghi con gli spiriti, acquisiscono una conoscenza che li renderà più forti, capaci di capire il passato e pronti ad affrontare il futuro.
The main characters in these poems had to descend into the underworld to acquire knowledge after facing various quests or dialogue with spectres, This made them stronger, enabled them to understand the past and made them ready to face the future.
Il mio intento è dunque quello di usare il fiume Acheronte come guida per la mia personale Nekyia lungo l’Epiro. Una rappresentazione metaforica e allegorica di una Grecia moderna che mi permetterà di creare un parallelismo tra l’eredità mitologica della regione e la situazione politico-economica corrente.
My intent is to use the river Acheron as a guide for my personal Nekyia across Epirus. A metaphorical and allegorical perspective on modern day Greece in order to create a parallelism with the mythological heritage of the region and the current political-economical situation.
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L a n d s c a p e’s v a r i a t i o n s Alessandro Ruzzier
Landscape’s variations è la mappa di una visione, rilevamento di materie fisiche, gestione di spessori emotivi. Tutto comincia con il ritrovamento di alcuni documenti all’interno di una caserma lungo il confine nord orientale con la Slovenia, lo stesso confine che fino al 1989 era parte integrante della cortina di ferro.
Landscape’s variations is a vision’s map, a detection of physical materials and management of emotional thicknesses. This work begins with the discovery of some documents found in a barrack along North-Eastern border with Slovenia, the same border that, had been part of the Iron Curtain until 1989.
La caserma, dismessa l’attività militare, è stata utilizzata per accogliere profughi provenienti dai balcani durante gli eventi bellici occorsi tra il 1992 e il 1995.
The barrack, once military activity finished, was used to accomodate refugees from Balkans during the war between 1992 and 1995.
Durante una seconda visita trovo altri elementi: lettere, scritti personali, disegni, fotografie, quaderni. Da questo momento in poi trascorro diversi mesi realizzando immagini del territorio nel quale si trova la caserma accettando ‒ come parametro scientifico applicato alla percezione del paesaggio ‒ lo scarto emotivo.
I find other elements during the second visit: letters, personal writings, drawings, photographs, notebooks. From this moment on, I have been spent several months creating images of the territory where the barrack is located in; accepting ‒ as a scientific parameter applied to the perception of the landscape ‒ the emotional gap.
Durante una ricerca in rete mi imbatto in un’intervista ad una donna, Ilinka, che racconta della sua fuga da Mostar e della permanenza proprio in quella caserma. Questo testo diventa un ennesimo generatore di visioni, un catalizzatore di immagini in attesa di essere riscattate dalla loro forma latente. Ecco che queste immagini potrebbero essere istantanee scattate da Ilinka durante la fuga dalla sua città, o su di un pullman, o lungo un sentiero, in una stanza d’albergo o in un fienile. Percorrendo tracce e direzioni di allontanamento, di salvezza e nello stesso tempo di perdita del sé.
During an internet’s search I come across an interview with a woman, Ilinka, who speaks about her escape from Mostar and her stay in that barrack. This text becomes another source of visions, a catalyst of images waiting to be redeemed from their latent form. These images could be a snapshot taken by Ilinka during her escape from the city on a bus, or along a path, in a hotel room or in a barn. Along traces and directions of departure, salvation, and, at the same time, of loss of oneself.
Per la parte conclusiva del lavoro ho coinvolto alcune donne. Ho raccontato la storia di Ilinka e ho chiesto loro di posare per me e offrire il corpo alla rappresentazione fotografica. Ilinka potrebbe avere il volto di chiunque. Di qualsiasi altra donna e anche di qualsiasi uomo, in quanto tutti siamo potenziali profughi.
For the final part of the work I involved some women. I told them the story of Ilinka and I asked them to pose for me and offer their body to the photographic representation. Ilinka may have the face of anyone. Of any other woman, any man too, since we are all potential refugees.
Un’identità impossibile da definire. Ilinka è negli occhi di chi guarda.
An identity which is impossible to define. Ilinka is in eyes of the beholder.
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M a p p i n g m i g r a t i o n s , m a p p i n g t h e f u t u re A r i a n n a R i n a l d o / A r t i s t i c D i r e c t o r - C o r t o n a O n T h e Mo v e i n t e r n a t i o n a l p h o t o g r a p h y f e s t i v a l
Ultimamente il Mare Mediterraneo è in primo piano nei telegiornali serali. Sfortunatamente non si tratta di una visibilità lusinghiera. Mare Nostrum, il nostro mare, è diventato palcoscenico di tragedie, morti e sofferenze. É diventato luogo di domande e dubbi, sulle nostre vite, la nostra politica e la nostra umanità. E, da triste protagonista, sottolinea un momento cruciale nella Storia, in cui siamo costretti a chiederci quale sia il nostro posto, la nostra casa, la nostra comfort zone e come rapportarci, anche a livello personale, ai milioni di uomini e donne e bambini che attraversano i confini reali e virtuali, rischiando le loro vite per poter avere una vita. Vivendo tra Spagna e Italia ho avuto spesso l’occasione di guardare verso il Mediterraneo lasciando galleggiare il mio sguardo in distanza. Il Mare Nostrum è bello, è blu e verde, brilla sotto il sole e luccica con la luna piena. Come può tale bellezza diventare luogo di sofferenza? Il perimetro del mare, a differenza dell’oceano, è limitato ma i suoi confini, a differenza del lago, sono spesso invisibili. È familiare e spaventoso allo stesso tempo. È confortevole e accogliente ma anche pericoloso e profondo. Sono stata su una barca a vela, per puro piacere, e faccio fatica a immaginare la sensazione di essere su un piccolo gommone con altre centinaia di persone, cercando di non perdere la presa, assetata, affamata, esausta. Impaurita. Sognando di toccare terra. Sperando in una nuova vita per me e per le persone che amo. Ho visto foto di tutto ciò. Molte foto. Troppe. E il mio cuore si stringe ogni volta. Sono in continua fase di ricerca sull’attuale crisi dei migranti e ho mappato vari lavori di fotografi su questo tema. Reportage, ritratti, storie di approfondimento, immagini di quotidiani, video, serie.
C’è un’immagine che mi è rimasta in mente. Una per tutte. Un ragazzo è appena saltato fuori da un gommone pericolosamente affollato. Le persone stanno ancora cercando di alzarsi e scendere. Un neonato viene passato a chi è già sbarcato. Le persone sembrano calme. Ma i loro occhi sono pieni della paura di quelle ore là fuori. In mezzo al nulla. Il giovane sta sorridendo alla macchina fotografica. Ma i suoi occhi stanno già guardando oltre, verso uno spazio che non conosce ancora. Sorride e corre. Verso il suo nuovo futuro. Cortona, 1 luglio 2016
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The Mediterranean sea is the star of the evening news lately. Unfortunately this spotlight is not a flattering one. Mare Nostrum, our sea, has become a stage for drama, death and suffering. It is a place of questions and doubts, on our lives, our politics and our humanity. In a sad spotlight, it underlines a crucial moment in history when we are forced to ask ourselves what is our place, our home, our comfort zone and how do we, also on a personal level, relate this to the millions of men and women and children crossing real and virtual borders, risking their lives in order to have a life. Living between Spain and Italy I often have the opportunity to look out towards the Mediterranean, and let my glance float in the distance. The Mare Nostrum is beautiful, it’s blue and green, it shines with the sun and it glitters with the full moon. How can such beauty become a place of suffering? The perimeter of the sea, unlike the ocean, is limited, but its borders, unlike a lake, are often invisible. It is familiar and scary at the same time. It is cozy and welcoming but also dangerous and deep. I have been on a sailboat, for pure pleasure, and I can hardly imagine the sensation of being on a tiny inflatable boat with hundreds of other people, grasping for a strong hold, thirsty, hungry, exhausted. Scared. Dreaming to touch the ground. Hoping for a new life for myself and my loved ones. I have seen pictures of this. Many pictures. Too many. And my heart cringes every time. I am continuously researching the current migrant crisis and have been mapping work of various photographers on the subject matter. Reportage, portraits, in-depth stories, daily news images, videos, series.
There is one image that sticks to my mind. One for all. A boy just hopped off a dangerously crowded inflatable boat. People are still trying to get up and out. A little baby is handed over. People seem calm. But their eyes hold the fear of those long hours out there. In the middle of nowhere. The young boy is smiling at the camera, but his eyes are already looking beyond, to a space he does not yet know. He is smiling and running. Towards his new future. Cortona, 1st of July, 2016
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Boundary as a frame R u m o r e Pa i r ( D o m e n i c o D ’ A l e s s a n d r o & M a r i a Pa l m i e r i )
Boundary as a frame lega la fotografia a pellicola ad un approccio post-fotografico tipico dell’appropriation art. La storia che raccontiamo parla di migrazione dall’Africa all’Europa, e di tutte le persone che vivono nel costante conflitto tra il desiderio di vivere una vita soddisfacente e gli innumerevoli problemi legati alla politica, alla cultura e alla geografia. Nella nostra città, Foggia, abbiamo fotografato gli abitanti di una ex fabbrica, un gruppo di migranti senegalesi che vivono qui da tre anni e fanno parte del grande numero di lavoratori stagionali arrivati in queste zone per la raccolta del pomodoro durante l’estate e che pian piano hanno cominciato a viverci stabilmente. Boundary as a frame si presenta come una serie ipoteticamente infinita, proprio come le storie di migrazione. Con due macchine fotografiche point and shoot, abbiamo scattato fotografie che, nel linguaggio utilizzato, fanno chiaro riferimento alla tradizione vernacolare, con l’intento di dare ai ragazzi dei loro ritratti da inviare ai parenti come cartoline. Le cornici sono parte integrante delle foto e simboleggiano il confine come una forza di controllo che limita, classifica e spesso esclude. Le mappe sono state scaricate da Google Earth e rappresentano i luoghi della rotta migratoria di ciascun soggetto ritratto. Le immagini che ne vengono fuori, quindi, rappresentano lo scontro tra la presunzione delle nazioni di controllare le migrazioni internazionali e la forza antagonista della libertà di movimento, potentemente individuale ed esercitata attraverso pratiche informali di resistenza. La nostra idea di base è quella di personalizzare un processo che, fin troppo analizzato e storicizzato, spesso perde di vista le storie intime e personali di chi affronta il viaggio, salvo in caso di morti di massa. D’altronde ci consideriamo Mediterranei e quello che oggi ci divide, storicamente, ha sempre unito i popoli che vivono le terre che vi si affacciano: il Mar Mediterraneo, così come inteso da Fernand Braudel. La cultura non è, dunque, esclusa dall’influenza della topologia, per questo sentiamo il bisogno di sottolineare la centralità del Mediterraneo.
Boundary as a frame bridges classical film photography with a post-photographic method that belongs to appropriation art. The story is about migration from Africa to Europe, and about all the people that live their lives in the constant conflict between the desire to live a normal and satisfying life and the countless problems related to politics, culture and geography. In our city, Foggia, in southern Italy, we photographed the inhabitants of a former factory, a group of Senegalese migrant workers that have been living here for three years. They are part of the huge number of seasonal workers migrated to our area for the tomato harvest during the summer and started to become stable. Boundary as a frame choose the seriality of an “on going series”, hypothetically infinite like migration stories. We combined images related to vernacular photography with textures of topographic images, to create a spatial relationship between the fields. With two point and shoot cameras, we took snapshots that deliberately refer to the vernacular tradition, with the intention of giving them portraits to send to their relatives as postcards. Frames are integral parts of the photos and symbolize the border as a controlling force that limits, categorizes and often excludes. They represent the clash between the presumption of nations to control migrations and the antagonistic force of freedom of movement, based on individuality, exercised through serendipitous and informal resistant practices. The maps have been downloaded from Google Earth and faithfully represent places from the migration route of each one portrayed. We were interested in personalizing a process that, too much analyzed and storied, often losing sight in intimate stories, except in the case of massive deaths. We consider ourselves Mediterranean and what today divides us, historically, has always united us: the Mediterranean Sea, as intended by Fernand Braudel. Culture is not excluded from the influence of topology, so we need to emphasize the centrality of the Mediterranean as a land bordered by countries.
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Under the volcano è una serie fotografica che vuole esplorare la vita ai piedi del Vesuvio, in quella che il Piano di Emergenza, redatto dalla protezione civile, indica come “zona rossa”. Un’area composta da 25 comuni che, in caso di eruzione del vulcano, rischia di essere compromessa da sismi ed invasa da flussi piroclastici, lava e colate di fango. Si tratta di un territorio ad alta pericolosità, abitato da 700 mila persone fino a settecento metri di altura. Anche per queste ragioni, il Vesuvio è definito uno dei vulcani più pericolosi al mondo.
Under the volcano is a photographic series that wants to explore life at the foot of the Vesuvio, in the area which the Emergency Plan, carried out by Civil Protection, defines as "red zone". An area consisting of 25 municipalities that, in case of eruption, runs the risk of being compromised by earthquakes and invaded by pyroclastic flows, lava and mud flows. It is a high-hazard area, inhabited by 700,000 people up to seven hundred meters high. For these reasons too, Vesuvio is known as one of the most dangerous volcanoes in the world.
Mi interessava conoscere come gli abitanti “sentissero” il vulcano e come la sua presenza entrasse dentro le loro vite, a tal punto da riuscire ad addomesticare il pericolo del rischio. Ho cercato di approfondire il complesso rapporto tra l’essere umano e la natura che lo circonda, ricercando le qualità del luogo nell’immaginario e nei racconti che vi ruotano attorno, concentrando la mia attenzione sulla relazione con lo spazio abitato, sia esso immaginato o reale.
I was interested in knowing how people "feel" the volcano and how its presence enters their lives to such a point as to be able to domesticate the dangerous of the risk. I tried to deepen the complex relationship between human being and environment that surrounds it, looking for the qualities of the place on the imagery and in the stories that revolve around, focusing my attention on the relationship with the inhabited space, both imagined or real one.
Per queste ragioni non ho voluto affrontare problematiche come la microcriminalità, l’abusivismo edilizio, le discariche abusive (e le sue conseguenze sanitarie) che affliggono il territorio. Ho voluto vivere l’incontro con le persone che mi ospitavano ed il luogo che, nonostante fosse a pochi chilometri da dove abito, non conoscevo se non per il suo orizzonte e luogo comune paesaggistico.
For these reasons I didn’t want to face problems as petty crime, unauthorised building, illegal landfill site (and its consequences on healthcare sector) that affect this area. I wanted to live the meeting with people who hosted me and the place that, despite it is set few kilometres from my hometown, I didn’t know unless for its horizon and commonplace landscape.
Under the volcano è stato selezionato dal team di Slideluck Napoli, 2016 (Irene Alison, Roberta Fuorvia, Teodora Malavenda, Maria Teresa Salvati).
Under the volcano has been selected by Slideluck Naples team, 2016 (Irene Alison, Roberta Fuorvia, Teodora Malavenda, Maria Teresa Salvati).
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O b j e c t s : a t w o-p a r t d o c u m e n t a r y Ido Abramsohn
Objects: a two-part documentary esplora le rappresentazioni visive della nazionalità Israeliana. La serie giustappone due tipi di oggetti fotografati in maniera formale, come nature morte in uno studio: souvenir venduti ai turisti in Israele e articoli di una raccolta creata dall’Intelligence and Terrorism Information Center, un centro di ricerca affiliato all'esercito israeliano.
Objects: a two-part documentary explores visual representations of Israeli nationality. The series juxtaposes two types of objects, photographed formally as still lifes in a studio setting: souvenirs sold to tourists in Israel, and items from a collection created by the Intelligence and Terrorism Information Center, a research center affiliated with the Israeli Army.
I souvenir includono chincaglieria per attrarre i turisti ebrei che visitano Israele e sono venduti come parte dell’esperienza israeliana ”autentica”. Essi contengono riferimenti a simboli comuni e spaziano tra biblico, militare e patriottico.
The souvenirs include trinkets that would appeal to Jewish tourists visiting Israel and are sold as a part of the ‘authentic’ Israeli experience. They contain various references to common symbols, ranging from biblical to military and patriotic references.
Gli oggetti fotografati dall’Intelligence and Terrorism Information Center rappresentano beni che si dice siano stati confiscati a palestinesi da parte dell'esercito israeliano. Questi elementi vanno da cose che potrebbero essere utilizzate come armi, fino a oggetti non pericolosi ma confiscati per punizione.
The items photographed from the Intelligence and Terrorism Information Center represent possessions said to have been confiscated from Palestinians by the Israeli Army. These items range from objects that could be used as weapons to things that are not dangerous but confiscated as punishment.
Quando vengono tolte dal loro contesto originario e giustapposte, le due serie di rappresentazioni creano una nuova, più indefinita narrativa. L'ambiguità che ne risulta destabilizza risposte automatiche e supposizioni ma, allo stesso tempo, dimostra come la mercificazione sia in grado di ridurre narrazioni complesse a immagini facilmente digeribili e fuorvianti.
When taken out of their original context and juxtaposed, the two series of representations create a new, more open-ended narrative. The ambiguity that results destabilizes automatic responses and assumptions, but, at the same time, demonstrates how commodification can reduce complex narratives into easily digestible and misleading imagery.
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Azimuths of Celestial Bodies Fr a n c e s c o L e v y
Ci sono molti modi per raccontare una storia e altrettanti per mentire nel farlo. Il mio è un viaggio all’interno delle storie e delle persone che hanno formato il mio nucleo familiare e di come questo metaforico fiume di vite sia adesso confluito in me che sono, per adesso, l’ultimo della mia stirpe. Le grandi guerre che hanno sconvolto il continente europeo durante lo scorso secolo, sono il filo conduttore, il sottofondo amaro, la causa prima delle migrazioni che hanno permesso l’intreccio di queste storie. Un discorso sulla discendenza, collegando quello che era con quello che è: una restituzione dei ricordi che sono giunti a me, che ho fatto miei e che reinterpreto liberamente. Un diario per immagini, la topografia illustrata di un viaggio autobiografico per esplorare la mia geografia.
There are as many ways to tell a story as there are to lie about it. Mine is a journey across the tales and personas that together formed the core of my family. A metaphorical flow of lives now merged into myself: the last of my kin. The great wars that upset Europe during the last century are the common thread, the grim background and prime mover of the migrations that allowed the paths to intertwine. A discourse on lineage, linking together what is with what has been: a restitution of memories that have been passed down to me, which I have made mine and freely reinterpreted. It is a visual journal, an illustrated topography of the autobiographic journey undertaken to explore my own geography.
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CONNECTIONS | issue # 2
Te s t o d i / Te x t b y M a r i n a Fr e r i / S y d n e y - b a s e d j o u r n a l i s t w i t h t h e A u s t r a l i a n B r o a d c a s t i n g C o r p o r a t i o n
Meriggiare pallido e assorto Presso un rovente muro d’orto Ascoltare tra i puni e gli sterpi Schiocchi di merli, frusci di serpi. Non esistono versi che meglio immortalano il sole di mezzogiorno che batte sui sentieri delle coste affacciate sul Mediterraneo.
L’oceano che è un solo orizzonte, con la sua forza smisurata, poco ricordava le coste che sognavo negli inverni della mia infanzia.
Quel calore rovente che rende impossibile camminare a piedi scalzi, mentre gli animali domestici si riparano come possono nei cortili silenziosi all’ora di pranzo: un tempo sospeso interrotto forse solo da quella campana che si sente in lontananza.
L’oceano, qui, assume una connotazione politica di chiusura, visto come frontiera, dogana, limite invalicabile. Preserva il territorio australiano da incontri con altre civiltà che non siano mediati dalla diplomazia internazionale e dalle leggi del posto.
Se ci penso, immagino che ci siano donne che sonnecchiano davanti alla televisione da Imperia a Leuca, da Malaga a Corfù, e che aspettano che il sole scenda prima di sedersi in balcone a vedere chi passa, a sperare d’essere viste.
Si fa presto a capire che laddove il Mediterraneo chiama al confronto, e non senza conflitto, i popoli che si affacciano sulle sue coste, l’oceano esclude.
Crescendo, vivevo il Mediterraneo solo d’estate: nel suo versante Adriatico con i nonni, e in quello Tirreno con i genitori. Passavo l’anno scolastico e le prime settimane d’estate aspettando che arrivasse Luglio e, con il nuovo mese, la partenza verso il mare. Il ricordo di quelle giornate senza fine si accompagna indissolubile alla memoria olfattiva: agli aromi della cucina ligure, toscana e romagnola che si sollevano nel tardo pomeriggio dalle calli, dai vicoli e dagli ampi viali della Riviera. Il paesaggio cambiava dalla costa est a quella ovest. E nell’architettura dei porti, nei colori sbiaditi dei pescherecci ancorati e nel volto delle genti scoprivo un’idea di Mediterraneo, quella stessa idea che al mio trasferimento in Australia avrei rimpianto. Nell’esperienza migrante, la sfida è approdare a un terreno dove le radici identitarie, inalienabili all’individuo, possano riaggrapparsi alla terra e sostenere il corpo nel nuovo mondo.
Ma l’oceano è anche sfida all’immaginazione. Se dalle calette dell’Elba si gioca a vedere la Corsica, dalle spiagge di Sydney si scruta l’orizzonte in cerca di balene. Di fronte, rimane l’infinito. Trasferendomi in questo emisfero capii anche che la mia identità era complessa e legata a quell’idea di Mediterraneo viva nei miei ricordi. Agli occhi di qui, la mia pelle e i miei capelli parlavano ai miei nuovi connazionali di un’origine precisa, ben più di quanto fosse chiara a me: ovvero che il mio essere Italiana significava essere innanzitutto un’Europea mediterranea. Sfogliando Maps, progetto curato dalla sapiente guida editoriale di Arianna e Teodora, riscopro quelle sensazioni di appartenenza viscerale: una patria dai confini indefiniti che solo si riconosce in un’atmosfera. Ed è per questo che l’idea di Mediterraneo è per sempre la mia nostalgia.
To rest at noon pale and absorbed Near a scorching orchard wall, To listen amid bush and brake to cracks of blackbirds, rustle of snakes. There are no better verses than those of Eugenio Montale to describe the scorching summer sun that hits the coastal tracks facing the Mediterranean Sea.
The ocean - a vast horizon - with its unrivalled force little reminded me of the Mediterranean landscapes I had dreamt of during cold school months.
That blistering midday heat that makes it impossible to walk barefoot, while family pets seek refuge inside silent courtyards: it’s a slow time, interrupted just by the ringing of a church bell heard from afar.
The word ocean here is politically charged with a connotation of closure: it’s seen as a border, an impassable limit. It protects Australia’s mainland from encounters with other cultures that have not been dictated by international diplomacy or local laws.
If I picture it, I see elderly women, from Imperia to Leuca, from Malaga to Corfu, snoozing in front of their televisions, waiting for the sun to go down before dragging a chair on their balcony to watch who passes by, hoping to be noticed.
It takes little to notice that whereas the Mediterranean and its geography attract cultures, and not without clashes, the ocean excludes them.
Growing up, I only got to experience the Mediterranean in summer: its Adriatic side with my grandparents, its Thyrrenian aspect with my parents. I used to spend months in school dreaming of July and of our trips to the seaside. Recollections of those endless days are accompanied by olfactory memories: the flavours and the smells of the Ligurian, Tuscan and Romagna’s cuisines flying through narrow streets and the wide boulevards of the Riviera. The landscape changed from the East to the West coast. It was through the architecture of the harbours, through the features of the people living along the coasts that I began to formulate a broader idea of what the Mediterranean Sea represented: the very same idea that I would have come to miss after moving to Australia. As a migrant, one of the challenges is to land on a soil moist enough for one’s roots to prosper and to sustain one’s body in their new country.
On the other hand, the ocean speaks to the imagination. If from the bays of Elba Island, people play a guessing game of whether it’s Corsica or Pianosa they’re spotting on the horizon, people in Sydney stare at the ocean looking for nothing but the infinite. Moving to the southern hemisphere, I realised my identity was a complex matter and something linked to that idea of a Mediterranean culture nurtured in my memories. To the eyes of many of my new compatriots, my hair and my own eyes spoke of a precise background. It was clearer to them than it was to me that my being Italian meant being a Mediterranean European first. Years later, browsing Maps in my living room - an exquisite editorial project by Arianna and Teodora - I rediscover those feelings of visceral belonging: a homeland of blurred boundaries that one can only recognise in the atmosphere it evokes. And this is why the thought of the Mediterranean Sea and its people fuels my greatest nostalgia.
connections | issue # 2
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