Comunicazione e interazione con il paziente

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Sergio Zaccaria Scalinci - Silvana Bencivenga Noemi Marano - Francesca Barbara Rucco - Camilla Servadio

Comunicazione e interazione con il paziente Il ruolo dell’ortottista Il paziente pediatrico in età prescolare Valutazione multidimensionale del paziente geriatrico Valutazione e gestione del paziente ipovedente

Fabiano Editore



Sergio Zaccaria Scalinci - Silvana Bencivenga Noemi Marano - Francesca Barbara Rucco - Camilla Servadio

Comunicazione e interazione con il paziente Il ruolo dell’ortottista Il paziente pediatrico in età prescolare Valutazione multidimensionale del paziente geriatrico Valutazione e gestione del paziente ipovedente

Fabiano Editore


Progetto grafico e Stampa

FGE srl – Regione Rivelle 7/F − 14050 Moasca (AT) Redazione: Strada 4 Milano Fiori, Palazzo Q7 – 20089 Rozzano (MI) Tel. 0141 1706694 – Fax 0141 856013 – info@fgeditore.it − www.fgeditore.it Gli Autori e l’Editore declinano ogni responsabilità per eventuali errori contenuti nel testo. Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione totale o parziale Copyright 2021 FGE srl – Fabiano Gruppo Editoriale

ISBN 978-88-31256-05-6


Prof. Sergio Zaccaria Scalinci Clinica Oculistica, Università di Bologna Centro di Ipovisione, Policlinico S. Orsola Malpighi Bologna, Presidente Low Vision Accademy Presidente Associazione Retinite Pigmentosa Malattie Rare in Oftalmologia Regione Emilia Romagna Certificatore Malattie Rare Regione Emilia-Romagna

Dott.ssa Silvana Bencivenga Psicologa - Psicoterapeuta Familiare Israa - Treviso (Istituti Riuniti Assistenza Anziani) Formatrice Senior Freia (Associazione Italiana Di Psicologia Gerontologica) Docente Master di Psicologia Gerontologica, Università di Padova Medicina Palliativa: Clinica, Ricerca e Terapia del Dolore - Bologna Presidente Associazione “Progetto Città Della Vita” di Roma

Dott.ssa Noemi Marano Ortottista - Assistente di Oftalmologia

Dott.ssa Francesca Barbara Rucco Dottore di Ricerca in Ermeneutica della Storia e dello Stato Sociale

Dott.ssa Camilla Servadio Ortottista- Assistente di Oftalmologia



Mantieni i tuoi pensieri positivi perché i tuoi pensieri diventano parole. Mantieni le tue parole positive perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti. Mantieni i tuoi comportamenti positivi perché i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini. Mantieni le tue abitudini positive perché le tue abitudini diventano i tuoi valori. Mantieni i tuoi valori positivi perché i tuoi valori diventano il tuo destino. Mohandas Gandhi



IPOVISIONE Competenze tecniche, umane e legislative

Indice

Prefazione Presentazione Capitolo 1. Comunicare e curare 1.1 Gli aspetti comunicativi della relazione con il paziente 1.2 Accoglienza e sensibilità: comunicazione verbale e non verbale 1.3 Conoscere l’altro: strumenti e tecniche del colloquio clinico 1.4 Percezione e comunicazione interpersonale: barriere psicologiche tra operatore e paziente Capitolo 2. Figura e ruolo dell’ortottista: competenze professionali e risorse personali 2.1 Evoluzione storica e sviluppo delle competenze dell’ortottista in italia 2.2 Prevenzione in ambito ortottico 2.3 Presa in carico del paziente e della famiglia nel percorso riabilitativo 2.4 Come sviluppare e sostenere le proprie risorse personali ed umane per una relazione efficace 2.5 Empatia: possibile strumento terapeutico dell’ortottista? Capitolo 3. Il paziente pediatrico in età prescolare 3.1 Screening neonatale e prematurità 3.2 Il bambino con disabilità visiva e la sua famiglia 3.3 L’intervento tecnico-educazionale dell’ortottista con i genitori 3.4 L’accoglienza del bambino e della famiglia Capitolo 4. Il paziente geriatrico 4.1 Valutazione multidimensionale del paziente geriatrico 4.2 Come relazionarsi con il paziente affetto da demenza e altre patologie cronico degenerative 4.3 Problematiche e limiti della riabilitazione visiva dell’anziano Capitolo 5. Il paziente ipovedente 5.1 Valutazione e gestione del paziente ipovedente 5.2 Riabilitazione visiva: dagli ausili ottici ai trattamenti sperimentali 5.3 Fotoneurostimolazione con red led pulsed light at 650 nm 5.4 Implicazioni psico-sociali: disabilità e qualità di vita 5.5 Legislazione e implicazioni psico-sociali Bibliografia

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Prefazione Questo testo rappresenta un’apprezzabile sintesi tra conoscenze professionali, tecniche, personali ed umane che l’Oculista, l’Ortottista- Assistente di Oftalmologia e lo Psicologo devono mettere in campo in un percorso semeiologico-riabilitativo della persona ipovedente, sia in ambito pubblico che privato. Il fascino di questo testo, sta soprattutto nell’entusiasmo degli Autori nel voler evidenziare quanto l’efficacia dell’approccio riabilitativo dell’ortottista, risieda nella sua capacità d’instaurare una relazione empatica con il paziente e la sua famiglia, soprattutto se si tratta di bambini ed anziani. Le capacità umane nell’esercizio di ogni professione sanitaria sono fondamentali e valgono almeno quanto la preparazione professionale e la capacità di lavorare in equipe. L’approfondita conoscenza degli strumenti, le recenti innovazioni, gli sviluppi tecnologici in ipovisione, l’attenzione giuridica sono sicuramente requisiti indispensabili per connotare i professionisti dell’ipovisione ma occorre sviluppare anche la capacità di riconoscere le risorse e le qualità delle tante persone che vengono a richiedere il nostro aiuto non solo professionale ma anche umano. Questo libro offrirà sicuramente agli “addetti ai lavori” spunti di riflessione, concetti nuovi che aiuteranno ad approfondire le conoscenze ma soprattutto ci auguriamo che contribuisca ad avviare un processo di “contaminazione” in un ambito come quello oculistico, che fino ad oggi è rimasto un po’ al margine di quella cultura d’umanizzazione che da tempo è entrata nel mondo sanitario.

Prof. Sergio Zaccaria Scalinci



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Prefazione Questo libro vuole rappresentare per gli specialisti di ipovisione oltre che una guida sulle principali tecniche di semeiologia oftalmologica anche un valido strumento operativo che possa consentire di interagire efficacemente con il paziente, instaurando una comunicazione valida da un punto di vista sia tecnico-informativo che relazionale. Verranno illustrati i principali problemi presenti nell’interazione verbale e non verbale, evidenziando come le diverse figure possano interagire mediante un linguaggio non troppo specialistico e quindi complesso per il paziente non creando così incomprensioni o speranze inattese. Viene specificata l’importanza dell’uso del colloquio inteso sia come strumento per la raccolta di informazioni di tipo anamnestico che come abilità per condurre in modo appropriato l’interazione col paziente nei diversi momenti della consultazione. Inoltre, ci è parso utile approfondire maggiormente le due categorie di pazienti più fragili e bisognosi di attenzione come il bambino e l’anziano. Vengono infatti date indicazioni su come gestire e valutare con particolare attenzione i bambini prematuri, aprassici, e con ritardo psico-motorio, non perdendo di vista la complessità delle dinamiche relazionali con la famiglia e le eventuali problematiche psicopatologiche. Per quanto riguarda invece l’anziano vengono approfondite le condizioni di fragilità psico-geriatrica e le diverse modalità di approccio relazionale e giuridico per incentivare e sostenere la sua compliance.

Gli Autori



Capitolo 1. Comunicare e curare

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Capitolo 1. Comunicare e curare

1.1 Gli aspetti comunicativi della relazione con il paziente La comunicazione in medicina è da alcuni anni un tema ampiamente discusso. Il processo d’umanizzazione che sta lentamente contaminando tutto il mondo sanitario, si rivolge soprattutto a coloro che a diverso titolo operano a contatto quotidiano con la malattia e la sofferenza del malato. Comunicare in modo efficace e stabilire una relazione positiva ed emotivamente armonica, significa promuovere un “sapere” al servizio della persona e che vede coinvolta in maniera rilevante anche l’équipe medica e la stessa struttura sanitaria. Comunicare significa non solo informare ma entrare dentro la sfera cognitiva dell’altro, per arrivare a definizioni di percorso condivise sulla base del rispetto della conoscenza e della carica emozionale di chi deve essere informato e curato, ancor più quando ci troviamo in un contesto di malattia inguaribile, come alcune patologie neurodegenerative, in cui la prognosi è sicura ed è solo questione di tempi e di qualità di vita. La comunicazione in questi casi diventa un atto particolarmente delicato in cui, chi comunica, deve avere la capacità di sintonizzarsi con chi riceve le informazioni. Infatti, errori da parte dell’operatore sanitario possono aumentare la probabilità da parte del paziente, di rifiuto, di rabbia, di disagio interiore, di sconforto, di disperazione, sensazioni negative sul piano etico e di ostacolo nella ricerca di soluzioni efficaci per garantire al meglio la qualità e la dignità della vita. La relazione fa parte della cura, come ben sapevano molti medici del passato ed oggi la medicina sta riscoprendo questa risorsa, tant’è che in ambito anglosassone si va affermando un nuovo approccio terapeutico sintetizzato dallo slogan ‘from cure to care’ – “dalla cura al prendersi cura”, dove il “prendersi cura” vuol dire farsi carico della persona nella sua totalità sia fisica che emotivo-affettiva, nonché spirituale. E se si considera la storia della medicina ai suoi esordi nel V secolo a.C. il medico ippocratico costituisce l’archetipo del medico impegnato tanto tecnicamente quanto umanamente coinvolto. Uno dei più antichi precetti medici infatti recita “Dove c’è philanthropia c’è anche philotecnia”. Significava che essere amico dell’uomo (filantropo) era il modo migliore per essergli veramente d’aiuto, usando le risorse dell’arte (tecnofilo). Il personale sanitario deve essere preparato a prendersi cura delle dinamiche relazionali ed emozionali che inevitabilmente emergono nel contatto con la malattia e la sofferenza dell’altro. La malattia è luogo d’incontro tra persone, incontro che può essere costruttivo e gratificante, fino anche a contenere importanti stimoli sul piano della crescita personale oppure distratto e inefficace o peggio ancora conflittuale e sofferto e


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l’esito dell’incontro dipende in larga misura dalle abilità comunicative e relazionali dell’operatore sanitario coinvolto. Una relazione efficace con i pazienti rappresenta un’importante componente nel piano di cura, fin dal momento della comunicazione della diagnosi. La relazione si trasforma così in una sorta di accompagnamento reciproco verso lo sviluppo delle capacità di gestione della malattia e della persona. La capacità poi di comunicare cattive notizie, come quella “...non c’è più nessuna cura per la sua malattia”, cioè passare dalla cura della malattia a quella della persona, sono abilità che non si imparano facilmente, anche perché non ci sono reali modelli di comunicazione condivisibili ed applicabili in tutte le situazioni, né ci sono molti maestri in grado di trasmettere il loro sapere in maniera verificabile e riproducibile. Il campo purtroppo è tanto importante quanto mal coltivato. Come si impara a comunicare? Chi insegna a comunicare? Chi deve comunicare? Come si comunica? A chi? Quando, nei casi di malattia inguaribile? Esiste ancora oggi un grosso divario tra teoria e pratica e nonostante la ricerca scientifica abbia ampiamente sottolineato la centralità della comunicazione in medicina, è difficile definire come questa comunicazione può essere pensata, insegnata ed attuata. Lo stesso ambito accademico si sta interrogando sui contenuti dell’insegnamento nelle Facoltà di Medicina e nei Corsi di Lauree Sanitarie e lo sforzo è quello di far comprendere agli studenti che una cura efficace si fonda sulla comprensione non solo della storia biologica ma anche di quella psicosociale e culturale del paziente. Ma in che misura questo bagaglio scientifico e culturale riesce ad influenzare l’agire dell’operatore sanitario? Per raggiungere questo obiettivo, bisogna essere in grado di utilizzare capacità comunicative, conoscenza scientifica e ragionamento clinico, per formulare ipotesi diagnostiche e prognostiche. Il lavoro è ancora molto difficile perché ad oggi non esistono modelli comunicativi omogenei e trasferibili dal piano didattico prima e operativo poi. In conclusione, potremmo immaginare il rapporto sanitario-paziente come un percorso: dall’informazione alla comunicazione, dalla comunicazione all’incontro, dove l’ascolto attivo gioca un ruolo fondamentale. Un incontro che non è però solo scambio tra chi è portatore di un bisogno e chi presume di avere le risposte efficaci ma è soprattutto uno scambio tra persone, in una situazione di suprema densità antropologica in cui prevalgono le dimensioni della reciprocità e della umana condivisione.

1.2 Accoglienza e sensibilità: comunicazione verbale e non verbale Paul Watzlawick uno dei massimi esponenti della Scuola di Palo Alto (California) indica quelli che sono gli elementi sempre presenti in ogni comunicazione. Essi sono: 1° assioma – È impossibile non comunicare. In qualsiasi tipo di interazione


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tra persone, anche il semplice guardarsi negli occhi, si sta comunicando sempre qualche cosa all’altro. 2° assioma – In ogni comunicazione si ha una meta-comunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando. 3° assioma – Le comunicazioni possono essere di due tipi: non- verbali (ad es. immagini, segni) e verbali (parole). 4° assioma – Le comunicazioni possono essere di tipo simmetrico, in cui i soggetti che comunicano sono sullo stesso piano (ad esempio due amici, colleghi...)e di tipo complementare, in cui i soggetti che comunicano non sono sullo stesso piano (ad esempio la mamma con il figlio, medico-paziente). Watzlawick nel 1971 offrì quindi per primo, in aperta polemica con la teoria matematica della comunicazione, una visione relazionale della comunicazione intesa come un “processo di interazione tra le diverse persone che stanno comunicando”. La comunicazione viene qui considerata per la prima volta come dialogo. Lui afferma che non può esistere una non-comunicazione, come non può esistere un non-comportamento, per cui non vi è neppure bisogno d’intenzionalità, per comunicare. Watzlawich sviluppa così la pragmatica della comunicazione, dove il primato spetta appunto alla relazione. Ciò significa che nel momento in cui vengo in contatto con l’altro, sono in una relazione comunicativa, in cui pensieri, fantasie, sensazioni ed emozioni si trasmettono inevitabilmente dall’uno all’altro e queste modalità di passaggio possono essere verbali e non-verbali. È indubbio che l’acquisizione del linguaggio verbale rappresenti la caratteristica che differenzia l’essere umano nel cammino onto-filogenetico dagli altri mammiferi, anche i più evoluti che interagiscono. e comunicano tra loro esclusivamente con il comportamento, attraverso segnali non verbali di tipo puramente analogico come avviene anche per l’uomo nei primi mesi di vita. Cos’è, dunque, la comunicazione non verbale? Potremmo definirla una vera e propria lingua che tutti parlano col proprio corpo ma che solo pochi riescono ad “ascoltare con gli occhi”. Il termine “comunicazione non verbale” potrebbe tra l’altro apparire fuorviante, come negazione della comunicazione verbale e non a caso molti studiosi come Argyle hanno adottato il termine “Bodily communication” (Linguaggio del Corpo) che sicuramente rende meglio l’idea. In realtà, esso dovrebbe includere non solo le posizioni del corpo, i gesti, le espressioni del viso, ma anche le inflessioni della voce, la sequenza del ritmo, la cadenza delle parole (elementi noti sotto il nome di “paraverbale”); insomma, qualsiasi espressione non verbale di cui il nostro organismo sia capace e immancabilmente presente in ogni contesto d’interazione. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che la capacità di comunicazione non verbale nell’essere umano decada col passare del tempo, anzi essa aumenta tanto da potersi ritenere superiore al linguaggio verbale, per potenzialità espressiva e capacità comunicativa. La capacità verbale rappresenta piuttosto una capacità comunicativa in più che integra e non sostituisce i comportamenti non verbali, anche perché oltre alla produzione seman-


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tica dei processi comunicativi noi esprimiamo attraverso il non-verbale soprattutto le proprie emozioni e i propri sentimenti. La comunicazione non verbale, oggi chiamata anche comunicazione extralinguistica, rientra quindi fra gli ambiti più indagati della ricerca psicologica, fra quelli più interessanti ma al tempo stesso “invisibili” perché resiste ai tentativi di una qualsiasi sistematizzazione scientifica (Cozzolino). A dispetto del diffuso interesse, essa continua ad essere percepita come completamento della più nobile dimensione verbale. È importante però capire quanto le dimensioni verbali e non verbali appaiono intricate e inestricabili, le parole, le configurazioni e i loro significati (che sono i dati della sintassi e della semantica) con tutto il linguaggio del corpo. Molti sono gli studi condotti sugli aspetti non verbali della comunicazione, in cui è stato evidenziato come sia possibile comunicare con lo sguardo, la postura, il tono della voce. Mehrabian, psicologo statunitense, nel 1982 condusse uno studio tutt’oggi valido, attraverso cui ha dimostrato che in un’interazione verbale quotidiana, l’incidenza totale del messaggio è per il 93% di tipo non verbale, a dispetto del restante 7% di tipo verbale. Nello specifico tra gli aspetti non verbali che influenzano l’interazione, il 38% è attribuibile all’aspetto paraverbale (la voce: volume, tono, ritmo) e il 55% ai movimenti del corpo (soprattutto espressioni facciali). Birdwhistell21 ha fatto analoghe valutazioni circa la quantità di comunicazione non verbale in uso tra gli esseri umani, calcolando che una persona normale comunica con l’uso di sole parole non più di dieci/quindici minuti al giorno e che più del 65% della comunicazione avviene in modo non verbale. Per cui, è ormai accettata la convinzione che vede le due componenti parte di un unico processo comunicativo. Affinché poi la comunicazione risulti efficace occorre che sia i segnali verbali che quelli non verbali siano coerenti l’uno rispetto all’altro, altrimenti ciò che viene detto non risulta credibile (Forgas). E quando Watzlawick asserisce che “non si può non comunicare”, fa riferimento proprio al continuo manifestarsi della comunicazione non verbale, perché è impossibile sospendere l’atto comunicativo a livello non verbale, anche quando le parole s’interrompono e la comunicazione non verbale è attiva, anzi spesso è proprio il silenzio uno dei momenti più comunicativi. Un esempio di quanto finora detto può essere il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi e magari le braccia conserte. Questi sta comunicando! Ci comunica che non ha voglia di parlare e chi gli sta accanto, che afferra il messaggio, risponde senza infastidirlo e senza rivolgergli la parola. Quanto finora esposto aiuta a capire quanto sia importante per l’operatore sanitario essere consapevole che nell’incontro con il paziente, dal momento dell’accoglienza fino al congedo, è importante controllare non solo la scelta delle parole che si esprimono ma anche il tono della voce, lo sguardo, la postura del corpo, i movimenti che esprimeranno in quel momento il proprio stato d’animo, il desiderio di accogliere ed ascoltare le richieste dell’altro, cercando anche di andare oltre, per cogliere le sue domande non espresse, riconoscendone la tonalità emotiva, soprattutto se questo ha ricevuto una bad news.


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1.3 Conoscere l’altro: strumenti e tecniche del colloquio clinico Il colloquio costituisce sicuramente lo strumento più importante a disposizione dell’operatore sanitario che lo utilizza con finalità sia conoscitive che d’intervento, dato che il paziente è fondamentalmente un individuo e nulla può sostituire la conoscenza diretta dell’altro quale quella che si verifica attraverso il dialogo. Nessun mezzo di conoscenza di una persona è più prezioso e ricco d’informazioni del colloquio, così come questo è il più esposto a rischio di distorsioni, per quanto involontarie. Il modo di impostare e di condurre un colloquio dipende da numerosi fattori: 1. Gli obiettivi per cui viene svolto (consultazione, valutazione diagnostica etc..). 2. Le caratteristiche di chi lo affronta (se è adulto, bambino, presenza di patologie più o meno invalidanti, individuo o coppia, o nucleo familiare). I canali attraverso cui noi attingiamo informazioni durante il colloquio sono quindi fondamentalmente due: lo scambio verbale, ovvero i contenuti delle risposte e quello non verbale, costituito da quanto l’operatore può rilevare attraverso l’osservazione diretta durante l’incontro. L’osservazione diretta costituisce una preziosa fonte di informazioni: il modo in cui la persona veste, l’accuratezza del suo linguaggio, le sfumature emotive che lo accompagnano, il modo di salutare (freddo, altezzoso, timido, caloroso), le sue reazioni somatiche (rossore, tic, sudorazione), costituiscono solo alcuni esempi delle varie manifestazioni comportamentali che è possibile cogliere durante il colloquio che vengono così definite come comportamento non verbale che influenzano la gran parte dei giudizi ma anche dei pregiudizi degli operatori durante il colloquio. In generale i colloqui possono svolgersi in modo libero o essere condotti in modo direttivo. Nel colloquio direttivo è l’operatore che guida il dialogo in modo attivo, facendo domande e richiamando l’attenzione del soggetto nella direzione prescelta. La raccolta dell’anamnesi medica, in cui viene raccolta la storia della malattia sia recente che passata, è un esempio di indagine molto direttiva, nella quale il paziente risponde passivamente alle domande del medico e/o dell’ortottista e/o dello psicologo. Infatti, in questo tipo di colloquio molto strutturato, le aree da indagare sono già individuate e la loro esplorazione è affidata alle domande più idonee ad attuarla. In ambito sanitario il colloquio è quindi sostanzialmente finalizzato a raccogliere informazioni sui disturbi che hanno portato il paziente a consultare il medico. I vantaggi di questo tipo di colloquio risiedono soprattutto nel fatto che garantiscono una maggiore oggettività e confrontabilità dei dati rilevati in pazienti diversi o gruppi di pazienti, condizione importante quando si conducono ricerche, mentre colloqui condotti liberamente possono esporre al rischio di trascurare alcuni rilievi o lasciare in ombra ambiti di conoscenze. Non sono però infrequenti, in questo tipo d’indagini mediche, episodi in cui l’operatore sanitario lascia cadere informazioni fornite spontanea-


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mente o addirittura le blocca. Tale atteggiamento è psicologicamente ed eticamente scorretto e può pregiudicare anche il raggiungimento di un quadro diagnostico più completo ed affidabile. Nel colloquio libero invece è la persona a parlare spontaneamente e a guidare in parte la conversazione. Tale approccio permette non solo di conoscere i fatti narrati ma anche di cogliere il modo in cui il soggetto li vive, il peso che dà ad essi, le omissioni significative e così via. Condurre un colloquio liberamente non significa non intervenire, non fare domande, non prospettare collegamenti tra gli elementi che emergono. Ciò che importa è non avere idee preconcette e non limitare l’esposizione spontanea del soggetto. Questa operazione viene spesso condotta in modo frettoloso e stereotipato, quando non delegata, in ambito ospedaliero, a colleghi più giovani ed inesperti, quasi si trattasse di una fastidiosa incombenza di secondaria importanza. Se l’approccio dell’operatore è decisamente biologico, questo rimane centrato solo sulla malattia e non sulla persona che ne è portatrice. Sono stati proprio gli sviluppi delle tecnologie biomediche a favorire la spersonalizzazione del rapporto tra medico e paziente, in cui l’attenzione viene posta solo sulle alterazioni corporee, trascurando completamente gli aspetti affettivi e psicosociali della condizione patologica (Moja e Vegni). Non vengono tenuti in alcun conto aspetti relativi alla vita del paziente, alle sue relazioni, alle sue reazioni alla malattia ed anche a quello che lui pensa di essa. Ma sono proprio gli stessi progressi della medicina, che se hanno portato a raggiungere in questi ultimi decenni obiettivi terapeutici un tempo impensabili, a richiamare in primo piano le implicazioni affettive e relazionali della malattia, delle cure e degli esiti terapeutici. A livello sia nazionale che internazionale è stato ribadito quanto sia necessario che l’operatore sanitario riponga la sua attenzione sulla persona del malato, adottando un approccio “centrato sul paziente”, secondo un modello bio-psico-sociale. Questo approccio rimette al centro dell’attenzione dell’operatore la persona del malato e la sua sofferenza, permettendo di cogliere il significato più globale dell’esperienza di malattia all’interno della sua esistenza, offrendo maggiori possibilità di coglierne e di affrontarne i numerosi risvolti della vita del paziente. Tutto ciò implica che l’operatore sanitario deve acquisire capacità relazionali e abilità comunicative per gestire il rapporto dei pazienti. Queste comprendono: 1. I contenuti dei vissuti del paziente, la sua reazione alla malattia, la capacità di comprendere ciò che gli viene prescritto, fino alle condizioni sociali e familiari in cui vive che possono agevolare od ostacolare il modo di affrontare le cure necessarie alla malattia. 2. La disposizione ad ascoltare, osservare, cogliere con un autentico interesse quanto il paziente gli va comunicando, ad esempio i pazienti ansiosi ed insicuri hanno bisogno di essere rassicurati ed incoraggiati; personalità precise ed ossessive richiedono indicazioni terapeutiche chiare e puntuali; personalità narcisistiche necessitano di conferme ed atteggiamenti gratificanti. La collaborazione del paziente non è una realtà automatica ma è un comportamento complesso che dipende da


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numerosi fattori, tipo di malattia, caratteristiche della cura, le disposizioni psicologiche del paziente ed il comportamento dell’operatore sanitario etc. È probabile che molti fallimenti nelle cure, cioè la mancanza di compliance, siano da ricondurre ad un insoddisfacente rapporto tra personale sanitario e pazienti. 3. La necessità di riservare uno spazio ed un tempo adeguati all’incontro con il paziente, ovvero un setting adeguato. Perché un colloquio possa essere condotto nel modo più efficace, ha bisogno di alcune condizioni materiali come un tempo adeguato ed un luogo adatto, cioè un ambiente protetto, pulito ed accogliente, evitando di essere disturbati dal telefono o dall’intrusione di figure estranee, proteggendo la privacy dell’incontro dalla presenza di altre figure professionali. Tutto ciò è una pratica non solo opportuna ma eticamente necessaria e doverosa. Ci piace sottolineare che colui che “si prende maggiormente cura” del paziente, fornisce quell’insieme di prestazioni di sostegno, chiarificazione, aiuto all’ambientamento nel contesto sanitario che spesso si tende a trascurare, limitandosi agli interventi di tipo tecnico (Guerra), una sorta di maternage, la cui funzione tende in parte a vicariare, riempire, completare gli aspetti a volte carenti della relazione medico-paziente; compito sicuramente di difficile assolvimento e che richiede competenze non solo tecniche ma anche relazionali ed umane.

1.4 Percezione e comunicazione interpersonale: barriere psicologiche tra operatore e paziente Se si consulta la letteratura medica degli ultimi anni, si trovano innumerevoli articoli sulla percezione e comunicazione relazionale in medicina.12 Alcuni studi sottolineano come le difficoltà comunicative nella relazione operatore sanitario-paziente hanno spesso conseguenze negative soprattutto sull’aderenza al trattamento e sul rispetto della prescrizione. La qualità della comunicazione ha un impatto determinante nella soddisfazione del paziente, sugli scopi, sui costi sanitari e sulle denunce per malpractice. Nella pratica clinica i problemi più frequenti nella comunicazione emergono nel momento in cui si dimostra di non ascoltare il paziente, o il ricorso ad un linguaggio tecnico che contraddice lo stesso concetto di comunicazione; comunicazione che esiste, in quanto tale, solo se il messaggio è interpretato e compreso allo stesso modo da chi lo emette e da chi lo riceve. Si è affermato che l’insoddisfazione del paziente per la cattiva comunicazione, ha un peso di gran lunga superiore a qualsiasi altra insoddisfazione circa le competenze tecniche. Spesso la comunicazione col paziente si limite ad un nudo processo informativo, senza coinvolgimento empatico, in assenza di relazioni autentiche e di un fondamento etico che non sia quello del rispetto formale dei diritti. Ne è un esempio la richiesta del consenso informato che si limita in genere ad una semplice sottrazione di responsabilità da parte del medico. Esiste oggi un grosso divario tra teoria e pratica. La ricerca scientifica


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ha ormai sottolineato la centralità dell’educazione alla comunicazione in Medicina, cercando di definire come possa essere pensata ed attuata ma in che misura poi questo bagaglio scientifico e culturale riesce ad influenzare l’agire di tutti gli attori coinvolti nella cura, questa è cosa ancora da verificare. Lo stesso ambito accademico si sta interrogando sui contenuti dell’insegnamento nelle Facoltà di Medicina. Si ritiene fondamentale far comprendere agli studenti che una cura efficace si fonda sulla comprensione non solo della storia biologica ma anche di quella psico-sociale e culturale del paziente. Questo significa essere in grado di utilizzare e far convergere capacità comunicative, conoscenze biomediche e ragionamento clinico, cercando di trasferire tutte queste abilità nella pratica assistenziale, riuscendo così a raggiungere degli scopi rilevanti che hanno a che fare con la diagnosi e la terapia, con una diminuzione degli errori medici e con una riduzione dello stress ed una maggiore soddisfazione sia del paziente che dell’operatore sanitario. Durante la conduzione di un colloquio clinico, non possiamo pensare che l’operatore operi freddamente come un computer che incamera ed elabora informazioni ma questi interagisce emotivamente con il paziente. Egli prova emozioni diverse, in risposta a ciò che gli viene comunicato e a quanto accade dentro di sé e nella relazione con l’altro. Possono essere sperimentati stati d’animo come solidarietà e vicinanza affettiva, per quanto l’altro va raccontando oppure mancanza di coinvolgimento, irritazione, disinteresse. Tali reazioni molto diverse ma comuni, sono di importanza fondamentale perché possono costituire un importante fattore di conoscenza dell’altro, ma anche un incontrollabile errore di valutazione o di interventi inadeguati, se non addirittura dannosi. Comprendere la realtà soggettiva di un essere umano è molto complesso e può essere ostacolato da alcuni tipici fattori. Uno di questi è che ognuno di noi vive, pensa e comunica, seguendo un proprio sistema di riferimento. Quando le persone ci appaiono molto diverse da noi, tendiamo a leggere la realtà attraverso il filtro del nostro sistema di significati e di valori, per cui gli altri ci sembrano sempre più incomprensibile ed avvicinabili. Un problema opposto invece, ma ugualmente di ostacolo alla comunicazione è quello che viene chiamato “falsa somiglianza” che si riferisce alla tendenza ad attribuire caratteristiche simili alle nostre, costruendoci così un’immagine falsa dell’altro. Per cui una delle più diffuse barriere alla comprensione e all’integrazione delle persone con handicap, in questo caso con minorazione visiva, è dovuta proprio alla tendenza che si ha nei loro riguardi, ad includerle in categorie rigide, confermando e rinforzando lo stereotipo di partenza. È molto importante che l’operatore sanitario sia consapevole di queste distorsioni percettive e riconoscere i pericoli legati alle implicazioni emotive che nascono nella relazione con il paziente, perché questi influenzeranno negativamente il suo modo di raccogliere i dati, elaborarli, interpretarli ed integrarli poi in una visione d’insieme. Secondo alcune ricerche recenti (W. F. Baile) uno degli errori più comuni e ricorrenti che molti sanitari fanno durante le loro visite, è per esempio l’interruzione precoce del paziente, proprio nel momento in cui egli tenta di


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farsi comprendere. Questo errore comunicativo accade indistintamente sia ai medici che ai diversi componenti dell’équipe sanitaria. Si è calcolato che in genere il paziente viene interrotto dopo appena 22 secondi. Un’altra strategia che il personale sanitario spesso utilizza per aggirare colloqui difficili e situazioni di grande emotività, è il tentativo di sviare la conversazione su un argomento diverso, oppure di minimizzare o rassicurare prematuramente, per smorzare la tensione. In questi casi, per quanto possa essere difficile, bisognerebbe riconoscere la paura del paziente, invece di tentare di rassicurarlo ad ogni costo, perché la capacità di riconoscere ed accogliere le sue emozioni è cruciale, soprattutto se si tratta di cattive notizie. Questo permetterebbe, fin da subito di sostenere e supportare il malato durante il suo percorso psicologico di accettazione della malattia. Altro errore è di prestare scarsa attenzione o addirittura ignorare gli aspetti mentali, psicologici e emotivi del paziente, concentrandosi solo sulla componente fisica, non rispettando le sue esigenze. Oppure di fronte alla sua richiesta di chiarimento su di un sintomo o malessere, rispondere utilizzando un lessico freddo, eccessivamente tecnico e specialistico che disorienta la persona che magari non farà più richieste perché non vuole sembrare ignorante o non intende far perdere tempo all’operatore e così finisce per ottenere informazioni incomplete se non errate. Per affrontare al meglio la difficile sfida di una sana comunicazione con i pazienti, occorre capire che in questa relazione dialogica, coesistono diversi livelli di complessità. Un primo livello consiste nello stabilire un contatto visivo con il paziente, stringergli la mano appena entra in ambulatorio, sedersi durante la conversazione, porre domande aperte, tipo “...mi dica, cosa la preoccupa?...” di ascoltare senza interrompere. Competenze non troppo difficili da acquisire, che dovrebbero già far parte del bagaglio personale di una buona educazione e che è possibile mettere in pratica ponendo qualche attenzione in più. Il secondo livello comprende l’esplorazione delle preoccupazioni di chi abbiamo di fronte, tramite alcune domande come “...cosa la preoccupa di questo trattamento?...” “… come vanno le cose in famiglia?” e poi l’accoglimento delle sue emozioni ed infine il discutere insieme, in maniera empatica e condivisa del percorso di cura, della riabilitazione e delle difficoltà ad esso connesso, sapendo ben scegliere e modulare luoghi, tempi e modi. Il terzo livello è invece relativo alla gestione di situazioni complesse e fortemente emotive, soprattutto quelle relative a malattie inguaribili e che prevedono interminabili percorsi di cure. Qui la relazione deve essere stabilita non solo con il paziente ma anche con la sua famiglia che rappresenta spesso l’unico garante di una possibile continuità di cura. In questi casi il lavoro non può riguardare solo il singolo operatore sanitario ma deve necessariamente coinvolgere l’intera èquipe di cura, ponendo il focus dell’intervento di tutti, sullo sviluppo della capacità di coping e di resilienza della persona malata.


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