Marco Martini
Riflessioni
suicidio Edizioni ISSUU.COM
sul
RIFLESSIONI SUL SUICIDIO Nello stoicismo antico, per esempio, il suicidio non è un atto né contro ragione né secondo ragione, è un’azione estrema, ammessa in circostanze che mettono a dura prova la coscienza morale. A Roma diventa di straordinaria attualità nel “ bellum civile”; la strategia di vita rifiuta ad oltranza quanto possa intaccare la libertà della coscienza. Il dovere impone che davanti alla tirannide si scelga la morte: la tirannide infatti, significa perdita della libertà e della dignità. Lo stesso Seneca già prima della congiura di Pisone, decisiva per la sua sorte, affermava “ chiedi quale sia la strada per la libertà?una qualsiasi vena del tuo corpo” ( De ira) In una lettera (77), sostiene che non solo le vicissitudini della storia conducono alla risoluzione del suicidio, ma esso può avere dimensioni più quotidiane, discute come quella di Tullio Marcellino, che davanti a una malattia dolorosa e avvilente, rinuncia alla vita in nome della dignità per sfuggire alle conseguenze spirituali del male fisico. Ho detto prima che la tirannide significa perita della dignità e della libertà: ecco la morte paradigmatica di Catone che “ preferì darsi la morte piuttosto che vedere il volto del tiranno”, come dice Cicerone nel De Officiis e lo stesso Seneca nella lettera a Lucilio in cui fa tante considerazioni sul suicido, asserendo che può essere talvolta giustificato come la massima espressione di libertà: “Non est quod existimes magnis tantum viris hoc robur fuisse quo servitutis umanae claustra perrumperent; non est quod iudices hoc fieri nisi a Catone non posse, qui quam ferro non emiserat animam manu extraxit”si tratta di quello stesso Catone, che Dante Alighieri mette come custode del purgatorio, grande nemico di Cesare, simbolo dell’impero di cui Dante è un grande sostenitore; Catone si suicidò in Itaca nel 46 a.c. per non sottostare alla servitù che Cesare stava ormai per imporre a Roma. Fin dalla tradizione classica,(Cicerone, Seneca,Lucano) Catone risultava una figura ricca di virtù e Dante ne sottolinea il senso di responsabilità, il senso del dovere e l’amore per la libertà e la giustizia. La funzione di Catone pertanto deve essere non sul piano storico-politico, ma su quello morale, per il suo gesto estremo compiuto in nome della libertà di coscienza che simboleggia la libertà del cristiano, consentita dal sacrificio di Cristo, che libera l’uomo dalla schiavitù del peccato. Dante reinterpreta, reinventa il personaggio storico in forza di un altissimo principio morale, che lo pone, nel dialogo con Virgilio, in uno stato superiore anche al grande poeta latino. Perfino Tommaso e Agostino considerano addirittura il suicidio un gesto eccezionale quando viene compiuto non per motivi personali, ma come esempio di virtù. Per Dante appunto quello di Catone è un atto eroico e virtuoso compiuto in nome della libertà. “Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è si cara, come sa chi per la vita rifiuta. Tu ‘l sai, che non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran di sara si chiara” Non rinuncia alla lotta, ma supremo atto di libertà è anche il suicidio del protagonista di “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo in quanto Jacopo vuol essere l’eroe che non si piega alla sconfitta, che sa rinunciare alla vita pur di non perdere la sua libertà. Jacopo Ortis; giovane intellettuale veneto di spiriti liberali, dopo la cessione di Venezia all’Austria col trattato di Campoformio,si rifugia sui colli Euganei per sfuggire alle persecuzioni. Qui si innamora di Teresa (figlia di un altro rifugiato), dalla quale è segretamente riamato, ma l’amore si trasforma in
nuove tempeste perché la ragazza è già promessa in sposa ad Odoardo, ricco e onesto, ma insignificante; né Jacopo, profugo perseguitato, potrebbe mai unire la sua vita a quella di lei. Per allontanarsi da Teresa, che gli ha confessato la propria infelicità, si reca a Padova, presto disgustato dall’ambiente corrotto della buona società cittadina. Torna sui colli Euganei e mentre Odoardo è in giro per affari,i due giovani vivono alcuni momenti di profondo e inquieto amore. Jacopo riceve un bacio dalla fanciulla: un momento ineffabile, poi lo sgomento per l’animo turbato di lei, i suoi tremori, le sue parole drammatiche (non posso essere vostra mai). Pur essendo consapevole del fatto che il suo amore è un sogno senza speranza, Jacopo si abbandona alla gioia che esso gli dona. Il ritorno di Odoardo poi e le più pressanti persecuzioni della polizia austriaca convincono Jacopo che è necessario partire, anche per non legare gli anni e la giovinezza di Teresa al suo dramma. Angosciato, comincia il suo pellegrinaggio per l’Italia, alla vana ricerca di un qualcosa per cui valga la pena vivere, ma ovunque trova la stessa società meschina e vile. E’ a Bologna, a Firenze dove visita le Tombe di Santa Croce, a Milano dove la sventura della patria appare irrimediabile nel corso di un drammatico colloquio con G. Parini, il vecchio poeta prima coscienza civile italiana. Giunge ai confini con la Francia ed incontra un giovane patriota anch’egli profugo da Venezia. A Ventimiglia, salito sulla più alta montagna, medita sgomento sull’onnipotenza della natura, sulle alterne vicende dei popoli e della storia che gli appaiono rette da un fato cieco, sul fatale declino delle fortune di ogni gente sulle cui rovine gli altri si accampano. Ormai sfinito, nel suo vagabondare Jacopo si avvia verso la meta finale. Ritorna nel Veneto per rivedere fuggevolmente Teresa che ha sposato Odoardo; corre a Venezia per abbracciare un’ultima volta la madre, infine ritorna sui colli e irrimediabilmente svanite le illusioni e morti tutti i desideri, si uccide con una pugnalata al cuore. Una prima redazione dell’Ortis fu parzialmente stampata dal giovane Foscolo a Bologna, nel 1798, ma restò ininterrotta per le vicende belliche, che spinsero lo scrittore a combattere contro gli Austro-Russi . Il romanzo fu ripreso da Foscolo e pubblicato con profondi mutamenti nel 1802. Su di esso lo scrittore ritornò ancora, durante l’esilio, ristampandolo nel 1816 a Zurigo e nel 1817 a Londra, con ritocchi ed aggiunte. L’Ortis è dunque un’opera giovanile, ma anche un’opera che il Foscolo sentì come centrale nella sua esperienza. Si tratta di un romanzo epistolare: il racconto si costruisce attraverso una serie di lettere che il protagonista scrive all’amico Lorenzo Alderani (con alcuni interventi narrativi dell’amico stesso). Il modello a cui Foscolo guarda è soprattutto “I dolori del giovane Werther” di Goethe. Chiaramente ispirato al Werther è il nodo fondamentale dell’intreccio, un giovane che si suicidò per amore di una donna già promessa in sposa ad un altro. Ma vicino a Goethe è anche il nucleo tematico profondo: la figura di un giovane intellettuale in conflitto con la società in cui non può inserirsi. Goethe per primo aveva colto questa situazione di conflitto tra intellettuale e società ( motivo che sarà centrale nella cultura moderna); ed aveva avuto la geniale intuizione di rappresentare il conflitto attraverso una vicenda privata e psicologica, nell’impossibilità del giovane protagonista di avere una relazione con la donna amata e concluderla con il matrimonio; il quale rappresenta nella cultura borghese di quest’ età il segno per eccellenza dell’avvenuta maturazione del giovane e del suo equilibrato inserimento nella società. Foscolo riprende questo nucleo tematico, sviluppandolo in relazione alle particolari caratteristiche del contesto italiano dei suoi anni. Come se vede, il conflitto sociale, che nel Werther si misura essenzialmente sul piano privato dei rapporti personali, qui si trasferisce anche su un piano politico.
Il dramma di Werther è quello di non potersi identificare con la sua classe di provenienza, che si fonda sulla razionalità, sul calcolo, sul culto dell’ordine; dall’altro lato l’artista borghese è respinto anche dall’aristocrazia che è ancora la classe dominante. Diverso è il dramma di Jacopo: non tanto l’urto contro un assetto sociale ferreo che lo respinge, quanto il senso angoscioso di una mancanza, il non avere “una patria”. Il fatto essenziale è che il Werther fu scritto prima della rivoluzione; l’Ortis dopo; dietro il giovane Werther vi è la Germania dell’assolutismo principesco; dietro il giovane Ortis c’è invece l’Italia dell’età Napoleonica con il delinearsi del nuovo regime oppressivo del “tiranno straniero”; in Werther c’è la disperazione che nasce dal sentire il bisogno di un mondo diverso, senza però intravedere alcuna possibilità concreta di una trasformazione profonda; in Jacopo c’è la disperazione che nasce dalla delusione rivoluzionaria, dal vedere tradite tutte le speranze patriottiche e democratiche, dal vedere la libertà finire in tirannide. Non essendoci alcuna alternativa possibile sul piano della storia, l’unica via che si offre ad Ortis è la morte intesa in termini materialistici, quindi come distruzione totale e “nulla eterno”. Nonostante si approdi alla decisione tragica del suicidio, all’interno dell’Orits troviamo già una ricerca di valori positivi quali: la famiglia, gli affetti, la tradizione culturale italiana, l’eredità classica, la poesia. In quest’opera prevale decisamente in Foscolo la spinta lirica, o saggistica, od oratoria; l’opera appare come un lungo monologo ed è scritta in prosa aulica, pervasa da una continua tensione al sublime, la sintassi è complessa, sul modello aulico. Per concludere queste poche considerazioni sul tema, ritengo opportuno segnalare anche la voce di un filosofo come Schopenhauer, che indica come terzo modo per evadere dal mondo della rappresentazione l’ascesi, la quale nasce da un sentimento d’orrore per il mondo fenomenico. Distingue due tipi di ascesi; quella dei primi cristiani e quella degli antichi saggi indiani; quest’ultima si identifica col nirvana dove si annulla ogni legame col mondo, e si realizza nella nolontà: negazione della volontà di vivere. Questa negazione della volontà di vivere non è il suicidio poiché come azione è legata al mondo della rappresentazione, dà senso di malcontento della vita e questo testimonia un forte attaccamento ad essa, perciò concludo dicendo che Schopenhauer condanna il suicidio poiché solamente attraverso la nolontà che è estasi, abbiamo un distacco totale dal mondo.