MARCO MARTINI
SOCRATE, UN IMPUTATO GIUDICE
Edizioni ISSUU.COM
PLATO E, APOLOGIA DI SOCRATE. Scritta nel 396, tre anni dopo la morte di Socrate, l'Apologia è insieme un documento storico del più alto valore ed un'opera d'arte. Si consideri che Platone non era stato presente alla morte di Socrate, anche se aveva presenziato al processo. Il dialogo, appartenente agli scritti giovanili o "socratici" (quelli del primo periodo), si articola in tre parti: l)l'apologia, 2)il giudice, 3) il veggente. 1) L'apologia. La virtù del giudice o dell'oratore è dichiarare la verità, non ingannare con la forma(infatti, nell'Atene dei sofisti, il pubblico aveva già imparato ad apprezzare più la forma che la verità). A Socrate, che all'età di settant'anni compare per la prima volta nella sua vita in tribunale, non converrebbe fare il sofista, e per questo nega l'accusa di essere un oratore, a meno che per oratore non s'intenda colui che afferma la verità. In quanto "ricercatore della verità" è stato erroneamente confuso con i sofisti. Di due tipi furono i suoi accusatori: a)quelli che lo accusarono di recente e b)coloro che lo accusarono molto tempo fa. Socrate è accusato da Meleto di empietà, ovvero di avere introdotto in Atene divinità nuove e di aver corrotto i giovani e la gente anche mediante queste. Socrate invita la gente ad informarsi se sono vere queste o altre "storielle" che molti narrano su di lui. Ironicamente Socrate cita Gorgia, Prodico, Ippia come "maestri di virtù" che si fanno pagare dai giovani. Socrate non conosce tale virtù, come lui stesso afferma ironicamente, perché trattasi non di virtù umana, ma sovrumana. Socrate a molti è venuto in odio, perché si riteneva più sapiente di tanti politici (allusione a Pericle), che dicevano di sapere ciò che non sapevano; certo è che Socrate è più sapiente di costoro, in quanto sa di non sapere. Ecco che Socrate, elevandosi a problemi sempre più complessi, passa da accusato a giudice. Per questo Socrate si è allontanato da poeti e tragici, per la paura di superarli per la medesima ragione per cui superava i politici. Andando presso gli artefici, trovò gente fornita di cognizioni a lui ignote, ma anch'essi, come i poeti, pretendevano di sapere cose d'altre scienze, e ciò offuscava la loro sapienza: e perciò Socrate preferì rimanere nella sua "sapienza di non sapere". Per tutto ciò Socrate s'è attirato forti inimicizie, perché ha confutato le ipotesi di chiunque non gli sembrava dotto, ma che tale pretendeva di essere. Tutti costoro, se credono che Socrate sia sapiente, si sbagliano: è il più ignorante di tutti, vive in povertà estrema, al servizio di Dio. Meleto, Anito, Licone, per le continue domande e i continui dubbi di Socrate, hanno calunniosamente accusato il filosofo di corrompere i giovani. Socrate prova ora a difendersi dall'accusa di empietà, mossagli da Meleto, che si dice poeta, uomo per bene ed amico della patria. Se è vero che Socrate corrompe i giovani, chi li rende migliori ? Le leggi, i giudici, i consiglieri, i membri dell'assemblea, il popolo ateniese tutto, eccezion fatta per Socrate. risponde Meleto "a scatti", a forza di continue ed imbarazzanti domande. Ma Meleto accusa Socrate di non essersi interessato ai giovani: sarebbe una gran fortuna se un solo uomo, afferma il filosofo ateniese, fosse ostile ai giovani, e tutti gli altri benèfici ! Meleto accusa Socrate di corrompere i giovani volontariamente: ma Meleto, così giovane, è già savio da sapere che i cattivi arrecano sempre del male a chi convive con loro, e Socrate, più che settantenne, commetterebbe il male per ignoranza del bene, rischiando di ricevere danno da colui che rende perverso? Se è così, questo non è il posto per Socrate, per gli ignoranti, che devono essere ammoniti ed istruiti, ma per i veri colpevoli, come afferma la legge d'Atene. Meleto ha quindi sbagliato a condurre qui Socrate. Meleto cade poi in contraddizione, definendo Socrate un ateo, quasi proponendo un indovinello per accusare il popolo. Se è vero che i demoni sono figli di Dei (Platone riprende qui il concetto di "demone socratico" come una sorta di "ispiratore divino"), e Socrate, secondo Meleto, crede nei demoni ed insegna cose demoniache, è vero che Socrate crede negli Dei, e perciò non è ateo. Socrate si è esposto alla morte, ma se si persegue un fine con virtù, non dobbiamo temere la morte, bensì il disonore. Socrate introduce in Atene. per la prima volta, l'identità di vita e filosofia, che fu già di Pitagora e dei pitagorici. E' sempre stato fedele alle leggi d'Atene, anche quando ha avuto l'ordine di combattere a Poti dea, a Delio, ad Anfipoli, e di esporsi già da allora al rischio della morte; per altri motivi, se non quelli militari, non ha mai abbandonato la sua città. Temere la morte è null'aItro che credere di essere sapiente non essendolo. poiché è un sembrare di sapere una cosa che invece non si sa, poiché
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nessuno sa se essa è il maggiore di tutti i beni o di tutti i mali. Non dobbiamo temere ed evitare ciò che non sappiamo, ma desiderare di conoscerlo. Null'altro Socrate fa che persuadere i giovani a non curarsi del corpo prima dell'anima, e se far ciò significa empietà, Socrate continuerà a farlo, e indipendentemente dal giudizio di Anito, è pronto a morire più volte. A provare che Socrate dice il vero è la sua povertà, l'abbandono delle proprie faccende domestiche per persuadere ciascun ateniese a praticare la virtù, in modo familiare. Proprio per la perenne presenza di un demone, Socrate è stato dagli increduli travisato come un Dio immaginario: tale demone, "qualcosa di divino", come dice Meleto, è per Socrate la voce della coscienza, che sempre lo invita a ragionare quand'è sul punto di agire. Ed è tale demone che lo tiene lontano dalla politica (e ciò lo farebbe morire spiritualmente) e vicino alla ricerca della giustizia. Quando Socrate era membro del Consiglio dei Cinquecento, la "Bulè", successivamente, nel 404-403, al tempo dei Trenta Tiranni, è sempre stato uguale, come ora, sotto il nuovo sedicente governo democratico, ed ha sempre ricercato la condizione che pote,sse rendere possibile uno Stato e la giustizia, a rischio della vita. Quale ragione avrebbero le genti come Critone. ed altre genti, tra cui giovani, a difendere Socrate se non quella d'essere convinti che Meleto è bugiardo e che Socrate dice il vero? Nel corso del dialogo si notano il rispetto e l'amore di Socrate verso Atene e gli ateniesi. Socrate conclude la propria difesa dando la parola al giudice, che in quanto tale giudicherà secondo giustizia, perché se Socrate ha voluto sofisticamente persuadere il popolo di cose non vere, venga condannato, perché varrebbe l'accusa di empietà mossagli da Meleto, ed insegnerebbe a non credere agli Dei; se invece è innocente e ha detto il vero, venga assolto. Socrate conclude la propria difesa auspicando che il giudizio sia il migliore per sé stesso e per gli ateniesi. (Con una prima votazione segreta, i giudici dichiarano che Socrate è colpevole, con 280 voti contro 220. Socrate deve ora dichiarare di quale pena si crede meritevole). 2) Il giudice. Socrate afferma ironicamente che pensava di essere condannato per più voti. Non avendo ricchezze materiali, si ritiene colpevole, sfidando il giudizio di chi non sa comprenderlo. Socrate non fa piagnistei, non implora, non supplica nessuno, soltanto è certo di aver fatto del male a nessuno. Quale colpa può Socrate proporre, lui che, ironicamente, afferma di non sapere cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto? Il carcere? Una multa che non potrà mai pagare, non avendo soldi? L'esilio? Se scegliesse quest'ultimo, si troverebbe a vagare di città in città, con gli stessi problemi, avendo sempre giovani attorno; se volesse cacciarli, saranno essi a cacciarlo via, persuadendo gli anziani; se li accoglierà, li interrogherà e discuterà con loro; in tal caso, i padri ed i parenti, preoccupati, caccerebbero Socrate. Il filosofo ritiene come una disobbedienza agli Dei trascorrere il resto della vita in silenzio, e ciò parrebbe cosa impossibile anche a lui, perché il maggior bene toccato all 'uomo è quello di poter continuamente interrogarsi e interrogare gli altri circa la perenne ricerca della virtù. Non si ritiene adatto a subire alcun male: se potesse, si multerebbe, perché la perdita di denaro non è perdita. Possedendo soltanto una mina d'argento, si multa di tanto, ma Platone (che, come si è inizialmente detto. presente al processo), Critone, Critobolo ed Apollodoro si fanno garanti di trenta mine d'argento: pertanto Socrate si multa di ciò. (Su proposta di Meleto, Socrate è condannato a morte anziché alla multa, con 360 voti contro 140. Si sono aggiunti, in questa seconda votazione concernente la pena, altri 80 voti a favore della condanna del filosofo, perché alcuni si sono irritati per il comportamento di Socrate, ritenuto provocatore). 3) Il veggente. Socrate, sempre ironicamente, afferma che, data la sua età, fra non molto sarebbe morto da solo, se il giudizio avesse pazientato un poco, ma ormai così è stato. Per fare oltraggio agli accusatori, quando sarà morto, i suoi amici e difensori diranno che è morto un sapiente, e, dice Socrate, diranno il falso. Ma non chiede pietà, non è un vile che getta le armi di fronte al nemico: preferisce la morte del corpo, la cicuta (un veleno), che la corruzione, la malvagità, l'ingiustizia. Socrate a questo punto si fa veggente e predice che dopo la sua morte, i suoi accusatori subiranno una ben più grave pena,
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alludendo all'infamia, nel giudizio dei posteri. Mandando a morte gli uomini si aggiunge errore ad errore, ed il rimedio più semplice e logico consiste nel non opprimere nessuno, e nel tendere, invece, a migliorare sempre sé stessi Con ciò Socrate si congeda da coloro che lo hanno condannato e si rivolge a quelli che invece lo hanno assolto, agli amici, ai difensori, intanto che i giudici hanno qualcosa da fare e lui non deve ancora recarsi a morire. ulla vieta l'ultimo colloquio: Socrate afferma che il proprio demone, che solitamente lo avverte di ciò che è male per lui, in tutto il suo discorso in tribunale, mai gli si è fatto presente: questa è la prova che morire non è un male (concetto presente all'inizio del Fedone, nel colloquio tra Fedone ed Echecrate). Consideriamo la morte da un duplice punto di vista: a) il non-essere, il nulla; b) una trasmigrazione dell'anima da un luogo ad un altro (si riprendono i miti orfici e pitagorici, circa la dottrina della metempsicosi). Nel primo caso si verifica uno stato senza sensazioni, e pertanto la morte, che ci appare come un sonno placido, è un guadagno meraviglioso. Se è invece un viaggio verso un luogo migliore, in cui vivono coloro che hanno ricercato la giustizia, sarebbe ancor più meraviglioso vivere e colloquiare con loro, che vivono ora una vita immortale, e che perirono in terra per un ingiusto giudizio. In tal caso si vivrebbe una vita eterna! Socrate afferma che morire è togliersi da ogni problema è la migliore soluzione per lui: per i giusti non c'è quindi alcun male, né in vita, né dopo la morte. Socrate rivolge infine una preghiera al popolo ateniese, quella di castigare i suoi figli qualora. una volta divenuti adulti, s'interessassero più della ricchezza e delle cose materiali che della virtù. Se così faranno coloro che lo stanno ascoltando, egli sarà contento. Socrate conclude il dialogo con le seguenti celebri parole: "Ma è già l'ora di andare: io a morire, voi a vivere. E chi di noi vada a miglior destino, ignoto è a tutti, tranne che a Dio".