Storia dell'alimentazione dall'età antica al Rinascimento

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Marco Martini

Storia dell’alimentazione dall’età antica al Rinascimento

Edizioni ISSUU.COM


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STORIA DELL’ALIMENTAZIONE DALL’ETA’ ANTICA AL RINASCIMENTO. Definizione di ‘storia settoriale’: è lo studio specifico di un settore della storia civile (famiglia, religione, educazione fisica, costituzione o organizzazione politica, scienza e tecnica, arte ed architettura, industria ed artigianato, economia, scuola, alimentazione, eccetera), non considerato ‘a sé stante’, ma in relazione con la storia civile stessa, la storia settoriale è quindi un modo specifico per studiare e ricostruire la storia generale delle società. Questo tipo di studi settoriali è tipicamente francese. Scopo di questo lavoro è appunto quello di ricostruire una storia dell’alimentazione nel periodo storico considerato senza tuttavia perdere di vista il quadro generale dei basilari avvenimenti storici. Bibliografia: M. Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, 1995; M. Montanari, Convivio, 1989; M. Montanari, Nuovo Convivio, 1991; M. Montanari, Convivio oggi, 1992; M. Montanari, Il pentolino magico, 1995; M. Montanari, Storia dell’alimentazione in Europa, 1997; M. Montanari J. L. Flandrin, Storia dell’alimentazione europea; M. Montanari, L’Europa a tavola. Storia dell’alimentazione dal Medioevo a oggi, in “Storie settoriali”, Laterza, Roma - Bari, 1997. Fumagalli, L’agricoltura del Medioevo nell’Italia cispadana, Einaudi, Torino. Massimo Montanari, docente di storia medievale all’Università di Bologna, è uno dei più esperti storici dell’alimentazione in Italia. I. IL MONDO ANTICO: IL TEMPO DELLE CARESTIE E DELLA FAME. Nel V° sec. d.C. il vescovo e scrittore Fabio Fulgenzio sostenne che la poesia e la letteratura, in questi tempi di carestia, sono secondari al problema dell’alimentazione. La crisi politica, presente fin dal III° sec., esplode nel 476 d.C. con il crollo dell’impero romano d’Occidente. Si preparano tempi difficili con carestie, pestilenze e guerre. Si mangiano carni di ogni specie e radici. La crisi alimentare colpì in modo particolare la Gallia. Alcuni morivano esclusivamente a causa dell’alimentazione, perché mangiavano solo radici, minestre di insetti e addirittura carne umana, di cadaveri. Molti ‘convivevano’ con la fame, la sopportavano come una compagna della loro vita. I terreni incolti, a partire dal III° sec., erano più di quelli coltivati. I Greci ed i Romani avevano costruito terreni attorno alle città proprio perché l’’incolto’ era considerato negativamente. A partire dal II° sec. d.C. presso i Romani la base dell’alimentazione era costituita da grano, vite, ulivo, con l’aggiunta di un po’ di carne e di formaggio ( di pecora e di capra). Questo tipo di alimentazione si caratterizza come ‘mediterranea’, mentre presso i popoli celtici del Nord Europa l’alimentazione è a base di latte di giumenta (non di pecora e capra), birra, caccia, pesca, frutti selvatici. Tuttavia, anche i Romani mangiavano cereali e carne di maiale. I Germani non conoscono il pane ed il vino: bevono orzo, frumento e birra. Il pane è sconosciuto anche nel Nord Africa, presso la tribù dei Mauri. Nelle Americhe è diffusa la coltura del mais, in Asia quella del riso. Nell’Europa meridionale non si mangia quasi mai carne. ‘Romani’ e ‘Barbari’ si cominciano pertanto a distinguere con due culture alimentari ben diverse. DOCUMENTI. Lo storico romano Plinio il Vecchio (I° sec. d.C.) nella Storia naturale sostiene che i cereali sono la base dell’alimentazione mediterranea, con i quali si fanno pani e focacce. Lo storico latino Tacito, nella sua opera La Germania, sostiene che i Germani sono un popolo violento, ma sincero e semplice, a differenza dei Romani, popolo corrotto. Centro della vita sociale dei Germani è il banchetto. L’imperatore romano Giuliano, in una sua poesia satirica, disprezza la birra, bevanda ‘barbarica’, per esaltare il vino greco e romano. E’ una contrapposizione, questa, ricorrente nella letteratura classica, che ribadisce la notevole differenza tra due culture alimentari: Nord e Sud d’Europa. Nord e Sud, si può quindi affermare, assumono un valore planetario. II. L’ALTO MEDIOEVO: LA MENSA DEI POVERI E QUELLA DEI RICCHI. E’ fondamentale precisare, innanzitutto, la cronologia del Medioevo, secondo il seguente schema: -alto Medioevo: dal V° al X° sec., ossia dal 476 (anno del crollo dell’impero romano d’Occidente) al feudalesimo;


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-secoli centrali o secoli ‘d’oro’ del Medioevo: dall’XI° al XIII° sec., ovvero l’età compresa tra i Comuni e le Signorie; -basso medioevo: XIV° e XV° sec. (crisi del ‘300 e primo Umanesimo ), fino alla scoperta dell’America (1492). Nell’alto Medioevo, ossia tra il V° ed il X° sec., la carne, e specialmente quella di maiale, diventa simbolo del potere. La quercia produceva il vischio, con cui si catturava la maggior parte degli animali selvatici. Carne, pane e lardo sono gli alimenti dei Franchi. Si raccomandano i cibi cotti, più digeribili di quelli crudi. Carne, pane, vino ed olio diventano simboli del potere. Nel IV° sec., con la crisi della religione pagana e l’avvento del cristianesimo, pane vino ed olio diventano simboli della fede. Il pane per eccellenza è Cristo stesso. La cultura del vino si oppone a quella della birra. Pane e vino sono i cibi più diffusi nei monasteri, come quelli di San Colombano e di Cluny. Anche i nuovi modelli di comportamento alimentare ribadiscono la differenza tra le due culture: nel mondo greco-romano bisogna consumare senza voracità ed offrire agli ospiti senza ostentazione, mentre nel mondo germanico, al contrario, si propone il mito del grande ‘mangiatore’, forte, superiore, animalesco. Tale mito è diffuso presso i Vikinghi, con il leggendario Thòrr, i Franchi, con Carlo Magno ed i Longobardi. Anche gli abati del Nord Europa mangiavano molto, a differenza di quelli dell’Europa mediterranea. Carlo Magno era franco e cristiano, e ciò creò contraddizioni anche nel suo regime alimentare: si limitava faticosamente nel bere, ma riteneva le diete nocive alla propria salute. Le risorse alimentari provenivano dalle terre coltivate e da quelle incolte, secondo il binomio, assai ricorrente nell’ Alto Medioevo, “Terra et silva”, ossia “Terra e bosco”. La carestia colpì sia le colture che le foreste; le grandi piogge danneggiarono i cereali, ma furono abbondanti le vendemmie e si sviluppò la pesca. L’inverno del 548 fu particolarmente rigido, al punto che gli uccelli, rimasti paralizzati dal freddo, potevano essere catturati con le mani, senza bisogno di trappole. La pesca, in questo periodo, si configurò più come economia di palude ( lago e fiume) che di mare. Si pescavano anguille, salmoni e gamberi d’acqua dolce. Pane, vino ed olio si diffusero presso i ceti privilegiati, mentre le verdure rimanevano l’alimento dei poveri. Dopo la crisi del III° sec. al frumento si sostituirono cereali di qualità inferiore, come segale, orzo, avena, farro, miglio. Il pane di frumento è bianco, quello di segale o di altri cereali è nero. Il primo è un prodotto di lusso, riservato ai signori, il secondo ai servi ed ai contadini. Già Plinio il Vecchio, nel I° sec. d.C., definì il pane di segale “decisamente cattivo”. Stesse contrapposizioni sociali tra pane fresco e pane raffermo, tra pane cotto a legna o fra la cenere. Anche per la carne, si notano le differenze economiche: i signori mangiavano carni fresche (celebre era la selvaggina, sempre fresca, mangiata da Carlo Magno), mentre per i contadini mangiare pollame domestico fresco (galline, oche, anatre) era giorno di festa. Era importante, soprattutto per gli eremiti di questi secoli, saper distinguere le piante buone dalle cattive, poiché spesso si cibavano di piante. Molti venivano còlti da dolori di stomaco e vomito. Ci si cibava di pere, mele, castagne. Nel IX° sec. iniziarono le lotte tra monasteri e contadini per il possesso della terra da coltivare: non era per nessuno solo un problema di potenza, ma di alimentazione, legato alla possibilità di lavorare la terra. I trasgressori della legge, ai tempi di Carlo Magno, venivano sottoposti a digiuni obbligatori, mentre i Franchi mangiavano carni di cerbiatto, cervo, cinghiale, bue, maiale, vacca. I digiuni erano quindi non solo scelte religiose, ma punizioni giudiziarie. DOCUMENTI. Far l’elemosina e nutrire i poveri è un mezzo, come pensavano alcuni re di Francia, per guadagnarsi il paradiso. Spezzare le ossa di animali morti, presso i popoli germanici, era considerato un cattivo presagio per il raccolto, come si pensava presso i Longobardi. Benedetto da Norcia prescrisse, nella sua Regola, la misura del cibo, delle bevande e l’orario in cui i frugali pasti dovevano essere consumati.


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Carlo Magno, anche se difensore della cristianità, abbondava negli arrosti di selvaggina fresca, affermava che i digiuni imposti dal clero erano nocivi alla sua salute e disprezzava gli inviti dei medici alla moderazione. III. LA SVOLTA DELL’XI° SECOLO NELL’ALIMENTAZIONE. Nel IX° sec. si abbattono gli alberi e si amplia la zona coltivata: si assiste pertanto ad un’opera di disboscamento e ad una espansione agricola, attuata anche per la costruzione di nuovi centri, vista la crescita demografica, che toccherà il suo apice intorno all’anno Mille. Si abbattono le selve che non producono frutti, vengono coltivati i boschi e si diffonde, in modo particolare, la coltura del castagneto da frutta. L’XI° sec. fu particolarmente colpito dalla carestia e dalla fame: ciò portò alla piaga del cannibalismo (antropofagia). La penuria di cibo colpì anche le classi sociali più elevate. I bambini venivano adescati con le uova, trucidati, squartati, cotti sul fuoco e divorati. Di notte si dissotterrano perfino i cadaveri per poi mangiarli. In questi secoli l’economia assunse un carattere agricolo ed in Francia ed in Inghilterra i boschi diventano patrimonio reale e nobiliare. Nei secoli X° e XI° i rapporti tra signori e contadini si fanno quindi più tesi. Tale situazione si aggrava nei secoli XIII° e XIV°, in cui sono frequenti le rivolte contadine, che rivendicano anche il diritto, riservato solo al sovrano ed ai nobili, di libera caccia, come ci viene presentato dalla leggenda di Robin Hood. In conseguenza ai limiti di caccia, la carne diventa sempre più il cibo dei ricchi, per i quali la Quaresima ( tempo in cui si lasciano le carni ) è solo un’occasione per mangiare altre leccornie. La Quaresima colpisce pertanto solo i più poveri, che non possono godere della carne neanche a Carnevale ( tempo in cui ‘vale la carne’). A partire dall’XI° sec. le scorte delle famiglie contadine sono costituite da pane, mentre il termine ‘companatico’ (ciò che accompagna il pane ) si addice solo ai ricchi. Il pane comincia a non mancare mai nelle mense dei contadini, che spesso costituiscono la classe dei poveri: si delinea così sempre più, nei secoli XII° e XIII°, il divario tra città e campagna, divario destinato a durare a lungo nella cultura europea. La cucina medievale nasce dalla completa rottura con la gastronomia antica e dal contatto con quella araba attraverso la penisola iberica e la Sicilia. Non è facile trovare tracce della cucina medievale nelle nostre pratiche attuali. Questo perché i gusti sono stati sconvolti da una netta frattura come quella che si è prodotta fra il VII° ed il IX° secolo con l’abbandono della maggior parte delle spezie orientali, ad eccezione del pepe, della valorizzazione degli aromi locali e dalla diversificazione dei grassi e del loro uso. Si nega da più parti al Medioevo la capacità di elaborare un gusto gastronomico che non sia puramente difensivo: il famoso obbligo di mascherare con le spezie il fetore della carne avariata. Questa interpretazione è indice di superficialità della materia, in quanto non si capisce per quale motivo il medioevo occidentale, creativo in altri tempi, sarebbe stato così povero di inventiva a livello gastronomico. Quindi non basta parlare di “pane, companatico e vino” per esaurire il tema sull’alimentazione di quel tempo. L’arte del cucinare è una pratica culturale che obbedisce ad imperativi geografici di approvvigionamento e, al tempo stesso, a regole e costumi ereditati e adattati alla società del tempo. Il nostro medioevo ha generalmente scelto il cibo cotto, anche se non è escluso il consumo di quello crudo ( i vegetali ). Insalata e frutta si mangiano normalmente. E’ interessante analizzare le differenze tra le classi sociali del tempo in rapporto al cibo e cogliere così l’aspetto sociale del “cibarsi”. Il ricco banchiere o il duca possono, in un mercato ben fornito, scegliere gli alimenti migliori per poter allestire i loro pranzi, mentre il montanaro mangerà castagne cercando di trasformarle in farina ed in pane. Il confronto è tra il villano ed il signore. Un confronto che può essere brutale in tempo di carestia, per esempio nel 1315/16, quando l’Europa è colpita da una crisi cerealicola. Il signore aveva riserve nei fienili e nei granai, mentre il contadino era costretto a ripiegare sul consumo di erbe selvatiche. In tempo di abbondanza questa differenza non è poi così enorme, tutti consumano verdure, pane e carni perlopiù lesse. La vera differenza consiste nella quantità. Per diversificare il modo di cucinare si deve considerare il numero delle feste. Mentre per i nobili le occasioni di banchettare erano molte, con una ricerca gastronomica quasi quotidiana che manifestava potenza e ricchezza, per il contadino, al contrario, occorreva attendere il Carnevale ed il


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giorno del Santo Patrono. Questo notevole divario tra il quotidiano ed il festivo è visibile in tutte le cucine. Per alcune feste religiose il consumo è rituale: lasagne a Natale, farro per Carnevale, uova e formaggio per l’Ascensione, oca per Ognissanti, agnello a Pasqua. Ecco un tipico menù della Quaresima medievale:

1° Servizio: Porrata di verde di magro Pesce in agrodolce

2° Servizio: Spiedini d’anguilla alla S. Vincenzo Tonno in salsa gialla

3° Servizio: Pesce in gelatina Taillis di frutta secca

4° Servizio: Torta in balconata Ippocrasso Nucato

5° Servizio: Vino e Spezie


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Da quanto si è detto, nel medioevo la cucina ricopre sia l’aspetto religioso che sociale, e l’interesse maggiore è forse ricoperto dal primo, che ci viene introdotto dalle feste intese come ritmi annuali, ovvero alternanze del grasso e del magro ( carne e pesce ). La Chiesa imponeva di astenersi dalla carne il mercoledì, venerdì e sabato di ogni settimana, per la vigilia delle feste e durante la Quaresima. Particolare attenzione va posta alla presentazione delle portate. Oggi i menù sono composti da un certo numero di piatti salati e dolci, presentati uno dopo l’altro secondo un ordine prestabilito e seguendo una gerarchia di gusti. Questo tipo di servizio si è generato solo alla fine dell’Ottocento, mentre nel medioevo lo svolgimento del pranzo era concepito in maniera del tutto diversa. Venivano presentati parecchi servizi, ognuno dei quali costruiva un insieme di piatti diversi posti sulla tavola. In tal modo, a seconda del posto che ogni commensale ricopriva, si produceva una selezione gerarchica delle vivande più o meno raffinate. Un’altra maniera di dare una sequenza alle vivande era quella di paragonare lo stomaco ad una “marmitta” nella quale cuociono i vari alimenti. Innanzitutto è necessario “aprire la bocca” con vivande a componente acida, costituite da frutta fresca di stagione come melone, ciliegie, fragole, uva ed insalate, il tutto condito con olio, aceto e sale; adesso la “marmitta” è pronta per accogliere i cosiddetti brodetti, perché si pensava che richiedessero una cottura più lunga. Seguivano poi le carni accompagnate da salse e, dopo queste, arrosti imperiali. Più il banchetto era importante e più imponenti dovevano essere le montature, seguite da intervalli musicali con giocolieri. Il pasto continuava con la "Desserte" ( il moderno “dessert” ): formaggi, frutta candita e dolci leggeri accompagnati da ippocrasso e malvasia. Per finire, il “Boute hore” ( caccia fuori ), consistente in coriandolo e zenzero canditi che, masticati, favorivano la digestione e rinfrescavano l’alito. La scelta degli alimenti non era trascurabile, includeva parecchi articoli oggi scomparsi e dipendeva da un approvvigionamento legato al clima, all’alternanza delle stagioni ed ai rischi del mercato. Gli allevamenti offrivano suini, ovini, caprini e bovini. Da parte sua la caccia arricchiva e diversificava i menù, si cucinavano anche i volatili, oggi protetti, come l’airone, il tarabuso, il cigno, il pavone, il quale veniva arrostito e ricomposto con le sue piume. Il pesce, sia fresco che essiccato, era considerato il sostituto della carne, durante i periodi magri imposti dal calendario. Paganelli, alose, carpe, trote, salmoni, lucci, anguille, storioni e lamprede venivano pescati nell’acqua dolce, mentre il mare offriva una riserva di sogliole, sgombri, cefali, razze, merluzzi, tonni e rombi. Ma il rifornimento dei pesci era problematico sia per la conservazione che per il trasporto nelle città interne. Più limitata, rispetto ad oggi, la scelta della frutta e della verdura. In certe regioni d’Italia riuscivano a fare una grande provvista di frutta appena colta, in particolare di melagrane, dai bei chicchi decorativi, melangole, limoni e limette. L’attrezzatura della cucina medievale era basata soprattutto sulla praticità e sulla manualità del cuoco, un vero artista del coltello. Il lavoro della lama è il primo indice della lavorazione culinaria, come se, attraverso questo ridurre la materia e sottometterla alla volontà del cuoco, si esprimesse il marchio dell’esperto divenuto artista e creatore. Una funzione importante l’aveva anche il mortaio, usato unicamente per i vegetali. Per quanto riguarda la cottura delle carni, queste venivano lessate prima di essere fritte o di essere messe allo spiedo. Questo metodo, che oggi potremmo chiamare precottura, aiutava le carni ad essere più pulite dal grasso, rassodate e ben compatte. Lo stesso procedimento veniva usato anche per alcuni tipi di verdura; così facendo le verdure avevano il colore più acceso e perdevano l’amaro prima della cottura iniziale. Un altro elemento di grande importanza nella cucina medievale era il grasso di maiale. Questo, con il suo aroma, impregnava tutta la cucina dell’epoca: lardo, lardo fresco, lardo salato, lardone, strutto. Ma la cucina medievale si arresta e queste tecniche, i sapori, i prodotti, per anni non subiscono modificazioni, variazioni o innovazioni, fino al primo Rinascimento.


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IV. L’ALIMENTAZIONE NELL’ETA’ COMUNALE E NEI SECOLI CENTRALI O D’ ’ORO’ DEL MEDIOEVO: LA RINASCITA DELLA CUCINA. Tra il IX° e l’XI° secolo si verifica una crescita agraria nelle campagne, che riforniscono villaggi, castelli e monasteri, divenuti importanti centri di scambio. Il controllo di tale crescita è però affidato al potere comunale delle città, che viene rafforzandosi proprio nell’XI° secolo. Nascono i trattati di agronomia, perché tutti sanno coltivare i cereali inferiori, ma non il grano. Come emerge dai trattati inglesi di agronomia, nei secoli XIII° e XIV° il frumento diventa il cereale più importante sia in città che in campagna. Si verifica, in questo periodo, un’importante innovazione nell’uso dell’aratro: l’aratro non viene più legato al collo dell’animale, ma alle sue spalle; in questo modo, il solco tracciato nel terreno è più profondo e permette, di conseguenza, maggiori e migliori sistemi di coltivazione. Si passa, inoltre, dal mulino ad acqua al mulino a vento. I poveri, come a Genova, vengono cacciati fuori dalle mura delle città. L’Europa raggiunge il periodo più florido, dal punto di vista alimentare, nella prima metà del XIII° secolo, esattamente attorno al 1250. Un cittadino del ceto medio del Duecento mangia la carne fresca almeno tre volte la settimana. Il gusto si raffina: la distinzione tra ricchi e poveri non è solo legata, come nell’età antica e nell’alto Medioevo, al mangiare “tanto”, quanto al mangiare “bene”. Volatili, cacciagione, frutta e vini pregiati vengono mangiati e bevuti alla corte di Re Artù e dei cavalieri della “Tavola Rotonda” (così chiamata perché non vi erano “capotavola”), stando ai romanzi del ciclo bretone. Nascono le buone maniere intese come piacere per la buona tavola, come capacità di scegliere alimenti pregiati (non ancora come “galateo”: per questo bisognerà attendere il Cinquecento, con l’opera Il galateo di monsignor Giovanni Della Casa, in cui si ricerca il modello del perfetto comportamento a tavola; si tenga presente, in proposito, come il Cinquecento sia un secolo in cui la ricerca di modelli perfetti da imitare sia molto importante; Niccolò Machiavelli, nel Principe, ricerca il “modello” del “perfetto” capo di Stato e Baldesar Castiglione nell’opera Il Cortegiano ricerca il “modello” del “perfetto” uomo di corte). Agli inizi del Duecento il papa Innocenzo III° condanna le vanità mondane ed i peccati di gola nell’opera Il disprezzo del mondo, in un momento in cui il cuoco si specializza sempre più e si fa sempre più uso di spezie, quali zenzero, cannella, pepe. Le spezie passano dall’ambito medicinale a quello gastronomico grazie alle importazioni dalla Cina e dall’Oriente: intere “galere” veneziane portano le spezie a Venezia, che diventa, in Italia, un importantissimo emporio commerciale di spezie (si consideri, in proposito, l’importanza dei viaggi di Marco Polo, come ci illustra la sua opera Il Milione). Non è sempre vero che le spezie servissero a conservare carne e pesce o a nascondere il fetore di cibi avariati, in quanto si usavano già altri metodi di conservazione della carne e del pesce, quali la salagione, l’essiccazione, l’affumicatura. Le spezie vennero usate nella dietologia, in quanto si riteneva che favorissero la digestione. Presso il casato francese degli Angiò, a Napoli, inoltre, si considera “buono” un cibo particolarmente “speziato”. Nel Duecento si cominciano anche a scrivere ricettari e libri di cucina, ad uso di cuochi e gestori di taverne; tali ricettari hanno più la funzione di consigliare e di fornire raccomandazioni che non quella di essere semplici elenchi di ricette. In questo periodo, dal punto di vista alimentare, in Germania ed in Inghilterra si diffondono i brodi (celebre è quello di tartaruga), mentre dall’Arabia e dall’Oriente si importa il “biancomangiare”, consistente in riso e latte di mandorle. Tale cucina orientale in Europa è stata rielaborata come cucina di magro (riso in bianco bollito, pesce bollito e vegetali). Tra i caratteri distintivi della nuova cucina europea sono da ricordare le torte, che non hanno riscontro nella tradizione antica. Tutto può entrarvi: carne, pesce, uova, formaggi, verdure, a strati o a pezzetti. Tali torte vengono preparate e vendute nei forni, frequentatissimi, e che costituiscono i prodromi delle moderne pasticcerie. In questo contesto nascono anche le rosticcerie che, come i forni, vendono torte. I cittadini di Parma non vollero rinunciare al piacere delle torta “peste nera”, che tra il 1347 ed il 1351 decimò quasi un terzo delle popolazioni inglese e francese ed un quarto della popolazione europea.


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Dopo la peste, il brusco decremento demografico consentì un migliore equilibrio tra popolazione e risorse alimentari. Si registra, in particolar modo e soprattutto sulle mense dei ricchi, un notevole consumo di carne. In Germania, ad esempio, un uomo consuma mediamente 100 kg. di carne all’anno. Il consumo delle carni è maggiore nei Paesi del Nord Europa, quali Polonia, Svezia, Inghilterra, Paesi Bassi, Francia centro-settentrionale. Per questo motivo le popolazioni del Nord Europa sono fisicamente più elevate di quelle dell’Europa meridionale, abituate ad un’alimentazione più povera. Questo si verifica tra la fine del ‘300 ed il primo trentennio del ‘400. Tale fenomeno è anche indiscutibilmente favorito dalle “enclosures”, soprattutto in neanche durante la carestia del 1246: prepararono torte con erbe e radici! V. LA CRISI DEL TRECENTO NELL’ALIMENTAZIONE: IL RITORNO DELLA FAME. La crisi economica del Trecento segna una grave battuta d’arresto anche nel campo dell’alimentazione: ritorna il tempo della fame. Italia, Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Germania, Spagna e Portogallo sono investiti da una terribile carestia. Si mangiano cavoli senza pane e, come ci attestano le Cronache di Giovanni Villani il comune di Firenze ricorse a misure eccezionali per soddisfare i bisogni alimentari primari dei fiorentini. A complicare la situazione intervenne la Inghilterra, ovvero dalla trasformazione delle zone coltivate in pascoli: l’incremento del consumo delle carni è quindi consequenziale alla crisi delle coltivazioni. I boschi offrono la possibilità di procurarsi selvaggina. E’ anche il momento in cui si cominciano a fare riserve di animali, custoditi nelle stalle e nei poderi contadini: esempio tipico è il maiale. A questa “società di carnivori” il calendario ecclesiastico imponeva di astenersi dal consumo della carne per circa 160 giorni all’anno: all’inizio il mercoledì e il venerdì, poi solo il venerdì. Da qui la necessità di sostituire la carne con uova, pesce, formaggi e legumi. Dalla dieta quaresimale venivano esclusi anche i cosiddetti “pesci grassi”, quali balene e delfini, la cui polpa appariva troppo simile alla polpa degli animali terrestri. Migliorano i sistemi di conservazione del pesce, soprattutto per anguille, aringhe salate del Baltico e carpe salate o essiccate, mentre il pesce fresco comincia ad essere una rarità. Nelle zone di montagna si allevano lucci, trote, salmoni, lamprede, storioni; questi ultimi, seccati e salati, diventano oggetto di commercio soprattutto per i mercanti veneziani e genovesi, che li importano dal Po, dal Rodano, dalla Gironda, dal mar Nero e dal Mar Caspio. Dalla fine del ‘400 il mercato del pesce si concentrò sul merluzzo, seccato (stoccafisso) e salato (baccalà), consumato abbondantemente anche dai ceti popolari delle città. VI. CIBO E SOCIETA’ IN EUROPA TRA PRIMO UMANESIMO E RINASCIMENTO. Per Umanesimo s’intende un periodo storico, letterario, artistico e culturale in genere compreso tra la fine del ‘300 e tutto il ‘400; il Rinascimento è la continuazione dell’Umanesimo nel ‘500. Umanesimo e Rinascimento studiano il medesimo concetto: spostare, gradatamente, l’attenzione da Dio e dalla Chiesa, che tanta importanza avevano avuto nel Medioevo, all’uomo ed ai problemi dell’uomo; si riscopre la centralità dell’uomo, essere autonomo e non più dipendente dalla religione. E’ tuttavia improprio parlare di questo periodo come un’età atea, in quanto la religione conserva comunque la propria importanza. La differenza qualitativa tra il cibo dei ricchi e quello dei poveri è sempre più netta; il pranzo rinascimentale è particolarmente raffinato nelle mense dei ricchi. In questo periodo, sulla tavola fa il suo ingresso anche la forchetta. L’opposizione alimentare è quella tra dominanti e dominati, è un’opposizione, quindi, di tipo sociale. A Bologna, per esempio, il pranzo dei ricchi dura anche sette ore, dalle 20 alle 3 di notte! Si consumano antipasti, vini, arrosti di piccione, tordi, pernici, teste di vitello, fegatelli, capponi lessati, caprioli, struzzi, capretti, salsicce, lepri, minestre con odori e salse, tortore, conigli, capretti, maiale, anatre, ulive, pane, uva, torte con zucchero, mandorle, ricotta, biscotti, latte, gelatina, pere, paste, marzapane. I piatti vengono mostrati: comincia ad avere importanza anche l’estetica. La paura della fame incombe sempre più sul popolo, che può solo sognare il “paese di Cuccagna” (come emerge da brevi favole comico-fantastiche francesi del tempo, i fabliaux del pais


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de Coquaigne) o del Bengodi (come ci illustra il letterato trecentesco Giovanni Boccaccio nella novella del Decameron su Maso e Calandrino, ingenuo imbrogliato da Maso). Con Caterina de’ Medici la cucina italiana si impone alla corte di Francia. Da questo periodo in poi la Francia, grazie anche all’arte culinaria del nostro Rinascimento, divenne la depositaria della gastronomia più ricercata ed elaborata d’Europa. In questo periodo si sono potute cogliere la meticolosità e la sontuosità della cucina francese, dove troviamo le basi, almeno in buona parte, della classica cucina internazionale. Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II°, porta al suo seguito in Francia una brigata di cuochi italiani e fa conoscere la cucina italiana, espressione più squisita della cucina rinascimentale. Da allora, grazie ai cuochi italiani, la cucina francese diventa la più ricercata d’Europa: si diffonde in Francia la cucina del “bianco-mangiare”, intesa come uso della besciamella. Nel Rinascimento, infine, con i viaggi e la scoperta dell’America, la cucina europea ed internazionale sarà completamente rinnovata: basti pensare all’importazione del caffè e del pomodoro (così chiamato perché inizialmente era di colore giallo, proprio in quanto “pomo d’oro”).


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