MARCO
MARTINI
I BAFFI CHE HANNO CAMBIATO LA STORIA
La Cultura della Barba nella Storia La barba nel corso dei secoli è stata simbolo di prestigio e potere, onore e rispettabilità, ma anche di inciviltà e barbarie a seconda del periodo storico. Sappiamo che già nella preistoria gli ominidi lasciavano crescere i peli facciali per proteggersi dal freddo e intimidire l'avversario. Per gli antichi greci la barba era simbolo di saggezza e maturità: infatti Zeus, re di tutti gli Dei, aveva una lunga barba mentre Apollo, giovane dio del sole, aveva i lineamenti dolci e femminei, e era dunque rasato. Il grande condottiero Alessandro Magno costringeva i suoi soldati a rasarsi, poiché in battaglia era svantaggioso avere la lunghe barbe; anche se, alcuni secoli dopo, furono uomini barbuti che distrussero l'Impero romano. La barba caratterizza anche le le differenti credenze religiose: in oriente gli islamici la portano, in quanto si narra che Maometto fosse barbuto, mentre in occidente, dopo lo scisma del 1035, diventa caratteristica degli Ortodossi mentre i Cattolici si radono completamente fino al sacco di Roma, quando i lunghi baffi erano la caratteristica dei barbari. È dal XVI secolo che la barba comincia a essere una questione di look: si comincia a pettinarla ed acconciarla in maniera creativa, come in Inghilterra, dove prendono piede barba e baffi appuntiti; questi approderanno nel continente un secolo dopo (la cosiddetta barba alla Van Dyke). Ma il vero secolo della barba e anche dei baffi è il 1800. La tecnica ha fatto passi da gigante e con la diffusione dello stile di vita borghese i negozi si riempiono di prodotti per la cura di barba e baffi, lusso ormai alla portata di tutti. Le basette vengono portate lunghe mentre ai baffi viene portata maggior attenzione e cura, questi diventano infatti imponenti e tipicamente arricciati all’insù; vengono curati con particolari creme ed unguenti di giorno mentre di notte viene applicato il piegabaffi, una striscia di stoffa che, attaccata alle orecchie, permette di tenerli distesi. Grandi personaggi del secolo portavano particolari barbe, che ormai hanno adottato i loro nomi: Abraham Lincoln rese famosa la caratteristica barba ispida intorno al viso, e vedremo come durante il Risorgimento Italiano i baffi di Vittorio Emanuele II e le barbe di Cavour e Garibaldi furono simbolo degli ideali di chi le portava. Durante il 1900 i barbudos di Cuba, capeggiati da Fidel Castro e Ernesto Che Guevara, fecero della barba un simbolo di rivoluzione, mentre i baffi divennero icone dei totalitarismi con Hitler e Stalin.
I BAFFI NEL RISORGIMENTO Con Risorgimento Italiano si intende il periodo che attraversa tutta la prima metà dell'Ottocento, caratterizzato da svolte sul piano culturale, ideologico e sociale che richiamavano gli ideali romantici e nazionalisti del secolo e che portò, il 17 Marzo 1861 all'unificazione del nostro paese. Il processo di unificazione dell'Italia durò quasi cinquant'anni, e si divide in varie fasi: i moti rivoluzionari del '20 e del '30, che scossero l'intera Europa ma si rivelarono fallimentari; la Prima Guerra d'Indipendenza, che scoppiò nel 1848, la cosiddetta “Primavera dei Popoli”, e la Seconda Guerra d'Indipendenza del 1859, dopo 10 anni di preparativi; la spedizione dei Mille e la Terza Guerra d'Indipendenza, che portò la maggior parte dell'Italia all'unità e infine la conquista di Roma che completa l'opera.
LE GRANDI PERSONALITA': GARIBALDI, MAZZINI E CAVOUR Il processo di unificazione italiano è stato opera, almeno nella sua fase culminante, di tre grandi personalità: Garibaldi, Mazzini e Cavour che nonostante le idee fortemente contrastanti, puntavano allo stesso obbiettivo: l'Italia unita. Probabilmente se avessero potuto eliminarsi a vicenda l'avrebbero fatto, ma ciò non è un fatto di per sè negativo: la pluralità di visioni politiche e sociali, da quella a sfondo religioso di Mazzini alle scelte strategiche di Cavour, fino all'impulsività di Garibaldi, ha infatti permesso sia il processo di unificazione stesso sia l'organizzazione seguente nello stato neonato.
Giuseppe Mazzini
Fondamentalmente democratico, fondò un'organizzazione basata su nuovi ideali formulati all'indomani del fallimento dei moti rivoltosi del 1830 e 1831, in seguito a una riflessione sulle cause di tali sconfitte. Questa organizzazione si chiamava Giovine Italia ed era caratterizzata da nuove idee per ottenere un'Italia libera, unita e repubblicana. Furono 4 gli ideali principali della Giovine Italia, nonché di Mazzini: La visione mistica della vita, legata alla concezione religiosa di Mazzini, il quale sosteneva che Dio aveva affidato una missione al popolo, che doveva combattere per ottenere la libertà e l'indipendenza. Il secondo principio della sua riflessione, fortemente collegato al primo ideale,
puntava a migliorare l'istruzione del popolo, che doveva conoscere i valori per i quali doveva combattere e morire; Mazzini era a conoscenza di quanto un sentimento condiviso potesse cambiare le sorti di una battaglia o addirittura della storia ed infatti sosteneva anche il principio associativo, terzo principio mazziniano, secondo il quale tutti i cittadini uniti dovevano combattere insieme per ottenere l'unità, parola che all'epoca aveva un'importanza enorme e veniva contrapposta alla molteplicità degli stati precedenti all'unificazione, simbolo di arretratezza e sottomissione agli stranieri. I primi tre ideali dovevano tutti alimentare il senso di nazionalità, valore fondamentale della Giovine Italia. Infatti ogni cittadino doveva sentirsi prima di tutto italiano, e solo in seguito siciliano o piemontese, poiché prima ancora dell'unione territoriale dell'Italia ci voleva quella interiore di ogni cittadino. Per ottenere l'unità e la liberazione dell'Italia ci voleva l'insurrezione armata da parte di tutto il popolo. Inoltre egli rinnegava la necessità della Monarchia, perché la vedeva come usurpatrice dei diritti inviolabili dell'uomo e non garantiva le libertà fondamentali che tutti i cittadini dovevano avere. Quindi, l'Italia doveva essere sì unita, ma anche repubblicana, ovvero essere governata da una Repubblica poiché era l'unica forma di governo che poteva garantire uguali libertà a tutti i cittadini indipendentemente dalla classe sociale di provenienza.
Giuseppe Garibaldi
Garibaldi è stato l'eroe moderno della storia italiana. Grazie alle sue imprese in giro per il mondo e al suo temperamento da vero condottiero si è creata un'aura di mito tra i contemporanei che è poi sopravvissuta nel tempo. Viene chiamato “l'eroe di due mondi” poiché oltre a combattere per l'unificazione dell'Italia, lottò in nome della libertà anche in Sud America. Infatti, dopo la fuga in Brasile, partecipò a molte guerre di liberazione di stati latinoamericani, come il Brasile o il Perù. Dal 1948 al 1967 combatté sette campagne in Italia, spesso mal equipaggiato o con soldati poco addestrati. Dopo l'unificazione d'Italia si schierò a fianco della Francia Repubblicana, dimostrando ancora una volta il suo desiderio di libertà per la sua seconda patria (fu deputato sia in Italia che in Francia). Il suo successo militare è dovuto soprattutto alla sua imprevedibilità; infatti le sue tattiche di guerra coglievano alla sprovvista anche i nemici più
esperti o che meglio lo conoscevano; tuttavia anche l'appoggio che aveva dalle sue truppe, dovuto al suo innato istinto al comando e al suo carattere, fece la differenza. Ma Garibaldi non ebbe successo solo in campo militar: il suo carattere, la sua fermezza negli ideali, il suoi modi cortesi lo resero una vera e propria star per i suoi contemporanei; giornalisti, illustratori e persino i primi fotografi lo seguivano fin quasi sui campi di battaglia, ma il suo disinteresse per l'egocentrismo e il carattere semplice lo portavano spesso a ritirarsi nell'ombra, come faceva dopo le campagne militari. Inutile dirlo, per le sue doti cavalleresche, era amato dalle donne. Garibaldi era uno spirito libero, un cittadino del mondo, e non volle mai farsi etichettare in una particolare ideologia; ovviamente al tempo non esisteva ancora nulla come i partiti odierni, ma in questo periodo nacquero diverse correnti politiche, dagli anarchici di Bakunin, al socialismo di Marx; tuttavia è da ricordare che fu Mazzini a trasmettere gli ideali della Giovine Italia a Garibaldi, quando i due si incontrarono a Marsiglia. Tuttavia mantenne sempre un a sua libertà intellettuale; questo fu criticato dalla storiografia a lui contemporanea, ma oggi, in seguito al collasso delle ideologie del secolo successivo possiamo capire meglio le ragioni di Garibaldi.
Camillo Benso conte di Cavour
Egli fu il primo Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo aver contribuito attivamente all'unificazione dell'Italia. Fu, tra i quattro padri fondatori, il più abile nelle destreggiarsi nella politica sia interna, sia estera, ad esempio alleandosi con la Francia nella Seconda Guerra di Indipendenza, annettendo al Regno di Sardegna anche la Lombardia. Dopo una formidabile scalata politica, durante la quale frequentò anche per il gabinetto D'Azeglio, nel 1852 ricopre la carica di Primo Ministro del Regno di Sardegna. Le sue idee politiche a questo punto sono già chiare: trasforma innanzitutto il Piemonte in uno stato costituzionale, sostenendo lo Statuto Albertino, e promuove un liberismo misurato e progressivo. Con la convinzione che l'economia è alla base della politica, promuove una serie di riforme in campo agricolo, organizzando una rete di irrigazione per evitare carestie, e potenziò le industrie, in particolare quella tessile. Spinto dal senso di appartenenza alla patria che si stava sviluppando, intraprese una audace campagna politica: cogliendo la possibilità di espandere la sua politica a livello nazionale, segue le idee del programma di Mazzini, tuttavia inserendolo in un contesto monarchico e liberale. Nel 1858 si incontra con Napoleone III a Plombières per stipulare un'alleanza; questo patto garantiva
l'intervento della Francia in caso di attacco dell'Austria, e se quest'ultima ne fosse uscita sconfitta, l'Italia sarebbe stata riunita in 4 stati, e in cambio la Francia avrebbe ottenuto Nizza e Savoia. Ovviamente questa alleanza non teneva conto del desiderio di unificazione italiano, ma per adesso l'obiettivo era sconfiggere l'Austria. In seguito all'acquisizione della Lombardia con la II Guerra d'Indipendenza, il sentimento nazionalista in aumento provocarono l'allontanamento della Francia con l'Armistizio di Villafranca; Cavour quindi si allontanò dalla guida del governo. Quando torna al governo, sfrutta la freddezza con la Francia per ordinare l'attacco allo Stato Pontificio durante la spedizione dei Mille. Grazie alla sua abilità politica e al suo motto “Italia e Vittorio Emanuele”, nasce il Regno d'Italia il 17 Marzo 1861.
FRIEdRIch NIETZSchE Non dimentichiamo che agli occhi di estranei che ci vedono per la prima volta, noi siamo qualcosa di diverso da quel che noi stessi pensiamo di essere: di solito nulla più di una particolarità che balza agli occhi e determina l’impressione. Così l’uomo più placido e modesto di questo mondo, sol che possieda un gran paio di baffi, può starsene, per così dire, all’ombra di essi, e starsene tranquillo – gli occhi comuni vedono in lui l’accessorio di un gran paio di baffi , intendo dire, un carattere militaresco, facilmente irascibile, talvolta violento, e si comportano con lui di conseguenza.
COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA,
UN LIBRO PER TUTTI E PER NESSUNO Composto tra il 1883 e il 1885, questo trattato di filosofia e morale racconta la storia del giovane Zarathustra che all'età di 30 anni scende dalla montagna su cui viveva da eremita verso il popoloso mercato per annunciare agli uomini la morte di Dio e di tutte le altre credenze ultraterrene. Per la scrittura di questo testo Nietzsche si ispirò a altre due grandi opere: la Bibbia, con la quale condivide lo stile di narrazione, e alla quale si ispira per il personaggio di Zarathustra, creato antiteticamente alla figura di Cristo; tuttavia tratta tematiche diametralmente opposte a quelle cattoliche e giudaiche. L'altra opera è saggio del filosofo tedesco Schopenhauer, inizialmente amato da Nietzsche ma dal quale si distaccò sempre di più, che proclama invece un allontanamento del saggio dal mercato per cercare la contemplazione sulla montagna. In quest'opera Nietzsche espone quattro teorie filosofiche: la Morte di Dio, l'Eterno Ritorno dell'identico e la Volontà di Potenza, tutte necessarie per la teorizzazione dell' Ubermensch. Tratteremo solo due di queste teorie: l'Eterno Ritorno e la Morte di Dio. Eterno Ritorno dell'identico – La visione ciclica del tempo si rifa a dottrine precedenti, come quella stoica, pitagorica e platonica, contrapposta a quella lineare cristiana (dalla creazione all’Apocalisse). Secondo questa teoria l'universo muore e rinasce rimanendo sempre lo stesso, ripetendo gli stessi eventi in maniera ciclica. Nietzsche ce ne parla per la prima volta ne La gaia scienza del 1882 «L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»
Il pensiero dell’eterno è ciò che distingue l’uomo dal superuomo; infatti l’uomo avverte la prospettiva dell’eterno ripetersi del tutto come una punizione, e ne è spaventato. Un esempio di questo timore dell'eterno ciclo, del dolore e della noia che questo porta con sé, è presente nella penultima delle Operette moralii di Leopardi, “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passegere”, del 1832. In essa il venditore di almanacchi, animato da una cieca e ottimistica fede nel futuro, proclama l'anno venturo come il migliore di sempre. Il passante, quasi un filosofo che incarna la visione pessimista dello stesso Leopardi, gli fa notare con ironico disincanto che lo dice ogni anno solo per scacciare la paura dell'eterno ritorno, di un tempo circolare scandito dagli almanacchi, dimenticando che per ciascun essere vivente sia“ di più peso il male che gli è toccato, che il bene”. Invece il superuomo di Nietzsche, in virtù delle sue caratteristiche, come l'atteggiamento dionisiaco più vicino alla natura, nei confronti della vita, manifesta una gioia entusiastica all’idea dell’eterno ritorno e accetta il continuo ripetersi della storia. In Così parlò Zarathustra, Nietzsche chiarisce il tema dell’eterno ritorno con il racconto del pastore che morde la testa al serpente: mentre Zarathustra cammina lungo il sentiero verso il mercato, vede un pastore che dorme profondamente, con la bocca aperta, e proprio in quel
momento un serpente risale lungo il collo del pastore e si infila nella sua bocca. Il pastore, avvertito da Zarathustra, morde il serpente staccandogli la testa; in seguito a questo atto di coraggio, il pastore si mette a ridere, mostrando così noncuranza nei confronti di ciò che può accadergli, così come farebbe un superuomo, che accetta felicemente anche le tragedie della propria vita. Questa parabola, termine usato da Nietzsche con significato opposto a quello cristiano, ci espone, in maniera allegorica, come l’uomo può trasformarsi nel superuomo: bisogna vincere la ripugnanza soffocante del pensiero dell’eterno ritorno, rappresentata dal serpente, emblema del circolo (Uroboro, il serpente che si morde la coda, rappresenta la ciclicità del tempo in tutte le epoche) mediante una decisione coraggiosa contro di esso,ovvero il morso, e comunque vada accettare le conseguenze con una risata. La Morte di Dio - Questo è un concetto che fa parte di molte religioni, come quella cristiana, e di molte correnti filosofiche, tuttavia la riflessione più elaborata e carica di conseguenze sulla morte di Dio è quella di Nietzsche. Viene configurata non solo come una realtà teorica, ma anche storica, che non si fonda quindi solo su un convincimento ideale del filosofo, bensì su una vera e propria realtà di fatto, ovvero sulla fine di tutte le illusioni dell'essere umano, proiettate nell'idea di Dio, che non è da intendersi solo come divinità cristiana, ma comprende altri “idoli” di varia natura, ad esempio economica (Marx) o idealista (Hegel). Tutte quelle convinzioni, insomma, che ricompensino l'uomo dalle proprie fatiche. In questo modo Nietzsche vuole distruggere non solo le convinzioni che riguardano l'aldilà, ma anche quelle idolatrie riguardanti l'aldiqua. Questa teoria inoltre assume il valore di un evento epocale collocato storicamente, che coincide con la perdita di tutte quelle certezze che hanno fatto cadere l'umanità stessa nel dubbio e nell'incertezza alla fine dell'Ottocento e in seguito per tutto il Novecento. Infatti il fatto che Dio non esiste più è giustificato dal mondo stesso che, col suo caos e il suo disordine causati dallo sviluppo delle teorie relativistiche, dimostra che oggettivamente non può più esistere un ente soprannaturale, una volta presa coscienza del carattere caotico dell'esistenza, basata su leggi date dal punto di vista dell'uomo e non viceversa. La Morte di Dio serve come punto di partenza per lo sviluppo del pensiero nichilista nietzschiano, definito nichilismo attivo. Nietzsche differenzia infatti il suo nichilismo da quello di altri filosofi, come Schopenhauer o Kierkegaard, definito nichilismo passivo. Questi pensatori puntavano solo a distruggere il mondo con i propri valori, a negare la vita, lasciandosi schiacciare e sottomettere dal loro stesso pensiero, senza elevarsi verso nuovi ideali. Vengono accusati di nichilismo passivo anche i cristiani e i socialisti. Il nichilismo attivo di Nietzsche invece si basa sulla perdita e la distruzione dei valori tipici dell'uomo, come, appunto, la Morte di Dio, che però vanno a creare un terreno fertile per lo sviluppo di nuovi e più moderni ideali, che vengono continuamente sostituiti grazie alla Volontà di Potenza da parte del superuomo (o meglio dire Oltreuomo). Si tenga presente che spesso le case editrici pubblicarono testi di Nietzsche con l'immagine di Umberto I: tra i due c'era infatti una rassomiglianza fortissima, come illustra Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica all'Università di Torino ed autore di studi su Nietzsche. Tra il filosofo del nichilismo ed il re sabaudo vi è anche un'altra coincidenza: entrambi sono nati nel 1844 e sono morti nel 1900.
SALVAdOR dALÌ L'interesse per le idee di Nietzsche si diffuse in tutta Europa. Così l'artista Salvador Dalì commenta l'opera “Così parlò Zarathustra”, soffermandosi anche sulle differenze dei loro baffi: «Quando aprii Nietzsche per la prima volta, rimasi profondamente colpito. Nero su bianco aveva l’audacia di affermare: “Dio è morto!”. Ma come! Avevo appena imparato che Dio non esiste, e adesso qualcuno mi partecipava il suo decesso! Mi si affacciarono i primi dubbi. Zarathustra mi appariva come un eroe grandioso di cui ammiravo la grandezza d’animo, ma nello stesso tempo si tradiva con delle puerilità che io, Dalí, avevo già superato». Allievo talentuoso, volle superare il suo “maestro d’ateismo” Nietzsche nell’unico modo possibile: diventando un autentico nietzscheano, cosa che nemmeno il filosofo di Röcken si sognò mai di essere. Accortosi dell’intrinseca debolezza dell’uomo distante dalla sua filosofia, diventato folle per l’incapacità di sperimentare integralmente la volontà di potenza, Dalí si proclama superiore, vero genio più che übermensch; colui che non teme, assetato di vita e potenza, di portare ai limiti estremi ogni esperienza vitale. Prosegue poi: «Ma anche per i baffi, mi accingevo a superare Nietzsche! I miei non sarebbero stati deprimenti, catastrofici, prostrati dalla musica wagneriana e dalla bruma. No! Sarebbero stati affilati, imperialisti, ultra-razionalisti e puntati verso il cielo, come il misticismo verticale», come quelli “gai e vivaci” di Velázquez.
Cristo di San Juan de la Cruz Ed infatti Dalì rappresentò la morte di Dio, ovviamente in maniera del tutto eccentrica. Infatti la crocifissione di Cristo è rappresentata dall'alto verso il basso, in una maniera del tutto atipica; l'idea di questa rappresentazione venne ripresa dalla storia di Giovanni della Croce, poeta del XVI secolo che durante un'estasi rappresentò il crocifisso da questa prospettiva inusuale, probabilmente perché ne stava tenendo uno in mano durante la visione. Ma Perché Dalì ha rappresentato il Crocifisso così? Il pittore non voleva presentare i segni del dolore della crocifissione, bensì la potenza della morte di Cristo, come sorgente di un’ illimitata energia di vita per l’universo. La visione dall'alto della crocifissione, in contrapposizione allo scorcio del paesaggio sottostante, crea una divisione nel quadro di due punti di vista, con il crocifisso come ponte tra il terreno e il divino. Sappiamo quanto Dalì si concentrasse sul simbolismo ed infatti nella crocifissione di Dalì, il Cristo viene raffigurato senza chiodi e senza la corona di spine; inoltre sul corpo, rilassato, non si nota alcun segno della Passione, non c’è sangue, né ferite. La rappresentazione dunque va contro alla tradizione religiosa: infatti la sua visione è più quella di un sogno cosmico e metafisico, che supera ogni dimensione religiosa e di fede. Gli unici segni di dolore sono le mani, contratte, e il capo, leggermente inclinato verso il basso, come se guardasse quel mondo che non l’ha accolto. La potenza di questi simbolismi deve quindi rappresentare il superamento della bassezza della condizione umana. La verticalità della croce, la luce che illumina la Divinita’ nella profondità nera dello spazio, dà origine ad una vertigine, ed enfatizza ancor di più la figura monumentale di Cristo, rappresentato nella sua immortalità, distaccato dalle cose terrene. La parte inferiore del quadro è dedicata al paesaggio: si vede la cala di Port Lligat (Cadaqués), dove presumibilmente, Dalì, prese l’ispirazione per realizzare il dipinto. Nel paesaggio la superficie dell’acqua è immobile, ci sono due barche e due pescatori, ed un altro uomo che cammina sulla strada adiacente; tutto è tranquillo e armonico, i dolci colli incorniciano il paesaggio. Sull’orizzonte, la luce dell’alba illumina tutto il panorama e le nuvole sovrastanti, emettono bagliori intensi, paragonabili alle aurore boreali. Tutto il paesaggio è statico e surreale e sovrasta un senso di pace. Nel cielo invece, una luminosità prende forma, i colori e i bagliori si intensificano: e’ la Luce della Divinità, è il Trascendente che irrompe nello spazio nero e si rivela all’umanità intera, con toni mistici e misteriosi.