Onnigrafo Magazine, Volume 4 — Novembre 2016

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Volume 4 Novembre 2016


MENSILE CULTURALE DAL CUORE ANTOLOGICO

a cura di

MIRKO BIAGIOTTI revisione testi

Filippo Gliozzi

ONNIGRAFO MAGAZINE Supplemento a MaremmaNews, quotidiano online. MAREMMANEWS Registrazione n° 939 del 12/06/2000 Iscrizione al registro della Stampa n° 1-2000, Tribunale di Grosseto. Via Zircone 20 — 58100 Grosseto


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Mirko Biagiotti Community Manager

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IMMAGINE DI COPERTINA Mirko Biagiotti ILLUSTRAZIONI INTERNE Mirko Corridori

Il racconto La Stella di Salem di Alessio Serra, prende in parte ispirazione da Le Cronache di Sereth di Giorgia Lauricella. Questa rivista è pubblicata e distribuita attraverso la licenza: Creative Commons Attribuzione Non Commerciale Non opere derivate 4.0. Per l'utilizzare i contenuti in modo differente da quanto riportato nella suddetta licenza, è necessario contattare la redazione all'indirizzo email: info@maremmanewsedizioni.it oppure chiamando il contatto telefonico: 0564 1768019.

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S O MMARIO EDITORIALE 5

…il viaggio continua di Roberta Filippi

ANTOLOGICO 6

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Diario di bordo #2 La teoria del Melograno di Mirko Biagiotti

La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) di Alessio Serra

Le Cronache di Oscailt Capitolo 4 — Gund-Kheled di Emanuele Benedetti

La Confraternita dell'Infinito Fascicolo 04 — L'ascesa di Ubertino di Luca Moretti

La Città del Mare Racconto Autoconclusivo di Marta Pelle

La figlia di Caino Capitolo 4 — Trieste di Natascia Norcia

RECENSIONI 47 48 49

Il Cavaliere di bronzo di Fedor Galiazzo

I Cristalli di Mithra di Micol Giusti

San Galgano di Vilma Venturi

47 48 48

Il tempo delle lucciole di Francesca Gnemmi

Geldia

di Vilma Venturi

In apparente normalità di Eugenio Pattacini

VOLUME 4

NOVEMBRE 2016


EDITORIALE

…IL VIAGGIO

CONTINUA

di Roberta Filippi

la mente e ci fa riflettere sulla vita vissuta; quella del cuore, che stimola l'emotività e lascia salire molteplici sensazioni che ci fanno immaginare mondi lontani, scoprire personaggi improbabili, vivere situazioni surreali ma pur sempre legate in qualche modo alla quotidianità. Vorremmo che per voi Onnigrafo fosse un momento di evasione da quel mondo difficile che ci circonda. E dovrà essere stimolante anche l'attesa, il desiderio di arrivare di volta in volta al volume successivo. Chi incontreremo nel prossimo viaggio? Quali sensazioni vivremo, che paesaggio visiteremo… Non lo so, lo lascio scoprire a voi!

Il viaggio di Onnigrafo va avanti. È vero, vi abbiamo fatto aspettare ma a volte di un viaggio è più intrigante l'attesa, i preparativi che ci porteranno poi a vivere nuove avventure. Perché anche per noi questa è un'avventura. Trovare l'idea, progettare il lavoro, avere l'intuizione giusta per coinvolgervi in questo nostro viaggio. Ecco allora che, come una tela bianca, le pagine di Onnigrafo si colorano di tanti racconti; storie di fantasia che ci ricordano però momenti di realtà, affinché ognuno possa vivere il proprio viaggio. Scorrendo e leggendo le pagine ogni storia si materializza, il nostro quadro prende vita, il nostro viaggio continua. Quale chiave di lettura vogliamo darvi? Quella della ragione che ci impegna

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ANTOLOGICO DIARIO

DI BORDO #2 LA TEORIA DEL MELOGRANO

di Mirko Biagiotti

si tunnel, pareti di roccia, muschio, venti freddi, acque cristalline, pasti caldi, umori improvvisi, stagioni, canzoni, sapori. Adesso, a voi che correte tra gli alberi a piedi nudi, con una fresca brezza sul viso, immaginate di voler ardentemente un melograno, che di questo periodo si fa desiderare con la sua veste emozionata. Il paesaggio che vi circonda cambia e si trasforma, si contorce e sfuma fino a darvi ciò che cercate, ciò che bramate... Anche se lo abbiamo già assaggiato in passato, ci aspettiamo un sapore dolce, un abbondanza che sazierà il palato e l'appetito; sappiamo che in realtà sarà per lo più aspro e poco soddisfacente, ma non ci possiamo fare nulla. Vogliamo credere nella possibilità che questa volta sarà diverso. Ed ecco che le nostre unghie si affannano a scalfire la buccia dura ed il contenuto, quei fastidiosi grani rosati trattenuti da sottili membrane bianca-

Ogni volta trovare le parole giuste è un'impresa memorabile. Poi basta vedere un qualcosa, anche il solo pulviscolo nell'aria, che un fiume di parole inizia a fluire fuori da uno spiraglio, come un fiume in piena si riversa sul foglio e lo colora della sua infinita diversità. Spesso però, quando ci mettiamo a leggere, non siamo attenti al peso che ha ogni parola e solo dopo averla letta ci accorgiamo che affonda sul foglio bianco creando un paesaggio unico; per chi ne scrive può essere come buttarsi dalla cima di una montagna sperando di volare il più lontano possibile e sapendo che il punto, alla fine di un paragrafo, sarà il risollevarsi in aria. Una spinta ascensionale che ci permetterà di migliorare ancora quel paesaggio così eternamente complesso. Per chi legge è come correre tra gli alberi di una valle, fatta di passaggi veloci e di comples-

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DIARIO DI BORDO #2 La teoria del Melograno

Ecco che finalmente, anche se con estremo ritardo, siamo riusciti a vedere pubblicato il nostro Onnigrafo, la nostra piccola e sorprendente creatura. Le difficoltà e le tensioni di questi ultimi mesi ci hanno distolto lo sguardo dal nostro obbiettivo e per un attimo abbiamo creduto che l'attesa non sarebbe mai finita. Abbiamo perso alcuni aspetti dall'uscita del precedente volume, avvenuta il 15 agosto ed alcuni di questi non li rivedremo mai più; la cadenza mensile ne è un'evidenza. Anche noi siamo in continuo cambiamento ed in questa evoluzione cerchiamo di sorprendere e di spronare chiunque a capire un po' di più che l'immaginario in agitazione dentro di noi è spesso molto simile alla realtà che ci circonda. Anche noi, come voi, abbiamo delle aspettative che a volte ci limitano ed altre ci conducono alla meta, a ricordare ancora una volta che le alternative sono spesso più numerose di quello che crediamo. Abbiamo dunque infine deciso di prendere la nostra strada, di continuare questa avventura, anche se con delle diversità con lo stesso spirito intraprendente che ci contraddistingue. Certi che coloro che hanno saputo aspettare fin oggi verranno appagati dai brani dei nostri abituali Autori ed attirati dai consigli che la Redazione ci ha riservato, vi auguriamo buona lettura.

stre, esplode tutto intorno; gran parte di questi precipitano in terra, a seguire di un arco singolare, un caos improvviso ma non stupefacente, oltremodo aspettato. Già lo sapevamo che sarebbe andata così. Quindi prendiamo il nostro frutto e ne assaggiamo l'interno: aspro, ovviamente. Ecco che il libro cade dalle mani e che la realtà si fa viva tutt'intorno. A volte è la mano calda di chi ti ama a svegliarti dal tuo sonno, altre le asperità della vita. Qualche anno fa un mio caro amico mi fece conoscere un individuo, che preso così a caso per strada non gli avreste dato in soldo bucato e che invece mi fece un discorso di una tale profondità logica che devo dire la verità, tutt'oggi è un punto fisso nella vita di tutti i giorni. Non posso ricordare le parole precise, tutto fu così sorprendentemente perfetto che non sarei in grado di emulare nulla di quel momento. Troppi sogni son passati da quel barlume di lucidità, quel momento in cui l'individuo girò la chiave che mi fece vedere oltre la membrana che protegge e che sostiene, ma che opacizza; quello che ora sono è diverso da ciò che ero in quel momento. Mutiamo e il cambiamento è parte di noi, è un grano del nostro Io... Possibilità ed alternative sono la chiave di volta per ogni cosa, che sia la vita o che sia un racconto fantastico, le aspettative limitano la nostra capacità di vederle e ci portano a pensare che le une o le altre non possano esistere.

Il Melograno è la nostra aspettativa, i suoi grani le possibilità, tutto il resto sono le alternative.

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La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1)


La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1)

Alessio Serra Genere: Low Fantasy

Il ricordo che stava paralizzando la mente di Rios si dissipò lentamente, lasciando il cuore libero di ritrovare il proprio ritmo. Quel ricordo di Istica, appena rivissuto, non aveva ancora iniziato a rendere palesi tutte le sue implicazioni; tuttavia, il fatto di trovarsi a Sereth, il parallelismo tra il suo malore e quello di Morgana nel preciso istante in cui, come lei, era entrato nella città, erano segni che richiedevano tutta la sua attenzione. Il rituale avrebbe dovuto evocare un non meglio precisato potere latente, e si sentiva certo, in cuor suo, di essere nel luogo giusto per potersene accertare. Si rialzò a fatica, appena le gambe glielo permisero, e rassicurò Evelyn sull’accaduto, ma non le raccontò nulla. Lei, appena fu sicura della salute di Rios, si soffermò a parlare qualche minuto con Bert, lo ringraziò per il viaggio lasciandogli una moneta e tornò indietro. «Decidi: ti lasci trasportare dall'Aria o navighi da solo?», domandò Evelyn a Rios, sorridendogli incuriosita. Lui prese tempo per pensare guardandosi intorno: si trovavano in una piazza a forma di mezzaluna, alle loro spalle le mura con il portone cesellato, davanti una barriera di case e palazzi tra cui si dipanavano strade e vicoli. Le case, alte fino a tre piani, addossate le une alle altre con mura intonacate la cui intelaiatura di legno risultava a vista, gli ricordarono molto quelle del suo mondo. All’imboccatura dei vicoli che partivano dalla piazza notò piccoli cartelli che fungevano da indicazioni. Si sentì decisamente perso. «Mi fido dell'Aria, se l'Aria me lo concede», disse alla fine. Evelyn arrossì lievemente, ma si poteva notare quanto fosse divertita dal fargli da cicerone. Rios era certo che la mezzelfa morisse dalla voglia di poter parlare a rotta di collo. Nel frattempo, due guardie si erano avvicinate alla coppia. Una portava una tabarda blu, l'altra una nera con bordi argento e un doppio leone rampante sul petto, guanti di pelle alle mani e al collo una maschera di cuoio. «Milady, messere: i vostri lasciapassare, per favore» Evelyn tolse la collana per porgerla alla guardia in nero. Egli prese con le sue mani guantate la mano della mezzelfa, che stringeva il lasciapassare. Passarono pochi secondi e dal centro di questo intreccio brillò per qualche istante un piccolo cerchio bianco con delle rune. Fatto ciò, Evelyn rimise il ciondolo al collo. Rios notò altre coppie di guardie fare la stessa cosa con i nuovi arrivati della carovana. Un colpo di tosse, palesemente ironico, riportò Rios alla realtà. «Subito. Scusatemi» Rios porse il lasciapassare alla guardia in nero, che prese la mano nelle sue. Rios poté sentire il ciondolo riscaldarsi. Come per Evelyn, un piccolo cerchio pieno di rune, questa volta verde, brillò per un attimo.

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La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) «Tutto a posto, messer Rios. Si ricordi di fare la stessa cosa con tutte le guardie che glielo chiederanno» Rios annuì, mentre appendeva di nuovo al collo il lasciapassare. Evelyn lo prese sotto braccio e si incamminarono lungo una delle vie che avevano davanti. Rios sorrise e appoggiò la sua mano libera su quella di Evelyn. «Abbiamo poco tempo e per oggi non credo di riuscire a portarti al centro della città. Il sole cala presto e dobbiamo ancora trovare un posto per dormire», disse lei. «Ti seguo volentieri. Scusa se mi sto approfittando così tanto della tua gentilezza, ma è un piacere stare in tua compagnia» «Non hai mai incontrato bardi dei Reami Nascosti, vero? Altrimenti sapresti che, a volte, usano degli incantesimi per ammaliare gli ingenui viaggiatori» Evelyn sorrise come un gatto, se mai i gatti sapessero sorridere. «Mi auguro di no. Se poi è un incanto, quel che usi, mi onori. Anche se non vedo perché dovrebbe capitare proprio a me. Correrò comunque il rischio» rispose Rios. «Sei proprio buffo! Comunque la magia è vietata, all’interno di Sereth. Il cerchio stesso la annulla. Quindi non hai nulla da temere. Per ora», e gli fece l’occhiolino. Continuando a chiacchierare, i due si inoltrarono nelle vie del Quartiere del Pellegrino, stando a un cartello che Rios riuscì a leggere di sfuggita. Alcune erano affollate, altre deserte. La gente che le animava era di etnie, specie e costumi tra i più disparati: una moltitudine di lingue, colori e razze. A un tratto, un forte odore di spezie catturò i sensi di Rios. «Ti dispiace fare una deviazione, Evelyn? Sento un buon profumo» «Segui la corrente, finalmente. Andiamo» Rios seguì l’odore fino a un edificio con una grande entrata drappeggiata di tende rosse. Dall’interno proveniva il tipico ciarlare di una taverna. «L'odore viene decisamente da qui dentro», ammise Evelyn, «ma non credo di essere mai stata in questa taverna» «Proviamo. Con te al mio fianco cosa ho da temere?» «L'ultima persona che ha detto così è finita dentro una lampada che faceva da tramite tra questo mondo e quello delle fate»

«Allora teniamoci lontano dalle lampade», sdrammatizzò Rios. Non era del tutto certo, però, che la mezzelfa stesse scherzando. L'interno della taverna era un accogliente guazzabuglio di tende, cuscini, tavoli in ebano e lampade; sui bassi tavoli, prelibatezze mai viste prima facevano bella mostra di sé. L'aria era satura di odori e sapori, la musica di sottofondo era piacevole, se non fosse stato per il brusio incessante. La maggior parte dei presenti erano chiaramente mercanti e marinai, per lo più di etnia orientale. «Mi è venuta una fame tremenda. Dimmi, Evelyn, come posso fare qualche soldo? So curare, scrivere, far di conto. Voglio ripagare ogni moneta che hai speso per me» «Lascia perdere. Per oggi offro io. Domani, quando raggiungeremo il Quartiere del Mercato, cercheremo un lavoro adatto a te. Magari in biblioteca, oppure dai Preti Grigi: loro cercano sempre persone che scrivano delle proprie terre e dei propri dèi. Pagherebbero bene per avere un resoconto del tuo mondo» Evelyn, ancora sottobraccio a Rios, lo guidò verso un banchetto con carta e calamaio a cui era appoggiato un uomo dalla carnagione olivastra e capelli nerissimi, che sembrava far di conto. Era abbigliato con damasco dai colori brillanti e, appena i due gli si avvicinarono, accennò un sorriso. Evelyn prese uno dei fogli sul banchetto: era il menù, ricco di piatti allettanti e bevande alcoliche. «Io prenderei questo e un boccale di questo», disse Rios, indicando sul foglio. «Perfetto, amico», rispose l’uomo del banchetto nel suo forte accento straniero. «Sedete a tavola e godete tempo che passa. Per lei, dolce signora?» Evelyn sembrava assorta nei suoi pensieri finché, a un tratto, schioccò le dita, trionfante: «Cardamomo, radici di Anthis e l'erba che io odio di più al mondo: il Guntus». Il suo sguardo sembrava cambiato: stava fissando l’uomo davanti a sé con cipiglio serio. L'oste si appoggiò al banchetto, guardando la barda diritto negli occhi. «Hai ottimo naso, donna! Khalab offre stanza, se voi cercate». Evelyn non aspettò la fine della frase e tirò Rios per il braccio direttamente fuori dalla taverna. «Sei un bocconcino facile per chi usa metodi infami per far soldi: tra le spezie c’erano droghe per

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La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) farti continuare a mangiare e a bere, per spennarti a dovere. Ti porterò in un posto sicuro dove passare la notte. Sei una calamita per i guai, a quanto pare. Adesso seguimi: c’è molta strada da fare» Rios si sentì ancora una volta un peso. «Evelyn, un attimo solo», la prese per mano. «Non so come ringraziarti, quindi lo farò come mi viene» Rios tirò a sé Evelyn e la strinse in un abbraccio. «Grazie di cuore», le disse sorridendo, e le stampò un bacio sulla guancia. Si staccò quasi subito per l’incredibile vergogna. Evelyn, imbarazzata, non seppe come reagire. Appena poté riprendersi, balbettò: «Sei troppo ingenuo. Purtroppo Sereth, come tante altre grandi città è anche questo. Ma non è tutta cosi: c'è anche gente buona», disse, ricominciando a camminare per non guardare Rios in volto. Come te, pensò lui, seguendola. Il paesaggio urbano cominciò a mutare: le case assunsero forme più basse e tozze, finestre più piccole e scale con ringhiere colorate per raggiungere le porte, poste più in alto rispetto al piano stradale. Raggiunta una piccola piazza, un cartello a lato di un arco li informò che stavano entrando nel Quartiere della Dogana. L'aria era carica di umidità e una musica allegra di fisarmonica, proveniente da chissà dove, sembrò salutare la coppia di viaggiatori. Evelyn guidò Rios lungo vicoli sinuosi che, come acqua, digradavano verso il molo. Proseguendo con lo sguardo, fino alla fine della strada fregate, navi, galee e piccole imbarcazioni erano attraccate in un piacevole caos. Evelyn indicò vari punti, riportando nomi e funzioni o semplici curiosità. Rios ascoltava rapito: la voce della barda aveva un tono così particolare da sembrare sempre nuovo e fresco. Si allontanarono dalla pizza della Dogana ed Evelyn guidò Rios per i vicoli, sino a giungere davanti al mercato del pesce, oramai in fase di chiusura. Il tramonto stava giungendo rapido. «Vediamo un attimo: dovrebbe essere qui. Ah, sì! Tanja!», Evelyn si mise a urlare davanti a un portone all’indirizzo delle finestre sovrastanti: gambe dritte, mani chiuse a pugno lungo i fianchi e busto che oscillava in avanti a ogni chiamata. Sembra una bimba che chiama la mamma, pensò Rios. Si riscosse un poco e si guardò intorno: alcune donne stavano aggiustando le reti da pescatore sugli scalini di

casa, altre pulivano del pesce per la cena. La casa davanti la quale Evelyn continuava a chiamare quel nome di donna era diversa da quelle che la circondavano: alta più delle altre, pareti con listelli di legno pesantemente verniciati di bianco e color crema, ringhiere elaborate in forme squadrate e regolari conducevano a piccoli pianerottoli di fronte ad altrettante porte di vari colori, disposte sui tre piani dello stabile. Le porte e le finestre erano chiuse da catenacci e lucchetti. Dopo poco, una signora si affacciò da una finestra del terzo piano, guardò giù in strada e, con la mano, fece un cenno ai due. Presero a salire le scale, strette e ripide, fino all’ultimo piano, dove la signora di prima li accolse alla porta: anziana, lunghi capelli grigi legati in una crocchia tenuta ferma da un aculeo di istrice, vestita con un semplice abito azzurro chiaro, la signora li fece accomodare nella propria modesta casa. «Guarda un po’ chi si rivede, per i venti del Nord! Figliola mia, che fine avevi fatto? E chi è questo giovanotto?» Rios portò una mano al petto e si inchinò. «Rios Salemberg, milady. Piacere di conoscerla» La signora sorrise. «E pure educato, il che non guasta mai. Io sono Tanja. E dammi del tu, ti prego» «Zia Tanja», sottolineò Evelyn. «Eh sì: mi sento un po’ la zia di tutti. Ditemi, ora: cosa cercavate da queste parti?» «Zia Tanja, potresti ospitarci per qualche notte? Il tempo di trovare un lavoretto per lui e finire i miei preparativi per la Festa d'Inverno» «Oh, non c'è alcun problema: la mia casa è sempre aperta per i vecchi studenti e per i loro amici» «Grazie, lady Tanja. Ti siamo riconoscenti», disse Rios, sinceramente colpito dalla cordialità della signora. «Di nulla. Adesso sistematevi. Mia cara, fai vedere al tuo amico dove può mettersi più comodo. Io, intanto, aggiungo qualche altro filo di pasta alla cena» Evelyn portò Rios in una stanza molto spartana: un letto singolo con lenzuola e doppia coperta, una bacinella con una brocca d’acqua e un panno pulito, tutto stranamente già pronto, come se Tanja fosse già stata informata del loro arrivo. Rios, inoltre, notò che la stanza, come tutto il resto della casa, era piena di pergamene di poesie e illustrazioni di paesaggi appese alle pareti.

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La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) «Tanja riceve ospiti di frequente, Evelyn? Oppure gestisce un dormitorio?» Evelyn sorrise e parlò a voce bassa: «Tanja è stata la Cronista di Sereth per tanti anni. Come ogni bardo sa tutto di tutti, e forse qualcosa di più: molto probabilmente ci stava già aspettando. Ma non chiederle nulla: sarebbe inutile. Non racconta mai di sé e della sua vita, né tantomeno delle sue qualità: in fondo, lei è la zia di tutti», e si toccò il naso con la punta dell’indice, in un gesto d’intesa. «A tavola, ragazzi!», chiamò Tanja. «Ha il solo difetto di mangiare al calar del sole», disse Evelyn, facendo spallucce. «Mi ricorda mia zia, in effetti», disse Rios, seguendo Evelyn verso la sala d'ingresso, la quale fungeva anche da zona pranzo: ammobiliata con un rustico tavolo circolare ricoperto da una tovaglia azzurra ricamata. Una volta tornati nella sala da pranzo, non fu senza perplessità che Rios vide quattro ciotole posizionate sul tavolo, piene di lunghi fili di qualcosa che gli sembrava pane e… pietruzze, forse? Tanja, con la classica flemma di una donna anziana, andava avanti e indietro portando bicchieri, posate e tovaglioli per finire di apparecchiare. Evelyn sembrò non dar conto al posto in più, guardando l’incuriosito Rios e facendo spallucce. Prese posto e attaccò subito il piatto. Rios iniziò a imitarla, per non sembrare del tutto uno sprovveduto. I fili erano caldi, salati e decisamente saporiti, mentre dentro le pietruzze piatte vi erano racchiusi bocconcini di pesce. Non male davvero, pensò Rios, qualsiasi cosa siano. «È in ritardo, come al solito: non imparerà mai, quel ragazzo», borbottò Tanja sedendosi, «ma mi sentirà: ah, se mi sentirà!» «Ti sento, ti sento», disse una voce maschile, ma nella casa non vi era nessun altro oltre loro tre. Evelyn, intuendo di chi si trattasse, cominciò ad agitarsi sulla sedia per l’emozione e per poco non si strozzò con la cena. Qualcuno o qualcosa urtò lo schienale della sedia di Rios. «Perdono, messere», sentì dire Rios dalla stessa voce di prima, ma dietro di lui non c’era nessuno. Sulla sedia vuota alla sua destra cominciò ad addensarsi della nebbia, che prese i contorni di un uomo con un cappello piumato. «Non temete, messere: non mangio altro che non sia la pasta alle vongole di zia» Evelyn, totalmente disorientata, provò ad alzarsi in piedi ma urtò la sedia, rovesciandola, e lei la seguì subito dopo sul pavimento. Rios rimase con la forchetta a mezz’aria e la bocca aperta, passando dalla nuvola umanoide a Evelyn, interdetto.

«Bianco!», tuonò Tanja, «Per favore, smetti di fare i tuoi soliti giochetti» Scuotendo quel che pareva essere la testa, la nuvola piano piano si colorò e, dopo qualche attimo, prese la consistenza solida di un maschio adulto: camicia bianca dalle maniche larghe, gilet verde scuro imbottito, pantaloni di lana pesante larghi infilati dentro alti stivali di cuoio. Sul volto, una maschera di cuoio lavorato che, forse per effetto della luce bassa delle lanterne, sembrava svolazzare. «Cara zia, perdonami il ritardo. Ho avuto da fare con delle giovani dame. Chi abbiamo qui oggi?» «Salve. Piacere di conoscerla. Il mio nome è Rios. Sapete di certo come fare delle entrate in scena davvero notevoli, lasciatemelo dire» «Ovvio: sono il bardo dei bardi. Piacere mio: Turbine Bianco, per servirla» Quel Turbine Bianco? Il Primogenito dell’Aria?, pensò Rios. Evelyn, ripresasi dal capitombolo, balbettò al nuovo arrivato: «Maestro, mi scusi. Non vi ho mai visto prima nelle vostre sembianze naturali» «Ah, no? Oh, perbacco: allora ho sorpreso proprio tutti. Non importa, Eve; piuttosto, ricomponiti e proseguiamo la cena» «Così siete il maestro di Evelyn? Come si comporta come allieva?», Rios cercò di rompere il ghiaccio. «Non direte sul serio? Non dirò una parola sulla mia pupilla per nulla al mondo», e un calcio si abbatté sullo stinco di Rios, che trattenne a stento un gemito: lo sguardo furente che Eve gli lanciò subito dopo gli bastò per capire chi lo avesse colpito. Un’altra figuraccia: bene! La cena venne consumata con calma e allegria, complice anche l’abbondante vino bianco servito in tavola. Tanja e Evelyn accesero un’altra lampada e sgomberarono la tavola. Bianco si affacciò alla finestra per fumare. L'aria era frizzante, piacevole. «Ditemi, messer Rios: da dove venite?» Rios prese posto vicino a Bianco per fumare con lui. «Il mio mondo viene chiamato Weltstahl. Non so se questo nome vi dica qualcosa» «Uno dei tanti mondi, delle tante gemme che io e i miei fratelli abbiamo creato. Me ne ricordo vagamente» «Voi siete in grado di creare gemme? Nel mio mondo dovrei chiamarvi Dio. Siete voi un dio?» Rios si sentì decisamente idiota ad aver fatto quella domanda. Perfetto: sto dando il meglio di me, questa sera. Quando bevo dovrei imparare a tenere la bocca chiusa. «Gli uomini ci danno molti nomi, ma io e i miei fratelli, qui, siamo chiamati semplicemente per

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Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) quello che siamo: Elementi. Noi abbiamo creato il mondo fisico, poi la fantasia dell'uomo ha creato le divinità. A noi fa piacere essere venerati e apparire nell'immaginario umano come questo o quell'altro dio: è divertente. E come mai siete finito a Sereth? Cosa state cercando?» «Bianco, non fare il maleducato. Lo sai che è scortese fare domande del genere», lo redarguì Tanja dalla cucina. «Ho una teoria al riguardo. Per ora vorrei solo incontrare Milady Morgana. Ho sentito varie storie su di lei, sulla gemma di Vilegis. Rispondo da più di un anno alla chiamata della fenice di Radiant», rispose Rios. «In più, Maestro, Sereth non gli ha dato quel che si dice un benvenuto, all’ingresso», aggiunse Evelyn, servendo nel contempo il dopocena: amari alle erbe e barattoli ricolmi di zollette di zucchero immerse in liquidi dai colori più disparati. «Fatine? Diamine, mi sento come su Vilegis! Sono la specialità della taverna Elisir di Morgana, insieme alla birra» Bianco esplose in una fragorosa risata e per poco non cadde oltre la finestra. «No, caro amico mio, queste le fa Milady con le sue mani e sono famose in tutto il Territorio del Nord. Gli accordi con l'oste che dite voi sono quelli di portarle in giro per i mondi per un semplice ritorno personale!» «Non esiste taverna qui a Sereth che non le abbia», ammise Evelyn, mangiandone una senza darle fuoco. «Vi prego, non ditemi che volete conoscere Milady solo per le fatine. Posso solo immaginare la reazione che avrebbe» «Bianco!», Tanja urlò ancora una volta dalla cucina, in difesa di Rios. «Va bene, zia, la smetto. Ma ti assicuro che il quinto elemento se la riderebbe con me!» «Anche se fosse?», disse Rios con un'espressione pensosa in volto. «Non sarebbe un valido motivo, per caso?» Prese una fatina e la guardò, contemplando se mangiarla così, viva, come si soleva dire, o darle fuoco per consumare un poco dell’alcool in cui erano immerse insieme a spezie e frutta. «Perdonatemi, Maestro, ma Milady non è rinomata per essere una burlona», disse Evelyn. «Bah, non direi», rispose lui, «ha i suoi modi di ridere e di fare ironia. Purtroppo vengono capiti da pochi. Si tratta pur sempre un’elfa oscura che ha portato la Corona delle Otto Casate» «Come faccio a dimenticarlo, Maestro? Nei Reami Nascosti il nome di Milady è ancora impronunciabile, pena un pugnale nella schiena se uno dei figli della Superba fosse in ascolto»

«Quel mondo è stato un errore dal primo all'ultimo momento», sbottò Bianco. «Senza offesa, mia cara», aggiunse subito dopo, rivolto a Evelyn. «Eppure, chi ha cura di creare qualcosa come queste fatine ha in sé il germoglio della generosità. Non vedo errore in questo. Come non ne vedo negli elfi oscuri che ho potuto conoscere a Vilegis», disse Rios, rivolto più a se stesso che agli altri. Evelyn lo guardò storto. «Sei proprio un ingenuo» Non sei la prima e non sarai l’ultima a dirmelo, pensò Rios. «La Superba, la Dea delle Tenebre è il Caos, ragazzo mio», disse Tanja, «e, come ti ha detto Bianco prima, essa è legata in qualche modo ai quattro elementi. Venne creata dal pensiero umano quando i nostri quattro amici impazzirono», e indicò il Primogenito, che stava fumando tranquillamente alla finestra. «Che litigata fu, quella!», ammise Bianco con candore. «Creammo il panico e per giorni non vi fu né Sole né Luna. La gente era terrorizzata. Fu il pianto di un neonato a farci rinsavire. Terra si avvicinò a lui e lo prese in braccio, mentre la mamma dormiva. Da quel momento, da quel gesto, nacque la Gemma della Notte e tutte le divinità legate alla Luna, poiché essa fu la prima a riapparire in cielo per illuminare il Caos. «Assomiglia a quello che sta succedendo adesso nel mio mondo», sospirò Rios. «Cioè?», chiese Bianco, incuriosito. «Ishir, la Luce, non riesce a splendere da mesi. In nessuna delle sue forme, sia essa Luna o Sole. E se sorge è per pochi minuti, quasi sempre coperta da nubi a causa dei Padroni dell’Abisso. Forse...», Rios si fermò a fissare un punto nel vuoto. «Ma certo! Potrei essere qui per questo» «Il Sole non riesce a sorgere, dite?» Gli occhi di Bianco fissarono Rios tra una fumata e l'altra. «Questa è un'altra faccenda. Il vostro mondo venne creato dopo quello dei Reami Dimenticati. Ma quello che state vivendo può avere due soli colpevoli» «Bianco, stai parlando troppo. Non puoi interferire, lo sai», sentenziò Tanja: anche se intenta a sistemare i piatti in cucina, pareva sentire tutto. «Però, se Sereth lo ha portato qui qualcosa vorrà pur significare», continuò Evelyn. «Certi argomenti sono pericolosi. Il Sole, come lo intendono gli Alchimisti, dovrebbe essere tramontato da tempo, ma se questo ha riverbero in altri mondi vuol dire che brama il potere», si lasciò sfuggire Bianco. «Brama di potere su un altro mondo?», chiese Evelyn. «È meglio che questo discorsi rimangano nelle alte sfere», tagliò corto Bianco, e proseguì. «Rios,

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La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) mi spiace che nel tuo mondo accadano cose simili, e spero che la Luce trionfi sul Buio. Zia ha ragione: non posso spiegare ogni cosa» Evelyn si morse il labbro: fu sul punto di dire qualcosa, ma Tanja la bloccò: «Evelyn, no», la rimproverò. «Va bene. Tanto, non ho certezze su quella storia», e sembrò farsi piccola sulla sedia. Un pesante silenzio calò nella stanza. Bianco si versò dell'amaro alle erbe e, con la bottiglia ancora in mano, si rivolse a Rios: «Ne volete?». «Decisamente sì, grazie. Mi dite almeno perché non posso sapere?», rispose, infastidito della sua ignoranza abissale. «Vedete, mio buon amico, può esistere un solo Quinto Elemento. Esso o è Luna o è Sole. Attualmente, e da anni ormai, governa la Luna nel nome e nella forma di Milady, ma il Sole ebbe un aiuto non proprio corretto, a suo tempo. E pare sia ancora presente in alcuni mondi, come il tuo, sotto forma di Caos» «Vediamo se ho afferrato il concetto: l’emanazione più importante della mia dea, cioè il Sole, non può sorgere per colpa del Sole? Ho bisogno di un altro goccio», e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia vicina. «Più o meno», Bianco poggiò una mano sulla spalla di Rios. «Gli Alchimisti che arrivano alla carica di Quinta Essenza sono tra gli esseri viventi più potenti, perché uniscono in sé tutti i nostri poteri. Chi aggira le regole, come è avvenuto in passato, crea un duplicato fasullo e alchemicamente sbagliato. Credo che incontrerete Milady prima di quanto possiate pensare. Prima, però, dovrò parlarle a quattrocchi», disse Bianco, e svuotò in un colpo il bicchierino di amaro. «Pensi che lei sappia?», chiese Tanya. «Lei sa. È diverso», rispose Bianco. Tanja sospirò. «Mi chiedo da una vita cosa sia passato per la testa di Terra per proporre proprio lei. E cosa diamine abbiate pensato voi per farvi convincere a metterla in quella dannata torre!» «Lei riesce a leggere nell'oscurità e nelle tenebre perché ci ha vissuto per tanto tempo, e parla la loro stessa lingua», ammise Bianco. «Rios, siete stato un messaggero prezioso. Vedrò di indagare» «Io cosa?», balbettò Rios. Non si aspettava quel complimento, e in più l’amaro lo stava lentamente sottomettendo. «Ma ora», tagliò corto Bianco, «cambiamo discorso: mi sto deprimendo. Evelyn, perché sei tornata a Sereth? Non che mi dispiaccia, beninteso. È forse per la Festa d'Inverno?» «Sì, Maestro: quest'anno voglio partecipare. Mi hanno detto che sono cambiate alcune cose, giusto?»

«Molte, a dire la verità» Bianco si sedette sulla sedia e versò altro amaro per sé e per la mezzelfa. «A tal proposito, Evelyn: faresti una cosa per me?» «Sì, certo. Senza alcun problema. Anche subito», disse Evelyn, rizzandosi sulla sedia. «Ti farai aiutare dal nostro buon amico, perché prima di incontrare Milady dovrà conoscere meglio Sereth e sé stesso. Vi darò una lista di commissioni da fare entro una settimana esatta a partire da domani. Senza di esse la Festa d’Inverno non potrà essere celebrata» Evelyn, imbarazzata e orgogliosa al tempo stesso, si fece coraggio e rispose: «Sì, Maestro». «Domani vi farò sapere. Ora è tempo che io torni in Accademia. Evelyn, dormi qui o vieni con me?» La mezzelfa avvampò in viso, imbarazzata. «Ma io... davvero... io...» «Non ti azzardare neanche a pensarlo, Bianco!», tuonò perentoria Tanja, agitò una mano davanti alla maschera dell'elementale dell'Aria, che si trasformò subito in nube. «Volevo solo essere gentile. Lo sai che sei sempre tu la mia preferita, Tanja» «Il mio piatto di fili con le vongole, semmai. Sciò, via di qui! Per questa sera sei rimasto anche troppo» Ridendo di gusto, Bianco svanì come era arrivato. «Mi farò vivo io. Buonanotte!» «Mascalzone, insolente, contafrottole che non è altro», continuò a borbottare l'anziana donna. Evelyn, dal canto suo, rimase a fissare con sguardo sognante il punto nel quale era svanito l'elementale. Rios realizzò, con la poca lucidità data dalla cena abbondante, dall’alcool e dalla stanchezza in corpo, che Eve era decisamente persa dietro Bianco, e che tra il suddetto e Tanja in passato doveva esserci stato qualcosa. «È ora di andare a dormire. Domani Bianco ci farà sapere che cosa fare», disse Evelyn alzandosi dalla sedia. «Concordo pienamente», disse Rios. Si alzò e si fermò davanti a Evelyn, appoggiandole una mano sull'avambraccio. «Tutto bene?», chiese. Lo sguardo della mezzelfa, nel sentire il contatto, cambiò di colpo, come se si fosse svegliata solo in quel momento. Si voltò a guardarlo. «Sì, Rios, tutto a posto. Forse un po’ di ansia per quel che ci aspetta. Sembra un compito molto importante» La barda uscì dalla stanza barcollando lievemente. «Buonanotte», disse. Mentre Tanja si sedeva sulla sua poltrona, i passi di Evelyn cessarono e si udì il rumore di una porta che si chiudeva. «Non ti preoccupare, giovanotto. Avete pur sempre incontrato un Elementale nella sua forma Primordiale, dopotutto», disse lei.

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Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 1) «La nebbia fluttuante era la forma primordiale di Bianco? E che effetto avrebbe dovuto avere?» «Dimmi: cosa faresti se incontrassi in carne e ossa la tua divinità?» «Credo piangerei di gioia. Anche se posso dire di sentirla e vederla in ogni luogo» «Un conto è sentirla, un altro è poterla vedere, toccare e sentire che risponde alle tue battute come una persona normale: la divinità di Evelyn e dei bardi in genere è Bianco nelle sue diverse forme che gli stessi uomini gli hanno dato, e la poverina, tutte le volte, ne rimane sconvolta. E tu? Che idea ti sei fatto?» L'ora era tarda, ma l'anziana donna, accomodata nella sua vecchia poltrona, pareva non avere sonno. Dopo aver fatto la domanda prese dal tavolino lì vicino una lunga pipa finemente intagliata con piccole figure e prese a caricarla con tabacco dall’aroma dolce e intenso. «Su Bianco? Per essere un dio è davvero affabile. Voglio parlarci ancora. È strana l'idea di conoscere in questo modo una divinità» Rios si sedette e iniziò ad arrotolarsi il tabacco, invogliato dall’esempio di Tanja. «A quale elemento potresti associare la tua divinità?», chiese lei. «Fuoco», rispose d'istinto Rios. «Ma la componente femminile, per così dire: la parte che scalda e non brucia, che illumina. Del resto è sposa di Ramas, Dio del valore in guerra: il fuoco che permette la ricrescita. Due aspetti dello stesso fenomeno» «Maschile o femminile non importa: i Primogeniti scelgono il corpo ospitante in base alle caratteristiche dell'anima. Fuoco, dici? Si vede che le cose semplici non ti piacciono proprio. Ora che ci penso meglio, il tuo Sole potrebbe non sorgere anche per un altro motivo» Soffiando il fumo della pipa, Tanja creò l'immagine di una fenice con le ali spiegate che cadde in picchiata sul pavimento. Un altro sbuffo di fumo mostrò la fenice che risorgeva con fatica dalle proprie ceneri. Era uno spettacolo triste: nel tentativo di volare, la creatura alzava la cenere che finiva per ricoprirla nuovamente. «Come una farfalla con le ali bagnate non può volare, una fenice con le ali sporche di cenere

non riesce a spiccare il volo. Così il tuo Sole: oscurato dalle tenebre non riesce a brillare. La domanda è: che natura ha questa tenebra? Perché la fenice non vola e non riesce a scrollarsi la cenere di dosso?» «Soldraconis. Il male necessario. Ha vinto la battaglia rituale del quinto mese ed è alto guardiano di Vilegis. Fino alla prossima chiamata è il suo spettro a riecheggiare nella realtà» «Un drago, quindi?» «Che si morde la coda» «Sai che il serpente o il drago che si morde la coda è un simbolo alchemico?» «Sì. Ne conosco alcuni. Ne sono affascinato da sempre. Anche nel simbolo della mia famiglia ve ne sono, e ne ho alcuni tatuati sul corpo. Come questo», e mostrò l’anulare della mano destra, su cui spiccava un piccolo tatuaggio. Tanja si sporse per guardare meglio alla luce delle lampade. «Interessante. Ti prego, figliolo: vai in cucina. Sulla destra troverai un armadio: aprilo e prendimi il cinquantesimo volume. Troverai anche un calamaio, lì dentro. Portami anche quello» Seguendo le istruzioni della donna, Rios trovò all’interno dell’armadio una lunga serie di fogli di pergamena rilegati a mano. Ogni volume era numerato in ordine crescente. Rios ebbe l’impressione che l'armadio fosse più grande dello spazio in cui era sistemato. Il massiccio manoscritto, una volta tirato fuori, sembrò aumentare di grandezza e peso. Sono decisamente stanco, pensò Rios tornando sui suoi passi. Intanto la donna si stava sciogliendo la complicata capigliatura fermata dall’aculeo di istrice. I lunghi capelli grigi si mescolarono al fumo della pipa in un intreccio magico. La donna tenne fermo il polso di Rios con la sinistra e con l'altra mano ne ricopiò il disegno nel volume, usando l’aculeo come pennino. «Rios Salemberg, Vilegis, Soldraconis...» Tanja si perse nello scrivere il resoconto di quel che era accaduto, cantilenando piano quel che scriveva. Il sonno calò inaspettato su Rios, facendolo addormentare seduto sulla sedia.

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo


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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo

Emanuele Benedetti Genere: Epic Fantasy

Dai un'ascia a un nano e diventerà un guerriero formidabile. Dagli un piccone e troverà qualsiasi minerale su cui valga la pena di mettere le mani. Dagli martello e scalpello e saprà tirar fuori da un semplice pezzo di marmo o basalto la statua più imponente e potente che i tuoi occhi potranno mai vedere. Puoi persino dare a un Abitante delle Montagne scaffali pieni di libri e pergamene; lui saprà diventarne un erudito. Ma tienili lontani dalla magia elfica e umana, ché sono nemici naturali. I Clan delle Montagne creano i loro arcani grazie alla loro forza, abilità e intelletto, non con “trucchetti gesti delle mani e parole altisonanti”. Discorso sui Clan delle Montagne, Capitolo I, Breve introduzione alle abilità del popolo nanico. Ystrio M'dilhan, Magnifico Rettore della Corporazione e della Scuola dei Maghi dei Regni Uniti Il turno lavorativo di quella rotazione era finito da poco al centro estrazioni e Remitildo Forgiasicura, Bathol Cuoredoro e Andrej Barbadiferro erano già immischiati in una rissa presso la loro taverna preferita, il Doppio Scacco. Quest'ultima era un'effige nella comunità nanica di Gund-Kheled. Migliaia di dozzimesi prima, quando i nani si erano stanziati in quello che poi gli umani avevano chiamato Monte Vetro, probabilmente per il fatto che i picchi gelati riflettevano la luce solare come vetro, era stata la prima bettola a essere fondata presso la città sotterranea nelle vicinanze del Gamil-dûm, il Vecchio Corridoio o Porta Antica. Era stato collocato proprio lì per una questione di "priorità", visto che, prima che fossero scavati tutti i tunnel interni, l'accesso a molti budelli e miniere era esterno alla città, e la prima cosa che molti dei lavoratori volevano era levarsi la terra dal gargarozzo. L’idea migliore l'ebbe quindi Fithul Fierascia, il fondatore di Doppio Scacco, il cui nome viene ricordato in decine di canzoni cantate anche e soprattutto nella sua bettola, cambiata in modo evidente da quando era stata aperta per la prima volta.

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo In tutta sincerità, Remitildo non ricordava assolutamente perché avesse fatto volare il primo pugno, o se fosse stato lui a far partire la rissa. Da quando avevano smesso di lavorare nella miniera da dove veniva estratto il ferro che poi sarebbe diventato il metallo più pregiato di tutto il Nord, bramato da ogni fabbro che si rispetti, e subito dopo essersi cambiato, aveva trovato nella giacca, oltre alla fumerba dei nani di Kibil-Zâram, la più meridionale delle stirpi naniche, vicino alle terre degli uomini, anche una fiaschetta contenente quello che rimaneva di una partita di ottimo Fuoco di Tiamath. Questo era un liquore raro, particolarmente apprezzato da tutti i Clan delle Montagne. Veniva estratto dai frutti di una pianta che cresceva solo nelle alture poche miglia più a sud del Monte Vetro, chiamata appunto Tiamath per i fiori a tre petali che si affacciavano dal bulbo come teste di draghi, i pistilli simili a lingue di fuoco. Ogni albero di Tiamath faceva pochissimi frutti, da qui la sua rarità. C'era chi diceva che con la magia si poteva aumentare la produttività di queste piante, ma tutti sanno che se streghe e stregoni mettono le loro mani adunche sulle questioni naniche, non possono che imbastardirle o, peggio, cambiare totalmente sapore al prodotto finale. Oltre che un gusto rotondo, un odore fruttato e forte e il piacevole pizzicore che produceva sulla lingua e sul palato, il Fuoco di Tiamath era anche un liquore parecchio alcolico, tanto che quella fiaschetta argentata intarsiata di rune e col tappo legato al collo della stessa, scolata tutta d'un sorso dal nano, aveva già dato una bella prova da superare alla proverbiale tempra della sua razza. Infatti, i suoi due amici, che lo avevano aspettato mentre si cambiava, lo avevano deriso all'uscita dagli spogliatoi per il suo incedere a onde. Arrivati alla locanda, i tre avevano ordinato una pinta a testa della birra scura della casa, invecchiata nei famosi barili di legno-pietra di Gund-Kheled, per poi ordinarne altre tre. Il lavoro, la stanchezza e il Fuoco di Tiamath si erano fatti sentire subito per Remitildo che, molto probabilmente, aveva fatto un commento di troppo su chi sa quale argomento. E adesso i suoi due amici lo stavano spalleggiando per tirarlo di nuovo fuori dai guai. O per lo meno, così credeva. Remitildo prese uno sgabello all'estremità di un tavolo stranamente ancora in ordine nonostante la

rissa in atto, lo afferrò dalla parte della seduta, puntò i piedi e spinse l'arma improvvisata verso l'avversario, Myolmyr qualcosa-bronzeo, che cercava di incalzarlo, i pugni sollevati sopra la testa; non conosceva questo tipo se non per sentito dire e in tutta sincerità non voleva approfondire l'amicizia con le sue mani pelose, che sembravano quelle di qualcuno che lavorava i metalli che lui estraeva. «Ehi, Bat!», urlò sopra il frastuono della locanda per farsi sentire dal suo amico Bathol, che aveva sistemato un compare del suo avversario e che ora per sollazzo stava svuotando di nuovo il suo boccale, «Quando vuoi te! Non c'è fretta!». Bathol, quindi, guardò da sopra la bevuta con un occhio, la fracassò a terra molto vicino alla testa del suo precedente avversario, come a dirgli di rimanere svenuto dov'era, prese fiato per un lungo attimo e scatenò tutto il malcontento del suo stomaco: un'eruttazione così bassa e greve da far tremare quei pochi tavoli e sgabelli rimasti in piedi. Molti avventori si girarono per cercare di capire da dove provenisse quel rumore, compreso Myolmyr, distratto e impressionato al contempo. Remitildo ne approfittò immediatamente, grato al suo amico per l'occasione, impugnando per le gambe lo sgabello che aveva in mano e fracassandolo sulla tempia bardata di elmo del suo contendente, mandandolo tra le braccia della Dea dei Sogni. Mentre Bathol si sedeva sulla schiena dall'avversario caduto e si batteva le mani guantate sulla pancia, soddisfatto della sua nota di petto, Remitildo si asciugò il sudore, controllando intorno a lui che non ci fossero altri malintenzionati guerrafondai. Vide il suo amico Andrej seduto a un tavolo: stava giocando d'azzardo come suo solito, incurante di ciò che era appena accaduto, come del resto gli altri nani dello stesso tavolo. Vedendo l'altro amico che rischiava di addormentarsi sopra la schiena del malcapitato, lo tirò su per il bavero della camicia, dicendogli: «Va’ a interrompere i comodi di Andrej; sicuramente qualche figlio di orco sarà andato ad avvertire le Cappe Nere e non ho voglia di finire di nuovo davanti al prefetto». Sputò per terra, vicino ai cocci prodotti dalla rissa e continuò, grugnendo: «Quel nano con un occhio solo mi mette i brividi». Senza dar tempo all'amico di raccogliere le idee, Remitildo, ripresosi parzialmente dalla sbronza, si

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo chinò sugli avversari appena battuti, strappò loro dalla cintola la sacca con le rune d'oro, la moneta di scambio vigente tra i nani, e si diresse verso il locandiere del Doppio Scacco. Quest'ultimo, durante la rissa, aveva pensato bene di chiudere a chiave la porta che dava alle riserve di birra e si era armato di un'ascia barbuta, manico e testa incisi di rune, pronto, all'occorrenza, a darla sulla schiena di quegli avventori poco accorti da provare ad assalirlo. Rem studiò lo sguardo del nano, la lunghezza del braccio e della lama che portava e si fermò giusto a pochi pollici dalla sua portata, gli buttò d'innanzi le sacche appena confiscate e disse: «Questo è per il disturbo, Fierascia». «Vedi di non portare per un po' quel brutto muso nella mia locanda, Forgiasicura, se non vuoi Dolore tra capo e collo», disse minaccioso il locandiere, soppesando l'arma che teneva a due mani. Rem sapeva che l'indomani sarebbe potuto comunque rientrare, come se nulla fosse accaduto; le risse erano l'attrazione principale nelle locande, seguite a poche lunghezze dalle ballerine e dai bardi itineranti. Buttò un occhio a Bathol, che nel mentre era riuscito a dissuadere Andrej dal continuare la sua partita a dadi, presero dalla rastrelliera i loro pochi averi e se ne andarono dalla porta frontale. Appena il tempo di una decina di passi, e dalla strada principale si affacciarono tre Cappe Nere, le armi alle mani. Per non dare nell'occhio, i tre amici si misero a chiacchierare allegramente del più e del meno, passando accanto ai vigilanti che si stavano dirigendo verso il Doppio Scacco. Il corto mantello nero obliquo, l'armatura brunita del miglior metallo, le verghe dell'acciaio scurito più fine mai creato, gli occhi gelidi di chi deve far rispettare la legge, le barbe raccolte in elaborati ferma-barbe a forma di rune o di animali mitologici, le tre Cappe non si curarono minimamente dei tre passanti casuali, procedendo a passo di carica. Decine di passi più dietro, comparì un tipetto che correva loro dietro; probabilmente era il nano che aveva avvertito le guardie, e ora si stava affannando per godersi lo spettacolo di vergate nere sugli elmi di cuoio degli sventurati avventori della locanda. Man mano che si avvicinava sgambettando, i tre amici riconobbero subito Flek il Lingualaida o, com'era meglio conosciuto in tutte le bettole sotto il monte Gund-Kheled, “Palleflosce”, “Non-una-pa-

rola” o “Nerospione”. Tristemente famoso per la sua lingua lunga, Flek era una delle Vedette della Cappe Nere. Queste figure si appostavano, spesso non viste, nelle taverne o nei luoghi dove più probabilmente potevano nascere risse o insubordinazioni e, se si scatenava qualche parapiglia, correvano a perdifiato nelle piazzole di appostamento dei tutori dell'ordine per avvertirli. Ebbene, Flek era la più famosa delle Vedette, tanto che chi lo riconosceva non mancava di mollargli un ceffone dietro al collo pelato o, molto più sovente, poteva risvegliarsi il giorno dopo del suo “appostamento” tra i rifiuti della bettola in cui aveva deciso di fare il guastafeste, pieno di lividi e con qualche dente in meno. Una di quelle volte in cui si era ritrovato coperto di sudiciume, si accorse anche di aver ricevuto una brutta botta a un'anca, lasciandolo zoppo per il resto della vita. E di fatti, i risultati si vedevano da come correva per dar dietro alle tre Cappe Nere che aveva chiamato stavolta. «Una volta credo di aver letto una cosa che diceva grosso modo così», bisbigliò ai suoi amici Bathol, che stava fissando la corsa del nano zoppo, decantando: «che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione». Detto questo, giunsero in prossimità di un piccolo vicolo stretto e buio, una di quelle viuzze dove di solito va chi cerca di smaltire una sbornia in santa pace o, molto più probabilmente, dove venivano buttati sacchi e sacchi di rifiuti che, prima o poi, la nettezza urbana della città avrebbe preso e usato per alimentare le fiamme delle fucine naniche. Arrivati nel vicolo, Bat scaraventò a terra Flek sotto gli occhi sbigottiti degli altri due amici, che si ricomposero subito per dar man forte al compare e sfogare un po' della violenza che la Vedetta aveva fatto nascere e crescere in così poco tempo. Poche dozzine di battiti di cuore, qualche urlo soffocato da un guanto infilato giù per la gola e decine di pugni sullo stomaco dello sventurato dopo, i tre amici uscirono dal vicolo con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Dopo essersi soffiato le nocche, probabilmente per un pugno assestato con un po' troppa irruenza a uno dei tanti ossi plurifratturati della Vedetta, Andrej chiese: «Blyat, non ho assolutamente voglia di andare a dormire! Nonostante tutto, ho ancora il fuoco nelle vene!».

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo «Vero!», confermò Bathol, «Non possiamo concludere la serata così. Ho lavorato come un mezzorco oggi, e non voglio darla vinta alle Cappe Nere». I due si girarono verso Rem, che di solito aveva la soluzione pronta in questi casi, tanto che non fece attendere risposta: «Andiamo al Covo?» «Blyat, ci vuole un po' di gelo per freddare gli ardenti spiriti!», esclamò entusiasta Andrej, «ma prima passiamo da un mio amico trappista che mi deve un favore... non sia mai che vi faccia gelare lo stomaco!» Così Andrej passò immediatamente al comando, guidando gli amici in un dedalo di viuzze e budelli di pietra che conosceva solo lui. Il nano era cresciuto tra quei vicoli, tanto da conoscerli ancora a menadito. Oltretutto, ogni sera come quella, tirava fuori un «amico che gli doveva un favore», che di solito era un nano che era stato vittima di atti di bullismo dalla sua gang quando erano più giovani e che adesso, per metterci una pietra sopra, o molto più probabilmente per non farsi malmenare ancora come un tempo, davano un po' dei loro averi ad Andrej. Arrivarono infine presso una bassa casa e parecchio lunga. Probabilmente solo la parte frontale dell'abitazione era adibita a dimora; il resto doveva essere un magazzino o un laboratorio. Infatti, Andrej celebrò la casa come «una delle migliori distillerie di Grappanera di questo monte, blyat». Bussarono dal pomello battente a forma di boccale. Poco dopo, dallo spioncino si affacciarono due occhi assonnati che guardarono di sottecchi Rem e Bat, ma che si illuminarono appena videro Andrej. Quindi, la piccola finestra venne chiusa e il portone rinforzato si aprì, palesando un largo nano panciuto per il troppo bere, in vestaglia da notte, barba, e i pochi capelli rimasti neri come la notte. Fece calare una pacca che avrebbe potuto distruggere un barile sulla spalla di Andrej, parlando in un dialetto che gli altri due amici faticavano a comprendere. Tra risate e parole incomprensibili, il proprietario di casa e Andrej scomparvero dietro la porta che venne richiusa sonoramente alle loro spalle, lasciando gli altri due di sasso a guardarsi in faccia senza comprendere appieno quel che era appena successo. Rimasero interdetti per qualche minuto, cercando dentro la propria testa una spiegazione plausibile, quando Rem cercò di riprendere in mano la situazione e allungò la mano per bussare di nuovo e chiedere lumi. Ma la porta venne spalancata di nuovo e, insieme ai due nani, arrivò anche una zaffata di malto e ginepro, ingredienti fondamentali per della buona Grappanera.

I due, intanto, continuavano a parlare in quel loro strano dialetto, ma dopo un'altra manata sonora, il proprietario di casa mise in mano ad Andrej due barili di piccole dimensioni e un terzo che andò tra le braccia di Bathol. Infine, in un runico parecchio stentato, disse agli altri due: «È stato un piacere fare vostra conoscenza», fece una grossa risata di pancia, si girò e chiuse la porta, girando il chiavistello. Ancora interdetti, Bat e Rem guardarono il loro amico in cerca di lumi che non tardarono ad arrivare: avevano appena avuto l'onore di conoscere uno degli zii di Andrej, che aveva spostato la produzione di birra e gin dai lidi dell'Est sin lì a Gund-Kheled ai tempi del Grande Esodo dei Nani. La gang di cui faceva parte Andrej quando era giovane aveva protetto la produzione dei liquori dello zio per così tanto tempo che si considerava debitore in eterno nei loro confronti, così era diventato una fonte sicura di alcool buono e fatto in casa con il vecchio metodo dei nani dell'Est. Mentre Andrej spiegava, la comitiva aveva cominciato ad avviarsi verso quello che chiamavano tra di loro “il Covo”, che altro non era che un appostamento sopraelevato rispetto a Gamil-dûm, la porta principale della città nanica. La particolarità di tale luogo era l'ubicazione: ai lati della mastodontica porta che dava al Gamil-dûm sorgevano due altrettanto imponenti statue raffiguranti i due eroi che avevano guidato il popolo nanico alla scoperta di Gund-Kheled. In realtà, all'entrata di ogni grande città dei Clan delle Montagne c'erano dei colossi che raffiguravano il grande passato della stirpe che vi abitava, che potevano essere dei nani in armatura o dei saggi, delle armi create nel sottosuolo o delle enormi scritte in runico. Come detto, Gund-Kheled non era da meno. A uno dei lati dell'entrata della città era scolpito Gortho Neroscudo, detto Occhidivetro per l'azzurro limpidissimo dei suoi occhi, quasi bianchi, uno dei tratti più rari nei nani di tutti i clan. Era raffigurato con l'ascia a due teste che, sopra la porta, incrociava il martello da guerra di Reymid Neroscudo, fratello minore del primo e fondatore delle Cappe Nere, i vigilanti nella città sotto la montagna. Da fuori, queste mastodontiche statue apparivano ancora fiere in tutta la loro importanza. Centinaia di dozzimesi e di intemperie non avevano minimamente scalfito neanche una singola spanna della loro maestosità. Ma dentro era tutto un altro mondo. L'interno delle statue fungeva da metodo di difesa alla porta: piccole aperture sul busto, gli occhi, il naso, le armi incrociate sopra la porta; tutti spiragli, grate e feritoie che servivano ai nani in

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo difesa per versare olio bollente, lanciare massi o bersagliare il nemico con le potenti baliste o le famose balestre naniche automatiche. Ma Gund-Kheled era tristemente famosa tra i nani come unico luogo nel raggio di miglia in cui regnava la pace. In tutta la sua esistenza, il Monte Vetro aveva visto un solo grande assedio da parte dei Pelleverde che, per un intero dozzimese, avevano provato a penetrarvi. Naturalmente, con scarso successo. Ora il problema fondamentale era il decadimento delle difese testé descritte, visto che, non essendo utilizzate, erano state abbandonate a loro stesse, oppure quelle facilmente raggiungibili dalla città erano diventate dei magazzini o degli ampliamenti per botteghe costruite lì vicino. Il Covo in questione era la testa del colosso di sinistra, quello raffigurante Gortho Occhidivetro. Questo era raggiungibile tramite una botola di cui in molti si erano dimenticati, raggiungibile arrampicandosi su parecchie scale dai pioli dissestati o marcescenti, una volta superate una serie di stanze invase dalle ragnatele. Una volta aperta la porta che dava all'interno della testa della gigantesca statua, i nani slegarono dalle loro cinture i loro boccali di legno personali, che ogni abitante sotto i monti che si rispetti portava sempre con sé. Andrej prese un barile a caso, lo stappò e versò il contenuto prima ai suoi amici e poi a se stesso. Quel fusto in particolare si rivelò colmo di un’ottima Grappanera invecchiata per chi sa quante centinaia di dozzimesi. Il primo brindisi fu in onore delle ossa rotte di Flek, il secondo alle Cappe Nere che avevano fatto un viaggio a vuoto, e il terzo al Covo. Visto che gli occhi della statua, che venivano utilizzati come punto di avvistamento, risultavano senza imposta o vetri a difesa dal gelo proveniente dal monte, dalla parte opposta della stanza avevano ricavato una piccola canna fumaria che dava sull'elmo dell'eroe nanico. Qui Remitolto accese un fuoco con la legna di panche e tavoli delle altre stanze e i tre amici vi sedettero vicino, in cerca di un po' di tepore. «Ah, dannazione, Rem», se ne uscì improvvisamente Bathol, rivolto all'amico, «sicuramente uno di questi giorni le Cappe Nere verranno a trovarci in casa, a tutti e tre. E ci chiederanno lumi sul baccano di questa sera. La visita al prefetto è stata solo rimandata...» «Ne sono sicuro anch’io», rispose prontamente l'amico, «ma preferisco affrontare Pugnoduro da sobrio, piuttosto che con un fitta al cervello come stasera». Sputando nel fuoco, Rem continuò. «Che gli Eroi se lo portino nella tomba, ogni volta quel

nano mi promette di portarmi di fronte al re per le castronerie che combino. E credo che la prossima sarà la volta buona che mi ci porterà a fare un giro, ma non di piacere», bofonchiò, tirandosi in piedi e facendo finta di avere le mani legate e camminando gobbo davanti al fuoco come se fosse sospinto da qualcuno. Gli amici sghignazzarono, continuando a bere il liquore dello zio di Andrej. «E se ti dicessi che il re in persona viene a farti un saluto, in un posto dimenticato dagli Eroi e da tutti come questo?», si sentì da un angolo della stanza, apparentemente dominato da niente se non ombre e mobili ammassati. I tre si alzarono e si girarono di scatto. Con pochi passi misurati, si presentò nel fascio di luce del falò un nano che trasudava regalità da ogni pollice del suo essere. L'ampia fronte adornata da una semplice corona di ferro e argento legati a spirale; i lunghi capelli biondo-oro acconciati in una complicata treccia intramezzata da fermini a forma di drago e di rune, così come la barba, leggermente più scura dei capelli; la gorgiera di stoffa nera raffinata che reggeva gli spallacci di cuoio fine raffiguranti due draghi e, sotto a questa, una lunga tunica nera con intarsi in filo d'oro, stretta in vita da una cinta a cui erano appese una corta ascia con testa e manico ricamati in argento e un corno da bevuta intarsiato e con una placca in oro. Le braccia incrociate dietro la schiena, lo sguardo severo sui tre nani che aveva davanti e un angolo della bocca sollevato e compiaciuto dall'effetto sorpresa scaturito dalla sua comparsata, re Vomir II Oromonte stava lì in piedi, solenne e austero. Bathol, Andrej e Remitildo, dopo lo sbigottimento iniziale, incrociarono all'unisono i pugni sul petto e chinarono la testa in segno di saluto al loro sovrano. «Suvvia, suvvia!», disse subito re Vomir, alzando le mani davanti a sé, «Non servono queste formalità! In fondo, siamo nel vostro “covo”». Prendendo una cassa vuota dalla mobilia abbandonata nella stanza, il re si posizionò davanti al fuoco tra Remitildo e Bathol, che continuavano a guardarsi tra loro senza capire cosa stava succedendo. Re Vomir si sistemò la tunica in modo che non si piegasse sotto le sue nobili terga, estrasse il raffinato corno da bevuta e alzandolo davanti ad Andrej chiese: «Allora, non offrite qualcosa da bere al vostro sovrano? Nascondersi nelle ombre come un ladro per vedere dove andavate mi ha seccato la gola!». Andrej, ancora interdetto dalla presenza del loro capo assoluto, fissò il calice, non sapendo cosa fare. Remitildo quindi si alzò, strappò di

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Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo mano il barilotto dalle mani dell'amico e versò la Grappanera al suo re. «Questo è per tutti i nani laboriosi, come voi!», disse quindi Vomir, alzando il corno verso gli altri. Remitildo non era sicuro che il re avesse parlato in tono più o meno sarcastico, ma in qualsiasi caso non si rifiutava mai un brindisi, soprattutto se a farlo partire era il tuo sovrano. Scolarono i calici in un sorso e Rem fu lesto a riempirli tutti di nuovo, finendo così quel barilotto. Mentre Andrej s'ingegnava per aprire il secondo, il re finì il suo secondo corno. Una volta bevuto, schioccando soddisfatto la lingua, il re disse ad Andrej: «Per tutti gli Eroi, devo assolutamente chiedere a tuo zio di portarmi una fornitura di questa Grappanera. Sono disposto a sorvolare a tutti i dozzimesi di tasse non pagate se il risultato finale è questo!». Andrej ebbe un'altra volta un sussulto: sapeva che lo zio evadeva, ma non credeva addirittura per «tutti i dozzimesi», come il suo re aveva appena detto. Cos'era venuto a fare il sovrano, quella sera? Cosa stava architettando? Queste le domande che viaggiavano nella mente dei tre amici. Al che, Rem prese coraggio e chiese: «Mio buon re, siamo onorati che ci abbiate... scovato, in qualche modo. Ma ho una domanda che, credo, ci stiamo facendo tutti» Prese un momento fiato, guardando Bat e Andrej negli occhi, e continuò: «cos'abbiamo fatto per meritarci la sua esclusiva attenzione?» Intanto Andrej era riuscito a riprendersi e a stappare finalmente il secondo barilotto, leggermente più grande del primo, rilevando un odore di cereali e malto che dava il capogiro. Tutti levarono i calici, che vennero subito riempiti di una birra scura come la notte. Re Vomir guardò il liquido, lo annusò e storse il labbro superiore, come se non riuscisse a riconoscere una fragranza tra tutte, bevve un sorso e schioccò di nuovo la lingua. «Caffè? Qui? Nella mia montagna?», esclamò il sovrano. «Tuo zio deve essere un nano con gli attributi per essere riuscito a farsi mandare questo cereale fino a qua!», e trangugiò quello che rimaneva della bevanda. «Ora, per risponderti», continuò re Vomir, allungando di nuovo il corno verso il barile, «devi sapere che vi stiamo tenendo d'occhio da diverso tempo, io e i miei consiglieri. Noi ci conosciamo piuttosto bene, Rem», disse guardandolo negli occhi. «Non hai bisogno di usare quel tono formale con me, lo sai. E non ho idea del perché tu abbia preso la via delle miniere anziché quella del comando, ma è affar tuo. Fatto sta che mi fido di te: hai dimostrato molto volte di essere un attaccabrighe indomito, come stasera...», e diede uno sguardo a tutti e tre i nani che gli stavano intorno,

come a dire “sì signori, vi ho visto…”, «...ma in una maniera o nell'altra ne sei sempre uscito indenne. Anche disarmato contro avversari armati o, meglio ancora, in minoranza. E questo, per noi nani, è motivo di orgoglio. Durante la nostra gioventù ti sei sempre dimostrato degno di fiducia. E ora il tuo re, a nome del nostro popolo, è venuto qui a chiederti un favore». Mentre parlava, i tre nani pendevano dalle sue labbra, e Andrej, per non staccare lo sguardo dal re, versò troppa birra nel boccale di Bat, facendola uscire dal bordo del suo boccale. Per la sua disattenzione e per aver sprecato dell'ottima birra, ricevette un manrovescio dall'amico. Questi due sapevano che Rem in passato era stato posto d'innanzi a una scelta: proseguire gli studi e diventare un diplomatico dei nani, così da poter viaggiare tra le città naniche; oppure diventare un mastro operaio per rimanere a Gund-Kheled. Di solito, tra i nani non si facevano domande da mezzelfi sulla ragione di determinate scelte. La maggior parte degli abitanti delle montagne credevano nella Ruota del Fato, quindi se una cosa era andata in una certa maniera, non poteva essere differente. Sicché, anche Andrej e Bat avevano accettato le decisioni di Rem senza porsi troppe domande. «Quindi, mio re, fammi capire bene», rispose dopo un po' Remitildo, guardando il suo boccale di legno e girando con la mano il contenuto, «non approvi i miei comportamenti, ma approvi i risultati; spii i miei movimenti grazie a non so quale trucco magico; passi per le ombre e vieni fuori all'improvviso così, come se nulla fosse; nonostante tu sappia cosa ho passato durante l'infanzia, vieni a farmi la paternale sulle mie scelte...», fece un altro momento di pausa per tracannare la birra e, subito dopo, guardare negli occhi al proprio sovrano, con uno strano luccichio nello sguardo, «e, dopo dozzimesi in cui non fai sentire una singola runa, vieni qui a dirmi che il popolo nanico ha bisogno di me?» «E se ti dicessi che tu sei l'unico di cui mi possa fidare, Rem?», controbatté subito il suo interlocutore. «Se ti dicessi che quello che ti sto chiedendo non è per un mio capriccio, ma è proprio voluto dal Fato?» «Bah, queste chiacchiere da predestinati mi fanno solo ridere», replicò Remitildo. «Il Fato può fare quello che vuole delle sue trame oscure... ma la mia vita me la scelgo io!» «Non prendere alla leggera il Fato, Rem», disse il re, serio in volto, «perché è proprio per questo che sono qui!». Re Vomir si alzò di scatto in piedi, sempre guardando il vecchio amico, e da una tasca attaccata dietro alla cintura che stringeva in vita, tirò

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Cronache di Oscailt

Capitolo 4 — Gund-Kheled, di nuovo fuori una pergamena che non sembrava nanica. Infatti, srotolandola, Rem si accolse che le scritte non erano in runico, ma un miscuglio tra caratteri degli umani, grammatica nordica e punteggiatura elfica. Rem conosceva questo modo di scrivere che veniva usato solo in certi determinati casi dai sovrani di una specie per comunicare con un'altra. Aveva appreso i rudimenti di tale scrittura cifrata durante la sua gioventù, ma non aveva mai approfondito. Di fatti rispose: «E che ci devo fare delle lettere che vi mandate tu e le altre razze?» «Se ti degnassi di leggere, e so che puoi, quello che c'è scritto», rispose secco il re, che, dal tono di voce, cominciava a perdere la pazienza, «capiresti l'importanza di quello che ci stiamo scrivendo io e gli altri sovrani. Stanno succedendo cose più grosse di noi, Rem. E io sto chiedendo aiuto a te, perché so che solo tu puoi darmelo». Intanto Bathol e Andrej stavano osservando lo scambio tra il loro amico e il re a bocca aperta, tornando ogni tanto a dedicarsi alle proprie bevute, tanto che ora cominciavano ad essere piuttosto brilli. Andrej, dall'alto della sua ebrezza, chiese dal nulla: «Mio re, cosa vuole il popolo nanico e gli altri popoli da spaccaossa come noi? Siamo buoni solo a estrarre e lavorare i metalli, blyat. E se capita ogni tanto a fare a pugni. Forse facciamo meglio questo che la faccenda dei metalli, blyat. Come potremmo mai soddisfare una richiesta così importante?» Il re quindi prese dalle mani di Rem la pergamena, la rimise dentro la tasca attacca alla cintura e si avviò verso gli occhi-finestra del colosso, le mani intrecciate dietro la schiena. Fuori aveva cominciato a nevicare fitto e non si vedeva a più di una manciata di spanne dall'apertura. «Se quello che dicono i Grandi Saggi umani, quella cricca di maghi da strapazzo, si avvicina anche lontanamente al vero», mormorò re Vomir, «sembra che ci stiamo avvicinando a quello che loro chiamano “l'apertura”. Ne avete mai sentito parlare?», chiese, voltandosi verso i suoi interlocutori. Andrej e Bathol, che stavano guardando il loro re, cercando di resistere ai fumi dell'alcool, scossero la testa. Rem invece aveva riabbassato gli occhi sul suo boccale vuoto e non rispose. «Per farvela breve», riprese Vomir, «l'apertura è il preludio alla fine dei tempi. Sembra che questi Grandi Saggi abbiano...» «Quei vecchi ciarlatani avranno di nuovo guardato dentro qualche pozzo e avranno visto qualcosa che, guarda caso, solo loro possono vedere», sbottò scettico Remitildo, «ogni volta che qualcosa viene dagli umani, va a finire che riguarda solo i loro sporchi interessi. È capitato anche in passato, Vom, che quella marmaglia convulsa di gam-

be-lunghe abbiano interpellato le altre razze solo per faccende che poi si sono risolte a loro uso esclusivo» «Stavolta è diverso, Rem!», cercò di spiegare il re, dimostrando un controllo della propria calma non comune a quelli del suo popolo, soprattutto per essere un sovrano che è stato interrotto mentre parlava. «Anche quegli abbraccia-alberi degli elfi hanno presagito qualcosa. Ma la loro unica fonte di conoscenza è la Natura, e spesso persino a lei molte cose sono nascoste!» «Se ci andiamo a fidare anche degli orecchi aguzzi, allora siamo davvero al Bizar-azan!», si sfogò Rem. Per scaramanzia, Andrej e Bathol, al sentire del Bizar-azan si lisciarono le barbe in un gesto scaramantico; persino il re strinse la testa dell'ascia che portava alla cintura. «Ed è proprio di questo che ti sto parlando», riprese il sovrano, allentando la presa dalla sua arma, «la fine di tutto». Si girò di nuovo verso la finestra-occhio e appoggiò una mano al muro, l'altra stretta a pugno dietro la schiena. «Mi hai conosciuto, Rem. Non credo di essere cambiato tanto da allora. L'unica cosa differente è che io ho avuto il coraggio di prendere ciò che il Fato, o chiunque tu voglia, mi ha messo sotto mano. Sono il re sotto Gund-Kheled e ho delle responsabilità verso tutti voi. Se una pulce nell'orecchio mi dice che dietro questa storia c'è un fondo di verità, perché non investire delle risorse per dissolvere quello che potrebbe essere un fuoco fatuo?» Quindi il re si staccò dal muro e si avvicinò di nuovo al fuoco, parandosi di fronte a Remitildo, dicendogli: «La mia era una richiesta in memoria dei vecchi tempi, Rem. Non ti ordinerò di fare una cosa che non vuoi fare o in cui non credi. Ma se mi darai una mano, avrai una giusta ricompensa. In più saprai di aver aiutato il tuo popolo e, male che vada, anche questa esistenza». Remitildo era ancora seduto e stava guardando il suo amico e sovrano, quando a un certo punto questi gli posò una mano sulla spalla, chiedendogli: «Risponderai alla Chiamata?» I due si guardarono negli occhi per un lungo momento. Poi Rem scosse la testa, si alzò in piedi, la mano del sovrano ancora appoggiata sulla sua spalla, e lui allungò la sua: «Ah, che diamine Vom! Risponderò!» «Qua ci vuole un altro brindisi, blyat!», urlò Andrej, felice che la tensione nella stanza si fosse allentata. Stapparono l'ultimo barilotto in loro possesso. Se lo gustarono fino alla fine, parlando del passato, di metalli, di armi, di nane e delle manganellate evitate dai vigilanti. Forse, stava pensando Rem, potevano essere gli ultimi battiti di cuore che avrebbero passato spensierati.

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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino


La Confraternita Dell'Infinito

Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino

Luca Moretti Genere: Fantascienza

Nessuno ha mai messo in dubbio che l’arguzia sia un dono di Fratello Giacomo, ma ora si andava oltre i limiti della chiaroveggenza. Come sapeva che non avevo raccontato interamente il mio sogno a Padre Marco, l’infirmario psicologo? Dopo aver letto l’enorme stupore sul mio volto, il suo sorriso si è fatto ancora più giocondo, se mai fosse possibile, aggiungendo una sfumatura di soddisfazione alla vasta gamma di gradazioni emotive che sa mostrare con il suo viso, cosa in cui è un maestro indiscusso. Non ha aspettato la mia domanda oltre, anche perché mi si è incontrovertibilmente arenata in gola. «Ricolloca pure la tua mascella nella sua sede d’origine. Non sono un veggente o un mago come forse starai pensando, semplicemente ho buon udito e so leggere oltre gli sguardi. Siediti e presta attenzione, ti conterò come ne sono venuto a conoscenza» Non potevo fare altrimenti, la mia curiosità eseguiva i suoi ordini alla lettera trovando difficoltà solo nel riposizionare la mandibola nella sua giusta collocazione. «Ero in refettorio e stavo svolgendo le nostre classiche mansioni da novizi, servire i pasti e rassettare i tavoli, quando ho visto Padre Isacco, che aveva già finito di mangiare, avvicinarsi a Padre Marco che si stava attardando al tavolo, intento a rimettere a posto dei carteggi che gli erano scivolati dalla cartella che porta sempre con sé. Non ho fatto caso alla cosa ma sono stato calamitato dalla loro discussione quando Padre Isacco ha fatto il tuo nome chiedendo delle tue condizioni all’infirmario. La domanda mi ha incuriosito doppiamente. In primo luogo non immaginavo che stessi facendo delle sedute di analisi e in seconda istanza mi sono stupito dalla facilità con cui Padre Isacco infrangeva la Regola del nostro Ordine di non poter parlare dei propri uffici e incarichi nel refettorio» Il racconto si faceva ancora più interessante. Perché Padre Isacco rischiava un provvedimento disciplinare solo per avere notizie sul mio stato? Giacomo ha proseguito il racconto: «Ho pensato che il suo interesse andasse ben oltre le tipiche cure che dovrebbe avere un maestro per i suoi novizi, ma senza malizia ho creduto semplicemente che Padre Isacco ti avesse molto a cuore e, fingendo più zelo del dovuto nella mia mansione, sono rimasto in ascolto. Anche Padre Marco era visibilmente stupito dalla domanda ma, contro ogni mia aspettativa, si è guardato intorno con circospezione e lo ha rassicurato sommariamente sul tuo stato di salute e ha accennato al tuo sogno». Almeno Padre Marco se l’era bevuta. Ha continuato: «La curiosità di Padre Isacco era contagiosa e mentre lui chiedeva i dettagli del sogno, io allungavo le antenne, forte del fatto che il tuo sogno ricorrente già lo conoscevo bene, morendo dalla voglia di cogliere le loro reazioni alla singo-

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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino lare visione dell’infante dall’odore di menta. Ma quando Padre Marco ha illustrato l’immagine di un infante, spiegando però che si trattava di te accoccolato tra le braccia della Vergine Maria, fermandosi forse solo a una prima parte del sogno che immagino mi avessi taciuto per pudore, sono stato io il solo a rimanere stupito, tanto da non riuscire a controllare i miei riflessi; ho fatto cadere un piatto e sfortunatamente Padre Isacco ha scoperto che li stavo ascoltando». Qualcosa era andato storto, lo sentivo. «Ma la cosa non ha scomposto per niente il nostro Maestro, anzi sembrava che avesse sempre saputo che stessi origliando. Mi ha guardato bonariamente e con un cenno del capo mi ha detto di fare attenzione. In un attimo ero fuori dalla portata dei loro discorsi, diventati ora molto affrettati, e in breve tempo i due frati sono usciti entrambi dal refettorio» Ho tirato un sospiro di sollievo: «Pensavo che fosse andata peggio. Alla fine non è successo niente di strano e hai saputo della mia mezza verità per puro caso!». Ormai mi ero tranquillizzato e avrei potuto continuare a tener nascosto ai nostri superiori il mio segreto. «Aspetta!», aveva aggiunto Giacomo. «Non è finita qui!» E subito una scossa lungo la schiena mi ha riportato ai timori iniziali. «La curiosità di sapere perché avessi nascosto il seguito del tuo sogno a padre Marco si sommava alla voglia di vederti ed entrambe si riflettevano sul mio passo, più spedito del solito, ma mentre mi stavo precipitando da te, dopo essere sceso in tutta fretta dal piano del refettorio verso il dormitorio dei confratelli, lungo il corridoio che porta alle celle dei novizi ho incontrato Padre Isacco, e non credo sia stato per caso. Appena l’ho visto, prima di fargli dire qualsiasi cosa, mi sono scusato per aver origliato e gli ho spiegato di averlo fatto solo per apprensione: volevo avere tue notizie a ogni costo. Con uno sguardo più che comprensivo mi ha detto che altri frati non sarebbero stati così indulgenti, poi ha capito subito la domanda che mi stava girando per la testa e ha risposto prima che riuscissi a formularla. Essendo l'ecclesiastico in comando sull'Apis I, nonché capo squadra pro tempore dei piloti dell’eremo, era suo diritto sapere delle tue condizioni psicofisiche, e questo diritto andava ben oltre le ordinarie limitazioni della Regola. Mi sono

sentito fortemente in imbarazzo» Tipico di Giacomo: quando la sua sicurezza è ormai consolidata, ecco che si mostra in tutta la sua fragilità. «Non avevo detto una parola, ma mi sentivo come se avessi messo in dubbio, in qualche modo, i suoi Voti. Mi sono scusato cerimoniosamente e ho cercato di svicolare il discorso il più velocemente possibile, ma lui non sembrava accusatorio, anzi, con una serenità che non sembrava di questo mondo mi ha congedato con queste parole: “Porta i miei saluti a Giosuè! Purtroppo le mie mansioni non mi concedono tempo a sufficienza per poterlo andare a trovare ma digli che ci rivedremo presto: l’Adunanza è vicina. Digli anche di non temere i sogni perché un saggio pagano una volta disse che il sogno è l’infinita ombra del Vero”» Questo è quanto mi ha riportato Giacomo su quello che ha sentito e gli è stato riferito oggi da Padre Isacco, e rileggerlo ora è cosa tutt’altro che tranquillizzante. «Non credere di essertela scampata! Perché non hai raccontato il vero sogno a Padre Marco? Spero che non sia colpa di quello che ho scritto nella lettera che ti ho fatto recapitare da Fra’ Gualdino. Non vorrei che io possa averti influenzato, raccontandoti dello strano bambino avvolto da una nube verde rinvenuto e raccolto dal Neo Malleus e suggerendoti una possibile associazione con l’infante dall’odore di menta della tua visione onirica» Sono rimasto in un silenzio imbarazzato, ma lui ha continuato: «Non voglio che questa rimpatriata si tinga di malumore, voglio fidarmi della tua scelta, e credere che ci sia un motivo valido per non rivelare ancora la verità che Nostro Signore ci ha chiamati a custodire. Promettimi solo che, quando sarà il momento, tutti sapranno quello che c'è da sapere» Ho annuito senza commentare, ma ancora non so se l’ho fatto con la speranza di cambiare discorso, o semplicemente per aggiungere una voce alla mia grama, e poco invidiabile, lista di menzogne. Fosse stato per me, sarei rimasto in cella a rimuginare sull’accaduto ed espiare le mie colpe, ma Giacomo mi ha dato uno scossone e siamo corsi in refettorio. Il racconto ci aveva assorbito così tanto che avevamo perso il senso del tempo, e quella che avrebbe dovuto essere la mia prima uscita dopo la convalescenza, una bella passeggiata per rivedere l'eremo e i miei confratelli novizi, era diventata in-

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La Confraternita Dell'Infinito

Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino

vece una corsa a precipizio. Tutto ciò, comunque, non intaccava la magnificenza dell'eremo, che si riapriva davanti ai miei occhi come un giglio celestiale e, come in un gentile cambio di scena, spazzava la lavagna dei miei pensieri da quel torpore meditabondo in cui per troppo tempo ero rimasto imprigionato con le mie elucubrazioni che, finalmente, rimanevano in questa cella in attesa di essere vergate su questo foglio in questa notte insonne. È stato bello ripercorrere i corridoi, le scalinate e gli ambienti dell’eremo, e mi è sembrato di riviverli come se fosse la prima volta. Siamo passati sullo splendido camminamento, che porta dagli alloggi dei novizi alla scala per il piano superiore, dove sono ubicate le cucine e il refettorio, e ho avuto solo un attimo per affacciarmi sulla vallata che si stava beando degli ultimi raggi di sole che a loro volta si rispecchiavano sulla facciata della montagna dove l’eremo, come gemma preziosa, era incastonato. Sono bastati quei pochi istanti di sole vespertino per riempirmi di gioia e rendermi conto di quale luogo meraviglioso chiamo "casa". L’eremo di Monte Marte è un complesso di edifici che comprende anche il monastero dell’abbazia, il ricovero per i pellegrini e altre costruzioni minori. Per non destare sospetti, i confratelli che ci avevano preceduti presero la saggia decisione di mostrare agli occhi del mondo questi edifici mentre continuavano a scavare, traforare e modellare il dedalo di tunnel e gallerie che custodiscono il Segreto e Santo Ufficio che il Signore ci ha chiamato a compiere. Gli edifici esterni sono solo delle propaggini, la punta dell’iceberg della base segreta che si snoda e si intreccia dentro e fuori la roccia viva, che dispiega le sue arterie per tutto il massiccio montano. Solo un ingegno ispirato dall’Altissimo avrebbe potuto concepire un tale prodigio e solo il sacro vigore dei santi frati fondatori avrebbe potuto realizzare un simile miracolo. È nell’eremo stesso che si palesa la Gloria, la Perfezione e l’Infallibilità di Nostro Signore in tutta la sua magnificenza. Se si potesse analizzare architettonicamente la struttura dell’eremo, come in un’astratta visita guidata, partendo dalla parte più in vetta della montagna, troveremmo gli ingressi schermati che attraverso gallerie portano alle arnie a nido d’ape, postazioni di lancio e atterraggio per la nostra flotta. Scendendo più in basso, troveremmo il C.C., il

Centro di Comando che coordina le operazioni e, nel piano sottostante, la biblioteca e lo scriptorium tecnicizzato. Queste strutture sono dotate di particolari vetrate a parete che permettono di vedere all’esterno e goderne, di conseguenza, la luce, senza che, con il loro aspetto di semplici pareti rocciose, siano visibili da fuori. Scendendo sempre più in basso verso i piedi della montagna, si trovano l’eremo, l’abbazia, i ricoveri, il refettorio e gli alloggi dei confratelli, intervallati da strette terrazze che si affacciano sulla vallata, fungendo da camminamenti. Di nuovo, poi, ci addentreremmo nel cuore della montagna per raggiungere le rimesse, le fucine e le sale macchine. Lo spaccato immaginario di Monte Marte appare come un termitaio gigante votato alla gloria dell’Immenso. Infine, siamo giunti al refettorio. Ero convinto che non ci avrebbero fatto mangiare ai tavoli, perché il turno dei novizi era ormai passato, e quindi ero già persuaso di fermarmi subito in cucina e piluccare di buon grado qualche boccone insieme ai cucinieri. Quel testardo di Giacomo, però, ha voluto comunque proseguire fino al refettorio e, per una volta, la sua si è rivelata una scelta saggia, perché quella che ci si era parata davanti era una scena abbastanza singolare. Si era formato un capannello di persone che parlava animatamente e tra loro ho notato sia novizi che monaci ordinari che avevano tutti un’aria molto gioiosa, quasi di festa. In effetti si stava in qualche modo festeggiando l’ordinamento di un novizio e, fatto abbastanza inusuale, anche il suo imminente miglioramento delle carni. Era un evento abbastanza raro che saltava dei passaggi di grado nell’iter classico di un monaco del nostro Ordine. Ma non era tanto questa eccezionalità a infastidirmi, quanto piuttosto il fatto che la persona che avrebbe fatto il salto di grado fosse Ubertino. Non è bene chiudere la cronaca di questa mia lunga giornata in questo modo, come non è salutare andare a coricarsi con la disposizione d’animo nella quale mi trovo ora. Soprattutto, so che non dovrei scrivere quello che sto per scrivere, ma la verità è che non riesco proprio a gioire di questa novità, anzi, non posso sopportare che sia lui, al mio posto, a fare il salto di grado. Che Dio mi perdoni.

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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino

far parte del Tuo Ordine, ma Ti prego di credere a queste parole di uomo, prima che di padre: troverai in Ubertino un piissimo ragazzo, che saprà primeggiare senza perdere la modestia ed eccellere senza scontentare la purezza, non deludendo mai le Tue aspettative. In lui rivedo la Tua santa giovinezza: un ragazzo forte ma retto, grintoso ma pacifico, virtuoso ma umile. Confido in una Tua risposta affermativa, che donerebbe gioia infinita al ragazzo e alla nostra famiglia tutta. Tuo umilissimo servo e fratello, Xxxx Xxxx

Al Santissimo e Reverendissimo Abate Bonifacio dell’eremo di Monte Marte. Milano, xx/xx/xx Fratello mio, come stai? Mi duole disturbare i Tuoi Sacri Studi e i Tuoi Uffici di Altissima Natura. Con profondo rammarico ho visto la nostra corrispondenza farsi, con gli anni, sempre più rara e sporadica, ma sono sicuro che quotidianamente Ti preoccupi della nostra pace spirituale e custodisci un posto speciale per noi nelle Tue preghiere, come noi riponiamo in Te la nostra devozione e lodiamo ogni nuovo giorno che il Signore ci concede, nella beatitudine di avere al nostro fianco un Santo ed Eminente uomo come Tu sei, che veglia per la nostra serenità, Fratello mio. Pertanto, con questa mia spero di fare cosa gradita e allietare ulteriormente le Tue ore, e di maggior letizia riempire il Tuo cuore con buone nuove dalla nostra umile dimora che Ti diede i Natali e che continua a rallegrarsi dei Santi Uffici che Nostro Signore Ti chiamò ad adempiere. Nonostante l’Altissimo mi doni ogni giorno la forza di sopportare la nostra lontananza, e Tu sai quanto sia difficile per me resistere a tale privazione, non nascondo, in cuor mio, la speranza di ricevere al più presto Tue notizie in risposta a questa mia, e Ti prego umilmente di perdonare questa mia debolezza. Ti siamo profondamente grati per le intercessioni che dall’Altissimo, attraverso Te, ci hanno aiutato a superare i nostri affanni terreni e hanno donato lustro e prestigio a questa casata. Con orgoglio di padre Ti porto inoltre a conoscenza degli eccellenti risultati che ha raggiunto il nostro pupillo Ubertino. Grazie alle Tue amorevoli cure, il Tuo affezionato nipote ha conseguito il massimo dei voti nell’istruzione secolare e sta conducendo una retta e diligente prosecuzione negli studi seminaristici. Un mattino di primavera, quando ebbi la possibilità di incontrarlo durante una breve interruzione dei suoi studi, ristorati dall’ombra dell’olmo campestre che ben conosci e che continua a dominare l’ingresso del seminario che accolse Te prima di lui, il nostro Ubertino mi ha confidato tutta l’ammirazione che ripone nella Tua Illustre Persona e il desiderio di farsi Confratello del Tuo Ordine, seguire i Tuoi eminenti passi e la Tua insigne guida con devota umiltà, caratteristica che condivide con la Tua reverenda persona, e sincero entusiasmo, sano attributo della sua giovane età. Fratello, perdona la sfrontatezza della mia richiesta, nata unicamente dal cuore di padre per il bene del proprio figlio, se mi trovo a chiedere alla Tua infinità bontà di accettare Tuo nipote Ubertino tra i Tuoi Accoliti. So bene quanto sia dura la selezione per entrare a

[Il seguente documento è stato rinvenuto da un mio sottoposto in circostanze poco chiare. Pare faccia parte di una serie di rapporti attualmente persi e/o distrutti. Lo aggiungo agli atti di questa relazione, quale unico documento rimasto a mettere in luce alcune dinamiche tra i confratelli. Sole Nero] Sollecito a procedere con provvedimento disciplinare nei confronti del novizio Ubertino da Milano. Dopo insistenti segnalazioni del personale incaricato, ripetuti richiami anonimi e attenta osservazione incognita da parte della mia squadra di sicurezza, in data odierna, xx/ xx/xxxx, assistevo personalmente e prendevo atto del comportamento inadeguato del novizio Ubertino da Milano nei confronti dei suoi fratelli novizi, in particolar modo verso Giosuè da Xxxx. Il soggetto incriminato assumeva una condotta irrispettosa verso l’Ordine che andrà a rappresentare e i confratelli tutti, rivalendo le sue presunte ascendenze e arrogando pretese di supremazia su soggetti di pari grado. In particolar modo, riscontravo un accanimento verso il novizio Giosuè che, suo malgrado, risulta essere più abile e solerte nell’apprendimento e nello svolgimento delle sue mansioni. L’infima rivalsa dell’accusato andava ben oltre i limiti dei normali moti di rivalità giovanile passando in breve tempo da atti intimidatori a vere e proprie ritorsioni fisiche. Considerando le precedenti richieste insolute, sommate all’aggravante della recidività del soggetto, richiedo l’autorizzazione a procedere con un intervento disciplinare immediato: 1. 2. 3.

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Confinamento Regola Compunzione


La Confraternita Dell'Infinito

Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino bra fluttuare e vibrare, quasi fosse una visione. Il tratto è chiaro e fermo, nonostante la natura efebica della grafia, e riporta solo queste due parole: «sogni d’oro». La sottigliezza del tratto stride con la pregnanza semantica del macigno insito in questo messaggio. Un vortice di emozioni frammisto a dubbi sta provando a trascinarmi nel baratro, ma impensabilmente resisto. Non riesco ancora a decifrare con precisione quale appiglio razionale mi tenga ancorato alla sanità mentale. Ma forse è semplicemente una modalità di protezione istintiva, oppure ho raggiunto il limite di cose inspiegabili, e la mia capacità di metabolizzazione mentale non sopporta di andare oltre. Sono saturo di incognite. Provo a venirne a capo. Inizio dalla domanda più facile e, dato che non riesco a capire il motivo del messaggio, cerco almeno di elucubrare su chi possa avermelo lasciato. Il primo pensiero va a Padre Isacco. Ancora mi risuonano nelle orecchie le parole che mi ha fatto recapitare da Fra’ Giacomo. Parlava di sogni e si era interessato all’esperienza onirica che avevo confessato a Padre Marco. A pensarci bene, l'intruso potrebbe anche essere stato lo stesso Padre Marco. Eppure sembrava molto convinto di quello che gli ho raccontato. Come delle diapositive che, quando si prova a farle scorrere velocemente, sembrano desistere, cambiare corso e si riaffacciano prepotentemente sullo schermo prima di lasciare posto alle successive, così passo in rassegna tutti i volti che potrebbero avere qualche implicazione in questa vicenda. La mia mente analitica cerca di scavare in quei volti, quasi a carpire dei dettagli che possano rivelarsi utili indizi in questa mia ringhiosa indagine. Non vorrei farlo, ma il suo volto mi si para davanti, cerco di scacciarlo dalla mente, ma inevitabilmente inizio a sospettare di Ubertino. Ancora bruciano i soprusi che con precisione certosina ha perseguito impunemente nei miei confronti. Questo non è certo il suo modus operandi, quello lo conosco bene. Lui non avrebbe mai lasciato un criptico ma, nonostante tutto, innocuo messaggio in una stanza intonsa. L’accusa nei suoi confronti è senz’altro un triste pregiudizio, un subdolo errore sistematico della mia mente, frutto dell'ingiustizia che ho scoperto in refettorio e che ancora mi brucia nel vivo. Nonostante tutto quello che è successo, quando ancora non ho neanche iniziato a digerire l’irruzione clandestina, non riesco comunque a togliermi dalla mente l’iniqua promozione al miglioramento delle carni di Ubertino.

Ritengo tale misura necessaria perché la normale condotta del soggetto possa ristabilirsi. In calce, segnalo il solido zelo del novizio Giosuè da Xxxx, che tollerava i ripetuti attacchi del novizio Ubertino e dava prova di cristallina Misericordia. Raccomando una velocizzazione delle pratiche per il suo ingresso nell’Ordine e supporto la sua candidatura al miglioramento delle carni. Servi Tui, T.

È successo tutto all'improvviso. Sono entrati e hanno letto i miei carteggi, ne sono quasi certo. Ma che valore possono mai avere queste mie pagine mal vergate e peggio assortite? Che valore posso mai avere io, un semplice novizio non ancora consacrato all’Ordine? Perché continuo a scrivere anche se sono ridotto a nascondere questi fogli in un luogo sicuro, o almeno che credo tale? Eppure sono qui a rimuginare ancora una volta su eventi che non riesco a collocare in una giusta dimensione e si accumulano le incognite e si sovrappongono gli schemi dei quali sembro dover far parte. Oppure è tutto nella mia immaginazione? Eppure sono convinto di aver lasciato i miei scritti in una diversa posizione da come li ho trovati e quelle ombre, che mi è parso di vedere uscire furtivamente dalla mia stanza, erano reali e non frutto della mia fantasia. Sicuramente volevano verificare se quello che ho detto a proposito del sogno a Padre Marco fosse realmente tutto quello che avevo da dire, anche perché è l'unico segreto che custodisco. Ma avrebbero benissimo potuto verificarne l’esattezza in maniera ufficiale e di conseguenza punirmi pubblicamente, addirittura bandirmi dall’eremo. Perché farlo di nascosto? E ora che hanno scoperto la verità, cosa succederà? Ed ecco un altro enigma. Credevo di aver controllato ogni parte della scrivania, ma nella confusione interiore che mi ha investito ho tralasciato il punto più in bella vista: i fogli bianchi sui quali sto scrivendo in questo momento. Senza neanche rendermene conto, come in un’estasi mistica, ho iniziato a vergare di getto queste parole, fare la cronaca degli ultimi eventi sin nei minimi dettagli, quasi inconsapevole di quello che stavo scrivendo, avendo come unica causa e ragion d’essere l’atto di scrivere, come posseduto da un demone onnigrafo. E dopo aver riempito di caratteri il fronte di questa pagina, con gesto febbricitante ho voltato pagina e ho trovato questa scritta che campeggia al centro del foglio. Un tratto sottile, quasi sfiorato, che ai miei avidi occhi sem-

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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino

di condizionamento mentale e prima fase di miglioramento delle carni. Prima iniezione di Cortexiphan, 50 cc. Il soggetto esce dalla vasca e si posiziona sul tavolo operatorio mentre continua a recitare la preghiera In sanctum cerebrum. Padre Marco controlla il terminale di monitoraggio encefalico e mi garantisce che il soggetto si trova in stato di fervore mistico regolare. Organo di sant’Agostino accettato e livello di devozione ottimale: il soggetto è condizionato alla purezza votiva. Fase critica dell’operazione superata con successo, procedo a cospargere la superficie del corpo del soggetto con l’unguento sacro. Padre Marco intona la litania In sanctas carnes. Seconda iniezione di Cortexiphan, 50cc. Il soggetto segue la liturgia e ripete all’unisono la preghiera. Veloce assorbimento dell’unguento sacro e apertura dei pori di Dolcino. Procedo al riempimento dei pori con il balsamo di San Giorgio. Inizio della seconda fase di miglioramento delle carni. Mentre attendo l’assorbimento e la solidificazione del balsamo, inizio la serie di iniezioni lapidosae carnes nel sistema muscolare. Monitoraggio da remoto. Torso: placet. Arti superiori: placet. Arti inferiori: placet. Lapidosae carnes accettato con successo. Balsamo di San Giorgio solidificato completamente. Miglioramento del tessuto epidermico e muscolare completato. Inizio terza fase di miglioramento delle carni. Procedo all’impianto intraosseo dell’organo di San Michele in tre movimenti. Movimento spinale in posizione. Placet. Movimento cranico in posizione. Placet. Movimento toracico in posizione. Placet. Impianto avvenuto con successo. Fase di rilascio del liquido ferrea ossa iniziata e accettata con successo. Inizio della procedura terminale dell’operazione: terza fase di condizionamento mentale. Padre Marco intona la litania conclusiva dell’operazione: Veni, frater caelestis. Tutti noi ripetiamo, con lui, le sante parole:

Sbobinatura della registrazione medica privata dell’infirmario Gualdino nell’operazione di miglioramento delle carni del Confratello Ubertino. In data odierna xx/xx/xxxx mi trovo nella sala operatoria 06 per procedere all’intervento di miglioramento delle carni del Fratello Ubertino da Milano come richiesto dal Concilio dei Padri Maggiori dell'abazia di Monte Marte, presidiata dall’abate Bonifacio. Sono affiancato da Padre Marco, che riveste il ruolo di supporto psicologico. Poco fa ho ricevuto un comunicato da parte di Padre Isacco: si scusa di non poter supervisionare l’operazione. Il ruolo del supervisore sarà ricoperto quindi, solo per questa operazione, da Padre Clemente, consigliere personale dell’abate. Il soggetto è stato condotto in sala operatoria dopo aver seguito la procedura standard di “preghiera e pentimento”, che prevede due giorni e due notti di digiuno e ritiro spirituale, e presenta uno stato psicofisico ottimale. Trovando la strumentazione in uno stato inadatto all’operazione del soggetto, forse a causa della diversa conformazione fisica del soggetto precedentemente sottoposto all’intervento, ho personalmente supervisionato l’intera procedura di controllo e ri-calibrazione degli strumenti e sono pronto a iniziare l’operazione. Il soggetto ha preso posizione nella vasca di deprivazione sensoriale. Applicazione delle sonde neuronali, degli stimolatori di condizionamento e delle fleboclisi. Riempimento della vasca con PFC (perfluorocarburi). Check ventilazione liquida del soggetto ottimale. Padre Marco ha iniziato a recitare la preghiera In sanctum cerebrum. Il soggetto risponde bene agli stimoli e ripete ossequiosamente la preghiera. Tracciato stabile. Inizializzazione del primo stadio di condizionamento mentale. Eccessivo dilatamento della pupilla del soggetto, ma battito regolare e respirazione standard. Procedo alla rimozione dell’organo di Lutero tramite controllo da remoto con servo-macchine in dotazione. Blocco delle vescicole sinaptiche. Rimozione avvenuta con successo. Monitoraggio emodinamico progressivo positivo. Livello emoglobina subottimale, procedo a un’autoemotrasfusione normovolemica. Recupero emodinamico standard, inizio riciclo ematico e inserimento organo di sant’Agostino da remoto. Riavvio delle vescicole sinaptiche, funzioni cerebrali del soggetto stabili, inizio della seconda fase

Veni, frater caelestis Humanitatis pugnaculum Magnifica verbum Dei Ecce, frater caelestis Hominum defensor Purifica regnum Dei Dele, frater caelestis Bestiarum exterminator Glorifica voluntatem Dei

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La Confraternita Dell'Infinito

Fascicolo 04 — L’ascesa di Ubertino una coltre buia di silenzio e melanconia. A nulla sono valsi gli abbracci di Melk, e i suoi racconti entusiastici, o la situazione ridanciana che Giacomo ha provato a creare fino al parossismo. Non volevo ascoltare né rispondere, e forse non volevo proprio essere lì. Ho trangugiato il mio pasto senza sentirne i sapori, quasi per dispetto. Sono uscito dal refettorio con il furetto Jack che mi scodinzolava attorno e il gorilla Melk che torreggiava dappresso. Il mio corpo fiaccato dalla degenza non era più una scusa e Melchiorre non ha usato mezze misure per dimostrarmelo. Appena girato l’angolo dell’ingresso del dormitorio dei novizi, con una spinta mi ha sbattuto addosso al muro, ci ha ancorato quei macigni che ha al posto delle mani e mi ha ringhiato contro queste parole: «Ascoltami bene, Giosuè, non te lo ripeterò due volte: non provare a mancarci di rispetto con scuse infantili! Non ti sei mai comportato così, ma cosa ti è preso? Non ignorare così i tuoi amici e fratelli e soprattutto non perdere di vista la tua missione. Lascia che Ubertino e quelli come lui facciano la loro strada e noi preoccupiamoci della nostra. Sveglia! Concentrati sull’incidente sull’Apis I di Fra’ Isacco, del quale sei stato testimone attivo, se non vero e proprio protagonista. Non farti distrarre da sciocchezze profane e sii orgoglioso dell’Ordine di cui vorresti far parte. Anche se non siamo ancora ordinati, dobbiamo sempre anelare a essere veri Confratelli di Monte Marte. L'adunanza è domani! Mostra a tutti il tuo valore, la tua fedeltà e la tua sincerità!». Nonostante la veemenza, le sue parole mi scivolavano addosso e, non riuscendo a sostenere il suo sguardo, me ne stavo col capo chino. Poi, come se mi fossi destato da un brutto sogno, ho alzato la testa di scatto e ho realizzato «L’adunanza? Domani?»

Operazione conclusa con successo. Il paziente verrà tenuto in osservazione per 13 gg come da protocollo e seguirà la profilassi di riabilitazione e la dottrina post-miglioramento. Gualdino da Xxxx, chiudo registrazione.

Continuo ad arrovellarmi su circostanze che sono oltre la mia volontà e facoltà mentale, e ora che sono stato messo a nudo perché provo a nascondere quello che scrivo? Cos’altro ho da nascondere? Nascondo il mio imbarazzo, celo i miei turbamenti, seppellisco la mia verecondia. Poco tempo fa, il mio fervore era una fiamma imperitura, la mia missione era pura e immacolata. Dove è finita quella fiamma? Dov’è quella purezza di intenti? Mi sento come un vascello senza timone in balìa dei turbini delle più basse nequizie. Una volta ero un baluardo contro i peccati e ora li seguo scodinzolante nei loro tuguri. Ho peccato di superbia: aspettavo una gran festa per il mio ritorno dalla quarantena. Come se nel nostro eremo si celebrassero eventi mondani. Come ho potuto dimenticare il rigore che tanto ho amato sino a poco tempo fa? Non solo non ho accettato di buon grado la giusta mancanza di celebrazioni, ma ne ho scioccamente sofferto. Non riconosco più me stesso. Ho peccato di invidia, anche solo osando scrivere quello che ho scritto. Non lo cancellerò per monito e per punizione, per avere sempre sotto gli occhi l’iniqua china del peccatore che ho inconsapevolmente intrapreso. Non sono riuscito neanche a gioire dell’amorevole e fraterna accoglienza di Fra’ Melchiorre. Dopo aver appreso la notizia in refettorio, mi sono avvolto in una cortina di malumore, come

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La cittĂ del mare Racconto Autoconclusivo


La città del Mare Racconto Autoconclusivo

Marta Pelle Genere: Multi-genere

Era successo. Il mare l'aveva visto accadere e si era increspato, gonfiato, sollevato dal fondo. Aveva lasciato che le sue sirene cantassero a lungo nell'unico attimo del giorno in cui il mondo può sentirle. Aveva chiamato a sé lampi saettanti dal cielo. E aveva urlato la sua rabbia ai quattro venti, che la portassero per la città insieme al canto delle sirene. E non uno che l'avesse ascoltato. La cittadina si allungava sul mare, lungo la piccola baia sabbiosa, come se cercasse di trattenere un amante che va e viene. Piccole case bianche dal tetto piatto ornavano il lungomare ed eleganti palazzine di quattro piani, corredate di eleganti bar anni '20 al pianterreno, decoravano il corso. Conchigliette bianche, imperitura dimora di lumache invisibili, costellavano tutte le pareti esposte al mare. Una manciata di case di pescatori sopravviveva, incastrata in una dimensione temporale indefinita, sul lato est del lungomare: qui si stendevano ancora le reti ad asciugare dopo la pesca, nell'odore di viscere e sangue del mattino. In paese, di loro si dicevano le stesse cose che si dicevano settant'anni prima dei marinai. Era novembre e la salsedine era più densa della nebbia. Alle sette del mattino, ogni giorno, c'era questa foschia tangibile, che sembrava fatta di gocce sospese e profumava di sale, che a passarci attraverso ti restavano i capelli bagnati. Era novembre al mare, il che vuol dire che un bel grigio ferro era già depositato su ogni superficie. Al mare è così: col sole s'accendono i gialli aranciati, i bianchi accecanti, i verdi e gli azzurri e i rossi sulle gote delle persone. Con la pioggia, si posano scale di grigi e verdoni, con tocchi di viola e blu notte nei giorni di tempesta. Non si può dire che sia meno bello: immaginate il mare in burrasca, tinto di verde bottiglia e di spuma bianca, che s'infrange contro un cielo plumbeo da cui sfuggono sparuti raggi di sole. Affascinante e malinconico, no? Ecco, è solo meno pop dell'estate. Comunque era novembre, grigio e verde, e la città si preparava all'inverno. LUMEN «Il mio corpo sarà sale, sarà il bianco di una vela e il giallo di una ginestra1» Ho sempre avuto opinioni contrastanti sul mio nome. A cinque anni un bambino grasso mi aveva fatto notare che era un nome ben 1 Mediterraneo, Gino Paoli.

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strano, allora ero andata da papà a chiedere spiegazioni. Credo di ricordare ancora quel giorno: pioveva da quarantotto ore ed eravamo quasi tutti diventati del colore della pioggia. Sapete come, no? Come quando è tutto del colore dell'acqua e luccica e si confonde in una grande faccia lavata. Ecco. Lui mi aveva portata vicino alla finestra, si era messo alla mia altezza e mi aveva detto: «Lumen è una parola antica, di una lingua che non c'è più. Vuol dire 'luce', piccoletta. Vuol dire che tu sei una cosa luminosa per noi: come una stella. E vuol dire che sei la nostra vita». All'epoca quella definizione mi piacque moltissimo. Mi sentivo una specie di piccola scintilla magica, libera per il mondo. A tredici anni no. Mi chiamavano 'Lume' e, anche se somigliavo davvero a un lampione, quel nomignolo mi dava fastidio come una gomma masticata sotto la scarpa. Ho dovuto informarmi, capire quante cose ci fossero dentro al mio nome per poterlo accettare. A ogni modo, vivo in questo posto da sempre. Ho provato ad andarmene, dopo la scuola. Ho fatto l'università e qualcos'altro, ma niente. Credo che la mia luce dipenda da questo mare: più me ne allontano e più buia riesco a diventare. Abito la casa sulla collina, da sola perché i miei genitori hanno scelto un mare più caldo, alle Bahamas, per la loro quasi-vecchiaia. Lavoro in biblioteca e mi piace: un po' archivio, un po' leggo, un po' rubo e un po' scrivo.

guere il silenzio degli uomini e le voci del mare, la vita che freme sotto il pelo dell'acqua e quella che fugge mentre i pesci si dimenano all'amo. Ho imparato a nuotare come un tonno, a godere dell'apnea e della risalita. Adesso la mia pelle è sempre scura e il mio corpo è modellato dalle onde. A quindici anni ho letto il libro che parla di me: ho rivisto le mie corse di bambino sulla sabbia rovente, le torture alle lucertole, il sole bianchissimo di mezzogiorno, il sesso maldestro dell'adolescenza, coi baci che fanno male. A diciotto anni sono andato via per un po'. Avevo programmato molti viaggi e molto ho viaggiato, per mare e per deserto, in una febbre di esplorazione che non sapevo placare. Ma poi sono tornato qui, a vivere di mare e di libri, a scannare pesci e battere polpi, a nuotare per mestiere. Vi sfido: avendo il mare nelle vene, avreste potuto cambiare il vostro destino? MARINA «You're terrific when you're drunk. I like you mostly late at night: you're quite alright3»

Mi chiamo Arturo, come la stella e come quello dell'isola. Sono nato nel borgo dei pescatori: mio padre tornava ogni mattina col bottino che mia madre vendeva sul lungomare. I pescatori sono schietti e di poche parole: quello che pensano dicono e quello che dicono fanno, almeno quando Odino non ci mette becco. Ho passato lunghe albe estive sulla barca a remi con mio padre, imparando a distin-

Mi hanno dato questo nome che sconfina nel patetico: marina io? Ma per favore! Ho la pelle più bianca che abbiate mai visto e i capelli rame. Ora, immaginate una del colore della carta a rosolarsi al sole. Non ci riuscite, vero? Da bambina mia madre si ostinava a portarmi in spiaggia, ungermi con una crema densa come il cemento e tenermi sotto l'ombrellone. Potevo fare il bagno solo al mattino presto o al pomeriggio tardi, quando ormai non c'era più nessuno con cui giocare. E quindi partivo, armata di maschera e boccaglio, e cercavo le stelle marine. Ogni volta che ne vedevo una disegnarsi sul fondale, m'immergevo, nuotavo forte verso il fondo e riemergevo con la povera bestia in pugno. Pensavo fossero tesori che il mare concedeva solo a chi era abbastanza coraggioso da andare a prenderli, così le seccavo al sole e le portavo con me. Fu mio padre a spiegarmi che erano vive, come i pesci, e che io le costringevo a una lenta e terribile agonia. Ricordo che piansi per

2 Le acciughe fanno il pallone, Fabrizio De André.

3 Sea Song, Robert Wyatt.

ARTURO «E in mare c'è una fortuna che viene dall'Oriente, che tutti l'hanno vista e nessuno la prende2»

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un giorno intero, rifiutando cibo e coccole. Poi mio padre mi prese da parte e insieme costruimmo una piccola barca con tutti i cadaverini che avevo messo via. Andammo al mare, quella notte, con la barca di stelle e le lanterne cinesi. Chiesi scusa a ognuna di loro sotto l'occhio freddo della luna, mentre mio padre spingeva quel bellissimo vascello di morte verso il largo. Poi mi guardò negli occhi e mi disse che era orgoglioso di me, ma che non avevamo finito: dovevamo ancora rendere omaggio alle stelle, perché il vero nome delle stelle di mare è Asteroidea, come le stelle cadenti. Mi sembrò molto giusto. E poi non avevo mai visto le lanterne cinesi e rimasi incantata mentre salivano verso la Via Lattea. A casa bevemmo latte al cioccolato, poi andammo a dormire con le galassie e gli abissi marini negli occhi: ero convinta che un dio delle acque avrebbe salvato le stelle che avevo ucciso, redimendomi. Mio padre continuo a ricordarlo com'era quella sera e non com'era durante la malattia che se l'è mangiato, pochi anni dopo. Pagine e pagine di biologia marina dopo, mi sono laureata e ho cominciato a lavorare al centro di ricerca a dieci chilometri da qui. Tutto il tempo che passo al mare è rivestito di neoprene o di lino bianco. Amo l'inverno, quando il mare si fa ubriaco di rabbia e urla alla terra. Vengo qui sulla spiaggia e leggo per ore, non importa se c'è il vento freddo che mi sfreccia fra i capelli. Ma non so più andare a prendere le stelle sul fondo. SOPHIA «Sophia, sapienza, Sophia. Incalora le donne ed arde, arde di uomini. Gli consuma il fuoco4» Sophia è quasi mainstream ormai, lo so. Ma cosa posso farci? Però la storia dietro al nome, quella sì che ha carattere! Quei freak dei miei genitori se ne andavano spesso a far l'amore al mare, d'estate. Mamma mi somigliava probabilmente, anche se dalle foto sembra sempre più magra, e papà l'adorava. Era la loro 4

Aghia Sophia, CCCP.

estate dell'amore, un po' in anticipo rispetto a quella del '67. Comunque erano giovani e lo facevano troppo spesso e troppo spesso sfidavano la biologia: una sfida l'hanno persa e sono capitata io. Mia madre ama ancora raccontare che non hanno pensato nemmeno per un secondo alle conseguenze, che erano giovani, felici e molto stupidi e avevano preso tutto quello che la Madre Terra voleva offrire loro. Ma che hanno litigato furiosamente per trovarmi un nome: Jude, Chloe, Pace, Jane, Patty, Vanessa, Cannella, Libertà, Armonia. Non riuscivano a trovare un accordo e ci sono leggende che raccontano di litigi a colpi di nomi anche in sala parto, mentre mia madre provava a uccidere mio padre stritolandogli il polso. Poi sono venuta fuori e non ho pianto. Il panico ha occupato tutto lo spazio a disposizione, come un gas. I dottori si affaccendavano con strumenti e teorie, le infermiere ronzavano in linea retta, in quadrilateri di indecisione, mia madre piangeva, mio padre l'accarezzava. E poi ho urlato con quanto fiato avevo in corpo. Devo aver spiazzato davvero tutti, perché c'è stato un grande applauso e i nomi hanno smesso di volare per l'ospedale. Mia madre deve aver detto qualcosa come «La chiameremo Sophia, perché è già abbastanza saggia da sapere quando stare zitta» e mio padre deve aver annuito, mentre cercava di rimettere dentro il cuore che gli era quasi scappato fuori dalla bocca. Insomma, mi chiamo Sophia perché dovrei essere sapiente: la mia spada di Damocle. Ho cercato tutta la vita di leggere, studiare, capire più degli altri. Ce l'avevo nel nome, no? E invece le uniche certezze che ho sono che mia madre è mia madre e che la sapienza è inversamente proporzionale allo studio e più studi più dovresti studiare per avere una cultura accettabile e diventa un circolo vizioso da cui non esci più. Comunque i miei sono rimasti insieme, producendo amore e fratelli dai nomi meno fortunati del mio: Anemone, Selvaggia, Aria e Libero. Io sono tornata qui dopo venticinque anni di studi e sesso libero. Mi piacciono quelli che sanno parlare e, a volte, leggo mentre faccio l'amore. A voce alta, è chiaro. Spesso sento le donnine del pa-

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ese che mi chiamano 'facile', ma non me la prendo e non posso biasimarle: è vero. Eppure ognuno ha la sua natura, e la mia è fatta di parole e amore. Insegno Lettere al liceo e a volte non mi piace: gli adolescenti sanno essere davvero noiosi. Quelle volte tiro fuori un brano da La Filosofia nel Boudoir e mi diverto a guardare le loro facce. Funziona anche Bukowski.

Quella mattina la cittadina faticava a svegliarsi. La foschia novembrina era densa di sale e particelle d'acqua. Una bellissima e uggiosa domenica. Il mare faceva un po' i capricci, tanto che pochi pescatori stavano sulla spiaggia, guardando a momenti le barche sonnecchianti e a momenti la risacca gonfia di minacciose creste bianche. S'avvicinavano giorni di tempesta e di magra. Arturo era uscito prima che le onde si gonfiassero, aveva preso poca roba e poi s'era accorto che non poteva nulla contro l'incazzatura di Nettuno. Aveva faticato a rientrare ed era sfinito e fradicio mentre tirava Izar, la sua barca, a riva. Aveva distrattamente salutato quelli sulla spiaggia. Qualcuno, incredulo, gli aveva urlato «Oh, Artù! Ma sei matto a uscire con 'sto tempo?», ma lui aveva accennato solo un sorriso e se n'era tornato a casa con la sua cassa di pesce su una spalla. Lasciando alla madre le triglie per il pranzo, lei gli aveva risposto che avrebbe venduto il resto e lui l'aveva baciata in fronte prima di andare a farsi scaldare dalla doccia.

LUCIO «Sassi, che il mare ha consumato, sono le mie parole d'amore per te5» Io parlo poco. Hanno deciso di chiamarmi Lucio perché sono nato all'alba. Dopo trentasei ore di travaglio. Mi chiamo Lucio perché anche mia madre ha rivisto la luce quando sono finalmente uscito da lei. In effetti non è che parli poco, non parlo affatto. La vita mi ha preso a sportellate in faccia e ho deciso di comunicare il meno possibile. Mi sono trasferito qui due anni fa, vivo in un terra-cielo con due gatti: in totale abbiamo otto zampe vere e una finta. Sono un antiquario, la mia specialità sono i manoscritti medievali. Sono qui da due anni per la salsedine e per una raccolta antichissima di spartiti che il parroco − pace all'anima sua − teneva nascosta nella canonica. Mille duecento tre. Lui teneva nascosti dei canoni del 1203. Non commenterò in virtù del fatto che parlo poco, ma sono sicuro che stiate pensando quello che penso io. Ho allestito un laboratorio nei sotterranei della biblioteca. Più vivo qui e più mi è chiaro che questo sia un paese fatto di sotterranei. Anche le persone hanno dei sotterranei. Anche il mare ha un enorme, sconfinato e silenzioso sotterraneo.

Lucio aveva dormito poco per via della gamba buona, che gli faceva male ogni volta che cambiava il tempo. Quell'altra gliel'avevano tagliata via e quindi non si lamentava. Sedeva davanti a un tè al ginepro ormai freddo e accarezzava Gregorio, il gatto tripode. Era convinto che ci fosse nell'aria un'elettricità cattiva e che una tempesta poco meteorologica si stesse avvicinando. Però non lo diceva, nemmeno ai gatti. Marina aveva fiutato la tempesta e deciso di passare la notte in laboratorio, un edificio di vetro e cemento che dava direttamente sulla spiaggia. Durante la notte era rimasta ad annusare la rabbia del mare, che si muoveva come una bestia ferita al di sotto della superficie dell'acqua. Sembrava un lenzuolo teso e scuro che s'innalzava per metri e s'abbatteva senza onde o schizzi. Sembrava il respiro pesante preludio a un accesso di tosse. Il cielo era stato illuminato quasi a giorno da una bella e tonda faccia lunare, che ritagliava sagome di nubi minacciose dalla volta stellare. Marina aveva cominciato un lavoro fatto di attese durante le quali si godeva l'angoscia delle acque. Per la prima volta, quella notte, si era addormentata in laboratorio.

***

Sophia aveva fatto un buco nell'acqua col professorino di filosofia e questo era di sicuro un cattivo presagio. Il ragazzo, nemmeno trentenne, non sembrava così male: bello e gentile, con un corpo scolpito (che l'avrebbe dovuta insospettire,

5 Sassi, Gino Paoli.

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sì) e i modi da gentiluomo moderno, oltre a due lauree. E però nascondeva un animo da superuomo e ben poco vigore! E Sophia aveva sopportato le chiacchiere più confuse della storia dei suoi incontri, che non riusciva a decidere se giudicarle disperatamente profonde o disperatamente frivole, se l'era portato di sopra per un amaro e poi se l'era ritrovato a dormirle addosso in posa infantile, rannicchiato sul suo seno. Era rimasta sveglia per diverse ore, guardando il soffitto e pensando che scopate così fallimentari possono solo essere la calma prima della tempesta.

quel sorriso da Gioconda e gli occhi sbarrati, con quei cadaveri di stelle nelle sue mani di cadavere. Aveva dato di stomaco, poi aveva chiamato la polizia e aveva aspettato, senza guardarla più. Fra i lampi blu delle volanti e quelli bianchi del cielo c’era una gran luce. «Ofelia?!» «Ma non è possibile, non lei! Era un angelo!» «Dicono che sorrida…ma chi può…?» «Non può essere…Lia?» «Ofelia?» «Lia!»

Lumen aveva guardato il maltempo montare dal salone vetrato sulla collina. Si era svegliata presto, con un'inquietudine che le sfrigolava nell'anima. L'aveva collegata all'elettricità nell'aria, immaginando la bufera in arrivo il giorno dopo. Aveva preso dalla libreria La Tempesta, un bicchiere di scotch dal bar e una coperta: aveva passato l'alba a leggere e bere. «La mia biblioteca era per me un ducato abbastanza grande6», leggeva e annuiva, nella luce grigio-rosa che si affacciava alle finestre. Pensava che sì, la sua biblioteca poteva essere sufficiente.

Sophia era precipitata da qualche punto nel cielo insieme alla pioggia, aveva anticipato di minuti i sigilli e adesso se ne stava imbalsamata davanti a quello scempio d’arte. L’aveva conosciuta in biblioteca, dove Lia lavorava con Lumen, e l’aveva portata fuori a cena. Poi c’erano stati due mesi di poesia e di fiori, di pelle e parole e raggi di sole sui libri. Era stata una bella primavera, era stato un amore bello. Dietro di lei Lumen, che procedeva a passi di piombo, come se i piedi le sprofondassero per un metro nella sabbia ogni volta che cercava di avanzare. Lumen, sempre così gialla, che perdeva calore per ogni centimetro che guadagnava. Continuava a pensare di non pensare, che la testa fosse vuota e le sinapsi spente, come in una stanza buia e silenziosa. Quando tutto era ormai stato sgomberato e portato via, restarono una medusa morente e tre donne a guardare verso il mare. E la voce di Lumen nel vento che cantava: «Il dolore è inutile, sorella. Sento la pioggia invecchiare, sorella, sento la pioggia invecchiare e diventare blu come le tue viscere morte. Il mondo è inutile eppure io vivrò, vivrò per sempre7»

Nessuno di loro ricordava di aver ascoltato, all'ora in cui il raggio verde si apre e si chiude all'orizzonte in un battito d'ali, un verso di canzone che faceva più o meno così: «Lia, Lia, perché sorridi?» Lia, perché sorridi in quel tuo letto d'acqua e di morte? Lia l'avevano trovata in fondo al lungomare, dove gli scogli formano piccole vasche naturali in cui giocano i bambini piccoli d'estate. L'avevano trovata immersa nel suo bell'abito bianco, lungo e sottile, che galleggiava supina in una delle vasche. Aveva i capelli intrecciati a rami levigati dal mare e ossi di seppia, stelle di mare sui palmi delle mani e meduse che le nuotavano stancamente intorno. Come Ofelia, ma diversa.

***

L'aveva trovata Marina, che, staccando dal suo turno di notte, aveva ceduto al fascino della tempesta incombente. Solo due passi. Non aveva capito subito, pensava a qualche sciarpa volata via e incastrata fra i sassi. Stava per passare oltre, quando aveva notato le meduse imprigionate in quella poca acqua. Aveva guardato meglio e l'aveva vista davvero, rannuvolata dalla stoffa, con

Il viso del commissario era in ombra. Tre ore e quel bastardo non aveva ancora detto una parola. Il suo collega gli stava girando intorno, ma quello non sembrava intimidito. Non aveva che pochissime informazioni su cui lavorare, non sapeva davvero dove andare a pescare un responsabile. Eppure doveva. Lia era l'angelo del paese, quella che passava le sue domeniche in ospedale a leggere le favole ai bambini. Lia era l'amore di tutti gli uomini della città e anche di qualche donna, se le

6 Da La Tempesta, William Shakespeare.

7 Worthless, Bosnian Rainbows.

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indiscrezioni erano vere. «La mia bella bibliotecaria», pensava, e fumava. «Senta, ho capito che lei non parla,» − cominciò il commissario, interrompendo la farsa da squalo del collega − «ma lei non parla per scelta e non per indisposizione fisica. Io, adesso, se lei non mi dice verbalmente dove si trovava stamattina prima dell’alba, in modo che possa giudicare dalla sua faccia e dalla sua voce se mi sta mentendo spudoratamente, la arresto per omicidio. E magari la dovrò rilasciare fra ventiquattr’ore, ma nel frattempo si sarà fatto ventiquattr’ore al fresco» Mentre Lucio sbiancava e strabuzzava gli occhi, il commissario si sorrideva come allo specchio: aveva fatto centro. «O-o-omicidio dice? E c-chi dovrei aver ammazzato?» «Ma come? Adesso vuol darmi a bere che non ne sa nulla? Tutto il paese lo sa! Tutti ne parlano! E le abbiamo trovato un pezzo di quel tuo manoscritto in bocca: una chiave di basso e una parola in latino»

puntati verso il basso, legati stretti da quel nastro di seta bianca che le obbliga i palmi verso l’alto. È come se non potessi più guardarle le labbra rosse. Mi hanno portato qui, adesso, e vogliono sapere da me se le ho fatto male. La mia Lia, le sue mani esperte e i suoi profumi d’oriente. Il commissario conosceva Arturo da sempre, il padre vendeva il pesce più fresco del lungomare − e non gli aveva mai dato una fregatura. L’aveva visto crescere e diventare bello e forte e molto più bravo del padre con le parole. E adesso se lo trovava davanti in quella stanza scura, come un criminale, con gli occhi spenti e le spalle incurvate. Con un «Vatti a prendere un caffè» e un gesto della mano congedò il collega. Le urla del mare gli sembravano più feroci e doloranti man mano che avanzava il buio. «Dov’eri stamattina presto, Arturo?» «In barca, ho preso poco pesce e ci ho messo secoli a rientrare. Da solo» «Arturo…» «Me l’hanno ammazzata e lei interroga me. Strana la vita, non crede? Qualcuno la ruba e qualcuno la cede» «Ascolta, ragazzo, eri anche tu innamorato di lei? È un bel pasticcio, qualcuno l’ha messa lì con le meduse e le stelle di mare. Qualcuno capace di farlo. E tu eri fuori, da solo, senza alibi. E l’amavi» «Quella bellissima strega che era, certo, l’amavo molto. L’amavamo in tanti, ma era un problema? Chi è lei per dare un confine all’amore? Non è forse amore, amare il riflesso del sole sulla pelle, il brillio d’uno sguardo, la curva spietata che fa la schiena nell’inarcarsi? È tutto amore, come può pensare di limitarlo a uno soltanto? Era questo che diceva» «Ragazzo, sei confuso e sei sconvolto. Vai a casa e non lasciare il paese. Cercherò di cavarti da questo guaio» «Non può. Non credo che nessuno possa. L'amavo e l'ho persa. Non si può lasciare andare qualcosa che s'è perso per colpa di nessuno. La mia maledizione, commissario, sarà la mia maledizione»

Mentre il commissario mi torchia per farmi dire che ho passato la notte a far freddare un tè al ginepro, coi gatti rannicchiati addosso, a guardare la mia protesi e autocommiserarmi, realizzo che sono totalmente fuori dall’ecosistema-paese. Le sue parole sfumano in un calpestio di ricordi. Lia, questi pensano che abbia ammazzato Lia. La bella Lia, con un sotterraneo sconfinato di segreti. Lia, l’angelo caduto. Lia, la bibliotecaria e i suoi feticci voodoo. Lia, la bella strega, fascinosa più per quello che non mostra che per il pubblico volontariato. La mia Lia. Mentre si ritrovava a dire uno stanco «Può andare», e dopo aver visto la protesi e le cicatrici lungo la schiena di quel muto auto-censurato che gli avevano portato come sospetto, il commissario si convinceva che il caso non sarebbe mai stato risolto. Il mare lanciava grida di dolore che riusciva a sentire pure lui da quella stanzetta tetra. Se lo immaginava, dilaniato dalle onde, a sanguinare spuma sul bagnasciuga, con gli occhi pieni di stelle marine. Avrebbe preferito andare a salvare il mare dall’agonia della tempesta e invece gli stavano portando il secondo indiziato. «Ma che…Arturo?»

Il commissario stava accendendo un'altra sigaretta, mentre Arturo si alzava e andava via, con una lentezza ingiustificata. Lo guardava e pensava che ci si può trasformare in un solo istante, che la bellezza si dipinge sui volti e può sciogliersi in meno d'un battito di ciglia, che Arturo era entrato se stesso e usciva qualcun altro. Che ingiusto motore è l'amore – pensava – e che ingiustizia è la vita.

I miei occhi sono rimasti in fondo alla vasca in cui l’hanno trovata e mi sembra di continuare a guardarla dal fondo. È come se fossi bloccato fra gli scogli con il suo abito che mi nuota a un palmo dal naso e i suoi capelli sparsi in una nuvola cangiante e i suoi gomiti

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Arturo aveva trovato Lumen fuori dal commissariato e s'era specchiato nel suo sguardo. Lei ch'era un raggio di sole anche di notte, sempre fiorita, stava immobile all'angolo, spenta come un lampione. Mentre gli si faceva accanto e lo seguiva silenziosa, lui riusciva a sentirle il profumo della pelle e lo scricchiolio delle ossa. Erano in riva al mare, di nuovo. Quell'anima persa che è il mare. Solo nella sua enormità, tagliato dalle navi e punto dagli uccelli, bucato dai bagnanti e dalle boe, dalle trivelle e dalle piattaforme petrolifere. Colui che ricopre il mondo e affoga i marinai, che custodisce negli abissi i mostri più antichi e le leggende più affascinanti. Pensavano queste cose, entrambi, in modi diversi. E pensavano alla morte.

Lucio, Ti scrivo dall'altra parte del mondo. So che hanno assolto Arturo pochi giorni fa e nessuno cercherà più colpevoli. Ti scrivo perché so che non parlerai con nessuno, ma se anche lo facessi non potrebbero trovarmi. Lei era l'amore, lo so. E feci molta fatica ad assecondarla, perché l'amavo anch'io. Forse più di tutti l'amavo. Venne da me e mi chiese di seppellirla, quella notte in laboratorio. Mi guardò, sorrise, e mi chiese di seppellirla. Era malata di qualcosa che la stava divorando, mi mostrò una piccola macchia nera sotto il seno, poi cominciò a tremare, in quel bel vestito bianco troppo leggero. Mi diede istruzioni precise su come legarle stretto il nastro intorno alla vita e alle braccia prima del rigor mortis. Mi diede un barattolo con due stelle marine, mi baciò in fronte e disse che il mare l'avrebbe salvata. Io tremavo già più di lei e cercavo di dire qualcosa, ma continuavo a ingoiare le mie stesse parole e i conati. Poi sbiancò, si accasciò e cominciò ad avere le convulsioni. Non ebbi nemmeno il tempo di capire che già era morta, sul pavimento del mio laboratorio. Veleno, sì, la polizia non l'ha mai svelato. La portai fuori, mi sembrava di avere la forza di un uomo. Feci quello che mi aveva chiesto, la misi nella vasca, le legai le braccia. Poi le posai le stelle sui palmi, perché non potessero scappare. Mi immersi e presi le meduse che si avviavano alla fine dell'inverno. Io so come fare senza che mi pungano. Faceva molto freddo, la lasciai solo per il tempo di cambiarmi. E poi la vegliai contro la tempesta, ma il mare sembrava lamentarsi per me. Era quasi l'alba, avevo poco tempo prima di dover chiamare qualcuno. Mio Lucio, si può vivere con un segreto simile? Io non potevo più e sono andata via anche da te. Dall'unico uomo che capisse con uno sguardo l'animo umano. Non saprò mai perdonarmi per questo. Non saprò ritrovare il suo e il tuo amore. Parto ancora, non cercarmi. Ho visto il raggio verde, quella mattina, e ho sentito le sirene.

«Sei stato tu, quindi?» «No, io la volevo quanto te» «Tutti la volevamo. E ognuno la voleva per sé. Non puoi amare tutto il paese e pensare che non ci sia uno che ti vuole per sé soltanto» «Ma lei non sapeva essere di uno soltanto. E adesso non è più di nessuno» «E adesso?» «Adesso vieni a casa» Ci sono molti modi per riprendere colore e lei lo seguì, in quel grigio di mare e di pioggia che si era annuvolato nel suo mondo. Sophia li guardava da lontano. Accanto alla caviglia nuda le ruote di un trolley. Perché restare in un posto del genere? S'era raccontata molte cose, mentre, nel calore della vasca da bagno, cercava di uscire dal terrore che l'aveva presa davanti a quel cadavere d'amante. Ci sono tanti mari e tanti amanti per il mondo, s'era detta. E tante spiagge assolate e milonghe e persone felici e luminose. Avrebbe voluto salutare qualcuno, Lumen e Arturo magari, forse Marina o quel buffo Lucio, che la guardava mentre provocava Ofelia in biblioteca, ma si stava lasciando prendere da quella malinconia che può solo crescere. In un attimo ebbe paura di non partire e allora partì.

Marina

Il mare urlava di dolore e si dibatteva furente. I marinai si affaccendavano per portare le barche lontano dalla riva. La tempesta ormai infuriava e i canti delle sirene s'inabissavano. ***

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La figlia di Caino Capitolo 4 — Trieste


La figlia di Caino Capitolo 4 — Trieste

Natascia Norcia Genere: Gotico Contemporaneo

Trieste. Nel 1922 dovetti nuovamente fare le valige e cambiare città. La mia destinazione stavolta era Trieste, da poco diventata città italiana. Vi si respirava un'aria cosmopolita e ristretta al tempo stesso. Il rigore e il benessere austriaco era visibile dovunque: i palazzi, le aiuole, i vestiti della gente. All’epoca non capivo nulla di politica, e, a dire il vero, non ne capisco molto nemmeno oggi: ho sempre analizzato poco i giochi di potere in alto, impegnata come sono sempre stata a seguire fino in fondo i miei. I triestini raccontavano che quando, nel 1918, le truppe italiane erano entrate a Trieste, la gente era entusiasta. Li aspettavano come liberatori, li abbracciavano commossi. Eppure, tutto questo rancore per l'Austria non lo riesco a vedere: ancora oggi, davanti alla stazione è rimasta una statua dell'imperatrice Sissi, alla base della quale, spesso, la gente posa fiori freschi, e il nome più comune tra le donne è proprio Elisabetta. Forse è stata davvero una donna amata e ammirata. La Trieste che mi ha accolta era in piena ondata fascista. Non me ne curai molto. Ci volle tempo per ambientarmi e stringere nuove amicizie, ma le vecchie conoscenze romane mi fecero da lasciapassare tra i nobili triestini. Anche loro, nei confronti dei nuovi fermenti politici, erano interessati solo in apparenza, occupati com’erano a curare solo i propri affari. E dove c'è nobiltà, c'è dissolutezza. La solita situazione morbosa e malsana che tanto si confaceva al mio essere ricominciò a coinvolgermi, ma senza troppi eccessi: la moderazione aveva quasi sempre la meglio. Avevo abbastanza denaro per permettermi di vivere senza nessun problema, concedendomi tutti i lussi che desideravo. Ero meno bucolica in quel periodo, forse perché lo ero stata per troppo tempo in terra di Sicilia; avevo voglia di essere servita, di avere di nuovo cose belle, comodità e tempo per fare solo cose piacevoli. Volevo vivere di nuovo nel lusso. Comprai una piccola villa liberty sulla collina della Lanterna. Non era molto grande, ma aveva un grazioso giardino pieno di fiori variopinti, e una torretta fatta di ampie vetrate. Da lì, dominavo con lo sguardo le rocce dure e aspre del Carso alle mie spalle, e l'azzurro del golfo di fronte, su cui affacciava il bellissimo castello di Miramare. Per quanto abbia girato in tutta la mia vita, nessun paesaggio mi è parso mai più bello. Il 25 febbraio 1922 andai con un paio di amiche ad assistere a una rappresentazione de Il cavaliere della Rosa di Strauss, al teatro Verdi. Palchetto laterale. Poltrone di velluto rosse, e rosse le tende alla balconata. Due sedie più in là della mia, stava seduto un uomo intorno ai 45 anni: affascinante, brizzolato, spalle ampie e mani nodose, ma dalla pelle liscia e setosa. Mentre le mie amiche erano accompagnate dai mariti, io ero sola; probabilmente, il mio cappello con le piume e i miei

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guanti lo avevano colpito. Non li tolsi se non dopo la fine del primo atto: le mie mani erano ancora arrossate dal freddo, la Bora in quei giorni infuriava e io non ero affatto abituata al freddo. Ci fu un continuo gioco di sguardi tra me e quell'uomo, insistenti da parte sua e imbarazzati, ma compiaciuti, da parte mia, e al termine della rappresentazione un breve scambio di battute su quanto fosse intensa l'opera di Strauss. Nulla più. Davanti l'ingresso del teatro lo persi di vista. Nella speranza di poterlo incontrare di nuovo, andai alla prima replica dell'opera. Ne seguirono altre sei; eravamo seduti sempre nello stesso palchetto, senza proferire parola. Solo lunghi sguardi, di quelli che quasi ti sfiorano. Io andavo da sola a teatro, ma nonostante questo non mi rivolse parola. All'ottava replica, già preannunciata come l'ultima, si fece finalmente avanti. Il suo nome era Ivan Coslovich. Era di nazionalità austriaca, nobile da generazioni; aveva trascorso gli ultimi anni dedicandosi alla critica teatrale e al commercio d’arte. Ci frequentammo per settimane. Settimane intense, in cui per la prima volta avevo occhi solo per un uomo. Ma il suo esserci e non esserci mi sembrava strano: le sue abitudini avevano qualcosa di insolito e al tempo stesso familiare e, trasformatami in una comune donnicciola sciocca e gelosa, cominciai a pedinarlo, a scrutare ogni dettaglio del suo aspetto, dei suoi comportamenti. Poi capii. E quando una sera, nella mia cucina, seduti al tavolo, gli dissi che sapevo qual era il suo segreto, e notò che non ero né spaventata né inorridita, si rese conto che, quando diceva di avere a che fare con qualcuno fuori dal comune, diceva il vero. Sapeva di essere osservato, lo sapeva perché osservava lui stesso attentamente i miei passi, e ci ridemmo su: era scattato qualcosa di ben più grande di una semplice passione. Era la prima volta che riuscivo a darmi completamente a un uomo: avevo occhi solo per lui, era diventato la mia isola felice, senza di lui non potevo stare se non quelle poche ore del giorno in cui uscivo di casa. In poco tempo seppe ogni dettaglio della mia vita, dalle cose più futili e banali a quelle più importanti. Gli raccontai dei miei trascorsi romani, della conoscenza di certi rituali, di certe figure che vagano nella notte in cerca di cibo, del mio soggiorno in Sicilia e di un Maestro, delle cose che avevo fatto con lui e di cosa avevo imparato. Gli confessai di aver visto cose atroci, alle quali, a volte, avevo anche partecipato come car-

nefice. Probabilmente, il mio modo di raccontare con naturalezza cose tanto assurde lo spinse a volermi rendere parte di quel suo mondo. Ivan era molto “anziano” e aveva vissuto gran parte della sua esistenza nell'Europa dell'Est. Parlava molte lingue diverse, conosceva gli ambienti colti e aristocratici di mezza Europa e aveva amicizie tra le famiglie di maggior spicco di tutta la zona del Carso e dell'Adriatico. Essere la sua amante aveva già dei connotati piacevoli. Ma essere la sua compagna sarebbe stato molto più bello. Stranamente per la mia indole, non desideravo semplicemente stare accanto a un nobiluomo ricco e di successo: volevo solo potermi addormentare sul suo petto, e sentirlo chiamarmi «Amore mio». Avevo sentito parlare di un abbraccio quando ero a Roma, i cainiti lo descrivevano con poche secche parole; io, nonostante questo, lo avevo immaginato come un istante pieno di passione, come un dono d'amore. Considerando la persona che avevo davanti e il tipo di rapporto che ci legava, mi aspettavo una stanza a lume di candela, del vino, di essere lì, palpitante tra le sue braccia, ansiosa di concludere in modo ancora più intenso e diverso uno dei nostri tanti amplessi. Invece, dopo aver parlato a lungo di quanto importante fosse il suo gesto, e irreversibile la mia decisione, mi prese per mano, e corremmo veloci fino al canale di fronte alla chiesa di Sant'Antonio, dove il canale è più profondo e l'acqua corre più rapida. Non ne capivo il motivo, ma non dovetti attendere molto per trovare una risposta ai miei interrogativi. Era notte fonda, e i soliti barboni dormivano sulla pietra del muretto basso del molo al canale. Era il 5 maggio 1922. Mi prese forte, tenendomi per la vita e la schiena; sapevo cosa stava per accadere, e aspettavo, trattenendo il respiro, di sentire qualcosa fino ad allora solo immaginato. Affondò i suoi denti nella mia carne appena sotto il collo, e io cominciai a sentire il mio corpo come disperdersi tra le braccia di quella creatura che stava bevendo la mia vita. Il respiro era sempre più corto. Ivan si incise rapidamente il polso sinistro e riempì la mia gola della vita eterna e della eterna dannazione, mentre una strana oscurità offuscava i miei sensi, fino a che persi completamente la nozione delle cose. Non so quanto tempo passò, forse ero svenuta; ricordo il suo sguardo pieno di tenerezza e di perfidia allo stesso tempo, appena riuscii a reggermi nuovamente sulle gambe.

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Ero viva, sebbene un istante prima fossi morta. Ero viva e affamata. Disperatamente affamata. Ma Ivan aveva preferito un’atmosfera meno romantica per placare rapidamente la mia sete assassina. Ricordo poco di quegli attimi, attimi di follia in cui, con inaudita ferocia, mi nutrii di un uomo colto nel sonno, ridotto a brandelli da una furia mai nemmeno immaginata, gettato poi nel canale come la peggiore delle bestie. Era un barbone senza un nome, nei giorni a seguire non lo cercò nessuno. Venne poi ritrovato qualche giorno, a sbattere contro le pietre dure del porto, il cranio fracassato. Ivan mi portò a casa, mi lavò, e mi spiegò come, da quel momento in poi, avrei dovuto “vivere”. «Non fare la difficile o la complicata, restare nell'ombra è il tuo nuovo scopo, perlomeno per quello che riguarda le nuove abitudini che acquisirai. Mangia quando non puoi farne a meno, ma non lasciare mai prove. Uccidi. Sempre. E scegli sempre gente sola, il mondo è pieno di disperati. Tu porrai fine alle loro tribolazioni e loro non verranno mai cercati. È questa la regola, bambina mia, perché non ti accada mai nulla. Altrimenti, non potrei mai perdonarmi per quello che ti ho fatto». Quel primo giorno da “non più viva” durò un'eternità. Vinto dal sonno, Ivan mi lasciò da sola a vagare nelle stanze della sua casa, le finestre erano oscurate dalle pesanti tende. Oltre i velluti, il sole della primavera triestina brillava sul mare. Non potevo più guardarlo. Non avrei più potuto correre a disfarmi dei miei vestiti al Pedocin per poi abbandonarmi nell'acqua fredda: la mia pelle non si sarebbe più arrossata. Niente gite in barca. Niente passeggiate in montagna. Niente allegria attorno a un tavolo e i bicchieri di vino. Volevo un modo per restargli sempre accanto. E lui me lo aveva appena dato. Crollata sul pavimento, mi sciolsi in lacrime, fino a perdere la cognizione del tempo. Il mio corpo era scosso dai singhiozzi, e dopo poche ore stentavo a riconoscermi per quello che non ero più. Forse fu il sonno ad avere il sopravvento, o la fatica. Ivan mi svegliò accarezzandomi i capelli e tenendomi tra le sue braccia. E le sue braccia erano il mio sole, il mio mare e tutta la mia vita. E i suoi baci più inebrianti di qualunque vino. In seguito, gli anni vissuti accanto al mio Sire furono ricchi, opulenti, passionali e pieni di atroci efferatezze. Mi muovevo libera e disinibita alla luce artificiale della notte, per appagare i miei bisogni protetta dall’oscurità. Gestivo insieme a lui una serie

di affari piuttosto vantaggiosi tramite le case d'asta, e per reinvestire il denaro cominciammo a speculare su quella che oggi si potrebbe chiamare l'industria del piacere. Avevamo, a Trieste e a Koper, due importanti case chiuse che rendevano piuttosto bene, soprattutto perché offrivano mercanzia diversa da quella che normalmente si poteva trovare in un comune bordello. Il cliente poteva soddisfare qualunque voglia avesse, ogni cosa era lecita, fino all'estremo gesto. Avevamo buoni guadagni, che avrebbero potuto essere anche ottimi, ma di comune accordo decidemmo di far gestire quei posti a persone fidate. Né io né Ivan vi mettevamo piede: trovavo disgustose certe situazioni, e restarne lontani era la cosa migliore, data anche la mia profonda gelosia nei confronti del mio uomo. Furono anni pieni di furore omicida, per sfamare una sete sempre incombente, ma soprattutto, da parte mia, per mettere a tacere il timore che qualcun'altra potesse giungere a prendere il mio posto. Il suo continuo ricercare giovani donne da voler iniziare mi metteva troppo spesso nella posizione di diventare carnefice, e alla fine diventò un atroce gioco senza limiti. Spesso le uccidevo ingannandole, succhiando loro tutta la linfa vitale per poi lasciarle riverse con un lieve bagliore negli occhi attendendo la loro fine; altre volte mi divertivo a ingaggiare una vera e propria caccia con tiro al bersaglio, e la mia pistola col tempo diventò sempre più precisa. Trieste era piena di ricordi. Non ho detto «bei ricordi». Durante la Seconda Guerra Mondiale la città divenne un posto invivibile. Grazie ai nostri cumuli di denaro potemmo andarcene quasi indisturbati e ci trasferimmo in Corsica. Ivan non era troppo d'accordo nel lasciare incustoditi i suoi beni, ma mi accompagnò durante il viaggio, mi aiutò a sistemare i bagagli, dopodiché partì, dicendo di dover avere ancora qualche faccenda da sbrigare in Italia. Non lo rividi mai più. Non ebbi mai più sue notizie. Fu come morire per la seconda volta, senza però tornare a vivere. Per settimane riuscii a malapena a lasciare la mia stanza. Lo cercavo per le strade del paese, vagando come un'ombra senza consistenza, appoggiandomi di tanto in tanto a un pilone di legno del piccolo molo dove arrivavano le barche dei pescatori, aspettando non so nemmeno io cosa, e rischiavo ogni volta di

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essere sorpresa dal giorno. Trascinandomi quasi senza nutrimento, tenuta in piedi da una radicata, quanto fallace, speranza di non esser stata abbandonata. In quei giorni solo la mia governante riusciva a placare quel tormento, anche se dubito che questo stato mentale mi abbia mai abbandonata del tutto. Non seppi mai che fine avesse fatto. Ivan lasciò in me un vuoto incolmabile. Avevo perso un compagno, un amante, un padre, un figlio. Avevo perso me stessa. Dopo il primo periodo di sopravvivenza attonita, la sua assenza mi rese più ingorda e perfida di quanto non avessi mai immaginato. E il mio aspetto gentile, elegante e affabile aiutava a colmare la mia sete senza fare troppi sforzi. Collaborava molto l'ambiente selvaggio della Corsica, dove apparire e far scomparire qualcuno era particolarmente semplice. Ero una orribile bestia che sbranava per il solo piacere di uccidere. E poi leccava piangente le proprie ferite. Poi, la guerra finì. A Trieste non c'era più nessuno della mia vecchia “famiglia”, erano tutti spariti. Ritrovai tutti i miei averi, stranamente anche aumentati; la mia casa era pressoché integra, il giardino incolto ma non troppo, ma restare in quella città non faceva che aumentare il disagio che provavo senza il mio Sire. Così, tutto venne nuovamente catalogato e blindato, grazie anche a un aggancio con una casa d'asta: quadri, opere di ogni tipo, manufatti, armi antiche. Nel magazzino sotto la villa dei Coslovich c’erano cose che non avrei mai immaginato di trovare. Spostai tutto nello scantinato di una fabbrichetta nel pieno centro della città. Lì la sorveglianza sarebbe stata più semplice che intorno a una villa in piena boscaglia. Lasciai la mia casa. Bauli di cose inutili. E mi spostai a Torino. Qui andai a vivere in una villa liberty in piena campagna. Iniziai i miei nuovi commerci di oggetti d'antiquariato e, di lì a poco tempo, riuscii anche a entrare in un buon giro di gente singolare, simile a me. Le famiglie di cainiti torinesi mi accolsero con particolare disponibilità. Qui ritrovai quell'uomo elegante con i capelli rossi conosciuto in Corsica, Edoardo dal Pra: proprio l'uomo con cui ancora oggi condivido la mia esistenza e gestisco affari di diverso genere. Un uomo che odio profondamente, che mi fa sentire piccola e sciocca, che sfrutta le mie capacità, mi usa, mi comanda, mi sottomette. Lo stesso uomo che soddisfa i miei capricci, aggiusta i miei tiri sbagliati, evita di farmi pensare solo a un passato che non tornerà mai più e mi catapulta ogni volta in situazioni assurde. Una sorta di rapporto di odio-amore, una dipendenza carnale e mentale. Una relazione balorda e malata. L'uomo dai capelli rossi, con la barba sempre perfettamente incolta e la riga da una parte, completi grigi gessati rifiniti da un fazzoletto di seta bianca e camicie con le iniziali ricamate, così demodé fino a quando non è ritornato di moda ac-

conciarsi in questo modo. Romantico Edoardo, ancor più teatrale di quanto riesca a essere io, e così vanesio agli occhi dei più per la sua insolita passione per i fiori e la botanica; riesce sempre ad apparire come lui vuole, mai per quello che è realmente. Nell'ombra è il più subdolo carnefice che una vittima possa mai incontrare, meschino e opportunista. Riesce a rendere sottomessa a tutto anche la più superba delle creature. Lui coltiva fiori. È di questo che Edoardo ha bisogno per stare bene: un'attenta segretaria che cura in ogni suo dettaglio i suoi affari, anche quelli più loschi, dalla maggior parte ignorati, una perfetta amante e succube che sottostà a tutti i suoi voleri, a volte una figlia capricciosa. Lui ordina nel buio e io obbedisco, io chiedo alla luce del giorno e lui esaudisce i miei desideri. È una simbiosi che dura da talmente tanto tempo che scindere le parti diventerebbe complicato, anche perché entrambe le parti insieme sanno gestire al meglio un buon entourage di umani, sottoposti e altri vampiri. Come André, il mio amato André, che ormai da qualche anno mi segue nei miei spostamenti, mi sta accanto e mi serve in ogni faccenda, anche quando si tratta di trovare qualcosa da mangiare. Edoardo sopporta poco questa presenza troppo vicina a me, e probabilmente André è la mia unica forza e il mio unico appiglio per contrastare alcuni eccessi di Edoardo. E ora me lo ricorda anche lui che non siamo a Trieste, né a Torino: siamo nella strana città che ha scelto come nuova casa, nella città dove vive Agnes, una sua figlia adottiva che gestisce questa casa di piacere. E io che non volevo più avere nulla a che fare con questi ambienti: l'antiquariato è un'attività di gran lunga più raffinata. Raccolta per essere eletta, mi ritrovo a livello della terra scavata. E io non ci sto bene in questo modo. Il disagio blocca qualsiasi mia capacità di agire con la testa, e quando è così il mio cuore avvizzito ha sempre la meglio su di me. Edoardo stava tranquillamente seduto sul divano accanto a Justine, che con la mente vagava per un mondo tutto suo. «Ascoltami: forse è il caso che tu conosca almeno un po' la situazione in cui ci troviamo. Avrai incontrato anche delle bestie strane stasera, ma non sono tutti animali qui, bambina mia. Si, è vero, ci sono una specie di mannari, numerosi da queste parti, che emanano un tipico afrore muschiato. Se noi gente altolocata siamo abituati a cani ben pettinati e inorridiamo di fronte a quelli più spontanei, beh, sta’ pur certa che non si può avere idea di cosa siano i lupi selvatici della Somma! Quelli che hai incontrato sono i più civili, te l'assicuro: parlano, camminano su due zampe, occasionalmente si vestono. Eppure, queste creature, all'apparenza ripugnanti, fanno dei loro doni quello che noi facciamo

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La figlia di Caino Capitolo 4 — Trieste

dei nostri, senza le remore che normalmente contraddistinguono la loro famiglia, con libera e selvatica eleganza, come l'usignolo che canta sublime senza alcuna partitura. Col tempo si impara ad apprezzarli, ivi incluso il fatto che preferiscano la macchia ai nostri salotti...» Justine ascolta, senza dire nulla, forse in una sorta di assenza remissiva; certo, non riesce proprio ad accostare la parola salotto vicino a bestia. Edoardo continua: «La maggior parte dei vampiri della Conca sono considerati Fratelli alla stregua di tutti gli altri e, chi più chi meno, son tutti degni di rispetto, spesso anche interessanti sotto il profilo artistico. Tra loro potrai trovare gente colta e piacevole nella conversazione, come piace tanto a te. Detto ciò, vengo al dunque: da queste parti ha importanza l'affiliazione a una cosiddetta Famiglia. La più aristocratica di queste è quella delle Tre Torri, diffusa in tre diverse zone nei dintorni della città. Poi ci sono i militari e gli spadaccini della Loggia del Drago. La Compagnia dell'Acciaio è la Famiglia che ci ha accettati come ospiti, a cui appartiene Agnes. È una Famiglia potente e strana, molto adusa a forme estreme di sacrificio di sangue, e accetta i servi dei vampiri come membri alla pari... Su quest'ultimo punto dovrai essere estremamente cauta, o non ci metteranno molto a ucciderti. Avrai capito che qui passano facilmente dalle parole ai fatti, e che la loro mancanza di legge non significa mancanza d'ordine...». La rosa solleva lo sguardo: «È assurdo che un servitore venga trattato come un padrone, ci sono dei ruoli da rispettare...». Edoardo, lo sguardo improvvisamente tagliente come una lama, non risparmia il sarcasmo nella sua voce: «Parli proprio tu? Che ti porti dietro il tuo cane come se non esistesse altro uomo? Vorresti lamentarti di una rogna di cui tu per prima non riesci a disfarti? Justine, suvvia... non essere ridicola!» Justine rientra nei ranghi. È stata decisamente ridicola. «Oltre alle Famiglie di cui ti ho parlato, ci sono i Sommersi: un gruppo di tribù di antichi vampiri, il cui orrendo aspetto, ben più tollerato che altrove, siamo obbligati a sopportare... Ma non disperare: se proprio fossi disgustata al limite di voler usare la forza per levartene uno di torno, nessuno ti direbbe nulla... Vengono infine le Streghe e i Maghi: sono apparsi da poco tempo in questa zona, retaggio di antiche culture pagane e cainiti come noi. Sappi che alcuni di essi sono particolarmente antichi... sicuramente li troverai molto stimolanti come compagnia. Muoviti con libertà e goditi l'esotismo... Attenta a quello che fai, però, almeno per i primi tempi: ricorda che da queste parti persino uccidere un simile è considerata una normale possibilità, nella risoluzione di un diverbio o di una serata noiosa...»

Alle spiegazioni di Edoardo in merito alla fauna locale, Justine risponde con espressione ora stupita, ora nauseata, ora spaventata. «Sono sempre più convinta che avere solo André vicino non sarà sufficiente. Sai che non giro armata, certo, se dovesse capitare di dover... sì, insomma.... Sai che non vado troppo per il sottile, ma mi sentirei più sicura se avessi qualcuno più adatto a guardarmi le spalle...» Edoardo resta immobile a osservare il lembo della gonna di Justine, straziato dalle dita nervose della donna. «Magari non rispondermi ora, se il discorso è troppo complesso possiamo farlo altrove, ma esigo di sapere cosa diavolo sono questi golem! Sapevo di dover finire in un postaccio piuttosto antiquato, ma trovarci addirittura i golem! Visto che mi hai voluto qui e mi hai messo subito nella posizione di vedere cosa succede, dammi almeno il modo di capirci qualcosa!» Edoardo sorride e annuisce, alza lo sguardo e, con un dito puntato al cielo, lo rotea intorno come a dire qui, no. Justine gli si avvicina con le labbra vicino all'orecchio, lo sfiora appena e sussurra: «Non te la cavi così... Non scappi finché non me lo dici…». Edoardo ride, consapevole che a un certo tipo di donna non si può dire di no. «Va bene, va bene, come vuoi... dannata che sei!». I due si sorridono, senza dire nulla. Da lontano si potrebbe quasi vedere una sorta di corrente elettrica che si sposta dall'uno verso l'altro. «Vieni a stare alla Maison, accetta almeno l'ospitalità che ti offro qui accanto a me, anche se non ti piace questo posto. Il tuo appartamento è proprio qui di fronte, sarà bellissimo appena finito, tesoro mio, come piace a te. Ma stanotte resta qui con me». “Come piace a te”. Justine cambia espressione. «... L'appartamento, sì, un appartamento... Spero sia grande, Edoardo, sai che ho bisogno di spazio, e che sia caldo e curato, tappeti, e le mie peonie...e se fosse possibile, no niente, se... − Justine sorride con gli occhi −… vorrei il mio erbario, una stanza in più per André e una grande vasca. E i miei bauli che sono rimasti a Torino. E la tua compagnia, ovviamente... − Sorrisi e sguardi complici. Di quelli che vanno ben oltre. I troppi anni passati insieme permettono senz’altro che i due possano parlare senza usare la voce... −… ma non chiedermi di restare qui stanotte. Poi è quasi giorno, ormai. Torno in albergo. Cerca di far andare avanti i lavori con una certa rapidità: stare qui è fuori discussione, ma anche stare in albergo non mi piace». Incurante dell'ora e della Maison avvolta nel sonno, chiama a gran voce André e riprende la via del ritorno. Una lunga notte senza senso. Sarà solo la prima vissuta nella Conca. Con un fardello di ricordi che le devastano la testa.

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RECENSIONI

DALL

LETTO

'ONNIGRAFO

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Il Cavaliere di Bronzo

di Fedor Galiazzo

Fedor Galiazzo disegna un mondo dove sogno e realtà si sfiorano all'inizio e poi si legano plasmando una dimensione magica. Traccia la trama, la intreccia sapientemente, giocare con il lettore è il suo intento, stuzzica la sua curiosità e l'immaginazione, rivela e nasconde, lasciandolo col fiato sospeso fino alla fine. Travolge il ritmo galoppante della storia, divertono i dialoghi vivaci, ci si innamora di chi calca quelle scene dipinte con colori accesi. Il Cavaliere di Bronzo ti catapulta in una dimensione affascinante, dove si esibiscono creature briose che vorresti poter incontrare, l'ultima pagina la leggi con un pizzico di malinconia, lasciando un universo avventuroso e romantico dove vorresti rimanere per sempre.

Il tempo delle lucciole

di Francesa Gnemmi

1915 l'Italia entra in guerra. Tre anni di scontri che lasceranno profonde cicatrici nel nostro paese, famiglie distrutte, altre riunite. Un uomo stanco e provato si ferma davanti al cancello di casa Montali, nella pianura parmense; scorge una bimbetta dallo sguardo vivace e l'espressione curiosa. Riconoscerebbe quegli occhi ovunque. Emma sa che quello è il suo papà, assomiglia un poco alla fotografia che sua madre le mostra quando parla di lui. Corre ad abbracciarlo, per la prima volta. Tra i due nasce un rapporto esclusivo, che nel tempo si trasformerà in conflitto. Una battaglia silenziosa e dolorosa tra un padre padrone e la sua unica figlia, che segnerà la crescita di una giovane donna, forte e determinata a proteggere se stessa e sua madre, per ritrovare il sorriso e il suo posto nel mondo.

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I Cristalli di Mithra di Micol Giusti

Astrid, giovane appassionata di libri fantasy, vive da sola in un piccolo paese di periferia. Trascorre il tempo libero a sognare un mondo diverso, avventuroso e ricco d'azione, una realtà molto simile a quella dei testi che legge. Il suo unico amico è il vecchio custode della biblioteca, che le dà consigli e si prende cura di lei. Un giorno, iniziato come molti altri, la sua vita cambia drasticamente a causa di un incantesimo contenuto in un antico grimorio. Astrid verrà catapultata in un mondo che non ha niente a che fare con quello a cui è abituata, e dovrà affrontare traversie inimmaginabili per riuscire a sopravvivere e a tornare a casa.

Geldia

di Vilma Venturi Romanzo per bambini adulti e per adulti bambini. Geldia è una bambina di undici anni, ama molto leggere libri al punto da identificarsi con i personaggi dei racconti, viaggia insieme a loro ed ha una fervida immaginazione; cerca sempre il bello, anche dove è molto difficile da trovare. Un evento sconvolgerà la sua giovane esistenza rischiando di travolgerla, ma grazie ai tanti racconti letti e alla sua immaginazione riuscirà a trovare il coraggio e l’astuzia necessari per reagire. L'autrice, attraverso la storia, trasmette un messaggio universale: l’abito più sognato... è quello della conoscenza.

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San Galgano

di Elide Ceragioli

L’amore e la passione di Elide Ceragioli per il Medio Evo ed i suoi protagonisti, siano essi nomi famosi o semplici uomini e donne del tempo, si manifestano in questa avvincente narrazione biografica. La vita di Galgano Guidotti (San Galgano), forte personaggio, che rivaluta la figura del cavaliere, non più visto come macchina da guerra sanguinaria e violenta, ma come individuo nobile, quasi un San Michele arcangelo, ed i personaggi che hanno fatto da corona alla sua breve ma intensa vita sono l’occasione per rivivere, come in un affresco, con una narrazione lineare, ma viva e pittorica, eventi storici con una precisa collocazione cronologica e geografica. Il santo che ha lasciato la spada nella roccia (è stata sottoposta ad esami metallografici che ne hanno confermato l'autenticità quale arma antecedente al XII secolo) ci appare come autentico emblema del suo tempo: pieno di ardore, di voglia di vita, di ansiosa di ricerca della verità e di slancio verso il trascendente.

In apparente normalità di Eugenio Pattacini

Un uomo, un avvocato. Elio Venturi è, però, soprattutto un marito ed un padre, che solo nel sincero ed illimitato amore per la sua famiglia sente di raggiungere la propria dimensione: quella del "noi che diventa io", ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Il profondo amore per i suoi figli, che ha reso possibile la costruzione di un rapporto di reciproco rispetto e fiducia, insieme alla radicata religiosità condivisa con la moglie Elena, consentiranno ad Elio di sostenere il dramma che gli si presenterà davanti inaspettato e gli daranno la forza di affrontare una complessa indagine, nel corso della quale niente è come sembra e sordide realtà emergono da situazioni apparentemente normali.

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Nel prossimo numero! La stella di Salem

Capitolo 2 — Sereth la Bianca (parte 2)

Cronache di Oscailt

Capitolo 5 — Gund-Kheled, Bizar-azan

La Confraternita Dell'Infinito

Fascicolo 05 — L'Adunanza

Il bosco dorme

Racconto Autoconclusivo

La figlia di Caino

Capitolo 5 — Ashram

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