Volume 2 — 11 luglio 2016
IN QUESTO VOLUME! ANTOLOGICO Quattro sequel ed un nuovo racconto inedito!
LETTO DALL'ONNIGRAFO Due libri ed un fumetto made in Italy!
mensile culturale dal cuore antologico
a cura di
MIRKO BIAGIOTTI revisione testi
Filippo Gliozzi
ONNIGRAFO MAGAZINE Supplemento a MaremmaNews, quotidiano online. MAREMMANEWS Registrazione n° 939 del 12/06/2000 Iscrizione al registro della Stampa n° 1-2000, Tribunale di Grosseto. Via Zircone 20 — 58100 Grosseto
Editore
Enrico Giacomelli Direttrice
Roberta Filippi Curatore
Mirko Biagiotti Recensóre
Mirella Rossi Community Manager
Alice Giacomelli
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IMMAGINE DI COPERTINA Carlo Settembrini ILLUSTRAZIONI INTERNE Mirko Corridori
Il racconto La Stella di Salem di Alessio Serra, prende in parte ispirazione da Le Cronache di Sereth di Giorgia Lauricella.
S O MMARIO EDITORIALE 5
Pronti a partire? di Roberta Filippi
ANTOLOGICO 7 8
Introduzione: Utopia ri-creativa
di Mirko Biagiotti
La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte II di Alessio Serra
Le Cronache di Oscailt
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Capitolo 2 — Riposo di Emanuele Benedetti
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Fascicolo 02 — Questo mio soffitto di Luca Moretti
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Racconto Autoconclusivo di Marta Pelle
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Capitolo 2 — Conca di Natascia Norcia
La Confraternita dell'Infinito
Il fermaglio di Marlene e l'Ammazzasonno La figlia di Caino
RECENSIONI Il monello, il guru, l'alchimista
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e altre storie di musicisti di Stefano Bollani
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Ovvero, gli uomini che vorresti evitare di Valeria Poggi Longostrevi
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OMINIDI
The Shadow of a Terrible Thing
di Massimo Rosi, Eduardo Mello e Marco Pagnotta
Anteprima Volume 3
VOLUME 2
11 LUGLIO 2016
EDITORIALE PRONTI
A PARTIRE? di Roberta Filippi
Mi piace paragonare la scrittura al viaggio. Un viaggio nella fantasia, durante il quale ogni autore immagina, e poi racconta, mondi lontani, vive esperienze fantastiche, esplora luoghi e situazioni, talvolta reali, ma più spesso frutto della propria immaginazione. Scrivere è, appunto, raccontare l’esperienza vissuta, è scavare nella propria mente alla ricerca delle sensazioni e delle emozioni che hanno colorato il nostro viaggio fantastico. Un viaggio in noi stessi e negli altri. E Onnigrafo Magazine è un viaggio, nella scrittura e nella lettura. Ogni capitolo di ogni singolo racconto rappresenta la tappa di un cammino che ci fa scoprire luoghi, ci fa conoscere personaggi, ci fa vivere storie, ma pian piano ci porta anche alla scoperta della personalità del suo autore, stimolando in noi nuovi interessi e curiosità. Per-
ché la lettura ci aiuta a interpretare il viaggio in noi stessi. Se scrivere è raccontare, leggere è, infatti, interpretare. Onnigrafo Magazine offre la possibilità di scoprire, attraverso la lettura, interessi e passioni di giovani scrittori contemporanei. Leggere un racconto significa, allora, condividere l’esperienza del loro viaggio, significa condividere sensazioni ed emozioni dei personaggi da loro creati. Personaggi reali? Non sempre, ma espressione comunque di una società creativa, capace di sognare, fantasticare e viaggiare con l’immaginazione. Anche in questo numero vi proponiamo tanti viaggi diversi: racconti di passioni e ricordi, storie di sogni e desideri, di voli nell’immaginario e nella fantasia.
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ANTOLOGICO UTOPIA
RI-CREATIVA di Mirko Biagiotti
Esiste un posto dove si può solo arrivare. Questo posto non ha nome, non ha forma e non esiste fino a quando non se ne varcano i confini. Fantasia, utopia, fantascienza, cyberpunk, storia, etc., sono solo etichette che ci aiutano a ricordare quali sono i bagagli con i quali siamo partiti. Il viaggio è al centro dell’ottica di questo volume: c’è chi arriva e chi parte, chi inizia a vivere e chi muore. C’è chi lo è da molto tempo, chi non si è mai mosso e chi vorrebbe farlo tutti i giorni. Quale miglior modo per farlo, se non navigare un po’? Vi racconterò una cosa. Parlando tra di noi ― coloro che compongono questo quadro di scrittori, fantasisti, eclettici sognatori, pubblicisti, operai, imprenditori e chi più ne ha, più ne metta ― ci siamo detti: «Ma guarda che bel posto ― il Parco dei Mostri di Bomarzo ―, potremmo incontrarci lì e fare festa e parlare». C’è sempre un buon motivo per viaggiare e, per chi può farlo, questo è un privilegio. Chi invece non
ci riesce quasi mai, deve inventarsi delle valide alternative. Prendere i propri bagagli ― decidete voi se culturali o meno ―, prendere in mano un libro e lasciarsi la realtà alle spalle. Tempo fa leggevo, in un forum online, una discussione sui viaggi: «Mentali, o reali?», si chiedevano questi nottambuli sognatori vigili. Il fatto è che spesso ce ne andiamo via per distrarci da qualcosa, ma partiamo sempre con le valigie piene di cose, e così avviene anche quando ci mettiamo a sognare: abbiamo sempre una valigia con noi, con una bella etichetta sopra che ci ricorda chi siamo, da dove veniamo e cosa c’è dentro. Il motivo deve essere un altro − per viaggiare, intendo −: forse cambiare se stessi, rimescolare le idee, o solamente avere la necessità di fermarsi da qualche parte, così da poter partire di nuovo. Noi oggi ci fermiamo qui: una breve sosta, cinque buone letture, poi ripartiremo. Fateci compagnia.
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte II
La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte II
Alessio Serra Genere: Low Fantasy
«Ricordatevi che la carovana partirà tra un’ora», gridò la taverniera Irma all'indirizzo di Rios e Evelyn, salutandoli dalla soglia. «Ehi, Eve! Accompagnalo dal comandante, altrimenti non arriverà mai dove vuole!» Evelyn, voltandosi a salutare Irma, rise con una risata musicale, cristallina. «Devi avere ancora il tuo lasciapassare, giusto? Bene bene. Vediamo di che pasta sei fatto!», disse, rivolgendosi a Rios. Cosa intendeva? Rios accantonò il pensiero nella sua personale cassa mentale del “devo saperne di più”, insieme al dove, come e perché fosse in quel luogo. «Grazie ancora per esserti offerta di accompagnarmi. E soprattutto per…» L’imbarazzato Rios non proseguì oltre. Per quanto avesse cercato nelle scarselle, non aveva un soldo bucato. «Averti offerto la colazione? Figurati. Ho guadagnato bene con le mance, ieri sera, e volevo parlare con qualcuno» La mezzelfa si diresse verso un edificio di pietra, piccolo e funzionale. Sulla porta fece passare avanti Rios, poi entrò a sua volta. Si trattava, a un primo sguardo d’insieme, di un corpo di guardia semplice ed ordinato, nello stile militare che era noto anche a Rios. A quanto pare i militari sono uguali ovunque, pensò. Un uomo sulla sessantina, capelli e baffi bianchi ben lisciati, attendeva i nuovi arrivati come lui. Sulla scrivania di foggia rustica c’erano un bel boccale di vino speziato appena fatto, una bottiglia di spesso vetro verde, un calamaio, un pennino e un grande libro con la copertina di cuoio. Rios tese una mano verso l’uomo seduto. «Salute a voi. Mi chia…» «Ah, ecco l’ultimo avventore. La ronda uscente di ieri sera mi ha parlato di voi. Benvenuto al Borgo del Crocevia. Il mio nome è Sir George e sarò io a forgiare il vostro lasciapassare. Non dovrete mai perderlo e avrete l’obbligo di mostrarlo a chiunque ve lo chieda. Non cedetelo o falsificatelo, o sarete punito con il carcere» Nel cantilenare queste regole come chi è abituato a farlo molte volte al giorno, Sir George tirò fuori da un cassetto della scrivania un dischetto di metallo attaccato a un laccetto di cuoio e una ciotola, che riempì con cura con il liquido cangiante e oleoso contenuto all’interno della bottiglia. «Tenete: immergete questo nel liquido e siate voi stesso», aggiunse all’indirizzo di Rios. Chi altro dovrei essere?, pensò lui. Evelyn si avvicinò per sbirciare sopra la sua spalla: «Adoro vederlo fare!» Prendendo il disco e immergendolo, un brivido di ansia gli percorse la schiena. Per istruzione e cultura era sempre stato diffidente verso la magia, nonostante fosse in grado di percepirla fisicamente, ed in quel caso, pur non volendo, poté sentire la potenza di quella stregoneria come un formicolio sulla pelle. Quasi subito, nella sua mente si susse-
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte II guirono mille immagini senza un ordine logico, ma una in particolare si ripresentò più e più volte: la sensazione che ogniqualvolta provava usando il suo potere curativo, cento volte maledetto ed altrettante benedetto. Immagine e artefice si fusero, dando significato l’uno all’altra. Riprese a respirare regolarmente, focalizzandosi su quella sensazione. Il liquido cominciò a muoversi attorno al metallo, come se lo stesse manipolando. «Ben arrivato a Sereth!», disse Evelyn, dopo alcuni attimi, mostrando a Rios un ciondolo dello stesso metallo di cui era fatto quello che aveva immerso nel liquido: sembrava smaltato di bianco, di forma triangolare, con la punta rivolta verso l’alto e finemente cesellato di rune. Lo sguardo di Rios, allora, si volse alla ciotola, mentre estraeva lentamente il pendaglio ricoperto del liquido scuro. Sembrava aver cambiato colore anch’esso. Prima di poterlo vedere per bene, Sir George lo prese tra le mani protette da guanti di spessa pelle, lo esaminò e lo passò in un piccolo secchio ai piedi della scrivania, da cui uscì un lieve sfrigolio, un vapore stranamente azzurrino. Continuando ad esaminarlo, aprì il grande libro di cuoio e prese dal fondo un foglio di pergamena che compilò e sigillò con la ceralacca. «Messer Rios, se ho letto bene il suo nome, questo è il suo lasciapassare», gli tese il pendaglio, «e questa verrà consegnata alla guardia cittadina per essere registrata», disse, appoggiando la pergamena sigillata sulla scrivania. «Nella malaugurata ipotesi in cui lo perdeste avvisate immediatamente la guardia cittadina, mi raccomando. Di nuovo benvenuto a Sereth» Si alzò dalla scrivania, si sporse, strinse la mano di Rios in segno di benvenuto e si inchinò leggermente nel fare il baciamano a Evelyn. Delle due l’una: o stava impazzendo, o il tizio del lasciapassare era un mago davvero molto potente. Barcollò fuori dall’edificio come in trance, guardando meglio la piastrina che teneva in mano: un triangolo smaltato di verde, istoriato di finissime rune di cui non comprese il significato, tanto gli sembrarono aliene. Che vi fosse scritto il suo nome? «La carovana è già arrivata», gli ricordò Evelyn, distogliendolo dall’ennesimo dubbio che questo mondo sembrava regalare a piene mani. «Se hai oggetti in taverna ti consiglio di prenderli: Bert, il capo carovana, non attende nessuno! Ci aspetta un viaggio di otto ore, soste comprese. Per fortuna il pranzo è cucinato dallo stesso Bert. Quell’uomo, con un fuoco da campo e ingredienti freschi, è una leggenda. In più, se vorrai, avrò il
tempo di rispondere a qualche tua domanda su Sereth» Detto questo, si mise a saltellare come una bimba in direzione della carovana, dove una mezza dozzina di persone erano occupate a caricare vettovaglie, rifornimenti e missive. Qualche domanda? Ne ho una decina e vorrei avere la risposta di tutte contemporaneamente, pensò Rios, mentre si metteva il ciondolo al collo. Il brivido dato dall’incanto, adesso, era gradualmente scemato: ora portava al collo un semplice monile, per quanto ne sapeva. Si diresse anche lui verso la carovana, non avendo null’altro se non spada, scarselle, il mantello verde, gli indumenti neri che indossava e la sua borsa di cuoio marrone chiaro a tracolla. Evelyn, nel frattempo, tirò fuori dai suoi bagagli un mantello azzurro foderato di pelliccia bianca, vi si avvolse e salì nell’ultimo carro coperto in fondo alla carovana. Fece cenno con la mano a Rios di sedersi accanto a lei. Sul carro c’erano gli altri due bardi, ognuno con rispettivi strumenti e bagagli, che avevano allietato la nottata in taverna la sera prima. Il resto dei viandanti, una decina, ad occhio e croce, si divise sugli altri due carri coperti, dividendo il posto con vettovaglie, casse e oggetti impacchettati. Bert, il capo carovana, un signore maturo ben pasciuto, biondo e dall’aria bonaria, continuò ad entrare nel posto di guardia, uscendo dopo poco per controllare se ogni pacco e ogni viandante fosse dove lui voleva, lanciando qualche grido ai suoi aiutanti e rientrando. Dopo un discreto numero di andirivieni si fermò appena fuori dalla porta del posto di guardia, appoggiò le mani sui fianchi ed urlò: «Carovana per Sereth pronta a partire!», e si sistemò a cassetta sul primo carro. La carovana cominciò a muoversi; nel frattempo, Evelyn e i suoi amici bardi iniziarono una fitta discussione alla quale Rios non seppe partecipare. Fu attirato dal paesaggio che iniziò a scorrergli placido davanti agli occhi. Forse poteva scoprire di più semplicemente guardandosi intorno. «Sì, di certo sarà così», si disse, mentendosi quel tanto che bastava per non dover avere a che fare con la sua timidezza. Il Borgo di Crocevia era circondato da una cinta muraria e due enormi porte, poste lungo la stessa strada, perfettamente dritta, ne custodivano l’entrata e l’uscita. Oltre la taverna altri sei edifici, tutti di pietra chiara, sembravano sonnecchiare sotto la luce delle prime ore del mattino. Appena usciti tutti i carri le porte si chiusero dietro di loro. Il paesaggio che stavano percorrendo era tipica-
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La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte II mente di montagna: alla loro destra una grande pianura verde, alla loro sinistra alberi di conifere coprivano lo spazio tra la strada che stavano percorrendo e i monti. Agli occhi di Rios tutto ricordava Salem, casa sua, pur essendo diverso. Evelyn, finito di parlottare coi bardi, si rivolse a Rios. «Allora, da cosa vuoi cominciare?» Rios si sentì sollevato nel poter finalmente fare domande. «Il problema è proprio scegliere da dove iniziare. Il modo in cui sono arrivato, per esempio. Ho usato il portale che il mio guardiano ha aperto per riportarmi al mio mondo e invece mi ritrovo qui. Hai detto che è questo luogo che ti accetta se cerchi qualcosa, e io me ne sono andato da Istica pensando a Lady Morgana. Puoi parlarmene?» «Guardiano? Portale? Vieni da un mondo interessante, a quanto pare; avrai anche tu da raccontare qualcosa. Bene bene. Lady Morgana? Se non conosci Sereth come fai a conoscere Lei?» «Chiedendo in giro, mi è sembrato di capire che fosse un personaggio di spicco nel mondo in cui mi hanno chiamato a combattere. Sono rimasto affascinato dal suo pensiero. Mi sembra di capire che sia molto importante anche qui» «Mai dire una frase del genere a Sereth! Ti prenderebbero in giro. Comunque», prese un bel respiro: «Lady Morgana Baenre Quinta Essenza, Quinta Maestra del suo Ordine, Maestra della grande Accademia Alchimisti, Erede e Custode dei Segreti del Primo Alchimista Hermes Trimegisto», recitò a memoria. «Ah. Temo di essermi ficcato in qualcosa molto più grande di me», rise, «ma oramai sono qui e per andarmene credo proprio di dover parlare con Lady Morgana Baenre, vero?» I tre bardi non seppero trattenere una risata. Evelyn dopo poco aggiunse «Vedi, mio buon amico, hai scelto un compito assai arduo. Sia che tu voglia desiderare la conoscenza, un oggetto o una persona che Sereth racchiude, se il tuo cuore lo vuole sul serio, essa ti condurrà da lei. Ma andiamo per ordine» Uno dei due bardi srotolò una pergamena, e vide che il disegno assomigliava vagamente a qualcuno dei segni sul suo lasciapassare; Evelyn iniziò a indicare vari punti su di essa. «Questa è Sereth, la città-stato del Territorio del Nord. Venne fondata secoli fa da Hermes Trimegisto, un saggio studioso che si fermò in questa parte del mondo negli ultimi anni della sua vita per realizzare la sua Grande Opera. Sereth, come puoi vedere, è racchiu-
sa dalla sua cinta muraria perfettamente inscritta in un cerchio. È alta metri e metri ed è perfetta al millimetro. Hermes, per dirla in modo semplice, ha applicato le prime leggi dell’alchimia su di una città, infatti questo disegno è la riproduzione esatta di un Cerchio Alchemico dell’Equilibrio. Quando il cerchio venne chiuso e gli edifici chiave posti nell’esatta posizione, i testimoni del tempo raccontano che vennero pervasi da una forza invisibile, pura, che li fece sentire come se fossero appena nati. Hermes non assistette al completamento totale della sua città, ma adepti fidati, tra cui il primo Maestro dell’Accademia degli Alchimisti, completarono il lavoro e ordinarono ai primi reggenti di giurare in loro nome, e per i posteri, di non toccare alcuna pietra, per il bene e la ricchezza della stessa città. E così fecero per secoli e secoli. Hermes venne seppellito al centro del Cerchio Alchemico, in un monumento chiamato la Tomba Smeraldina, creata con lastre su cui, per suo volere, vennero incise le regole e il giuramento degli Alchimisti. Sereth non fu mai attaccata durante le guerre tra i diversi Territori, anzi, ebbe sempre un ruolo diplomatico molto forte, ma come è giusto che sia nel grande cerchio della vita, anche tempi bui si abbatterono su questa città. Credimi, mio buon amico, chiunque, perfino tu stesso, penserebbe che sia stata colpa di Milady, per via della sua natura, ma il suo arrivo in città in quel periodo non fu esattamente dei più sbagliati. Lei desiderava la conoscenza, ma anche la libertà dal mondo oscuro che l’aveva incatenata. Superando diverse vicissitudini è riuscita ad arrivare al comando della stessa città» Evelyn scrutò lo sguardo di Rios, per vedere se fosse tutto chiaro. «Natura di che genere?» «Milady Morgana è un’elfa oscura che è diventata Quintessenza dell’Equilibrio Alchemico» «Diamine», disse sottovoce Rios, stupefatto. «Chi ha sete di conoscenza qui avrà di che bere per molte vite, e mai una bevanda mediocre»
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Cronache di Oscailt Capitolo 2 — Riposo
Cronache di Oscailt Capitolo 2 — Riposo
Emanuele Benedetti Genere: Epic Fantasy
Tutto sta nel rispettare ciò che abbiamo attorno. Tutto è nelle nostre mani, con esse possiamo creare o distruggere; la Ruota del Fato e i suoi protettori ci hanno benedetto con il compito di custodire ciò che di più caro essi hanno formato, la madre terra. Ricorda, mio giovane adepto: quando andrai in ronda con i tuoi compagni, sii sempre fedele alla foresta e ai suoi abitanti, perché dall’inizio dei tempi, essi sono la nostra missione.
Discorso ai novizi, Ganoes Embhrea, primo dei Savi.
Dopo l'ennesimo soffio d'infinito durante la quale avevano, senza sosta, passato al setaccio la foresta in cerca di intrusi o di malintenzionati, la compagnia Doscartha decise di passare l’ora del pasto diurno lungo le sponde di un fiume, a poche miglia della sua fonte. Era una giornata di inizio autunno, ma il sole tentava ancora di fare il suo dovere e all’ombra delle fronde si poteva godere un dolce tepore. Avevano concluso il pasto in pochi battiti di cuore e Éisteoir si allungò su di una pietra a pochi passi dal letto del corso d’acqua; sistemandosi la sacca, in cui portava tutto il necessario per la ronda, a mo’ di guanciale, con una gamba a penzoloni a pochi pollici dalla superficie dell’acqua, si fece accompagnare dallo sciabordio eterno nelle braccia di un sonno ristoratore. Gli altri due compagni non ne furono contrariati, anzi, capivano appieno il bisogno del loro amico: aveva passato le ultimi due momenti d'infinito a correre di mattina e a vegliare la sera, spesso contravvenendo ai turni di guardia che si erano imposti ed esonerandone gli altri due, arrivando infine ad avere un debito di riposo piuttosto alto nei confronti del suo corpo. Così, mentre Éisteoir si assopiva, Gliondar e Brádach contemplavano i dintorni del loro punto di ristoro. Luogo desueto, in verità, essendo leggermente al di fuori della giurisdizione della loro gente, ma dove c’era foresta, c’era la possibilità di bracconaggio, e comunque erano negli immediati confini del protettorato del loro villaggio. Mentre sbocconcellavano i resti della crescia elfica, avvolta in foglie d’edera che ne allungavano la durata e ne mantenevano l’interno umido, Gliondar e Brádach coprirono il compagno assopito nel suo mantello, che gli permetteva di confondersi con l’ambiente, rendendolo invisibile agli occhi dei malintenzionati, e si avviarono per una passeggiata lungo le sponde del fiume. Saltando leggeri tra le rocce levigate che affioravano dal pelo dell’acqua, passando tra i rami degli alberi o sopra fusti caduti chi sa quanto tempo prima, si diressero a valle.
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Cronache di Oscailt Capitolo 2 — Riposo
Essendo la prima volta che passava per quei sentieri, Brádach appuntava a mente qualsiasi roccia o anfratto in cui si imbatteva lungo il cammino, ogni cespuglio in cui potevano nascondersi a seconda dell’angolazione dei raggi dell’astro diurno, ogni albero abbastanza alto da potervisi inerpicare facilmente per sferrare un attacco a sorpresa. Mentre lui si dedicava a questo, Gliondar sembrava assorto e non faceva che controllare dove stesse mettendo i piedi, per evitare di cadere in acqua. Dopo qualche minuto di camminata in silenzio, Gliondar si fermò in piedi su una roccia affiorante quasi al centro del fiume, si girò verso il compagno che lo seguiva dappresso e gli disse: «Pensa se non fosse andata così…», lasciando il discorso incompiuto. Brádach, fermatosi anche lui in equilibrio, i piedi tra due pietre, guardò il compare, sorpreso, ma non troppo: era avvezzo a queste uscite, che, in realtà, erano il risultato di un discorso compiuto tra sé e sé, domandandogli cosa intendesse dire. «Beh, sì, scusa…», balbettò veloce l’altro, «voglio dire: la situazione attuale, che viviamo noi e le altre specie, è la somma di tutto quello che è successo durante le varie ere. È inutile che fingiamo il contrario: la nostra razza si sta sempre più chiudendo dentro se stessa. Sono pochi gli elfi che cercano il contatto con gli umani… ma che dico, è molto peggio! Elfi che sottostanno a leggi che non sono le loro, ma di un’altra razza! Vivono nelle città umane, svolgono lavori previsti da regolamenti umani, pagano dazi e tasse e hanno fatto proprie consuetudini non loro!» Brádach, sentendo che l’amico si stava infervorando per il discorso, fece un cenno con la mano per zittirlo, controllando che non ci fosse nessun altro in ascolto; una volta sicuro che fossero soli, i due ripresero la strada del ritorno e, mentre camminavano, Brádach chiese di nuovo: «Capisco il tuo punto di vista: ci sono dei fratelli che si sono ‘vendutiʼ alla comunità umana. Detto questo, dove vuoi andare a parare? Cosa c’entra questo discorso con la domanda che hai fatto poco fa?» «Come, “cosa c’entra”?», domandò stupito allora Gliondar. «È il risultato che conta, no? La razza umana sta conquistando questo mondo e, presto o tardi, porterà all’estinzione di migliaia di altre razze! Basta pensare agli unicorni che dimoravano nelle piane a sud della nostra foresta: da quando a poche centinaia di miglia è sorto quel villaggio di umani che poi ha cominciato a espandersi, le nobili cavalcature sono andate scomparendo fino ad estinguersi del tutto! Per cosa, poi? Per-
ché le ossa di unicorno rendono immortali… o perché le else di quelle spade storte che creano i loro fabbri rendono le armi indistruttibili, o magiche, o ammazza-draghi, o chi sa quale altra panzana… «Te lo dico io cosa sta succedendo, Brádach. Per qualche assurdo motivo voluto dal Fato, gli umani si stanno dimostrando una razza conquistatrice. E no, non dirò mai “superiore”, perché una razza che per espandersi distrugge ciò che si trova davanti, piuttosto che comprendere e inglobare, non può essere definita al di sopra di altre. Con enorme arroganza, essa fa un semplice discorso: o fai parte del carro dei vincitori, e ti adegui e sottostai alle mie leggi, oppure scompari. E, personalmente, considero quelli che tu chiami “fratelli venduti” come nient’altro che reietti, elementi da rinnegare e cancellare dalla nostra memoria come se non fossero mai esistiti» Vedendo che si stavano avvicinando al punto di bivacco e riconoscendo da lontano la roccia dove Éisteoir si era assopito, Brádach fece cenno all’amico di procedere all’interno della foresta, per non svegliare il compare che non si era mosso da dove lo avevano lasciato. Si arrampicarono in cima a un abete che poteva ospitarli tutti e due tra le sue fronde e, una volta accomodatisi, Brádach riprese il discorso dell’amico, affermando a voce bassa: «Comprendo appieno il tuo timore; anche io penso che l’inerzia con cui la nostra razza sta facendo passare impunemente gli orrori dell’umanità sia non solo un atto di vigliaccheria, ma anche concettualmente sbagliato. Ma, e bada bene, non voglio passare per un ozioso ignavo, come possiamo noi elfi contrastare una razza che si sta dimostrando molto più coesa della nostra? Prima dell’avvento delle grandi città umane, dislocate a miglia e miglia di distanza, noi non potevamo pensare a un’invenzione agevole e veloce come, ad esempio, le ‘stradeʼ. E sì, capisco che l’uomo, per costruirle, ha dovuto distruggere e disboscare, ma si sono rivelate così utili che persino la nostra razza spesso le usa, seppur per brevi tratti, per raggiungere più agevolmente le altre comunità elfiche… cosa che, oltretutto, accade sempre più di rado, perché, come hai detto tu, la nostra è una razza che tende a chiudersi, anziché a espandersi. «Eppure, nelle ere passate, anche noi siamo stati la razza dominatrice. Abbiamo sventato le incursioni dei Pelleverde e abbiamo dato vita a potenti alleanze. Per quanto separate tra loro, le nostre città-stato erano invidiate per bellezza ed efficienza politica. I nostri eser-
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Cronache di Oscailt Capitolo 2 — Riposo
citi sono rimasti imbattuti per chi sa quante migliaia di anni umani. Ma, c’è sempre un “ma” … siamo rimasti nel passato, mio caro amico. La fortuna dell’essere umano sta nella sua capacità di adattarsi a qualsiasi ventura il Fato gli presenti, non solo fisicamente, ma anche mentalmente. «Ho detto che siamo rimasti nel passato perché la tecnologia, come la chiamano i Secondi Venuti, che ancora oggi utilizziamo è la stessa che utilizzavamo migliaia di anni fa. La razza elfica da questo punto di vista è sedentaria e conservatrice. Forse pecca anche di superbia: pensiamo che tutto ciò che abbiamo sempre avuto è tutto ciò che ci serve…» A questo punto del discorso, Gliondar interruppe l’amico con un gesto della mano e disse convinto: «Quello che tu dici non cancella comunque le nefandezze di cui i Secondi Venuti si sono macchiati nei confronti della Natura e di tutte le altre razze. Non sono più evoluti di noi, forse solo solamente più furbi!» «Ma tant’è», controbatté Brádach, «loro stanno continuando con i loro comodi, mentre noi stiamo a osservare, come se ciò non ci riguardasse. Sono pochi gli elfi come te che si pongono questi quesiti, ancor meno sono quelli che vorrebbero fare qualcosa. E se avessimo eliminato il problema alla radice, gli umani di oggi non avrebbero sicuramente avuto nulla da invidiarci. Purtroppo il risultato di questo discorso è un serpente che si morde la coda: non possiamo agire sul passato, possiamo fare ancor meno per il presente e non possiamo sapere cosa il Fato e gli dèi ci metteranno davanti, in futuro. In compenso…» A questo punto del discorso, Brádach si zittì, notando che l’amico stava guardando con sguardo grave ver-
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so il fiume, in direzione del punto di accampamento. Si girò da dove era seduto tra i rami e notò che Éisteoir era in piedi, la corta sciabola elfica in mano, il mantello con cui l’avevano coperto girato di lato. Dopo un breve sguardo, i due amici, annuendo all’unisono, scesero in pochi balzi dai rami e si avvicinarono al compagno, desto da chi sa quanto. «Che succede, Éisteoir?», chiese Gliondar al compagno che stava guardando, verso il cielo, un punto indeterminato a nord. «Non sentite queste vibrazioni?», rispose egli con un fremito nella voce. Éisteoir era sempre stato il più sensibile dei tre alle piccole vibrazioni nei campi magici che circondavano la natura e questo ne aveva sempre fatto un grande esploratore: poteva snidare anche le trappole magiche più nascoste e rilevare la presenza di maghi nemici a grande distanza. I due compagni quindi si concentrarono, grazie alle loro innate capacità di ascoltare la natura che li circondava, e rimasero sbigottiti. «Oh, Fato avverso!», esclamò piano Brádach, «Non sarà mica…» Raccolsero quindi velocemente tutto quello che avevano lasciato nell’accampamento, si misero gli archi a tracolla e corsero verso il punto in cui avevano percepito qualcosa. Mentre correvano tra gli alberi, Brádach fece un fischio e indicò un albero-montagna secolare, su cui si arrampicarono per avere una visuale migliore. L’albero svettava sugli altri e, una volta raggiunta la cima, i tre poterono guardare con gli occhi influenzati dalle proprie capacità magiche ciò che avevano percepito e che continuavano a sentire con insistenza. «No!», urlò sbigottito Gliondar per sovrastare il vento che tirava al di sopra delle chiome degli alberi, «Non può essere!» Forse erano migliaia di miglia a nord-est, dove già l’astro diurno era tramontato, quindi sarebbe dovuto risultare impossibile da vedere; eppure i tre compagni riuscivano a contemplare, grazie ai loro sensi, una colonna di luce immensa. «Alla fine è avvenuta», disse infine Éisteoir, con voce carica di paura e di rabbia allo stesso tempo, «senza che nessuno potesse fare niente». «Tutto ciò che abbiamo sempre temuto è ora a meno di una scaglia d’infinito da noi», sussurrò Brádach, stringendo spasmodicamente il ramo a cui era appoggiato. «Oscailt!»
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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 02 — Questo mio soffitto
La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 02 — Questo mio soffitto
Luca Moretti Genere: Fantascienza
Rapporto xx/xxx protocollato nello scriptorium del monastero di S. Xxxx da Xxxx Durante il IX turno, dirigevo il mio aeromobile Apis I per un volo di ricognizione sul II gradu del VI quadranta con a bordo fra’ Giosuè da Xxxx, al suo primo volo come mio secondo. Come da rapporto della squadra di terra avvistavo un Mantas interamente emerso che iniziava da subito ad assumere un comportamento anomalo, sviluppando sul suo dorso un’escrescenza carnosa che si rivelava essere un Gladius. Al terzo volo radente il Gladius era già passato dallo stadio larvale allo stadio adulto. Come se non bastasse questa singolarità esobiologica, la nuova struttura simbiontica Mantas-Gladius manteneva le capacità d’irradiamento isotopico Alpha, caratteristiche della specie Mantas. Comunicavo al C.C. III la mia volontà di abortire la missione per due ragioni: avevo un novizio a bordo e l’Apis I non era equipaggiato per affrontare un Gladius. Nonostante lo stadio adulto della metà Gladius del simbionte, l’obiettivo non accennava ad assumere il tipico comportamento aggressivo della sua specie. Il C.C. III negava l’aborto della missione e mi ordinava di tenere il velivolo a distanza di sicurezza. Il mio unico errore era credere che il movimento circolatorio dell’obiettivo coincidesse per puro caso con la rotta ellittica che stavamo percorrendo. Non era un caso. Mi ritengo persuaso a catalogare nell’esoetologia del soggetto la sua capacità di puntamento e percussione sul bersaglio, comportamento mai riscontrato nella specie Gladius che, vorrei ricordare, si avvale dell’attacco fisico a contatto. Venivamo investiti da un torrente isotopico scaturito dalla punta del simbionte. Le stesse radiazioni emesse dalla specie Mantas conosciute in letteratura, che deduco siano state prodotte dalla parte Mantas del soggetto, primo caso nella storia, vennero convogliate attraverso la parte Gladius e colpivano in pieno il mio aeromobile. Accertatomi subito delle condizioni dell’Apis I e della mia struttura aumentata, e dopo aver riscontrato che questo attacco a distanza non aveva prodotto danni significativi, mi assicuravo subito dello stato fisico del mio secondo che, ripeto, al tempo della missione era un novizio e quindi non aveva ancora ricevuto il dono del santo miglioramento delle carni. Il mio copilota presentava uno stato catatonico e non rispondeva ai miei richiami. Riportavo il velivolo alla base e fra’ Giosuè in infirmarium. Ritengo doveroso sottolineare che lo stato del novizio non presentava le tipiche caratteristiche di chi è esposto a radiazioni Mantas, ma di questo farà più esaustivo rapporto il monaco infirmario incaricato. Fine Rapporto. Fratello Isacco, Magister novitiorum.
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La Confraternita Dell'Infinito Fascicolo 02 — Questo mio soffitto Dove sono? Nella mia cella? Sì. Ne riconosco ormai ogni minima sfumatura. Le ore passate sull’inginocchiatoio di fronte all’icona del frate volante, san Giuseppe da Copertino, i giorni di penitenza che gravano sulla scrivania e questo letto che mi ha conosciuto solo allo stremo delle mie forze. Questo mio soffitto. A pensarci bene, non ho mai indugiato nessun momento di questi due anni a fissare questo soffitto. È l’unico spazio di questa cella che mi è sconosciuto. Non ne riconosco le crepe. Non ne riconosco le tinteggiature. Quante cose ancora non conosco? È giusto porsi queste domande? Il capo chino per devozione, per rispetto e la gioia del giusto, il porto salvifico della Provvidenza. Alzare il capo per sfrontatezza, per arroganza e il terrore del dubbio, il mare burrascoso dell’ignoto. I demoni che sussurrano nel buio fanno vacillare l’ago di questa bilancia. E mi si stringe il cuore. L’ultima cosa che ricordo dell’evento che ha causato questa mia degenza è quell’inconfondibile odore di menta mentre quell’abominio mi fissa e mi violenta l’anima. Poi il buio. E in fondo a quell’oscurità, un infante. Lo stesso infante del mio sogno di anni prima. Ma questa volta si placa e mi fissa con occhi innaturalmente sicuri. E vengo inghiottito da quelle due gole d’abisso e mi risveglia questo mio soffitto. «Ti trovo bene, fratello Giosuè. La febbre è sparita e le condizioni si sono stabilizzate» Il volto giocondo di fra’ Gualdino mi destò dai quei pensieri con fare rassicurante e incoraggiante, e un ricco stufato risvegliò il mio appetito, effondendo i suoi profumi nella stanza. Il frate infirmario era entrato nella cella e mi guardava con occhi grandi e brillanti. «Ora proseguiremo con la profilassi di medicine e iniezioni anti-contagio e potrai uscire dalla semi-quarantena e tornare a volare in men che non si dica!» Spesso mi attardavo nell’infirmarium, disquisendo animatamente con quel frate dall’aria paterna. Mi trovai subito a mio agio con lui e sin dal primo momento mi sembrò di conoscerlo da sempre. «Grazie, fra’ Gualdino. Sono già arrivati i risultati delle analisi? Si può sapere cosa mi ha fatto quell’essere immondo?» Mi alzai sui gomiti e dissi: «Come sta padre Isacco?», senza riuscire a trattenere un tono preoccupato. «Calma, calma, ragazzo, quante domande! Non c’è motivo di preoccuparsi. Padre Isacco sta bene, Dio è con lui» Con movimenti agili il frate mi rimise in posizione supina e mi alzò la manica destra del saio. Mentre estra-
eva da una valigetta una siringa e una fiala contenente un liquido trasparente, e con mani esperte preparava il siero che mi aveva somministrato negli ultimi giorni, proseguì: «Rispondiamo con ordine. Le analisi sono arrivate, ma siamo a un binario morto. Non sono in alcun modo dissimili da quelle di una qualsiasi persona irradiata da un Mantas. Ma gli effetti sono stati profondamente insoliti: nessuno è mai caduto in uno stato catatonico paragonabile al tuo. Per tre giorni hai mantenuto un’estrema tensione muscolare su tutto il corpo e uno sguardo fisso che ci ha fatto pensare al peggio. Poi, finalmente i tuoi muscoli si sono distesi e siamo potuti intervenire con una cura clinica di mantenimento» Mentre mi ricordava quello che mi era successo, con gesti automatici riponeva la siringa e mi porgeva il vassoio. Ringraziammo il Signore e iniziai a mangiare. Nonostante tutto non avevo perso l’appetito. Rimasi in ascolto. «Ripeto: sei sempre stato in buona salute e le radiazioni che ti hanno colpito non erano eccessive. L’unica spiegazione plausibile al tuo comportamento, mi duole dirlo, è di carattere psicologico. L’ultima parola spetta a padre Marco», e questa volta neanche la sua proverbiale giocondità riuscì a nascondere una nota di preoccupazione. «Dovrai sottoporti a delle sedute di analisi per capire cosa ti è successo. Ma non preoccuparti, ragazzo, è per il tuo bene. Dio è con te», e, dicendo questo, mi accarezzò una guancia e mi regalò un sorriso sincero che sciolse ogni tensione. La profonda conoscenza in un volto eternamente radioso: questo era il nostro monaco infirmario. Mi porse un bicchiere d’acqua. «Prendi fiato, figliolo: se continui così non sentirai nemmeno il sapore. Tornando al discorso riguardo a padre Isacco, mi sento in dovere di dirti che è stata indetta un’adunanza nella Sala Capitolare. Data l’eccezionalità del vostro avvistamento, l’abate ha richiesto una discussione con i padri superiori, e sicuramente ti chiameranno a deporre per un rapporto verbale. Non fare quella faccia! So che per te è la prima volta, ma non sarà niente di più di una chiacchierata e con te ci sarà padre Isacco. Vedrai con i tuoi occhi come gode di ottima salute quel gigante buono e sarai finalmente più tranquillo!» Con quest’ultima frase riuscì a strapparmi una risata che rinfrancò il mio spirito. Da troppo tempo non ridevo così serenamente. Presi le pillole con un altro sorso d’acqua e fra’ Gualdino, dopo aver raccolto le stoviglie, si diresse verso l’u-
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scio. Continuando a sorridere, disse: «Mi congedo con una buona notizia: tra un paio di giorni potrai tornare al refettorio e alle mansioni comuni insieme ai tuoi fratelli novizi. Che la pace sia con te». Stava per uscire, quando si fermò di colpo sulla soglia, si girò e tirò fuori da una manica del saio quella che sembrava una lettera. Me la porse, dicendomi: «Quasi dimenticavo! Questa è da parte di frate Giacomo. Si è tanto raccomandato di fartela recapitare e io me ne stavo quasi dimenticando. Com’è che dite voi, lassù? Semper Laudetur!», e, con una grassa risata, uscì. Prima di aprire la lettera, sentii una fitta alla base della nuca e per un attimo mi si parò davanti agli occhi il volto dell’infante del sogno. Questa volta aveva un sorriso innaturale. Durò tutto meno di un attimo, poi scomparvero sia il dolore sia la visione. Rivivere la mia esperienza attraverso le parole di fra’ Gualdino mi aveva sicuramente suggestionato. Aprii la lettera alla ricerca di distrazione. E serenità. Fratello Giosuè,
brato di vedere quel volto di automa muovere la bocca all’unisono col nostro coro, mentre strappava il Gladius dal dorso del Mantas e con una mano frantumava il suo falso cranio come fosse una noce. Poi, il silenzio. Un’irreale immobilità ha avvolto il suo corpo, mentre la falce di luna ne illuminava le cromature, rispecchiandosi nella croce d’argento che troneggiava sulla sua fronte. Nella sinistra il maglio, che poggiava a terra. Il palmo della mano destra, che prima aveva ridotto in frantumi il Gladius, era teso davanti a sé. Il capo chino, come a osservarne il contenuto. Per un attimo mi è sembrato di scorgere in quella titanica mano il corpicino di un neonato circondato da un’irreale luce verde. Non so per quale strana associazione di idee, ho pensato subito a te e allo strano sogno che mi confidasti tempo fa. A quel punto le placche pettorali dell’automa si sono aperte, la sua mano si è avvicinata, come a deporre qualcosa al suo interno, e il portello si è richiuso. Con un tuono dei propulsori, fra’ Giovanni ci ha riportati alla realtà e, nel tempo in cui ci siamo ridestati dalla stasi forzata, il Neo-Malleus era già alto nel cielo notturno. Ho ponderato a lungo se fosse giusto metterti a parte di quanto ho visto quella sera, se non fosse semplicemente follia condividere con te quella visione. Ma qualcosa mi spinge a pensare che devi saperlo. Forse è un messaggio solo per noi, e noi soltanto siamo gli eletti ai quali il Signore ha inviato questi misteri che, con fede ferrea, un giorno capiremo.
Spero che questi giorni di solitudine nella tua cella siano pieni della grazia del Signore. Parlo a nome di tutti i fratelli novizi: aspettiamo con ansia la tua guarigione e benché siano tutti in apprensione per il tuo stato di salute, non peccherò di presunzione sostenendo di esserne il più preoccupato. Ho visto tutto. Ero lì fuori con te. Come sai, sono entrato nelle truppe di terra di fra’ Girolamo e quella sera era la mia prima uscita, come per te lo era quel volo di ricognizione. Mentre facevamo i nostri rilevamenti ho visto arrivare l’Apis I di fra’ Isacco. Sapevo che eri lì sopra. Ne avevamo parlato per giorni. Ero euforico come penso lo fossi anche tu. Poi, la catastrofe. Quella cosa vi ha attaccato e ho visto schizzare via il velivolo in direzione dell’eremo. Credo che la catena di comando si sia inceppata a causa del vostro incidente, perché non abbiamo più ricevuto l’autorizzazione a ripiegare. Eravamo ancora in prossimità dell’obiettivo quando è arrivato frate Giovanni. Un rumore assordante e la figura del Neo-Malleus, il titanico angelo vendicatore, ha oscurato il cielo. I nostri cuori si sono infiammati, dimentichi di ogni affanno. È proprio vero quel che si dice: vedere quel colosso di ferro e acciaio purgare il maligno, cancella ogni dolore. Avrei voluto fossi lì con me ad ammirare la grazia e l’armonia delle sue movenze. Con rinnovato ardore, fra’ Girolamo guidava i nostri canti gloriosi che scandivano ogni colpo del suo maglio e si innalzavano al cielo, rendendo grazia a Dio per averci donato il miracolo del Nephilim. Nell’estasi della preghiera, per un attimo mi è sem-
Perdonami se queste mie righe possono aver in qualche modo risvegliato dei ricordi che vorresti dimenticare, ma sappi che non sei solo contro le orde del Maligno. Io sono con te, e con noi c’è Nostro Signore. Semper Frater Tuus, Giacomo
ann.
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Il fermaglio di Marlene e l'Ammazzasonno Racconto Autoconclusivo
Il fermaglio di Marlene e l'Ammazzasonno Racconto Autoconclusivo
Marta Pelle Genere: Multi-genere
Vittorio nell’auto spenta, le dita gli giocherellano col fermaglio di Marlene. Un vicolo del centro, il buio del lampione giustiziato a sassate, una pioggia tagliata in filamenti leggeri. Un flash di fari in corsa. Le gocce che si schiantano, sempre più grosse, sulla lamiera. Il cerchio rosso di una sigaretta gli accende uno sguardo obliquo, mentre un secondo uomo sale sul sedile posteriore. Marlene. Lei era stata il suo primo campo di sterminio, prolifico e imprevisto: quindici anni, uno sguardo color corteccia, assente eppure accesa di esplosioni nucleari e supernove brillanti. Lo avevano chiamato due genitori disperati, contadini e allevatori, ché già i suoi sogni stavano infettando la fattoria. S’era detto che sarebbe stato un lavoretto facile, una cosa da nulla, e aveva accettato, novello del mestiere, con uno zelo da far invidia a un chierichetto alla prima messa. Vittorio l’aveva trovata seduta a gambe incrociate sul suo letto. Sullo sfondo di un enorme poster-copertina di Ummagumma c’era lei, con quegli occhi d’albero accesi di cataclismi, la bocca socchiusa che soffiava ombre e le dita sottili, poggiate sulle ginocchia, che tamburellavano ritmicamente. «Da quanto è qui?», aveva chiesto, senza troppe cerimonie, a una madre in lacrime e a un padre che continuava a portare il forcone con sé, ovunque. «Giorni! Sembra quasi non abbia bisogno di mangiare, bere, o…», aveva risposto la madre, prima di abbandonarsi a una lamentosa litania. «Quanti? È importante che siate precisi!» «Tre giorni e quindici ore da che l’abbiamo trovata, per Dio!», aveva sbottato il padre, con la voce rotta più dal timore dell’ignoto che dal dolore. «Bene. Silenzio, ora. Datemi qualcosa di suo» E quelli tacquero, impregnati del puzzo della stessa paura che li stava paralizzando, e gli diedero un fermaglio ovale di madreperla, con intarsiati al centro lo yin e lo yang. Lui, nella foga della prima volta, aveva affrontato di petto il subconscio della ragazza. Aveva potato gli alberi che germogliavano patatine, estirpato i revolver che crescevano nell’orto e schiacciato gli orologi rotti sulle 3:06 che strisciavano nella serra. Aveva spostato il telefono di bronzo parcheggiato nell’aia, aveva fatto a pezzi i fantasmi che la abitavano, spaccato il cranio a ogni incubo, cavato gli occhi ai compiti in classe, spezzato le braccia a tutti i tradimenti delle amiche. Aveva squartato a mani nude ognuna delle sue paure e fatto lo scalpo con i denti alle due tragedie della sua vita. L’aveva anche liberata dei suoi soprannomi, schiacciandoli sotto il tacco e gustandosi lo scricchiolio dei carapaci che si schiantavano. Aveva sentito una sorta di orgasmo crescergli nello stoma-
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co e montare. Il piacere dell’omicidio, per quanto onirico, aveva cominciato a muoversi dentro di lui, premendo contro la cassa toracica per espandersi. Vittorio aveva perso il senso della misura e Marlene aveva quasi perso il senso del sogno. Si era fermato un attimo prima di spezzarla, si era asciugato la saliva rabbiosa che gli tagliava il labbro a metà, e l’aveva svegliata con la dolcezza con cui si svegliano le amanti al mattino. Aveva cancellato il rivolo rosso che le decorava la narice, prima di andare via. Era stato subito dopo Marlene che si era diffusa l’epidemia di «Morfeo Malato». Ne avevano parlato tutti i media: […] Si tratta di un virus capace di agire sull’attività onirica animando i sogni e diffondendoli sul piano reale. Ad oggi nessuna cura ufficiale scientifica è stata trovata. È stato accertato che il virus si esaurisce con l’esaurirsi dei sogni del soggetto infetto, sebbene questo implichi la perdita definitiva dell’attività onirica nel soggetto stesso. Il Governo consiglia la massima cautela e cura dei malati: bisogna nutrirli e accudirli fino alla guarigione, perché alcuni casi di studio si sono protratti per settimane, debilitando quasi a morte i soggetti. ATTENZIONE: si raccomanda di lasciare i malati da soli non appena ricominciano a parlare. Il virus, infatti, si diffonde subito prima dell’esaurimento della fantasia onirica del soggetto infetto. […]
La medicina ufficiale si era arresa, quindi, ma come si poteva chiedere agli esseri umani di vivere una vita senza sogni? E qui i suoi incarichi di ‘Ammazzasonnoʼ abusivo erano aumentati esponenzialmente, portandolo a ‘operareʼ in tutto il paese, lui e gli altri immuni impietosi. Gli piaceva. Era un lavoro di distruzione lenta e sistematica e gli piaceva. Quella sfilata di idee abortite e desideri malcelati, di paure inconsce e tragedie addensate da spappolare era il suo pane, la sua salvezza e la sua redenzione. Gli aveva sfamato l’anima e il corpo per dieci anni. Il virus, intanto, aveva raggiunto il suo apice durante le fasi acute del ‘Grande Sonnoʼ e del ‘Mare di Incubiʼ, addormentando intere città, trasformando le case in mausolei di dormienti e le strade in musei dell’orrore a cielo aperto. Molte vite si erano spente prima che i meno fantasiosi riuscissero a riprendere coscienza, pri-
ma che gli svegli potessero prendersi cura di chi non si svegliava. I ‘Monattiʼ, squadre organizzate di becchini, anch’essi baciati dall’immunità, avevano cominciato a operare proprio durante la fase del ‘Grande Sonnoʼ, scandagliando i palazzi e liberandoli di chi non avrebbe più sognato nemmeno ad occhi aperti. E adesso c’è quest’uomo. Vittorio sa che è l’ultimo caso di ‘Morfeo Malatoʼ del paese. Il mozzicone rosseggia un’ultima volta, poi un salto dal finestrino. Nella tasca uno scivolare antico di madreperla. La pioggia rabbiosa. Un lamento del motore e pareti scrostate cominciano a scivolare ai bordi dell'auto. Mentre guida nel vicolo della città morta, che ha accuratamente scelto per l’operazione, una solitudine di assassino gli morde lo stomaco. Si affaccia, sugli orli sfilacciati della sua mente, una domanda silenziosa: e quando non ci saranno più sogni da uccidere? La scaccia come un insetto, scende dall’auto e conduce Mr. Wakening prima su per le scale e poi nella soffitta che ha allestito. L’ultima evoluzione del virus, quella che ha eliminato il contagio, attacca i soggetti senza addormentarli: cava loro i sogni da dietro le orbite e li mantiene lucidi per giorni, in un costante stato di insonnia, a fronteggiare le bestie e le fate della loro fantasia. La soffitta puzza di muffa e di qualcos’altro. È illuminata da candele – poche, perché la corrente è stata tagliata a tutta la città. Una dormosa di inizio secolo troneggia al centro della stanza, dove il soffitto è più alto. Le finestre cieche, la carta da parati che pende come le guance delle vecchie. Mr. Wakening si stende docile sul divano impolverato e si lascia sedare. Prima di lasciarsi andare all’oblio, si lascia sfuggire un sospiro carico di una settimana di veglia. Vittorio entra in un sonno umido e denso e si ritrova al buio, coi piedi a mollo. In lontananza il ritmo di una goccia che continua a cadere da sempre, per sempre, nello stesso punto. Appena i suoi occhi si abituano all’oscurità, ma forse un attimo prima, Vittorio è in una grotta. La purezza del luogo è disarmante: la camera di roccia risplende dei riflessi blu-azzurro che danzano sulle pareti, senza dare un’indicazione precisa di dove cominci e dove finisca il soffitto. Tappeti persiani galleggiano sull’acqua bassa e fuori, da qualche parte, infuria una tempesta. Su uno dei tappeti giace, addormentata, una donna dalla figura tanto bella quanto confusa. Tutto il corpo
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risuona del ritmo del suo respiro, si gonfia e si sgonfia piano. Anche se è poca, sembra che la luce filtri attraverso la peluria delle braccia, illuminandole la pelle come un tramonto d’acqua. Per un momento e un po’, Vittorio perde la brama d’uccidere, si lascia tentare. Un po’. Poi un rumore indefinito lo fa voltare di scatto. Uno sfogliare in tutte le direzioni, stormi di carta che ricadono, infrangendosi in mille pezzi, sulla trasparenza dell’acqua. Una fotocopiatrice. Sta stampando follemente, sparando i fogli in ogni direzione. Vittorio ne afferra uno al volo, inarca un sopracciglio, lo legge ad alta voce: «Noi vediamo il mondo precipitando nella tromba delle scale»1. Lei è in piedi al centro del lago – o è mare? È sale questo? −, i piedi nudi sul tappeto, il corpo, più nudo ancora, rivestito di riflessi turchese. Ha una bilancia nella mano destra, una bottiglia di rum nella sinistra. Sulla chioma bruna una corona d’alloro e una penna di fagiano. E parla con una voce che non è di donna e non è di uomo: «Quello è il calendario degli ultimi giorni» Vittorio la ignora, la incalza: «Sei tu la pietra che sostiene tutto questo?» Ma lei, sibillina: «Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?» Vittorio conosce la storia. L’ha letta molto tempo fa in un libro caro e la ricorda come una carezza di madre, parola per parola. Così risponde: «Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, ma dalla linea dell’arco che esse formano». Lei ruota leggermente il capo e, per un attimo, sembra un rapace incuriosito. Risponde metallica: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa». Vittorio non si meraviglia che i suoi passi nell’acqua non producano rumore. Risponde che le è già addosso: «Senza pietre non c’è arco»2. Eliminare l’'arco spetta a lui. Trattiene il fiato come un arciere, si tende, attacca. Le spinge il sorriso nel cranio col fermaglio di Marlene ed il sogno gli si sgretola in mano, come argilla bagnata. Per un secondo assapora quell'ultima scintilla di lucidità che gl'illumina il pensiero, quel barlume che aveva sempre marcato il confine fra il professionista e l’assassino. E la spegne.
Prima che Mr. Wakening possa svegliarsi, ora che sta godendo del primo sonno dopo la lunga veglia, prima che uno solo dei suoi muscoli possa sbocciare d’istinto e fiutare il pericolo, proprio ora, Vittorio gli pianta nel petto la stessa arma con cui l'ha appena guarito. Poi resta a guardare i fiori rossi che germogliano dal petto dell’uomo cui ha restituito il sonno. Resta a guardare le rughe sulle palpebre. Resta a guardare il brillio di madreperla, lo yin e lo yang, il bene dentro il male. Il fermaglio di Marlene.
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La figlia di Caino Capitolo 2 — Conca
La figlia di Caino Capitolo 2 — Conca
Natascia Norcia Genere: Gotico Contemporaneo
«Va' tranquilla, Justine, non è un posto esageratamente elegante e mondano, i cainiti sono abbastanza vari, ti troverai bene, tranquilla. Agnes sarà lì con te, e potrai andare direttamente alla Maison dopo l'incontro…» Edoardo era fiducioso, pacato e rassicurante al telefono. Purtroppo, come sempre, anche troppo frettoloso, e Justine non aveva potuto fare domande di alcun genere. L'indirizzo del locale lo aveva segnato su un pezzo di carta consegnato ad André, che aveva già stabilito quale strada prendere. La scelta dell'abito l'aveva tenuta almeno due ore davanti alle valigie aperte sul divano della suite in albergo. I bauli non erano stati ancora portati e la scelta, secondo lei, era davvero scarsa. In ogni caso, considerando la poca formalità dell'evento, aveva dovuto rassegnarsi a non usare abiti importanti. Il viaggio non era stato troppo stancante; lungo, casomai, noioso. L'autostrada di notte lasciava ben poco spazio al panorama. André aveva pensato a ogni cosa, dai bagagli, alla cena prima di partire per la sua Justine. Alla donna restava in bocca il sapore di una Torino accettata, ma mai amata. Negli occhi, lo sguardo spento di una ragazzina curiosa che troppe volte aveva girato intorno alla sua casa. Si era voluta accomiatare da quella città in un certo senso amabile, nel suo esoterismo ben poco velato, lasciando un segno tangibile in quella ultima notte. La creatura curiosa l'avrebbero trovata, forse, qualche giorno dopo. Ma era una reietta. Forse nemmeno l'avrebbero cercata. E il senso di colpa, quello di certo a Justine non sarebbe arrivato in ogni caso. Mors tua, Vita mea, le avevano insegnato così. E le era stato insegnato in meno di un istante. All'arrivo nella nuova città, la sistemazione era stata improvvisamente cambiata. Non era un autista, André, né un semplice tuttofare. Era un amante perfetto, nel senso che sapeva anche amarla. E captando frammenti di conversazioni con Edoardo, e il disappunto nel viso di Justine, aveva deviato verso un albergo, forse il più bello della città, per farla riposare serena dopo il viaggio. Aveva osservato i movimenti di Justine in quella grande stanza in un albergo al centro della città ed era rimasto seduto sulla poltrona, annuendo agli sguardi della sua padrona che metteva e toglieva vestiti davanti a uno specchio, mantenendo entrambe un religioso silenzio. Aveva vegliato sul suo sonno, riposando poco distante da lei durante il giorno appena passato. Aveva aspettato con estrema pazienza un qualsiasi segno da parte della donna, che continuava a girarsi e rigirarsi prima sul letto, poi in quelle due stanze, ansiosa e spaurita come una bestiola appena sottratta al canile. Un vestito di pizzo di velluto grigio e nero. Gli stivali alti. I capelli accuratamente raccolti con tre spilloni luminosi. Il trucco è sapiente e accurato, talmente delicato nel coprire il suo pallore e i suoi occhi cerchiati da farla sembrare perfettamente umana. Nello
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La figlia di Caino Capitolo 2 — Conca
stivale uno stiletto. «Non si sa mai chi mi si potrebbe parare davanti», pensa Justine. Senza un ferro sotto la giacca, André non esce mai. L'auto sobbalza sulle buche della strada poco confortevole, l'amico fidato, dal posto davanti, chiacchiera amabilmente, cercando di far scendere la tensione a Justine. È talmente bravo nel toccare le corde giuste che riesce a far venire fuori il meglio da quella piccola donna. Forse è uno dei pochi che davvero la conosce e la apprezza per come è, e forse solo con lui Justine si sente libera di togliere quella maschera di rigidità e compostezza. Arrivati nel parcheggio, i vetri oscurati della sua auto celano un gesto assolutamente discutibile per un cainita. Justine si piega in avanti e André si gira sorridendo, i due si baciano con tenerezza, l'uomo le appoggia una mano sulla guancia e le sussurra: «Sei bellissima stasera, non smettere di sorridere…». Justine ricambia la carezza e fa per scendere dall'auto. «Sta' tranquilla, io sono qui fuori ad aspettarti, basta che chiami, se serve…», aggiunge André. Justine si blocca e ritrova compostezza, aspetta che le venga aperto lo sportello e scende dall'auto. Fiera in viso, ma profondamente turbata nell'animo, saluta con uno sguardo il suo accompagnatore; uno di quegli sguardi che significano Mi si apre la terra sotto i piedi, ma non lo devo dare a vedere; reggimi. Appena allontanata dalla macchina, a Justine monta il nervoso. I tacchi sprofondano nella terra umida e questa cosa la infastidisce terribilmente. Al suo ingresso nel locale tutti i presenti rivolgono lo sguardo su di lei senza dire una sola parola, nemmeno un accenno di saluto: solo sguardi e parole sottovoce tra la gente. Justine, attorno a sé, sente un gelo incredibile. «E voi chi siete?» A parlare è una donna, vestita come un uomo, una fascia sulla fronte, accarezza la sua spada. «Lunga notte a Voi. Sono stata invitata per una riunione, sono Justine Orsini del Ferrante, sono ospite di Edoardo dal Pra, credo mi stia aspettando Agnes…» Justine sorride per educazione, la voce ferma, ma nemmeno troppo, si guarda intorno. Una creatura dall'aspetto orribilmente squallido le si avvicina annusandola. Ha peli in ogni dove, vestiti laceri e un cattivo odore: sembra una sorta di licantropo venuto male. Si ritrae avvicinandosi a una poltrona e ci si siede, nella speranza di far intuire le sue scarse attitudini alle amicizie ferine, ma questa continua ad annusare finché ringhia parole con una voce gutturale. «Che bestia saresti tu?»
«Non sono una bestia. Almeno, non come siete voi» Justine ormai fatica a celare il suo spavento. Un'altra creatura, femminea ma per nulla aggraziata, le si avvicina chiedendole: «Che cosa sei?», e Justine risponde quasi sottovoce, imbarazzata da quelle stranissime figure, «Sono Justine Orsini del Ferrante, braccio destro di Edoardo dal Pra». Continuano a chiederle che cosa sia, non chi sia, e questa cosa le sembra davvero assurda. «Sei la sua amante, allora…» A parlare, dal fondo della sala, è una donna intorno ai sessant'anni, estremamente sguaiata nei modi e nel vestire. «Agnes non c'è stasera, avrà avuto da fare… aspettavi lei, vero?» Le parla come se la conoscesse, con quella confidenza anche piuttosto indiscreta che non ci si aspetterebbe mai da una sconosciuta. Bene, − pensa Justine − cominciamo davvero bene, sola e non so nemmeno cosa fare adesso… Gli unici a rivolgerle qualche domanda sono una donna non troppo giovane, un viso cadente − pare sia una contessa di una qualche zona attorno alla città −, e una bizzarra figura sorridente, un santone indiano: dicono sia un Guru e risponda al nome di Shankar, ma solo quando ha voglia di rispondere, o almeno quando la sua testa non vaga per altri mondi. A dire il vero, Shankar pare un'amabile persona: sorride, è cordiale, e spende qualche parola per mettere più a suo agio Justine. Al suo sorriso largo e gioviale la donna risponde con un sorriso disperatamente finto. «Benvenuta, Justine. Felice di avervi qui con noi. Sarete felice anche voi!» La tipica espressione della follia sul suo volto, ma una follia buona. Justine, a volte, sa essere maestra di diplomazia, ma proprio non è questo il caso, anzi. «Felice. Sì, grazie… no: non credo di esserlo troppo, ora. Perdonatemi» Shankar è buffo con quel suo italiano dal tipico accento indiano. Piuttosto rotondo per essere un guru e per essere, forse, anche lui un cainita. Bizzarro, in quel gruppo di oscure persone, con i suoi abiti coloratissimi e la sciarpa arancione arrotolata al collo. Profuma di incenso e di fiori e, anche quando non parla con nessuno, mantiene un'espressione sorridente e vagamente ebete. A Justine piace subito, forse perché, alla fin fine, la scelta è piuttosto scarsa e la spaventa meno di altri, e si mette seduta vicino a lui. Il locale è piuttosto piccolo e scarsamente illuminato. Tavoli nudi, sedie poggiate a caso intorno e vicino alle pareti. Il bar è squallido, sguarnito. Le lampadine dalla luce giallognola si riflettono sul vetro delle bottiglie esposte e sui pochi bicchieri, che sembrano anche
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La figlia di Caino Capitolo 2 — Conca
decisamente polverosi. Una trentina di persone, divise forse per appartenenza di gruppo, stanno tra loro, guardandosi reciprocamente con fare sospetto. Uno sparuto gruppo di soggetti piuttosto ferini, sporchi e maleodoranti: sono le bestie che vivono lungo la campagna e i boschi della Somma, verso l'antico Ducato di Spoleto; altri, ben vestiti e dall'aspetto piuttosto antico, sono nobili di una casata della rocca di Narni e di Stroncone, tutti paesi dei dintorni della città dell'acciaio; un gruppo strano parla un idioma assolutamente sconosciuto all'orecchio di Justine − saprà poi che si tratta addirittura di un principe dalle origini etrusche, lì insieme ai suoi consiglieri e servitori −. L'assurda schiera è completata da un paio di soggetti dall'aspetto marziale, armati fino ai denti, e altri che, invece, sembrano appena usciti da un manicomio. Un uomo molto alto e robusto, completamente fasciato sul viso e sulle braccia, macchie rosse a ricoprire le bende piuttosto sporche, è lì con un altro che indossa una strana tonaca e una maschera sul viso. Un essere con le corna e una buffa donnetta al suo fianco stanno seduti a un tavolino bevendo senza sosta, con espressione sorniona. Completa il quadro una bambina pallida e inquietante, con una bambola tra le braccia. Mentre Justine, dentro di sé, sta imprecando contro tutti gli dei che le passano per la testa, continuando a guardarsi attorno in quel bizzarro baraccone da circo, entra la figura più assurda che abbia mai visto. E sì che di gente strana ne ha vista, nella sua lunga vita. Come lui, però, mai. Si fa chiamare Il Medico. Ha l'aspetto di un tossicomane che non conosce l'uso di acqua e sapone, e probabilmente non usa nemmeno buon senso nel momento in cui si veste. Il suo parlare gesticolando, con un accento tipico delle borgate della capitale, è di una volgarità assoluta. Tatuato quasi in ogni lembo scoperto di pelle, anche a una certa distanza si riesce a percepire la pesantezza del suo alito. Entra nella saletta biascicando «State zitti, bestie!» Dopo qualche istante si volta verso i nobili, che già vanno lamentandosi sommessamente, e si ricorda per un attimo le buone maniere: «Fateme parla', signori». Le bestie ci sono, adesso abbiamo anche un direttore del circo. Vorrei proprio capire da me cosa Edoardo pretenderebbe di cavare da questo posto. Io vorrei solo andarmene. E subito. Justine è quasi tentata di uscire e tornare in albergo, quando l'attenzione di tutti cade su di lei. «Stasera c'avémo una signora forestiera qui» Il Me-
dico, guardandola con insistenza, la indica come fanno i bambini maleducati. «Ce scusi tanto se non sémo raffinati come l'òmo suo. Ma noi sémo semplici» Masticava qualcosa, forse tabacco. Deve sputarlo per forza sul pavimento. Tirare su con il naso. Poi sputare ancora. Justine è inorridita. Lei che, nonostante tutto, bestia non si era mai sentita. «Beh, allora ve spiego. 'sta signora elegante qua ce l'ha mannata l'amico mio de Torino, quello che ce sto a fa' affari bbóni. Ha detto che ce po' aiuta' co' 'sto casino» Dopo essersi rivolto al suo pubblico, probabilmente abituato ai suoi modi, il medico torna a rivolgersi direttamente a Justine. «Edoardo m'ha detto che eri 'na rosa. È vero, però. Ammazza, che eleganza. Lui te l'ha detto che devi da fa' qui?» Tira fuori un monologo e fai vedere a tutti chi sei, Justine! «No, non so nulla. Sono appena arrivata e non ho visto nessuno, nemmeno Edoardo.» Non è tremula, la voce, ma nemmeno troppo decisa. E certo quelle poche parole non sono un monologo degno di nota. Justine ha appena fatto una pessima figura. Ma non sa davvero cosa dire a quella gente. Non è stata presentata e non sa chi siano. E comincia a essere disperata. «Ah insomma, t'hanno lasciato a piedi! Hai capito che stronzo l'amico tuo? Guarda un po' che manca pure quella santa donna di Agnes! Bella fija, per carità… ma certo che ce poteva da veni' a fatte compagnia…» Per fortuna il discorso, dal personale, passa a una serie di eventi, raccontati con fare concitato. Talmente frettoloso che Justine fatica a capire se stiano raccontando cose reali, o se stiano tutti farneticando.
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RECENSIONI
DALL
LETTO
'ONNIGRAFO
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Il monello, il guru, l'alchimista e altre storie di musicisti di Stefano Bollani
Che sia un genio della musica, lo sanno un po' tutti. Per lui la musica è il linguaggio essenziale dell'universo, ogni forma di vita (anche le pietre, secondo la sua visione) ha la propria musica. In questo saggio troviamo, però, uno Stefano Bollani diverso: un fine analista che con un pizzico di humour, a volte dissacrante, a volte bonario, rivela il suo pensiero di musicista attento a tutte le sfaccettature di quest'arte. Così, il talentuoso pianista fiorentino mette insieme un mosaico non di banali biografie, ma di inediti episodi, sensazioni, avvenimenti che acco-
munano altri grandi della musica. Cosa unisce, diremo noi, grandi della musica come Nino Rota, Frank Zappa, Renato Carosone, Billie Holiday, George Gershwin, Maurice Ravel e Astor Piazzolla? Eppure il pianista jazz li ha messi insieme in questo libro edito da Mondadori. Come detto, non biografie, ma sogni e momenti raccontati con arguzia e ironia. Qualche passaggio: Nino Rota si fece addirittura pregare dal regista Francis Ford Coppola per scrivergli la colonna sonora del Padrino, e accettò di comporla solo a condizione di non doversi muovere da Bari! Frank Zappa, come regalo per i suoi 15 anni, chiese ai genitori di telefonare al compositore Edgard Varèse, il suo mito. Non riuscì a parlarci, perché fu la moglie a rispondere; eppure, la telefonata segnò la sua vita artistica. Carosone, invece, da ragazzo andò via da Napoli (un cervello in fuga, si direbbe oggi) per suonare nei ristoranti di Massawa, in Eritrea. Lì addirittura si sposò ed ebbe un figlio. Insomma, per chi ama la musica, ce n'è da leggere. Per finire, il Monello del titolo è Louis Armstrong, l'Alchimista il pianista Bill Evans, e il Guru il chitarrista João Gilberto. Il tutto in un inedito e gustosissimo stile-Bollani.
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Mirella Rossi
OMINIDI Ovvero, gli uomini che dovresti evitare
di Valeria Poggi Longostrevi Valeria Poggi Longostrevi è un imprenditore nel settore medico, medico-estetico, medicina diagnostica, diete e cosmesi e mamma a tempo pieno! Nel tempo libero si dedica alla scrittura e al teatro comico. Nasce così il suo primo libro, tratto da spunti e quadretti della realtà. Gli uomini di una volta sono forse in via di estinzione? Valeria li racconta, in questo esilarante e irriverente catalogo di uomini conosciuti nei vari anni della sua vita… e si fa fatica a trovarne uno realmente decente. Uomini tapiro e uomini usa-e-getta, uomini-tappo, ominidi in bottiglia, umanoidi-coniglio e giaguaro, omuncoli-spazzino e zerbino, insani, folli, vanitosi, ridicoli, presuntuosi, bugiardi, pusillanimi, sfigati, complicati, depressi, stupidi… insomma, non c’è che l’imbarazzo della scelta, anzi, della non-scelta! In una recente intervista afferma: «Ho calamitato, forse per la mia curiosità, personaggi borderline; il più vero di tutti è Dottor Jekyll e Mister Hyde, il più ridicolo è l’uomo sul viale del tramonto, ma non manca il figo pazzesco, quello dal curriculum perfetto, o Mister Viagra. Mio padre mi diceva sempre che nella vita di ogni donna sono indispensabili tre uomini: il marito, l’amante e il cavalier servente. Tuttavia, i miei unici rapporti di lunga durata sono stati quelli con i cavalier serventi; degli altri non c’è traccia». In Ominidi tutto è stato realmente vissuto. Abbiamo, quindi, un romanzo autobiografico con il quale l’autrice ha voluto prendere in giro soprattutto se stessa, e in cui avrebbe voluto mettere nome e cognome degli uomini che qualcuno, forse, riconoscerà da
alcuni particolari, immaginandosi una professione, un volto, o un cognome: la donna che è stata definita la single di rango a Milano, portata a infilarsi in ogni disgrazia affettiva nel raggio di 10 km., vi condurrà in questo racconto di uomini sbagliati, tra storie vere vissute alla ricerca dell’uomo giusto, salvo poi scoprire che, forse, quelli incontrati sono tutti sbagliati, o probabilmente non si è cercato nel posto giusto! L’ultimo capitolo è dedicato alla nascita di suo figlio, desiderato e voluto per amore; il modo in cui è stato concepito − che potrebbe scandalizzare − è condiviso da molti altri genitori di oggi. «So che mio figlio capirà», aggiunge l’autrice.
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da un'intervista di Rosy Balzani
Mirella Rossi
The Shadow of a Terrible Thing
di Massimo Rosi, Eduardo Mello, Marco Pagnotta
L'ombra di una cosa terribile L’ucronia (anche detta storia alternativa, allo-storia o fantastoria) è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. Fonte: Wikipedia The Shadow of a Terrible Thing è un fumetto fantascientifico nel quale una razza aliena invade la terra durante uno dei conflitti più disastrosi della nostra storia ― la Seconda Guerra Mondiale ―. Questo evento, oltre a portare l’umanità al collasso totale, spinge le nazioni nemiche a unirsi sotto la bandiera della cooperazione per sconfiggere il nemico comune; un cambiamento decisivo che muta gli eventi di quella che, poi, è stata la
nostra storia. Ecco quindi che l’ucronia si fa strada attraverso le tavole di quest’opera, frutto delle menti di Eduardo Mello e Massimo Rosi, e colorata da Marco Pagnotta. The Shadow of a Terrible Thing, distribuito sul mercato britannico da Markosia Enterprise e su quello italiano da BookMaker Comics, è strutturato su una trama semplice e lineare che, tuttavia, consente una grande leggibilità e presenta colpi di scena che vivificano piacevolmente l’arco narrativo. Centocinquanta pagine che, in violenta successione, si fanno leggere l’una dopo l'altra con un buon ritmo, e caratterizzate da personaggi che spiccano, rimanendo impressi grazie alle loro peculiarità; personaggi che, tra un’azione e l’altra, portano avanti la storia senza troppe difficoltà. Insomma, non si tratta di un romanzo classico fatto di sole parole, come ci si aspetterebbe di leggere in una rivista come l'Onnigrafo Magazine; la realtà nazionale del fumetto è ― purtroppo ― spesso deludente dal punto di vista professionale, e altrettanto spesso non viene adeguatamente dato il giusto valore tanto alle opere dei nostri scrittori, quanto a forme espressive diverse da quelle canoniche. Questo non toglie, però, che il nostro interesse possa esserne catturato. Riteniamo, con ponderata convinzione, che la cultura possa giovarsi di questo tipo di espressione narrativa, e per dimostrarlo, nei prossimi numeri, ne parleremo sicuramente di nuovo.
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Mirko Biagiotti
…e nel prossimo numero, in uscita ad agosto… La stella di Salem
Capitolo 1 — Viaggio a Sereth: Parte III
Cronache di Oscailt
Capitolo 3 — Rivelazioni
La Confraternita Dell'Infinito
Fascicolo 03 — Neph e Giò / Jack e Melk
Ole Lukøje
Racconto Autoconclusivo
La figlia di Caino
Capitolo 3 — Circo
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