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Food Designer Paolo Barichella
Paolo Barichella,
immersione totale nel Food Design
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Articolo e intervista di Maurizio Pelli editore Fotografia: Paolo Barichella Food Design Concept & Strategic Design Consulting Due Ritratti di Paolo Barichella: Fotografia di: Lido Vannucchi.
Paolo Barichella, milanese, classe 1969, iniziò a teorizzare nel campo di specializzazione del “Industrial Design” nel 2002, un percorso nel food formandosi sulla fisiologia sensoriale, ottenne il diploma di sommelier “AIS”. Seguì gli studi di tecnologia alimentare e iniziò a frequentare il mondo di “CAST Alimenti” dal 2004, confrontandosi con i più grandi professionisti del momento; Iginio Massari, Luigi Biasetto, Luca Mannori, Pierpaolo Magni, Leonardo di Carlo, Fabio Tacchella e Roberto Carcangiu. Occasione favorevole per apportare il suo Design nelle grandi competizioni, dove già nel 2006, diede un’ulteriore input, in team con Roberto Rinaldi, Fabio Colaucci e Beppo Tonon alla squadra Italiana partecipante alla “Coppa del mondo di Gelateria”, che vinse quella edizione, grazie anche alla consulenza e ai pezzi espressamente da loro progettati per quella competizione.
Nel 2002 fu l’unico food designer in Italia, a confrontarsi con modelli di tecnologia applicata al mondo della cucina, osservando i grandi sperimentatori della gastronomia molecolare quali Ferran Adrià, Blumenthal e Enivrance. In seguito entrò in contatto con altri appassionati della materia; Mauro Olivieri, Ilaria Legato, Marco Pietrosante e Francesco Subioli, iniziando così a dare forma alle sue teorie di applicazione del design nel mondo food. Dopo qualche anno, sempre in team con i suoi amici -
colleghi di “I Food Designer, dal 2006, decisero di perseguire un obiettivo comune; quello di delineare questa disciplina. Il design è l’arte di usare la scienza con ingegno e creatività, il Food Designer si sforza per fare in modo che gli stessi principi possano essere applicati anche nel settore alimentare. Il Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts), che è in sintesi l’elaborazione dei processi più efficaci, per rendere più agevole e contestualizzata l’azione di assumere una sostanza commestibile, in un preciso ambiente e in una circostanza di consumo, in rapporto con un ambito di analisi sociologica, antropologica, economica, culturale e sensoriale. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare, in particolare, per comprendere come, poi, progettarlo. Progettare, nel Food Design significa proporre soluzioni alimentari efficaci in un contesto dove il prodotto sia funzionale per tipo di ambiente di consumo, e soprattutto all’esigenza dell’utente nei diversi momenti e situazioni di consumo. In una sola affermazione possiamo dichiarare che Food Design è “Progettazione consapevole di contesti, interfacce e strumenti funzionali, complementari all’atto di alimentarsi, che possono spesso consistere nell’alimento stesso”. Con il suo gruppo denominato “I Food Designer”, nel 2006 stilarono il “Manifesto del Food Design” che ha ufficialmente determina le regole che disciplinano e definiscono la posizione dell’ADI riguardo questa tematica.
Paolo incontrò spesso, in diverse circostanze il grande maestro Gualtiero Marchesi, in convegni e tavole rotonde sulla luce e nelle conferenze riguardanti gli aspetti legali per brevettare le ricette.
Dopo alcune edizioni della “Coppa del mondo di Pasticceria” a Lione, dove ottenne buoni piazzamenti lavorando con il Team Italia, Germania e Svizzera. Nel 2014 partecipò alle selezioni Italiane del “Bocuse d’Or” come giudice esterno, incontrando e conoscendo Giancarlo Perbelini e Mauro Colagreco. Nel 2016, sempre al Bocuse d’Or, partecipò come “Official Designer”, creando un vassoio tecnologico e rivoluzionario per Marco Acquaroli realizzato da Mepra e ispirato al tema del Rinascimento Italiano. Un incontro , in compagnia della sua socia Ilaria Legato, con lo Chef Filippo Saporito di “Villa Bardi” a Firenze ispirò uno dei suoi più originali design. Dalla terrazza del ris-
torante, godendo della più bella su Firenze, nacque il pensiero di tradurre in una bifora stilizzata e realizzata con due metalli di colore diverso, il primo supportare il vassoio da presentare in verticale per favorire la prospettiva. Tecnica rinascimentale inventata e realizzata dai grandi maestri come Piero delle Francesca. Il vassoio affogava all’interno delle batterie al litio, in grado di portare la temperatura del piano a 60 gradi, attraverso delle resistenze. Questo oggetto di design permise al “dream team” composto da Enrico Crippa, Paolo Lopriore, Giancarlo Perbellini, Fabio Tacchella e Luciano Tona, tutti coach di Marco Acquaroli, con i quali lavorava a stretto contatto di sbizzarrirsi a livello creativo-culinario. Il vassoio, inseguito diede vita al piatto celebrativo del primo gelato della storia, creato per opera di Bernardo Buontalenti, un architetto fiorentino del 1400 dove su un “marble arch” di marmo bianco di Carrara (uno dei tre del Duomo di Firenze) scolpito ad arco, il foro centrale sorregge una sfera di vetro termico borosilicato soffiato a mano, con modellato all’interno la forma della cupole di Filippo Brunelleschi.
Sempre nel 2016 giunge la più ambita metà per ogni designer, una milestone, quello che consacra nella storia del design, considerato il punto d’arrivo nella carriera di un progettista. Paolo venne premiato con la menzione d’onore al “Premio Compasso d’Oro”, progettando “Espresso al Quadrato”, la prima cialda a forma cubica, completamente compostabile per “Morettino Caffè” di Palermo, conclamata azienda di grande eccellenza.
Contemporaneamente all’attività e alle competizioni internazionali segue la didattica con “Poli:Design” al Politecnico di Milano, e “IULM SPD” dove si colloca, alla settima edizione del Master numero uno al mondo di “Food Design and Innovation”, completamente in lingua inglese che accoglie ogni anno circa 30 studenti provenienti da quindici nazioni diverse.
Oggi, attraverso le sue imprese e l’attività di advisory, si occupa di applicare la progettazione al prodotto food attraverso la tecnologia alimentare, per mezzo della ricerca e sviluppo. Negli anni ha dato forma a diversi concept per il “Retail Food” e nuove modalità di approccio al cibo. Partecipa come docente ai Master più rappresentativi e
ha fondato società e progetti che si basano su principi di Food Design elaborando nel campo “Innovative Food Solution”, mettendo a punto e brevettando diversi sistemi per rendere il food un business replicabile attraverso efficaci procedure. Una su tutte è il bevetto per le capsule gelato “Coolella”, sistema che permette con pacossatori e minipacossatori di ottenere una crema gelato, senza la necessità di un laboratorio, dalle caratteristiche estremamente superiori in soli 90 secondi. L’unico vero sistema efficace per produrre il gelato nei ristoranti.
In queto periodo Paolo è concentrato su diversi progetti; “Food Design Cafe”, che vedrà luce a fine ottobre al “MIND” – “Milano Innovation District” l’ex “Area Expo”, dove importanti investitori hanno dato vita al distretto innovativo di Milano. Paolo con “HiFood” all’interno di “DesignTech” rappresenteranno il mondo dell’innovazione con il Food Design attraverso un modello evolutivo di “Smart Kitchen” e “Self Restaurant” con aree autogestite di ristorazione all’interno dello spazio “co-living e co-working” con il cibo che ti segue anche in smart working.
E’ appena partito il progetto INI, moderno “one-bite” che è stato battezzato dalla stampa come “Il boccone perfetto”, frutto delle sue approfondite teorie e studi di antropometria del passato applicate al cibo, che hanno determinato circa otto anni fa il volume e le quantità ideali del “mouthful” in 12,5 cc totali. Nel caso di “INI”, un cubetto di lato 23,2 mm, con modanature atte a prelevarlo per mezzo di un archetto, progettato via Skype con il suo socio Food Designer Mauro Olivieri almeno cinque anni fa, ora è finalmente diventato realtà, grazie alla determinazione imprenditoriale di Federico Crespi, Andrea Crespi, Nicola Crespi e il prezioso lavoro del PM Paolo Lumini.
La vera ultima rivoluzione sulla quale Paolo sta lavorando è “Ultimo Tocco” Durante il periodo di lockdown, si accorse che, per necessità virtù, molti ristoranti nel tentativo di reggere il colpo causato della pandemia, hanno snaturato il proprio modello improvvisando soluzioni take away e delivery. Il fatto lo colpì molto, perché da sempre gli stessi ristoratori e chef, erano quelli che sostenevano e predicavano che la qualità esiste solo servendo piatti espressi e consumati nel minor tempo possibile, dal passaggio dalla cucina al tavolo del cliente, serviti velocemente del cameriere.
La priorità del ristorante è riempire la sala, non trasformarsi in gastronomia d’asporto per trasferire la sala a casa del cliente. Da designer, afferma che un buon rimedio non è mai una efficace soluzione, e che un ripiego è sempre una forzatura, qualcosa di temporaneo per tamponare l’emergenza. Tuttavia questa crisi insegna che l’emergenza, con il tempo si trasformata in pseudo-normalità, lasciando pesanti strascichi che hanno cambiato modelli mai prima stati messi in discussione.
Paolo pensa che è giunto il momento di creare un nuovo modello di ristorazione in grado di rispondere alle nuove esigenze e bisogniche l’improvvisa condizione ha determinato. Un modello basato su sistemi e soluzioni sulle quali aveva già lavorato negli anni, creando concept innovativi per imprenditori del Food Business Ha messo a punto delle specifiche tecniche di preparazione e delle speciali metodologie che prevedono due tempi differenti. Questo permette di abbattere i prodotti e metterli in standby fino a quando arrivano a casa di chi li ha ordinati per essere ultimati ottenendo piatti espressi fatti al momento. Tutto facilmente realizzabile in pochi
minuti seguendo un “QR Code” sul proprio smartphone con istruzioni, indicazioni e video tutorial che spiegano come dare il proprio ultimo tocco. Per dare forma all’idea, coinvolge il suo socio Mauro Olivieri, mettendo in campo tutta l’esperienza di diciotto anni nel settore Food dei due più importanti Food Designer in campo internazionale, applicato tutta la loro esperienza per realizzare prodotti progettati per essere terminati di cucinare con strumenti casalinghi attraverso semplici e rapide istruzioni. Dal 2002 si occupano di progettare soluzioni alimentari efficaci, oggi hanno messo a punto questo metodo per fare in modo che i piatti dei migliori ristoranti possano arrivare nelle case con migliori condizioni di qualità.
Coinvolgendo un terzo socio, Simone Lioci, hanno iniziato il progetto che oggi sta funzionando, a breve, la società svilupperà il modello per il delivery, il take away, la produzione del progetto Food Design Café in MIND e tutti i modelli di self restaurant basati su “Kitchenette”, che sostituiranno gli antiquati e vetusti spazi mensa, oggi, non più in grado di garantire le norme di sicurezza sanitaria post Covid.
Il Food Design nell’immaginario collettivo è considera un’arte moderna, anche se le sue radici sono remote. Marcus Gavio Apicio, 2000 anni anni or sono, nel suo “De Re Coquina
ria” non solo intentò la codificazione della cucina romana, ma, già suggeriva e descriveva
delle presentazioni artistico - estetiche e specifiche, per la presentazione del cibo durante i suoi famosi “baccanali”. E’ la stessa filosofia che si evoluta sino ai giorni nostri?
In realtà, nell’immaginario collettivo il Food Design assume una valenza estetica che possiede solo in parte molto marginale o come risultato di un processo. Tradotto pedissequamente, Food Design significa Progettazione Alimentare e usare l’aggettivo bello per definire un’azione non è esattamente appropriato. Il design è il processo che ha portato ad ottenere un oggetto, non l’oggetto stesso o la sua forma, è pertanto inappropriato attribuirgli una valenza estetica. Un progetto può essere buono ma mai bello. Quello che l’immaginario collettivo ha formato come concetto di design, per la verità è molto distante dal reale significato che i docenti e i professionisti da decenni si prodigano a trasferire. Il più grande equivoco sta nel riferirsi al Design intendendo parlare in realtà di Styling che è l’arte rappresentativa che si usa nel design nel delicato pas-
saggio nel dare forma al bisogno. In un oggetto di design lo styling è molto importante perché elemento che contribuisce a determinare il successo di un oggetto ma mai la decorazione, per un designer è l’anti design. Nel design si usa pensare “Less is More”, e in questa logica la decorazione è sempre qualcosa che sporca la forma. Noi designer per primi abbiamo la responsabilità di aver sempre confuso il termine Design traducendolo come disegno, ma in realtà quando si progetta la parte di disegno serve solo a rappresentare l’idea attraverso schizzi o disegni tecnici che servono a trasformare l’idea in prodotto attraverso varie tecnologie. Il primo equivoco in cui si incappa parlando di Food Design è considerarla un’arte. Ho sempre considerato il food design più una scienza che un’arte, o meglio, il Design è l’arte di usare la scienza con creatività e ingegno, il Food Design essendo un campo di specializzazione dell’industrial design ha il compito di fare questo in ambito alimentare. Il Design inteso come disciplina, nasce agli inizi del 800 al seguito della rivoluzione industriale, ma l’evento fondamentale che segna la prima Milestone per la nascita del Disegno industriale è la prima esposizione universale, ovvero la Great Exhibition av-
venuta a Londra dal 1 maggio al 15 ottobre 1851, dove per la prima volta furono toccati temi come “l’identità dei prodotti che ci circondano” e dove furono esposti una serie di oggetti di uso comune provenienti da paesi di tutto il mondo, permettendo cosi, per la prima volta, di mettere a confronto tra loro diversi stili ed influenze. Sin dai tempi del Bauhaus, movimento che ha sintetizzato i metodi formativi della disciplina, il Design si è sempre dovuto confrontare con il rapporto forma/funzione . Nello specifico per sintetizzare il senso del Design, e quindi anche del Food Design che ne è un campo di specializzazione, si può affermare che fare design significa dare forma ai bisogni della persona. Ho iniziato a teorizzare questo campo di specializzazione dell’Industrial Design nel 2002 e con i miei amici e colleghi (i Food Designer) dal 2006 perseguiamo un obiettivo comune che è quello di delineare questa disciplina. Insieme al mio gruppo de “i Food Designer”, nel 2006 abbiamo stilato un decalogo pubblicato in un Manifesto del Food Design che ha ufficialmente scritto le regole della disciplina e espresso la posizione ufficiale dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) rispetto a questa tematica. Qualche anno più tardi abbiamo lavorato per far diventare il Food Design uno dei campi dell’ambito premio di Design Compasso d’Oro dove sia io si Mauro Olivieri abbiamo ricevuto una menzione d’onore a riguardo.
L’evoluzione estetica della presentazione del cibo, ebbe in significante input durante l’opulenta cucina Rinascimentale Fiorentina, anche riguardo la creazione e il disegno degli “instrumenta manducare” dedicati alla tavola. Gli orafi fiorentini inventarono la “forca” o “imboccatoi” i a due rebbi, l’antenata delle moderna forchetta. Cambiano i tempi e le esigenze, il Food Design è sempre presente. Può considerarsi un’arte del processo evolutivo?
L’estetica nel processo di design assume una valenza molto importante perché è il primo modo che l’oggetto ha di comunicare se stesso a chi lo osserva, un’opportunità unica di essere “affordable”, esprimere chiaramente e in modo immediato come deve essere approcciato per essere usato. In campo Food esprime l’appetibilità della preparazione che ci si accinge a consumare ed assumere. Il design è una disciplina che si inserisce esattamente tra l’arte e la scienza come strumento per aumentare il benessere delle persone fornendo e inventando soluzioni adatte alla vita quotidiana. Il Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts) è in sintesi elaborare i processi più efficaci per rendere più agevole e contestualizzata l’azione di assumere una sostanza commestibile in un preciso ambiente e circostanza di consumo, in rapporto con un ambito di analisi sociologica, antropologica, economica, culturale e sensoriale. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare, in particolare per comprendere come andarlo a progettare. Progettare nel Food Design significa proporre soluzioni alimentari efficaci in un contesto dove il prodotto sia funzionale al tipo di ambiente di consumo, e soprattutto all’esigenza dell’utente in diversi momenti e situazioni di consumo. In una sola affermazione possiamo dichiarare che Food Design è Progettazione consapevole di contesti, interfacce e strumenti funzionali, complementari all’atto di alimentarsi, che possono spesso consistere nell’alimento stesso.Da quando è nato, il design è il driver del processo evolutivo, un metodo in grado di sintetizzare in una forma esattamente le esigenze che sono in continuo mutamento.Il Food Design ha il delicato compito di far evolvere gli attuali modelli di cucina (che mostrano tutta una serie di limiti) e l’approccio al consumo di cibo attualizzandoli alle esigenze e richieste della società
contemporanea e futura.
Sempre nell’immaginario collettivo, il food design, è circoscritto alla presentazione dei piatti della cucina stellata Michelin. Anche se il “passaggio” avvenne quando quando Caterina de Medici si trasferì a Parigi, influenzando, raffinando e “disegnando” le origini della cucina francese moderna. Un DNA, riconducibile al Bocuse d’Or?
Mi occupo di Food Design dal 2002, anno in cui ho iniziato il percorso per teorizzarne i contenuti e i valori in Italia e l’esperienza maturata in questi anni mi porta ad affermare che c’è molto più Food Design fuori dal piatto che nel piatto. Circoscrivere il Food Design alla presentazione dei piatti dei cuochi è estremamente forviante, riduttivo e limitativo.Il settore delle competizioni gastronomiche dove ho partecipato spesso, affiancando i più grandi professionisti internazionali è un ambito dove la ricerca della perfezione di ogni dettaglio fa la differenza. Il Bocuse
d’or è la punta di un iceberg che racconta quanto la cucina francese abbia determinato la formazione della cucina internazionale. Ai giorni nostri questo modello è in continua evoluzione passando per fenomeni come Ferran Adrià ed Hervé This che hanno iniziato a far progradire il modello in qualcosa di veramente non più nazionalizzabile.
Al Bocuse d’Or, dove ormai sei di casa, si respira l’alta cucina e oggi raggiunge la massima espressione del food design a livello internazionale. Quale fondamentale ruolo gioca il Food Design, e in che percentuale può incidere per l’assegnazione della vittoria di un Team?
La raffinatezza estetica, l’equilibrio, le proporzioni che vengono seguite nel comporre e disporre il cibo in un campo sono uno dei requisiti che concorrono ad aumentare il punteggio, pertanto ogni fattore che consente di portare verso la strada del successo diventa importante e può giocare un ruolo fondamentale quando anche un solo punto può essere quello determimante.Il Bocuse d’Or è fatto di metodo e cura maniacale del dettaglio. Quello che può fare il Food Design è fornire il metodo e gli strumenti per presentare e rappresentare al meglio il concetto, tutto il resto è materia nelle sapienti mani degli Chef. Come in altre discipline, si vince sempre in team, e il Food Designer fa parte del Team. Lavorare in team non è sempre semplice, particolarmente per noi Italiani inguaribili individualisti, e per la mia esperienza posso dire che è certamente l’unico fattore che ci penalizza storicamente per gli scarsi risultati che in questa competizione immeritatamente collezioniamo.
Il Food Design non è solo prerogativa occidentale, in Giappone, da secoli, la presentazione dei piatti è considerata un arte. Personalmente, al Museo di Arte Contemporanea di Kanazawa, vidi oggetti di Food Design di rara bellezza e inalterata funzionalità. Secondo i tuoi parametri, la parte artistico - estetica, può, o non deve mai compromettere la funzionalità per il consumo del cibo? Sin da quando ero studente, faccio parte dei designer funzionalisti alla Jasper Morrison (supernormal), pertanto la risposta “mai” appare un po’ scontata da parte mia. Tuttavia anche i designer più inclini a giocare con la forma come i grandi maestri Bruno Munari e Alessandro Mendini hanno sempre convenuto che un prodotto di design spogliato della sua funzio-
ne perde il suo significato e quindi non è più un oggetto di design. Nel percorso che porta alla forma di un prodotto di design, esistono esercitazioni estetiche e concettuali fini a se stesse spesso figlie di brainstorming, ma sono e rimangono esercitazioni, mai l’oggetto finale. La parte estetica deve aggiungere valore a quella funzionale senza mai sovrastarla, quando l’estetica prevarica lo scopo per il quale un prodotto di design è stato creato, l’oggetto perde di valore in quanto gli si pone un limite nell’usabilità. La vera sfida per il designer è creare un bellissimo oggetto indispensabile.
Mi è capitato, in più occasioni, di testare alcune nuove creazioni di Michelin Starred chef, dove il Food Design estremo ha compromesso il gusto. Qual è il punto di rottura tra l’estetica e il gusto? Esiste un’etica nel Food Design a riguardo?
In questa storica e controversa diatriba, il Food Design si inserisce aggiungendo il concetto di funzione che dagli albori di quando è nato porta con se e di cui accennavamo poco fa. Come per il design l’estetica non può essere elemento che influisce sulla funzione, in un prodotto food, gusto, sapore e consistenza non devono essere penalizzati dall’aspetto. Sin da quando ho teorizzato la materia in Italia, gli aspetti legati alla fisiologia sensoriale hanno sempre ricoperto un valore per me determinante e imprescindibile. Il prodotto di Food Design perfetto è quello che lascia il segno. Per questo dal 2008 parallelamente al Food Design ho sviluppato il “Sensory Design”, se vuoi un po’ l’arte di emozionare attraverso i sensi. Quello che da qualche tempo è diventato termine d’uso comune come “Experience”. Il Sensory Design in sintesi si applica laddove si vogliono creare emozioni attraverso il Food Design, e funziona così: i sensi sono i nostri organi di avvertimento e ricezione della realtà che ci circonda, essi producono stimoli che generano sensazioni che passando per il nostro cervello diventano emozioni e se sono “disruptive” si trasformano in esperienza. Se l’esperienza è eccellente si fissa nella memoria come ricordo permanente e indelebile. Non esiste brand experience più potente del lasciare un ricordo positivo e indelebile nella memoria di una persona.
In un ristorante a Dubai, durante il nostro incontro, ho avuto l’occasione di testare un gelato di qualità, che hai prodotto al momento in pochi minuti, con una macchina di tua
progettazione. Cambierà il modo di proporre il gelato nei ristoranti?
Se un virus ha cambiato dalla sera alla mattina il nostro modo di vivere, mi piace pensare che il mio sistema possa cambiare il modo di fare gelato in un ristorante. D’altra parte quando un sistema dimostra di essere quello più adatto a produrre i più elevati standard di qualità e freschezza in 90 secondi l’aspettativa è alta e spero di riuscire a comunicarlo. Innovazione e progresso sono il motore che muove il design. La tecnologia è lo strumento nelle mani del designer per attuare questo percorso. La tecnologia in questo caso si basa sull’utilizzo di fibre naturali vegetali di estrazione plantocentrica. Ingredienti di nuova generazione che evitano di base le discussioni sulla chimica in cucina, ingredienti che alcuni anni fa ho messo all’interno di una capsula brevettata in grado di generare delle basi per gelato in grado di conferire una struttura senza precedenti pur riducendo grassi e zuccheri. Ho progettato il sistema basandomi su una tipologia di macchine esistenti che gli che stellati conoscono bene e che sono i pacossatori. Ora con una delle mie startup produciamo le basi per dare la possibilità di creare gelato espresso in pochi secondi partendo dalla frutta fresca davanti agli occhi del cliente. Avendo una temperatura leggermente più alta e una spatolabilità differente da quella del gelato da mettere su un cono si presta ad essere gestita in locali dove la qualità è più apprezzata che in una semplice gelateria.
Questa pandemia, sfortunatamente ancora in corso, sta cancellando alcuni concetti fondamentali e consolidati della ristorazione, per introdurre nuovi standard causa la necessità igienico - sanitarie. Come evolverà il Food Design in questo settore, nell’era post Covid 19?
Durante il lockdown, insieme a Maurizio Lai (a capo del più rinomato studio specializzato nella progettazione di ristoranti), siamo stati chiamati a far parte di una task force di studi internazionali per redigere una serie di linee guida che sono entrate in un white paper. A noi è stato affidato il compito di capire come il fenomeno impatterà sulla ristorazione.Da questi confronti posso con una ragionevole certezza affermare che chi già prima seguiva gli standard igienico sanitari, oggi e in futuro avrà meno problemi. L’evoluzione che il Food Design può portare nel post covid passa attraverso il Sensory Design e il Proxemics Design, ambiti sui quali lavoro da molti anni prima che il noto virus li rendesse di
estrema attualità. Del Sensory Design ho già accennato pocanzi, il Proxemics Design invece è la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale e me ne sto occupando dal periodo di lockdown. La prossemica unita all’ergonomia e l’antropometria sono scienze che si occupano dei misure e distanze sociali. Una delle cose che il virus ci ha insegnato è che da molto tempo eravamo andati molto oltre il limite della tolleranza minima dettata dalle norme elementari di prossemica generando disagio nelle persone sforzate nei locali a passare dalla distanza personale alla distanza intima. Era tempo che nei ristoranti e nei mezzi pubblici si riportasse la distanza intima a ridivenire personale. Il Covid ci ha di fatto obbligati a vivere la distanza pubblica per capire che in mezzo ci sta anche quella sociale. Le nostre soluzioni si riferiscono alla prossemica come elemento di interazione nello sviluppo del progetto e sono sviluppate per rispettare la distanza personale. La prossemica è senza dubbio la chiave per la progettazione della futura ristorazione. Paratie posticce in plexiglass, campane di vetro e altri estemporanei quanto effimeri rimedi non riusciranno a restituire al ristorante il suo scopo significante, che non è tenere separate le persone ma unirle, anche in modo distanziato ma permettere loro di condividere un’esperienza primordiale e antropologica che è la condivisione dell’atto alimentare. Un buon rimedio non è mai una efficace soluzione. Ricercare il modo di separare chi si reca in un sito con lo scopo di stare insieme porterà solo le persone a non ritornarci. La progettazione attraverso il Food Design, deve concentrarsi su nuove modalità di aggregazione, non sugli oggetti e barriere tra le persone.