R/ R/ M/
RIUSO RICICLO MONOCROMO Mbou Margherita Libouri
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MBOU MARGHERITA LIBOURI Corso di Fashion Design Accademia di Belle Arti di Bologna A/A 2013-2014 Relatrice Prof. Rossella Piergallini Correlatrice Prof. Paola Maddaluno
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“NULLA SI CREA, NULLA SI DIST (Antoine-Laurent Lavoisier)
RUGGE, TUTTO SI TRASFORMA”
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Indice generale IN................................................................................................09 introduzione moda eco-sostenibile futura sostenibilitĂ limitare i consumi materiali eco-sostenibili
R/ riuso.........................................................................................23 Il riuso upcycling riuso:casi studio
R/ riciclo........................................................................................49 il riciclo in cascata il riciclo pre-consumo il riciclo post-consumo riciclo:casi studio
M/monocromo..............................................................................57 La monocromia La monocromia: casi studio Martin Margiela Yohji Yamamoto Issey Miyake
OUT..........................................................................................81 Double trouble
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IN 09
INTRODUZIONE R/ R/ M/ Un acronimo di riuso, riciclo, monocromo. La tesi mira a ricostruire le differenze fra il concetto di riuso e di riciclo attraverso una serie di casi studio, spesso accomunati da soluzioni monocromatiche.
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R/ R/
Il riuso va inteso come un’alternativa al concetto dell’usa e getta.
RIUSO
Riutilizzare significa dare un nuovo uso ad un oggetto.
Tra i vantaggi: il risparmio nell’acquisto delle materie prime; la riduzione dei rifiuti e il loro smaltimento in discarica; il risparmio energetico per la produzione del sostituto; il favorire una visione creativa e artigianale della produzione.
Il riciclo in cascata
RICICLO
M/
consiste nel recupero dei materiali per usi sempre più semplificati rispetto a quelli originali: questo è dovuto alla perdita di qualità strutturali e chimiche che la trasformazione
Il riciclo post-consumo
è quello più noto e prevede la trasformazione dei materiali o di parti del prodotto quando questo arriva a fine vita, in seguito alla raccolta differenziata.
Il riciclo pre-consumo
in questo caso, ancora prima di produrre il prodotto, si verifica la sua effettiva necessità. Se i risultati non sono soddisfacenti, si attua il cosiddetto pre-riciclaggio, ovvero si blocca la realizzazione, evitando lo spreco di risorse a priori.
MONOCROMIA
“ (…) abbiamo preso gli abiti di una stagione, i materiali e le stoffe di un’altra, i colori di un’altra e le tecniche di un’altra ancora” Martin
Margiela.
“(Il nero è come l’insieme di tutti i colori) è come se li mischiassi tutti, come se buttassi tutti i colori nel water; questo mi provoca una sensazione isterica”.Yoshi Yamamoto.
“Tutto quello che posso fare è continuare a sperimentare, e sviluppare ulteriormente i miei pensieri. Alcuni pensano che la definizione del design siano la bellezza o l’utilità ma, nel mio lavoro, voglio integrare anche i sentimenti, le emozioni. Devi metterci la vita in questo lavoro” Issey Miyake.
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Maison Martin Margiela Artisanal
Moda eco-sostenibile
Con il termine sostenibilità ci si riferisce di norma ad un concetto che ha a che fare con la conservazione e la salvaguardia della vita attraverso l’equilibrio ecologico: vegetale, animale, umano, e planetario. Un sistema autosufficiente è un sistema che non prende dall’ambiente più di quando non restituisca, che non esaurisce le risorse e si sostiene da sé. Per “moda sostenibile” si intende dunque una moda che favorisce processi di produzione non inquinanti e che non utilizza le risorse non rinnovabili del pianeta. Anche l’attenzione all’equilibrio ecologico è importante: la moda sostenibile produce capi che possono essere riassorbiti dall’ambiente una volta concluso il loro ciclo di vita. La moda sostenibile può essere iscritta in un contesto più ampio di attenzione alla sostenibilità che si sta lentamente ma tenacemente affermando negli ultimi anni, a partire dalle proteste contro lo sfruttamento del lavoro minorile negli anni ‘90. La crescita sistematica della consapevolezza delle iniquità della società, a partire dal peso crescente delle multinazionali e il conseguente movimento antiglobalizzazione, così come la paura dell’AIDS, le disuguaglianze tra ricchi e poveri, la diffusione delle informazioni sulle violazioni dei diritti civili, il riscaldamento globale, le emissioni di anidride carbonica e lo scioglimento delle calotte polari, spiega perché molte persone avvertano la necessità di attivarsi ed intervenire anche in prima persona per modificare lo stato delle cose e fare la differenza. La premessa essenziale per comprendere l’attuale interesse per i consumi sostenibili è che stiamo vivendo un cambiamento storicamente importante. Gli ultimi decenni sono stati dominati dal rapido susseguirsi di mode e tendenze. La fascinazione passiva dei consumatori
per queste sempre nuove suggestioni portava a cambiamenti continui, privi però di grande sostanza o fondamento. Oggi invece si sta definendo un nuovo paradigma di cui la sostenibilità è uno dei valori fondanti e che fa conto su valori più stabili. Non ci si accontenta più di cambiamenti leggeri e volatili ma si dà valore alla qualità della vita e alla ricerca di una fondatezza del mondo che ci circonda, anche e soprattutto per i prodotti della moda, del design, per il cibo e per tutti gli oggetti della quotidianità. Il concetto di sviluppo sostenibile è diventato centrale anche nel dibattito sul progresso economico futuro. Il nostro stile di vita, almeno nel mondo industrializzato, che nel corso del secolo scorso è cambiato drasticamente e molto velocemente grazie alle grandi innovazioni in campo scientifico e tecnologico, appare sempre più non sostenibile se raffrontato al panorama mondiale e ci pone di fronte a questioni etiche e di confronto con i problemi ambientali. Siamo consapevoli che la definizione dei modelli di sviluppo futuro deve sempre più tener conto di queste tematiche. Le potenti regole della sostenibilità si stanno diffondendo ovunque, anche nel settore della moda. Quello del tessile e dell’abbigliamento è uno dei settori più fiorenti del pianeta e dà lavoro a un sesto della popolazione mondiale. Poiché la moda genera un fatturato annuale pari a mille miliardi di dollari, offre lavoro a mezzo miliardo di persone e ci veste tutti i giorni, è importante che il settore sia coerentemente definito sulla base di valori durevoli. Dopo quello agricolo, questo è il settore che utilizza più acqua in assoluto ai fini della produzione. Scarica rifiuti chimici tossici nell’ambiente, consuma ingenti quantità di energia ed è tra i principali responsabili del riscaldamento globale.
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Leather Bag by Maison Martin Margiela for H&M.
La regola che spesso viene seguita per massimizzare il profitto è: moda pronta, ignoranza e spreco. Le montagne di abiti usa e getta, confezionati con stoffe a buon mercato ma di scarsa qualità, che acquistiamo frequentemente in grandi magazzini e catene multinazionali specializzate in low-cost di serie, finiscono nelle discariche, spesso nei paesi del terzo mondo, dove non si degradano perché costruiti con materiali artificiali, e inquinano le falde acquifere contribuendo al degrado dell’ambiente e alla diffusione delle epidemie. La maggior parte delle calzature sportive viene prodotta oggi nei paesi asiatici dove il costo del lavoro è molto basso. Il salario mensile medio di un operaio è pari a 59 dollari, i lavoratori non sonotutelati, il diritto di sciopero non è riconosciuto, e spesso si fa ricorso all’intervento militare per mantenere l’ordine. Anche dal punto di vista dell’ambiente e dalla salute la situazione non è delle migliori: la costante esposizione ai prodotti di
sintesi e all’inquinamento comporta un numero di patologie tumorali in continuo aumento. Oggi possiamo dire che la moda sostenibile è in una nuova fase, che non guarda solo al riutilizzo di vecchi scarti, ma che utilizza la tecnologia per garantire la sua sostenibilità. Solo a guardare le domande di brevetto che riguardano tecnologie sostenibili nel settore tessile-abbigliamento, delle 1.170 domande depositate presso l’apposito Ufficio europeo il 6,5% sono italiane, secondi solo alla Germania (19,7%) e davanti alla Francia (4,8%). Secondo il rapporto GreenItaly di Unioncamere e Fondazione Symbola quando si parla di sostenibilità nel settore della moda bisogna riferirsi ad almeno tre ambiti diversi, che richiedono professionalità e filiere di produzione diverse. Il primo riguarda le materie prime: devono essere biologiche o prodotte con basso consumo di acqua, in ogni caso sostenibili. Il secondo ambito è quello della creazione e della produzione dei filati e dei tessuti: bisogna recuperate tradizioni
produttive antiche o sviluppate nuove tecnologie sostenibili. Il terzo riguarda l’aspetto per molti considerato più critico, ovvero quella della tintura e del fissaggio del colore: queste attività da sole, all’interno dell’intero ciclo produttivo, possono arrivare a consumare l’85% di tutta l’acqua necessaria, il 75% dell’energia e il 65% dei prodotti chimici. Le nuove tecnologie di produzione devono realizzare la colorazione dei tessuti sin dalla fase di produzione dei filati, ridurre i consumi e ricorrere a colorazioni naturali e non inquinanti. A ben vedere ci sarebbe anche il quarto settore, quello della creazione dei capi, dove la creatività degli stilisti dà vita a questi prodotti. Anche in questo senso l’uso efficiente della risorsa può offrire risultati sorprendenti, riducendo gli sprechi e organizzando la lavorazione in modo che gli sprechi stessi siano rinviati alla catena di produzione per essere riprocessati e riutilizzati. Rispetto ad altri campi dell’arte e del
design, dove numerosi architetti, interior designer e aziende del settore cosmesi e della profumeria hanno scelto di fondare le proprie pratiche aziendali sul design etico, l’industria della moda non è ancora completamente allineata sulle questioni etiche e di sostenibilità. L’espansione del mercato etico è una reazione diretta a un settore che ha storicamente maltrattato l’ ambiente e mancato di rispetto ai diritti dei lavoratori. L’industria del lusso e dell’alta moda sono arrivate tardi a queste iniziative, ma nel tentativo di recuperare il tempo perduto stanno dando nuovo impulso all’ecologia del design. Occorre sviluppare soluzioni reali e strutturali per uno sfruttamento responsabile delle risorse e promuovere uno stile di vita migliore per tutti, così da poter influire concretamente e contribuire alla conservazione del pianeta.
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Le persone più innovative e di tendenza sono oggi i nati a cavallo del cambio di secolo, gli attuali ventenni e i teenager. fino a pochi anni fa essi venivano considerati da studiosi e imprese una generazione leggera, priva di valori e facilmente influenzabile; oggi il mondo giovanile è invece profondamente cambiato. Il concetto di sostenibilità, più che quello semplice di ecologia, è elaborato dalle giovani generazioni partendo non più da un mondo ideale da salvare, ma da se stessi, dalla qualità della loro vita, dall’essere in qualche modo più responsabili. A partire da questo cambiamento, la cui portata continuerà ad espandersi nel prossimo futuro, la moda è chiamata a svolgere una riflessione. Il fashion system si è infatti sempre mosso su altri territori, fondati su creatività e originalità. Non si tratta ovviamente di abbandonare la natura della moda, cioè sperimentare creativamente, ma di trovare forme che permettano di conciliarla con il bisogno di riequilibrio che le giovani generazioni esprimono. Ciò non significa pensare a una moda seriosa, orientata verso modelli ecologisti e bacchettoni, ma pensare a una moda che tiene conto e che interpreta il nuovo panorama di priorità. Oggi la dimensione della sostenibilità può rappresentare un elemento di differenziazione e di vantaggio per un prodotto, ma nell’arco dei prossimi vent’anni, essere sostenibile sarà una caratteristica necessaria, che ogni prodotto dovrà incorporare per accedere al mercato. La speranza è dunque che l’attenzione alla sostenibilità non sia semplicemente l’ultima tendenza di moda, ma che sarà in futuro un fattore permanente nel mondo dei consumi. Essa sarà considerato un valore basilare e scontato per qualunque prodotto e contestualmente perderà forse di rilevanza come elemento distintivo della comunicazione dei prodotti. nel mondo dei consumi. Essa sarà considerato un valore basilare e scontato per qualunque prodotto e contestualmente perderà forse di rilevanza come elemento distintivo della comunicazione dei prodotti.
Maison Martin Margiela Artisanal.
Futura sostenibilità
Limitare i consumi A partire dagli anni ‘90, si sono iniziati a chiarire i legami tra la tematica ambientale e la produzione industriale. L’impatto ambientale dei prodotti una volta immessi sul mercato deve essere considerato già in fase di ideazione e progettazione. Ciò significa ripensare i processi produttivi, così come gli stessi prodotti e i comportamenti che questi innescano, in un’ottica di sostenibilità ecologica. Nel progettare un prodotto, la funzionalità e l’estetica non sono le sole caratteristiche da considerare, è necessario tener conto anche dei processi di produzione e dell’utilizzo che il consumatore ne farà una volta immesso nel mercato. L’eco-design non ridisegna solo la forma, ma rinnova anche i processi di produzione e le abitudini comportamentali per una maggiore sostenibilità ambientale. La progettazione sostenibile riguarda anche le questioni del risparmio energetico, della ottimizzazione dei materiali, della riduzione dell’imballaggio e del trasporto, nonché i problemi legati alla dismissione quando il ciclo di vita giunge al termine. Ciò che caratterizza l’eco-design è una vivace capacità immaginativa nel ricercare sistemi, tecnologie e strategie alternative per la produzione. Rispetto alla industria convenzionale, l’eco-design tenta di prevedere le caratteristiche del prodotto in tutti i suoi aspetti e per tutta la durata del suo ciclo di vita: il bisogno da cui trae origine l’ideazione, l’uso che se ne farà, il mercato di riferimento, i costi, le tecnologie, la fattibilità, lo smaltimento. La forma esterna dell’oggetto è quindi vincolata a queste considerazioni e ottimizzata ai sensi della funzionalità e della sostenibilità. Ne risulta così un prodotto flessibile e durevole, multifunzionale, adattabile, riutilizzabile e riciclabile. Spesso i prodotti presenti sul mercato presentano una evidente tendenza allo spreco nell’uso eccessivo dei materiali. Progettare secondo una logica di riduzione materica significa realizzare un prodotto con quantità ottimizzate di materiali e di energie. La riduzione materica, grazie a un impiego attento dei materiali, ha così un duplice vantaggio: consente la tutela delle risorse e riduce le immissioni nell’ambiente. Un altro approccio dell’ecodesign è quello di evitare l’uso eccessivo di materiali eterogenei, che complicherebbero i processi di assemblaggio e dismissione. I prodotti realizzati in questa maniera soddisfano anche il concetto di disassemblaggio, cioè nella progettazione degli oggetti si tiene conto del fatto che per poter essere riciclati essi devono venir smontati. E’ importante a tal fine agevolare il riconoscimento dei materiali, affinché tutti i componenti, anche se costituiti da materiali diversi, possano essere riusati o riciclati.
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Materiali eco-sostenibili La tutela della nostra salute è dunque il motivo principale per scegliere un abbigliamento ecologico, naturale e sicuro: oltre a limitare notevolmente i problemi per l’ambiente, facciamo del bene alla nostra pelle, che a contatto con certi tessuti non respira adeguatamente, o peggio potrebbe assorbire eventuali sostanze tossiche contenute in tessuti non accuratamente controllati.
Fibra tessile del Bamboo.
L’ impatto ambientale nell’industria tessile deriva da più fattori, a partire dal metodo di coltivazione delle fibre fino al processo produttivo utilizzato: il cotone necessita di grandi quantitativi di pesticidi, insetticidi e acqua, mentre altri tessuti come il nylon e il poliestere, che sono fibre sintetiche, vengono realizzati a partire dal petrolio. Visti i costi ambientali di estrazione, trasformazione e dismissione delle risorse, l’eco-design si orienta verso l’impiego di materiali “bio”: materiali naturali ma anche derivanti da prodotti naturali. Un esempio sono le plastiche no-oil biodegradabili, realizzate con amido di mais e di patata (PLA). Una nuova fibra naturale e eco-friendly è il bamboo, la cui lavorazione non impiega additivi chimici, non inquina l’ ambiente ed è al 100% biodegradabile. Un altro esempio interessante è la canapa, la cui coltivazione richiede pochi pesticidi e fertilizzanti e dà luogo a una fibra molto robusta e duratura. Fra le fibre alternative c’è la fibra di amido, una fibra completamente naturale per la creazione di un tessuto particolarmente adatto al contatto con la pelle. Si tratta di una fibra altamente tecnologica che riprende alcune caratteristiche positive dei sintetici, come la rapida eliminazione del sudore, mantenendo però l’alta traspirabilità tipica dei tessuti naturali. Vivere in un mondo che presta attenzione all’ecologia passa dunque attraverso scelte consapevoli che hanno come obiettivo quello di ridurre l’impatto sull’ambiente in favore di un modello eco-compatibile che va dall’alimentazione biologica ai piccoli gesti quotidiani.
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R/ RIUSO
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The carpet bag by Maison Martin Margiela
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Maison Martin Margiela Artisanal.
Pur nella loro similarità, i concetti di riciclo e riuso si differenziano nella natura dei prodotti sui quali agiscono. Mentre il riciclo prevede la trasformazione e la riutilizzazione dei materiali che compongono l’oggetto che viene riciclato, il riuso reimpiega l’oggetto stesso, apportando modifiche formali e strutturali, ma senza operare trasformazioni chimiche o fisiche. Una considerazione aggiuntiva da fare sul riuso e sul riciclo riguarda più una sensazione che un fatto concreto, cioè l’idea che gli oggetti riciclati o di seconda mano trasmettano le loro esperienze di vita ai nuovi utilizzatori. Questa idea dà un particolare valore agli indumenti ridisegnati perché per alcuni indossare un capo di seconda mano è come ereditare una storia di vita vissuta, godere di un identità e di un carattere unici. Un indumento molto amato reca impressa la cura e l’affetto che gli sono stati dedicati e mantiene una forza vitale quasi tangibile che si trasmette ai nuovi proprietari. In questo consistono la bellezza e le attrattive dei capi vintage, riciclati e ridisegnati: il senso della continuità temporale e nelle vite vissute che portano con sé. In un universo dominato dalla “Fast Fashion” la moda fatta da indumenti usa e getta di bassa qualità ,il redesign rappresenta l’esatto contrario, la “Slow Fashion”, perché ogni capo deve essere pensato singolarmente e ricreato completamente.
Il riuso Riutilizzare significa dare un nuovo
uso ad un oggetto che non è più utile così come è. Il riuso va inteso come un’alternativa al concetto dell’usa e getta. Esso si attua quando le funzioni per cui è stato creato l’oggetto sono riviste alla luce di un suo nuovo ed originale utilizzo. Nella moda si parla anche di retayloring, che ricorda ciò che si faceva prima della seconda guerra mondiale, quando si “rivoltavano” le giacche e i cappotti per dar loro una seconda vita. La tradizione del riuso ha infatti radici antiche. Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939, ebbe un enorme impatto anche sulla quotidianità delle persone. Le restrizioni e le carenze di produzione imposte dalla guerra costrinsero le donne comuni, e con loro anche i grandi sarti, a ingegnarsi con il vestiario, trovando idee, linee e materiali nuovi. In quel periodo il motto era “riadattare e riparare” e la creatività spesso venne in soccorso alla necessità. Le donne iniziarono al lavorare a maglia e a rimodernare i vecchi abiti ornandoli con dei nastri. Indumenti e cappotti erano fatti con i tessuti che si potevano trovare in casa, le vestaglie spesso erano ricavate dalle bandiere sottratte ai nemici e con altri materiali di recupero. Quindi, una cassa per la verdura può essere riutilizzata per realizzare mensole, un vecchio cappotto può diventare cuscino per il gatto, la scatola di cartone di un frigorifero diventare una casa per le bambole. Il riutilizzo non vuole solo ridurre la contaminazione dell’ambiente, ma ha una importante connotazione di fantasia e creatività. Tra i vantaggi importanti di questa attività possiamo sicuramente citare: il risparmio nell’acquisto delle materie prime; la riduzione dei rifiuti e il loro smaltimento in discarica; il risparmio energetico per la produzione del sostituto; il favorire una visione creativa e artigianale della produzione. 27
Nel resto del mondo quando si vuole indicare la trasformazione di un rifiuto in un nuovo oggetto, per mezzo della creatività, si usa il termine upcycling, coniato per la prima volta nel 1984 dal giornalista Reiner Pilz e sdoganato ufficialmente nel 1997 nell’omonimo libro di Gunter Pauli (che in realtà in un primo momento usò il termine upsizing). Il concetto di upcycling è dunque ben definito e soprattutto ben distinto dal più consolidato termine recycling, che invece descrive un processo industriale di trasformazione del rifiuto. Eppure una distinzione così evidente anche graficamente (vedi nell’immagine il simbolo dell’upcycling, un cerchio che non si chiude a differenza di quello del riciclo) non ha assolutamente attecchito in Italia, dove l’upcycling (che potremmo correttamente tradurre in ‘riuso creativo’) viene quotidianamente scambiato col riciclo, perfino su giornali e siti specializzati. La questione non è un vezzo sofistico: parlare erroneamente di riciclo creativo, ad esempio, significa ignorare tutto il processo industriale necessario a trasformare un rifiuto in una materia nuovamente lavorabile. E alimenta il paradossale errore di pensare che una volta fatta la raccolta differenziata si sia risolto il “problema” dei rifiuti.
Coat made from upcycled ties and bits of a denim jacket- From Somewhere.
Upcycling
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Riuso:
Casi studio
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11 Yves Saint Laurent
Ilaria Venturini Fendi
Vivienne Westwood
Martin Margiela
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Gary Harvey
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Andrea Crews
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Lamine Badian KouyatĂŠ
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Goeffrey B. Small
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Junky Styling
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From Somewhere
TRAID
La fondazione Bottletop 31
Martin Margiela
Uno degli esempi più caratteristici è il belga Martin Margiela, che a inizio anni ‘80 con il suo approccio originale e radicale lascia sconvolto il mondo della moda. Margiela studia alla Royal Accademy of fine Arts di Anversa,e fonda la propria casa di moda a Parigi nel 1988. Negli abiti della Maison un’idea essenziale del processo di costruzione del vestito prende forma attraverso la finissima creazione artigianale dei pezzi e la scelta dei tessuti. Da qui nasce il termine “decontrazione”, attribuito alla griffe da parte della stampa, per cercare di catalogare l’approccio stilistico della Maison Martin Margiela. Mai intervistato né fotografato, Martin Margiela promuove il culto dell’impersonalità a differenza della maggior parte degli stilisti, arriva perciò a svuotare persino le etichette delle sue creazioni. Bianche nella prima linea da donna, o con numeri cerchiati nelle altre (da 0 a 23). Margiela introdusse l’idea di riciclare capi di vestiario come parte della sua affermazione personale. L’oggetto del suo riciclare è semplice, egli crede che i vestiti debbano continuare ad avere vita, in una forma o in un’altra, finché non siano completamente distrutti. Può così capitare di trovare all’interno di una delle sue collezioni una manica tolta a una maglia maschile per crearne una giacca, di un maglione fatto con vecchie calze militari. Negli abiti della Maison un’idea essenziale del processo di costruzione del vestito prende forma attraverso la finissima creazione artigianale dei pezzi e la scelta dei tessuti. la sperimentazione e l’utilizzo di nuovi e inusuali materiali sono al centro della ricerca delle collezioni.
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Gary Harvey Le creazioni di Gary Harvey, stilista inglese direttore creativo per Top Shop, Top Man, French Connection, Dockers e Levi’s, che in segno di protesta contro i grossi sprechi quotidiani nel mondo della moda, ha pensato bene di utilizzare materiali da riciclo, sono davvero uniche. Gary Harvey dopo il lungo lavoro nella moda tradizionale ha intrapreso un percorso diverso lavorando come freelance designer e consulente per vari brand di moda e cosmesi. In più, ricopre anche il ruolo del fashion director per il 125 Magazine. La sua riflessione sul rapporto fra l’industria della moda e l’ambiente è iniziata molto presto. Già da studente, avendo difficoltà economiche a procurarsi i tessuti nuovi, cercava di riutilizzare le vecchie stoffe e scomporre i vecchi vestiti per realizzare nuovi disegni. Ancora oggi, il designer londinese ricerca costantemente nuovi materiali e nuovi modi di produrre capi. Ma a differenza di molti altri designer di moda eco, Gary non cerca di produrre capi commerciali e semplici. La sua moda si potrebbe descrivere come una haute couture moderna, con un approccio ecologico. Le sue creazioni sono fatte con materiali non tipicamente destinati alla moda. Con la sua creatività, lui trasforma materiali indesiderati come sacchetti di plastica, tappi delle bottiglie e confezioni dei prodotti alimentari in qualcosa di sorprendente. I suoi disegni reinterpretano le silhouettes e l’eleganza degli abiti da sera vintage. Alcuni suoi pezzi storici, come il “Denim dress” realizzato con i vecchi jeans Levi’s 501’s, il “Newspaper dress”, composto da 30 copie della rivista Financial Times e il “Military dress” fatto con 28 giacche militari, sono diventati famosi attraverso vari servizi fotografici. Le sue opere sono state esposte in vari musei fra cui: Il Museo Nazionale di Arte Contemporanea in Corea del Sud, Victoria and Albert Museum e Institute of Contemporary Art, entrambi a Londra.
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Andrea Crews
Andrea Crews nasce a Parigi da un’idea di Maroussia Rebecq nel 2002, e da lì è arrivato a diventare un caleidoscopio di forme e colori che catalizza attorno a sè artisti e disegnatori stravaganti. La sua fondatrice spiega di aver creato il brand come una sorta di alter-ego universale, una figura fittizia in cui ognuno di noi può riconoscersi; “che tu sia spagnolo, americano, un supereroe o un conquistador, Andrea Crews è pronto a scombussolare l’ordine prestabilito assieme a te.” Alla domanda sul perchè abbia scelto la moda come campo d’azione, Rebecq replica che “Gli abiti sono il mezzo ideale perchè ogni giorno ci vestiamo e svestiamo, sia per coprirci ma anche per compiacere gli altri e ciò dimostra che una metamorfosi è possibile”. I vestiti sono delle nebulose di forma, colore, sensazione e materiale e indossare uno dei loro capi vuol dire porsi in quel terreno ibrido tra avanguardia artistica e moda; non la si può catalogare in un unico genere, perchè non conosce limiti e quelli che incontra, vengono delicatamente oltrepassati dalla creatività empirica e dinamica al contempo. Vestire Andrea Crews è un’esperienza sensoriale in cui si entra a contatto con l’innovazione e l’impegno in un concetto di moda ecofriendly. Il brand è particolarmente attento ai tessuti che sceglie e a sensibilizzare il proprio pubblico sulla questione del riciclo: a ciò sono volti i Workshop organizzati in diverse città in tutto il mondo. Il team di Andrea Crews mette il proprio savoir-faire e la propria esperienza al servizio di altri brand, proponendo delle direzioni artistiche energiche e totalmente innovative. Tra i nomi che hanno voluto dare una pennellata originale e dai colori sgargianti alle loro collezioni, troviamo Nike, Eastpack e Lacoste .
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Lamine Badian Kouyaté Lamine Badian Kouyaté si trasferì dalla nativa Bamako (Mali) a Parigi, in Francia intorno al 1986. Pochi anni dopo,nel 1989 lancia la sua linea Xuly BET (“Mantenere una mente aperta” in dialetto wolof) quando si innamorò della scena della moda parigina, mentre studiava architettura. L’abilità dello stilista sta nell’unire i vestiti trovati nel mercato delle pulci con una sensibilità africana. Questo è quello che ha portato al riconoscimento del suo mainstream. Egli cita designer come Azzedine Alaia e Yves Saint Laurent: “Detesto lo spreco e la banalizzazione, mi appassiona ricucire gli “stracci”, ossia le cose smesse, e ricomporle su una donna con i piedi per terra ma con la testa leggera. La moda ha sempre diviso la gente in poveri e ricchi. Io invece voglio riunire le diversita’ , incominciando con lo sgombrare il guardaroba delle donne dei loro inutili status symbol”. Nemico giurato dello spreco e cultore quasi fanatico del riciclaggio, Lamine Kouyate’ crea mettendo assieme scarti recuperati ai vari “marche’ aux puces” e ai fondi dei grandi magazzini: giacche logore, golfini smagliati, collant strappati e T shirt sfilacciate. “La moda è un’arte da usare per migliorare la qualità del design, non per abbassarla, per dire la verità al mondo e non per mentire, per cercare di migliorare la vita di tutti e non di un’élite”.
Goeffrey B. Small Pioniere del design d’avanguardia e degli abiti da donna o da uomo confezionati a mano, lo stilista americano Geoffrey B. Small, insieme a Martin Margiela e Xuly Bet, è considerato un precursore del design di riciclo nella moda. Geoffrey Small da giovanissimo ha vinto un importante concorso a New York, “America’s Next Great Designer Awards”. Ha così iniziato la sua carriera presentando un prodotto d’avanguardia: capi destrutturati, vintage dipinto a mano, tecniche di assemblaggio e lavorazione totalmente nuove, sfilando a Parigi, uno tra i primi designers americani. Considerato all’epoca un radicale, Small ha presentato la sua prima collezione uomo riciclata a Parigi nel 1996, vendendola in oltre 40 città da parigi al Giappone. Le sue collezioni, sempre controverse, affrontano messaggi politici e sociali di grande attualità. Accanto ai suoi messaggi sociali, Small crea uno dei più sostenibili personali ed ecologici guardaroba di lusso del mondo.
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From Somewhere linea della stilista romana Orsola de Castro creata a Londra nel 1997 e affiancata nel 2001 da Filippo Ricci. La filosofia del brend è quella del riuso dei materiali che vengono reperiti fra ritagli e rimanenze dei laboratori di confezione delle griffe, delle aziende tessili e dai cosiddetti “fine pezza”, ovvero quei metri di tessuto che avanzano dalle pezze dopo che sono stati tagliati tutti i capi in corso di produzione. “From Somewhere” rappresenta meravigliosamente l’incontro tra moda ed etica del recupero. Filippo Ricci e Orsola De Castro dirigono anche Reclaim to Wear, l’organizzazione che riunisce designer, produttori e distributori nel nome del riciclo e della sostenibilità e a cui hanno aderito marchi come Topshop, Speedo, la Central Saint Martins e l’eco-age di Livia Firth.Si tratta di capi interamente realizzati con la tecnica dell’upcycling ovvero tramite il riutilizzo dei tessuti di scarto, pezzi di stoffa ex novo rimasti inutilizzati:“nell’upcycling si riusano delle materie prime per ottenerne qualcos’altro: può essere il pile ricavato dalla filatura della plastica delle bottiglie d’acqua minerale, ma anche un’operazione come la mia che da pezzi di stoffa inutilizzati ricavo collezioni di qualità. Ho iniziato girando per atelier d’alta moda, tessitori di livello, pellettieri di fama… Era divertente andare in giro con sacchi enormi dove stipavo quello che scartavano” dice Orsola De Castro. La bravura di “From Somewhere” è stata quella di trovare abbastanza tessuti uguali da poter creare delle piccole edizioni dei propri modelli. La produzione di ogni stagione si aggira intorno ai 1200 capi che vengono venduti in 3 negozi propri in Inghilterra e in altri multi label in vari paesi.
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Junky Styling Junky Styling è una ditta che nasce a Londra per merito di due ragazze, Annida Sandres e Kerry Seager, che nei primi anni ‘90 iniziarono a farsi degli abiti riciclando e riadattando vestiti usati trovati nei mercatini. Il successo le ha poi portate ad aprire una boutique ed un sito che sulla home page dichiara “abiti senza tempo, de-costruiti, tagliati di nuovo, completamente trasformati”. La materia prima proviene dai negozi di abiti usati, dalle bancarelle e dai negozi di organizzazioni umanitarie come oxfam. Del riciclo e del riuso l’ azienda fa la propria ragione d’essere e afferma che tutto quello che viene usato anche negli uffici ha rigorosamente queste origini ed è tutto a chilometro zero.
TRAID (Textile Recycling for Aid and International Development) È un ente di beneficienza creato nel luglio del 1999 che si occupa del recupero dei vestiti usati tramite 900 ‘recycling bank’ posizionate in tutto il Regno Unito. Nei loro punti vendita si trova una selezione di capi ‘second-hand’ ancora in ottime condizioni, mentre tutti i vestiti e gli accessori strappati o macchiati sono utilizzati per la creazione di pezziunici per il loro marchio TRAIDremade.Il loro impegno in campo sociale si articola attraverso l’attività di educazione e sensibilizzazione al tema del consumo responsabile.
La fondazione Bottletop La fondazione Bottletop è stata lanciata nel 2002 da Cameron Saul e suo padre Roger ( fondatore del marchio britannico di moda di lusso Mulberry ) attraverso una collaborazione progettuale con Mulberry . Il lancio della campagna è iniziato con la realizzazione di una borsetta fatta di tappi di bottiglia riciclati in Africa, che è stata rivestita in pelle Mulberry in Europa . Una percentuale del ricavato della vendita delle borse viene investito generando occupazione locale e raccogliere fondi vitali per progetti di educazione “radici di erba” in Africa .
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Ilaria Venturini Fendi
Ilaria Venturini Fendi, da sempre attiva nel campo della moda, dopo aver militato per anni nell’azienda di famiglia (prima come direttore creativo Accessori di Fendissime e poi come shoe designer per Fendi), ha maturato una grande sensibilità ed interesse nei confronti delle cause ecologiche e umanitarie. Questa passione ha rivoluzionato la sua mentalità e stile di vita portandola ad approcciarsi con il fashion system in maniera creativa e rigorosamente green: nasce così il brand Carmina Campus, un progetto nato a fine 2006 dal desiderio di recuperare materiale di scarto, per riportarlo in scena sotto una luce diversa. Carmina Campus, brand di borse, accessori e componenti di arredo ethical, è incentrato sulla promozione del riciclo e della moda ethical, nobilitata dal lavoro di popolazioni africane al fine di emancipare costoro dalla povertà attraverso il lavoro, invece di aiutarli mediante donazioni, continuando la relazione di dipendenza con i paesi occidentali. Una lodevole iniziativa, lanciata anni fa per sviluppare in Africa – Kenya, Uganda – progetti il cui risultato è una formidabile collezione di borse quali l’ultima, creata mediante il lavoro di comunità di donne del Camerun. Le borse Swatch - ricavate dalle mazzette colori delle pelli, assemblate e trasformate in accattivanti creazioni che concretizzano il paradigma del riciclo. L’emancipazione dalla povertà attraverso il lavoro come affermano gli slogan – quali “not charity just work”, “save waste from waste” – che appaiono sulle creazioni di Carmina Campus è un imperativo categorico per realizzare un benessere globale.
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Yves Saint Laurent
Anche per la casa di moda Yves Saint Laurent il primo tentativo di avvicinarsi a un modello di produzione ecologico è stato attuato riciclando le rimanenze di tessuti vintage YSL in una collezione capsula di capi esclusivi presentati a New York nel 2009. Circa sessanta pezzi, incluse scarpe e borse, numerati e subito riconoscibili grazie a una label studiata appositamente. Individuabili le ispirazioni, chiari riferimenti agli abiti icona creati dal maestro Yves Saint Laurent, reinterpretati in chiave contemporanea da Stefano Pilati. La collezione “New Vintage” disegnata da Stefano Pilati rappresenta il commento definitivo della griffe sulla rapidità delle tendenze della moda.«New Vintage è un tentativo di sensibilizzare il pubblico ad agire in maniera consapevole verso l’ambiente: ho cercato di dare alla moda un valore che sia un po’ più profondo di quello esclusivamente visivo o di consumo» ha detto Stefano Pilati. La collezione ha impiegato esclusivamente tessuti provenienti dagli archivi Saint Laurent, raccolti a partire dal periodo in cui Pilati iniziò a lavorare insieme a Tom Ford (allora direttore creativo del marchio), sfruttando le rimanenze pre-vendita dell’azienda anziché acquistare e consumare altri tessuti.
Vivienne Westwood
Anche la regina del punk Vivienne Westwood, ormai nota anche come attivista politica, nel 2009 ha lanciato la linea ecologica “Do it yourself ”. Metri e metri di tessuto variamente drappeggiati e avvolti sul corpo, sono stati foggiati in abiti da giorno, falsamente pudici, e abbinati a calzettoni maschili da calcio e zeppe altissime. Pezzi singoli lunghi 3 metri di satin e pesanti broccati competi di cimosa sono stati stretti in vita, annodati e drappeggiati intorno al corpo per formare pieghe e cappe coordinate con pantaloni da uomo. La dichiarazione è un invito alla democratizzazione e alla presa di coscienza , con l’ intento di ispirare le persone a crearsi la propria moda personale utilizzando una tenda o una tovaglia, prendendo in prestito l’ intimo e le calze del proprio ragazzo per completare il look. Qualche anno dopo, nel 2011 la stilista inglese ha lanciato la linea di borse “Handmade with love”, ovvero “Fatte a mano con amore”, realizzata nell’ambito dell’ Ethical Fashion Africa Project per aiutare le donne africane. Tutte le borse della collezione sono state realizzate a Nairobi con materiale riciclato come sacchetti di plastica, alluminio o cavi elettrici.
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R/ RICICLO
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From Somewhere-Collection fall/2011
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Maison Martin Margiela SS 2012/11 -Detail
Attraverso il riciclaggio gli oggetti a fine vita vengono separati nei loro componenti, che saranno poi trattati e lavorati per ottenere materiali simili da impiegarsi nuovamente nella produzione. La riciclabilità di un oggetto è una questione molto importante, che deve essere tenuta in conto già a livello di modelli di produzione, e mira al controllo dell’inquinamento e all’impiego delle risorse e dei materiali più idonei. Un corretto smaltimento infatti, rappresenta solo il passo finale di un lungo processo che, già a monte, deve aver preso in considerazione il rispetto dell’ambiente. Tra i vantaggi importanti di questa attività possiamo sicuramente citare: il minor volume dei rifiuti, importante soprattutto per quei materiali che impiegano molti anni, o addirittura secoli, per degradarsi; un costo di produzione inferiore, grazie all’impiego di materie prime riciclate; La conservazione delle risorse naturali. Se parte della nuova carta proviene dal riciclo, meno foreste saranno distrutte; favorire una nuova coscienza ecologica e la creazione di una industria produttiva basata sulla filosofia del riutilizzo. Il riciclo comprende numerose sotto categorie, tra cui le più conosciute sono il riciclaggio in cascata, il riciclaggio postconsumo e quello pre-consumo.
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01
Riciclo: Casi studio
08 “Worn again” propone scarpe da ginnastica realizzate con materiali riciclati.
Il marchio
Howies
07 , fondato nel 1995 offre T-shirt di cotone recuperato e streatwear che può essere riciclato dopo l’ uso.
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Nike
nel tentativo di dimostrare il suo impegno nella realizzazione di prodotti ecofriendly, nel 2012 ha lanciato sul mercato delle calzature chiamate Nike GS. L’intera calzatura è realizzata con materiali rinnovabili e riciclati. Per realizzarle sono state impiegate bottiglie di plastica riciclate. Non solo riciclaggio anche materiali a basso impatto ambientale come i semi di ricino che trattati prendono il nome di Pebax Renu, un materiale vegetale utilizzato per creare le piastre di trazione delle calzature. Le Nike GS possono vantare una filiera produttiva green, l’intero processo di realizzazione emette il 35% di gas serra rispetto al processo tradizionale. I semi di ricino possono essere coltivati con estrema facilità e richiedono molta meno acqua delle altre fibre naturali. Per un calciatore il fattore “leggerezza” è fondamentale. Le Nike GS sono fino al 15% più leggere rispetto alla concorrenza. In più, i tacchetti possono fornire elevate prestazioni anche in condizioni più pressanti.
Gucci 02
La maison Toscana, nel 2011 ha lanciato un concorso rivolto agli studenti dell’ Institut Francais de la Mode, ai quali era stato chiesto di realizzare borse ispirate alla celebre Bamboo Bag di Gucci con minor impatto ambientale. A vincere è stata Laura Popoviciu. La sua Ever Manifesto Bamboo Bag si è distinta per il design di ispirazione origami che utilizza cotone riciclato, manici di bambù e interni foderati con lino di bambù. Gli angoli della borsa sono fissati insieme da bottoni a pressione, consentendo tagli e tempi di produzione minimi.
Benetton Group
La ha lanciato nel 2011 un nuovo progetto di business ecosostenibile avviato nel quadro di un’attenzione ai temi sociali, e in particolare al rispetto per l’ambiente. Con l’introduzione di innovativi e leggeri appendiabiti in legno liquido – al 100%
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biodegradabile e riciclabile - al posto dei comuni modelli di plastica su cui si appendono i capi di abbigliamento, Benetton ha risparmiato seicento tonnellate di plastica in meno rilasciate nell’ambiente. Altri due programmi concreti di sostenibilità ambientale riguardano i capi in cotone biologico e gli shopper in carta eco-friendly. Nelle collezioni bambino Benetton il cotone biologico rappresenta già oltre il 30% del totale dei capi. Benetton effettua un ciclo costante di controlli per garantire che i propri tessuti non contengano cotoni geneticamente modificati.
H&M
“Conscious Exclusive Collection”,è una linea interamente realizzata con materiali sostenibili come cotone biologico, poliammide, poliestere riciclato e Tencel.Con questa linea lanciata nel 2013 il brand svedese punta ad offrire ai clienti una linea che, oltre ad essere economica e alla moda, è garanzia di rispetto per l’ambiente, con la riduzione di ogni spreco e un’attenta selezione dei materiali. H&M è inoltre il primo brand di moda a lanciare su scala mondiale un progetto di raccolta di abiti usati, ai quali ridà nuova vita. L’iniziativa prende il nome di Garment Collecting Project e consente ai clienti di portare i loro capi smessi, di qualsiasi marca e in qualsiasi condizione, in tutti i punti vendita del brand. I capi vengono poi reindossati, riutilizzati o riciclati a seconda delle loro condizioni. Dalla primavera del 2013, quando è stata lanciata l’iniziativa, sino ad oggi, H&M ha raccolto circa 5mila tonnellate di abiti, l’equivalente in fibra tessile di 25 milioni di t-shirt.
la ASOS Green Room
Lanciata nel 2010, propone le marche che trattano unicamente di moda sostenibile. Il sito presenta una gamma di tessuti ecologici e sostiene i principi del commercio equosolidale e della manifattura tradizionale. La Green Room ospita anche una gamma di capi ‘Made in the UK’ che sostengono i produttori locali, oltre alla collezione ASOS AFRICA, che è disegnata in-house ed è prodotta in Kenya, in continua collaborazione con SOKO .
Timberland
Con “EarthKeepers”, cioè “custodi della terra” lancia nel 2011un’ innovativa collezione e che rispettino l’ambiente, con la ricerca di materiali e soluzioni che riducano l’impatto sulla natura di ogni singolo pezzo o capo. Gli stivali diventano eco-sostenibili con l’introduzione della Green Rubber, una gomma composta da un’alta percentuale (il 42%) di materiali riciclati e riciclabili all’infinito. Il PET (la comune plastica delle bottiglie d’acqua) compare nelle fodere, nell’intersuola e nelle solette di solide scarpe da trekking ed eleganti ballerine da vela. Pelle conciata al naturale e tessuti organici, riciclati come il nylon o supertech come il canvas Bionic (un materiale unico in cui le fibre di cotone organico avvolgono un cuore di PET riciclata rendendo il nuovo tessuto più resistente del 30% rispetto al normale canvas) completano l’ecosostenibilità del prodotto.
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M/ MONOCROMIA
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A-POC Issey Miyake.
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Monocromia, nelle arti figurative, è la tecnica consistente nell’utilizzo di un unico colore” . Con il termine Monocromatico ci si riferisce ai dipinti, disegni e fotografie di un solo colore o di una sola tonalità. Un oggetto o immagine monocromatica è composta da tonalità di colore o tinte limitate. Le immagini che utilizzano solo sfumature di grigio (con o senza nero e/o bianco) sono chiamate in scala di grigio o in bianco e nero. In teoria dei colori, una tonalità o tinta è un colore “puro”, ovvero caratterizzato da una singola lunghezza d’onda all’interno dello spettro visibile della luce. In pittura esiste un concetto corrispondente di colore “puro”, ovvero senza aggiunta di pigmenti bianchi o neri. Scientificamente parlando, il termine “luce monocromatica” si riferisce alla luce che contiene cioè di una sola frequenza. Le creazioni e le proposte dei designer, così come delle case di moda, sono riconducibili a delle precise tinte che con il passare del tempo sono diventate delle vere e proprie icone. Il colore è la percezione che gli occhi hanno della luce attraverso vari processi: valido mezzo di comunicazione, esprime sentimenti ed evoca emozioni. Attraverso i colori è possibile ripercorrere la carriera di alcuni tra i più famosi designer internazionali, che hanno fatto du una determinata tonalità il loro segno distintivo. Il rosso è un colore primario, cioè non è generabile dalle combinazione di altri colori ed esprime amore e forza. Il bianco e il nero sono in realtà dei non colori: essi rappresentano la quantità di luce che l’occhio riesce a percepire. Il bianco è l’origine di tutti, mentre il nero è l’assenza di luce. Entrambi hanno doppie valenze e spesso in base a come sono presentati assumono molteplici significati. Il bianco è simbolo di purezza e di perfezione, il nero invece è simbolo di eleganza e potere.
Moda e colore: dall’antichità fino all’ epoca contemporanea. Sarebbe impossibile immaginare la moda del XX secolo senza il giallo Poiret, il blu Lanvin, il nero Balenciaga o il bianco e nero firmato Chanel, o ancora senza il rosso Valentino, il rosa Schiapparelli, il bianco futuristico di Courrèges o quello concettuale di Margiela. Lo scenario della moda non sarebbe lo stesso senza le combinazioni di colori ideate da stilisti come Emanuel Ungaro o il giapponese Kenzo che si ispira al mondo dei fiori. La moda del XX secolo è stata fortemente influenzata dall’estro di questi stilisti e dalla relazione unica e affascinante che i loro sguardi hanno saputo intessere con alcune immagini colorate. Ed è proprio dal rapporto di questi creativi con il colore che sono scaturite combinazioni originali, foriere di soluzioni innovative per il mondo della moda. Si tratta di un percorso unico e personale che ciascun stilista ha affrontato con la propria tavolozza cromatica, armonicamente elaborata per creare una forma, un volume e di fatto il proprio universo. Nelle mani di artisti e designer, il colore diviene il mantello sotto cui la realtà si trasforma in un luogo dove regna l’armonia. Oltre ad essere fonte d’ispirazione, esso diventa un segno distintivo, come nel caso del verde dei dipinti di Hopper, delle tonalità naturali di Rembrant o del blu firmato Yves Klein. E’ stato solo all’inizio del 1700 che Isaac Newton scoprì che la luce del sole, quando passa attraverso un prisma, si scompone in tanti colori diversi. Questo arcobaleno si forma grazie al diverso angolo di rifrazione delle diverse lunghezze d’onda della luce visibili: negli spettri di rifrazione è facile individuare i sette colori a noi famigliari: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Questa importante scoperta nel campo della fisica rimanda ai colori dell’arcobaleno, un fenomeno naturale difficile da spiegare per gli uomini dell’antichità e che continua anche oggi a incantare i nostri sguardi. Nell’antichità l’uso del colore era raro. TINTURE E PIGMENTI SCARSEGGIAVANO ED ERANO MOLTO DIFFICILI DA OTTENERE, DUNQUE SOLO POCHE PERSONE NE POTEVANO BENEFICIARE. BASTI PENSARE CHE PER POTER PRODURRE UN SOLO GRAMMO DI PIGMENTO COLOR PORPORA BISOGNAVA RACCOGLIERE E LASCIAR ESSICCARE PIÙ DI 10.000 CONCHIGLIE DI MURICE, I CUI
Tinture e pigmenti scarseggiavano ed erano molto difficili da ottenere, dunque solo poche persone ne potevano beneficiare. Basti pensare che per poter produrre un solo grammo di pigmento color porpora bisognava raccogliere e lasciar essiccare più di 10.000 conchiglie di murice, i cui esemplari migliori provenivano dalla città di tiro, in Libano. Fu così che nel Mediterraneo il porpora divenne il colore del lusso e il simbolo dell’opulenza. Era dunque riservato, come testimoniano le antiche cronache, ai re persiani e ai sacerdoti ebrei così come gli imperatori dell’antica Roma e alle più alte cariche ecclesiastiche. Presso certi popoli, alla gente comune e agli schiavi era severamente proibito utilizzare il colore, che rimaneva un privilegio riservato a pochi. A Roma era facile distinguere i plebei, proprio per le tinte neutre dei loro vestiti, corte tuniche che arrivano a malapena a coprire le ginocchia, fabbricate con tessuti incolori di cotone, canapa, lino o in lana. I nobili patrizi si distinguevano invece per i loro eleganti vestiti dai colori accesi, arancione, blu o verde brillante. All’epoca dell’impero romano si attribuiva infatti un preciso significato al colore della toga, il mantello che incarnava i valori della romanità. Per le cerimonie funebri si indossava la toga scura (atra), mentre la toga bianca o avorio (virilis) rappresentava l’ avvenuto passaggio nell’ età adulta; la toga color porpora (picta) era ad uso esclusivo dell’ imperatore; infine la toga traslucente di colore bianco (candida) veniva portata da coloro che si candidavano al senato. Con la caduta dell’Impero, il cristianesimo demonizzò il lusso e la carnalità associate alla Roma decadente, e promosse uno stile più essenziale e meno raffinato, incoraggiando il diffondersi di vesti naturali grezze, simbolo della nuova spiritualità, cioè abiti semplici, austeri e non colorati. Prima della conquista delle Americhe, il rosso era il simbolo del potere reale. Era estremamente difficile da produrre, almeno in una forma stabile e duratura. ESTRAEVA IL ROSSO CARMINIO. IL ROSSO DIVENNE PIÙ ECONOMICO, E DUNQUE NON FU PIÙ ESCLUSIVA DELLE CORTI EUROPEE. NEL XV SECOLO FILIPPO IL III, DUCA DI BORGOGNA INTRODUSSE L’ USO DEL NERO, COLORE STORICAMENTE ASSOCIATO ALLA DINASTIA DEI CALIFFI
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La visione innovativa del XX secolo si espresse con una tavolozza ispirata a un mondo floreale dalle reminiscenze belle époque, caratterizzata da toni malva e pastello. Poiret continuò a usare rossi, gialli verdi d’ispirazione orientale, con un chiaro intento di sedurre, più che di turbare o infastidire lo sguardo ultraconservatore dei borghesi dell’epoca. Successivamente, le provocazioni verbali e cromatiche del Futurismo erano rivolte proprio a questa classe sociale: ne Il vestito antineutrale (1914) Giacomo Balla sosteneva che gli abiti futuristi dovevano essere aggressivi, agilizzanti, dinamici, gioiosi, illuminanti, volitivi, asimmetrici, in “stoffe fosforescenti”, “disegni e colori violenti”, anche per gli uomini. Questi proclami non ebbero seguito se non all’interno della ristretta cerchia futurista, tuttavia furono recepiti successivamente da stilisti contemporanei come Vivienne Westwood e Bernhard Willhelm che ne ebbero ispirazione. L’arte portò grande libertà nel mondo della moda, inducendolo a mettere in discussione la tradizione e a non prendersi troppo sul serio; si apriva la strada a sperimentazioni dei suoi elementi costitutivi: materiali, forma e naturalmente colore. Elsa Schiapparelli (Roma, 10 settembre 1890 – Parigi, 13 novembre 1973) è forse la stilista che ha sviluppato con maggior successo questa metodologia, diventando in seguito modello ispiratore delle creazioni firmate Gaultier, Moschino, Galliano, McQueen e Vikor & Rolf. La stilista romana fece sperimentazioni con qualsiasi materiale: realizzò gioielli in plastica, tinse pelli naturali, creò motivi decorativi ispirati a giornali, radiografie e tatuaggi. Nello stesso periodo, l’artista ucraina Sonia Delaunay (Hradyz’k, 14 novembre 1885 – Parigi, 5 dicembre 1979) traspose le teorie del cubismo orfico nei propri abiti, raffinate creazioni nelle quali il rosso, il giallo e il blu convivevano con motivi decorativi di sapore mistico, costituiti da cerchi, rombi e spirali (sua la creazione nell’immagine). L’arte ha influenzato anche il rapporto di alcuni stilisti con specifici colori,
White Fashion Editorial for Vogue Turkey April 2013.
però arrivò la cocciniglia, un insetto da cui si estraeva il rosso carminio. Il rosso divenne più economico, e dunque non fu più esclusiva delle corti europee. Nel XV secolo Filippo III, duca di Borgogna, introdusse l’ uso del nero, colore storicamente associato alla dinastia dei califfi arabi Omayyadi, ricercatezza che fu in seguito adottata dalla corte spagnola nel XVI secolo; con la monarchia asburgica il nero solenne diventò infine simbolo del potere e dell’Impero. A partire del XVII secolo il nero divenne una presenza costante negli abiti dell’emergente classe borghese, sia in Europa che nelle Americhe. Con la scoperta di Verguin (1863) della tintura nera all’anilina, si diffuse ampiamente l’uso di questo colore raffinato, anche fra le masse. Si preannunciava già il ruolo che il nero avrebbe assunto nel XX secolo come colore prediletto dagli uomini e dalle donne al passo con la modernità. La rivoluzione nel mondo di pensare e di guardare, intrapresa dalle avanguardie artistiche del primo decennio del XX secolo, ben presto raggiunse gli atelier dei designer e in particolare di coloro che si lanciarono nella sperimentazione di nuovi colori, che la tradizione e i canoni estetici avevano fino a quel momento bandito dall’abbigliamento. Un esempio specifico è quello del fauvismo, un movimento che ebbe una breve vita all’inizio del ‘900. L’arte di questi artisti si basava sulla semplificazione delle forme, sull’abolizione della prospettiva e del chiaroscuro, sull’uso di colori vivaci e innaturali, sull’uso incisivo del colore puro, spesso spremuto direttamente dal tubetto sulla tela e una netta e marcata linea di contorno. L’importante non era più, come nell’arte accademica, il significato dell’opera, ma la forma, il colore, l’immediatezza. Questo nuovo atteggiamento influenzò naturalmente anche il mondo della moda. Fu naturale la consonanza fra questi visionari del colore e Paul Poiret, il primo creatore di moda in senso moderno, che all’inizio del XX secolo fu pioniere nell’uso di colori luminosi e vibranti.
fenomeno tipico del XX secolo. Basti pensare al blu di Lanvin, colore simbolo del marchio francese, ispirato ai dipinti del Beato Angelico che la stilista Jeanne Lanvin, fondatrice del marchio, conobbe in occasione di un viaggio a Firenze, rimanendone fortemente impressionata. Il couturier basco Cristobal Balenciaga (Getaria, 21 gennaio 1895 – Valencia, 23 marzo 1972) è stato assai influenzato dalla tavolozza dei pittori tenebristi Zurbaràn e Velàsquez, così come dal drammatico Goya. Lo stilista ha saputo rielaborare in modo ingegnoso l’uso dell’elegante e austero nero, oltre ai merletti e ai motivi decorativi di tonalità corvina, conferendo un fascino universale ai tradizionali elementi spagnoli. Balengiaga non fu né il primo né l’ultimo a seguire questo filone. Negli anni venti Gabrielle Chanel (Saumur, 19 agosto 1883 – Parigi, 10 gennaio 1971) aveva già lanciato l’ uso del colore nero per gli abiti da giorno e le tinte pastello per quelli da sera. La stilista creò un abito nero che la stampa statunitense battezzò ‘’ Ford T’’ (chiara allusione all’automobile) : la “petite robe noire” diventò un elemento imprescindibile del guardaroba di ogni giovane donna. Gli esistenzialisti e i movimenti di controcultura che apparvero negli anni ‘60, adottarono un total look in nero come simbolo del proprio anticonformismo e in opposizione a una società che mai li avrebbe accettati ne compresi. Si generò quell’aura che fece del nero il colore simbolo della modernità per coloro che vivevano nella società capitalistica, che fossero punk o brokers di New York. I giapponesi Yohji Yamamoto (Tokyo, 3 ottobre 1943) e Rei Kawakubo (Tokyo, 11 ottobre 1942), con spiccato senso estetico e della moda, hanno saputo reinterpretare questa tendenza creando uno stile austero e immaginativo, caratterizzato da un frequente uso del nero. Yamamoto ha dichiarato, in un intervista nel ‘89: “Mi vesto solo di nero e blu navy” e Kawakubo (Comme des Garçon) ha affermato di lavorare con tre tonalità di nero, un autentico manifesto di luce.
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Monocromia:
Casi studio
01 Martin Margiela.
02 Yoshi Yamamoto.
03 Issey Miyake
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Maison Martin Margiela è una casa di moda fondata 1988 al 102 rue Reamur di Parigi, dal designer Martin Margiela diplomato all’Accademia Reale delle Belle Arti di Anversa. Martin Margiela inizia la sua carriera come designer free-lance nel 1980 a Milano, e dal 1985 al 1987 diventa design-assistant di Jean Paul Gautier. Nel 1988 fonda “Maison Martin Margiela” insieme a Ms. Jenny Meirens che appoggia il designer da un punto di finanziario. La prima collezione ready-towear donna di “Maison Martin Margiela” è dell’ottobre 1988. Dal 1998 al 2005 è stato il direttore creativo della collezione donna di Hermès. Oggi, la Maison ha boutique in Francia, Giappone, Italia, Gran Bretagna, USA, Hong Kong, Germania, Dubai, Corea, Taiwan e ovviamente in Belgio. La Maison è conosciuta per la preferenza per il colore bianco, per i quadri alle pareti, le fodere di cotone dei mobili e lo chiffon dei candelabri; per la tecnica dei contrasti delle dimensioni; per il surrealismo e la cultura pop. Marchio precursore e pioniere, la Maison applica il minimalismo e l’anonimia, “firma” le sue rinomate creazioni in bianco, alle volte fa scendere in passerella i suoi modelli con indosso una maschera e rivolge domande collettive al pubblico. L’estetica forte della Maison le ha permesso di essere invitata a numerose esibizioni. Nel 2009, Maison Martin Margiela ha avuto carta bianca per la progettazione della suite Elle Décoration nei 220 m² dell’appartmento che con vista sul Palais de Chaillot. Nel 2010, nominata in seguito a un sfilata, ha preso parte all’antica sezione della Maison des Centraliens, risalente all’epoca di Napoleone III, sfruttando lo spazio per ricavare delle camere, un ristorante, una sala per fumatori, un bar e una reception. La Maison ha creato questo progetto all’insegna della continuità con la propria traiettoria artistica, ottenendo un luogo armonioso tra i contrasti e il surrealismo colorito. Per lo sviluppo del progetto, la Maison ha lavorato con altri
artisti, specialmente con paesaggisti e illuminotecnici. Martin Margiela, spirito artistico e ribelle insieme, ama confrontarsi con l’arte. Alcuni suoi lavori sono nei musei, come all’Albert Museum di Londra. Diventato famoso per il suo modo di intendere i vestiti, a cui dà un significato di transitorietà, è come se le sue ispirazioni provenissero dai cambiamenti e dagli estremi della vita di tutti i giorni. Margiela cerca di portare nella moda questo senso di non definitivo. De-costruisce, ricostruisce. Trasferisce agli abiti l’arte concettuale. Riproduce materiali presi a prestito dall’arte contemporanea. Conosciuto nel mondo per l’uso insistito del bianco. La Maison Martin Margiela ha fatto del bianco il suo colore feticcio, elemento distintivo. Un non colore, chiave espressiva dello spirito indipendente di Maison Martin Margiela, utilizzato in una vastissima gamma. Tutto è bianco: le pareti, le sedie, i mobili e le etichette dei capi, i bicchieri, su cui al massimo compare un numero, mai un nome stampato. Anche le collezioni non hanno nome, ma sono piuttosto contraddistinte da un numero. La linea 1 (la prima, collezione donna) ha l’etichetta tutta bianca. La firma in Martin Margiela corrisponde ad un etichetta bianca: un etichetta bianca cucita con quattro punti dati a mano nelle collezioni di semi-couture come la linea Artisanal e Replica e cucita a macchina nelle altre. “Leave it where it is and it makes a mess of your jacket. Remove it and no one will even know your clothes are designer.” (the Independent Saturday Magazine, 15 march 1999) Una firma anonima, nascosta come il suo designer. Un’etichetta che può essere staccata, perché l’abito, una volta comprato è di chi lo indossa, non di chi lo ha fatto. L’imposizione della firma, anche se in questo caso si tratta di un etichetta bianca con quattro punti dati a mano o a macchina, è ciò che crea la differenza tra oggetto griffato e oggetto non griffato, realizzando quel cambiamento di valore sociale dell’oggetto.
ELASTIC JACKET – A plaiting of elastic bands creates a jacket. Maison Martin Margiela Artisanal.
Martin Margiela (Bianco)
Margiela però, scegliendo una modalità “anticonvenzionale”, infrange le convenzioni di quegli anni: scegliendo il bianco per la sua firma, utilizza una strategia di sovversione, rispetto a coloro che propongono il logo come stile di vita: il bianco “nasconde mille sfumature” e percorre il perimetro culturale di tutta la Maison, per motivi non solo simbolici ma anche economici. Per la primavera- estate donna 2007 la collezione, minimal e strutturata, è esaltata da un surrealismo optical e da un attuale sperimentalismo, in una scenografia tutta bianca, ovvio, senza colore per raccontare meglio gli abiti. Tema conduttore la tessitura grafica stilizzata, colori e tagli a nudo e uso della stampa. Cerchi concentrici a righe bianche e blu o rosse, come l’immagine di un bersaglio da tiro, posto sia nella parte anteriore dei vestiti che sulla spalla. I capi sono allungati fino a formare una nuova silhouette, più sottile, accompagnata da asimmetrie esagerate. I colori sono intensi, blu, neri, rossi e bianchi, sovrapposti a body color carne per esaltare il forte elemento grafico. Martin Margiela, sceglie quello che poi verrà chiamato “il culto dell’invisibilità” come filosofia di vita, per lui, e per tutto il suo staff. Non basta che il prodotto sia creativo, lo deve essere anche il suo creatore; le stesse caratteristiche peculiari del prodotto, per portare avanti una identità stilistica continuativa del marchio, devono essere presenti anche nel fashion designer: è giusto affermare infatti che quello che si sta proponendo non contiene solo un valore materiale, ma anche e soprattutto un valore simbolico, che spesso permette l’identificazione tra il produttore e il prodotto. La standardizzazione, oltre all’anonimato, è un’altra caratteristica che rafforza l’identità stilistica di Maison Margiela. Lo stock-man di Margiela è un manichino standard stereotipato, con le gambe, ma senza piedi.
Rispecchia l’esatto contrario dello star system. Il desiderio di non parlare, e di non farsi intervistare, è il motivo per cui spesso compaiono delle strisce orizzontali nei corpi delle modelle, nelle loro bocche e negli occhi: gli occhiali Maison Martin Margiela “Incognito” sono ugualmente composti seguendo la stessa linea concettuale. Anche le modelle camminano nelle passerelle con il viso coperto. Così anche l’invisibilità di Martin Margiela (famosa è l’immagine dell’abito che parla ai microfoni o della sedia vuota in mezzo ad una stanza che Margiela sceglie come proprio autoritratto), potrebbe avere come scopo principale quello di rinforzare ed estendere l’identità proposta al consumatore dagli stessi abiti che, dal canto loro, rispecchiano la stessa filosofia di vita. Così come l’orecchio tagliato di Van Gogh fa parte dell’opera allo stesso titolo della tela, l’invisibilità di Margiela contiene un alto contenuto simbolico, in quanto, essendo all’interno di un “campo moda altamente istituzionalizzato” Margiela si colloca non come l’artista-genio / solitario-couturier, ma come un fashion designer che si muove all’interno di una rete di collaboratori, di uno staff; è un fashion designer ma anche un tecnico che possiede le capacità materiali per realizzare una collezione, e le capacità organizzative per pianificare, integrare e controllare i suoi collaboratori. Margiela sceglie per le sue sfilate delle location non comuni, degli spazi simbolici: nel 1988 sceglie il Cafe de Guerre a Parigi, vicino ad un vecchio teatro, dove modelle e modelli si muovono su panche in legno; nel 1989 sceglie un’area deserta del ventesimo arrondissement; poi è la volta del corridoio di un grande magazzino nella primavera 1990 e di un grande parcheggio vuoto nel nord di Parigi nell’ottobre del 1990; della stazione della metropolitana di Saint Martin (in disuso dal 1939) nell’ottobre del 1991; di un deposito dell’Esercito della Salvezza nel marzo del 1992.
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SECOND HAND Nell’aprile del 1991, in una intervista sulla rivista Elle, parlando del processo creativo che lo vede spesso lavorare con oggetti di seconda mano scomposti e ricuciti insieme sotto forme diverse, sostiene: “Io riporto [gli abiti] alla vita sotto una forma diversa”. Sin dalle collezioni dei primi anni Novanta, gli abiti di Margiela sono costruiti con fodere e rivestimenti: spesso recupera abiti d’epoca per dare una “nuova-vecchia vita a questi abiti”. I suoi abiti sono formati con “tessuti mis-trovati”, le maglie fatte con rivestimenti di seta trasparente, così che sia ben visibile la struttura e le cerniere interne. La moda di Martin Margiela è stata definita anche come “up-cycled fashion”: indumenti composti da materiali insoliti come la porcellana, carte da gioco e il nastro adesivo, acquistano una seconda vita, in un concentrato di bricolage post-moderno. L’up-cycling è un processo che riconverte i materiali di scarto senza più nessun utilizzo e dà loro nuova vita, sotto forma di materiali nuovi e di miglior qualità. Nell’ambito della moda i capi di scarto vengono convertiti in pezzi unici da haute couture. Con l’up-cycling un determinato capo di vestiario viene rinnovato e viene reso migliore e più desiderabile di quanto non fosse all’inizio: è una procedura simile al riciclaggio quindi, in cui un materiale di basso valore economico – in quanto materiale
di scarto o logoro– viene riconvertito in nuovi prodotti di maggior valore. ARTISANAL Artisanal, una delle collezioni di Maison Margiela, ha come concetto fondante la visione del tempo: in ogni abito è indicato il numero di ore richiesto per la sua creazione e gli abiti hanno colori sciupati e pallidi, colori che mostrano i segni del tempo trascorso. Vecchie forchette d’argento incurvate vengono trasformate in bracciali, vecchi guanti allineati o combinati insieme diventano borsellini o top. Un corsetto fatto di stringhe o cinture di pelle si accompagna ad una giacca fatta con vecchi sandali da uomo, tutto cucito come un patchwork. Artisanal inizia come linea Semi-Couture, con edizioni limitate, che poi si rivolgono direttamente ai soli collezionisti: lavorazioni a mano, con un valore che non è solamente materiale ma “inedito e inaudito” (Margiela 2009) e simbolico e culturale, che si discosta di molto dalla tradizione che vuole un orlo perfetto e una cucitura invisibile. Interni ribaltati, sfilacciature e assemblaggi portati all’estremo e all’esterno: quell’aspetto “non finito” che trasforma la pelle della modella stessa in una tela grezza da indagare, una tela su cui costruire, su cui decostruire e riassemblare. In questa linea gli abiti e gli oggetti di uso quotidiano portano con sé una storia: e che attraverso la loro decontestualizzazione attribuiscono una nuova – vecchia storia a dei nuovi-vecchi abiti e oggetti. Il processo di up-cycling, utilizzato in Artisanal insieme alla decostruzione, pone l’attenzione sui processi di post-produzione; nella collezione del 1999, Margiela propone una rivisitazione di tutte le collezioni precedenti, non in forma citazionistica, ma piuttosto come gioco con il tempo e le collezioni passate: “ (…) abbiamo preso gli abiti di una stagione, i materiali e le stoffe di un’altra, i colori di un’altra e le tecniche
Maison Martin Margiela Artisanal.
Da quell’anno iniziarono i cosiddetti “spettacoli simultanei”: uno in un ospedale in disuso a Montmartre e l’altro in una vecchia casa a Pigalle nell’ottobre del 1992; un supermercato vuoto nel 1993. Nel 1994, venne scelto il primo laboratorio di motori elettrici della metropolitana di Parigi, che diventò poi l’attuale showroom della Maison. Continuando fu la volta dell’auditorium del teatro de la Potiniére nel 1994, all’interno di una tenda da circo sulla Rive Gaughe nel 199 , infine nel 1996 all’interno di una vecchia sala da ballo nel diciassettesimo arrondissement.
di un’altra ancora” (Margiela 1999). Non è insolito per la Maison Martin Margiela prendere spunto e creare a partire dal già fatto. Nella primavera del 1999 il “già fatto” diventa il “già fatto firmato Margiela”: si tratta infatti di una retrospettiva di tutte le dieci collezioni (dal 1989 al 1999) ma colorate di grigio. La data della collezione originale è stampata intorno al collo della modella o sul suo braccio. Si è visto, quindi, come a partire dalla decostruzione, passando per il processo di upcycling, fino alla citazione diretta di se stessi, la “bellezza” non corrisponda più alla ricerca del nuovo, o al costante cambiamento: la bellezza, nel marchio Margiela è sempre di più la ri-contestualizzazione di elementi “classici della/per la Maison” nel nostro tempo. La bellezza di Margiela non è aprioristica o ideale: non è il frutto del lavoro individuale, ma emerge dal lavoro collettivo di un team che ri-forma pezzi classici, che decostruisce nuovi indumenti, che li ristruttura da un punto di vista rivoluzionario. La bellezza di Margiela è nuda (Beecroft in Margiela 2009). Non ci fa false promesse di eternità: anzi, mostra quanto quest’ultima sia effimera. La bellezza di Margiela permette di innamorarci dell’imperfezione e della fragilità: quando la bellezza è verità e non è perfetta o ideale… essa può essere qualsiasi cosa, e può durare in eterno (Beecroft in Margiela 2009).
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Nato nel 1943 a Tokyo, laurea in legge, frequenta l’accademia di design della moda all’Istituto Bunka Gakuen. Ha sicuramente impresso nel suo immaginario gli orrori conclusivi della seconda guerra mondiale: gli strappi, gli accostamenti di tessuti grezzi e pesanti con la leggerezza di altri, l’uso di accessori unisex caratterizzano i vestiti delle sue prime collezioni nel ’77, ricordando uno stile post-bellico, o meglio postatomico. Nel 1981 Yamamoto debutta a Parigi, gettando un ponte tra Oriente ed Occidente con uno stile alla ricerca dell’essenziale scaturito dalla raffinatezza della cultura giapponese e dalla razionalità classica. Le sue principali linee di abbigliamento di quegli anni, Yohji Yamamoto (unisex) e Y’s, ottengono un grande successo e il sartoartigiano, come lui stesso ama definirsi, apre boutique in tutta Europa e anche a New York. Dagli anni ‘90 ad oggi la sua attività si sviluppa in Occidente attraverso la collaborazione con brand come Hermès, Adidas, Mikimoto e Mandarina Duck. Nel ’97 rende omaggio a Chanel e Dior, inserendo nella sua collezione elementi distintivi degli stilisti francesi. Nel frattempo realizza i costumi visionari
per tre film del regista Takeshi Kitano: Brothers, Dolls e Zatoichi. Disegna gli abiti di scena per Elton John, Placebo e la coreografa ballerina Pina Bausch. Realizza i costumi per le opere classiche di Puccini e per quelle moderne di Sakamoto. Nel 2011 gli viene dedicato un cortometraggio This is my dream, in cui attraverso tutte le fasi della creazione della linea Y-3, in collaborazione con Adidas, svela la filosofia con cui ha sempre lavorato e alcuni dettagli della sua vita privata, come la passione per la musica. Nel 1989 il regista Wim Wenders gli dedica un lungometraggio Appunti di moda e di viaggio, nel quale Parigi e Tokio divengono terreno d’ispirazione per entrambi gli artisti. Un film che consacra la filosofia di Yamamoto che nega il senso di effimero della moda perché crede essa sia poesia della persona e del tempo. Il mondo della moda parigina ha attraversato un momento di crisi d’identità verso il 1980, con l’affacciarsi di stilisti di cultura giapponese come Miyake, Kawakubo e Yohij Yamamoto, che hanno messo in discussione i criteri consolidati della struttura dell’abito proponendo una concezione diversa dell’ abito rispetto al corpo. I principi su cui si reggeva la moda dell’occidente
esigeva tecniche di taglio complesse, imbottitura e precisione nella tecnica sartoriale per esaltare i contorni della figura. Diversamente gli artisti giapponesi si ispiravano al carattere del costume nipponico tradizionale, per drappeggiare ed avvolgere la figura con stoffe che arrivavano quasi a nascondere la linea del corpo. Orli sfilacciati, tessuti incompatibili hanno dato nuovo assetto alle parti che costituiscono la forma tradizionale di un abito, facendo dell’astrazione e della simmetria i criteri prevalenti. Il disordine, l’anarchia e lo sconvolgimento che si percepiva nell’opera dei tre stilisti colpì in modo particolare il mondo della moda, che si era trovato fino ad allora a proprio agio seguendo il formulario della moda sartoriale dell’haute couture fissato a inizio ‘900. Materiali/Colori/Forme Yamamoto, traendo ispirazione dagli aspetti particolari della sua cultura e sfruttando le nuove metodologie, inizia il suo processo creativo dal tessuto e dalla stoffa, in considerazione di quello che lui considera il principale dei cinque sensi, il tatto. Nelle sue creazioni utilizza spesso la mussola, solitamente usata dagli stilisti per le “prime stesure” dei loro modelli.
Yohji Yamamoto Jumpsuit-Dress.
Yohji Yamamoto (Nero)
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In diverse occasioni, compresa la sua autobiografia, Yamamoto sostiene la bellezza di tutto ciò che è sporco, rotto, appassito. Il termine giappone “hifu” è ciò che più si avvicina a questo concetto, rispecchiando proprio l’esiguità dello spirito o una sorta di tristezza nelle persone che indossano quegli abiti. In altre parole, lo scompiglio del tessuto rispecchia la fragilità emotiva di chi lo indossa. Una caratteristica che accomuna numerose collezioni dello stilista è la necessità di un approccio più umano nella creazione e nell’utilizzo dei tessuti e una predilezione per l’uso del cotone, del lino e del rayon, scelti dal designer per la loro realizzabilità nelle pieghe, nelle superfici di ordito e trama. E’ difficile associare a un primo sguardo i suoi abiti a una immagine concreta o ad una forma predefinita. Piuttosto essi sono peculiarmente astratti, quasi una sfida a ognuna di queste identificazioni. Yamamoto ha sempre mantenuto una posizione d’avanguardia, e pur conoscendo perfettamente lo stile del tempo e gli abiti a “la moda”, ha rotto con questo stile fin all’ estremo limite. Per esempio, nel caso degli abiti maschili, il suo tratto esclusivo è stato senza dubbio l’ampiezza e la sconnessione.
Dietro all’incongruità di taglia, dietro all’asimmetria Yamamoto vede la prova che siamo esseri umani. Yamamoto tramite il suo processo di creazione rivoluziona il rapporto tra l’indumento e persona. La specificità dell’uomo e della donna, del loro essere umani, il loro stile di vita, più che i loro corpi, vengono proiettati sull’abito. Spesso, nelle collezioni di Yamamoto, si legge una nuova idea del corpo e della femminilità che sostiene questi abiti: il corpo cui fa riferimento dal primo momento, non è il corpo della donna, e nemmeno quello dell’uomo. Non è un corpo reso oggetto attraverso segni e codici di riconoscimento del genere, ma è un corpo che agisce sull’abito e lo trasforma. La moda di Yamamoto valorizza l’interiorità di chi li indossa. Le riviste hanno definito il suo stile come uno “stile poverissimo e misterioso che si nutre di materiali poveri ed elaboratissimi, che si alimenta di un corpo da velare e non da svelare, che valorizza più l’intelligenza che la bellezza”. Baudot, noto giornalista, individua infatti nell’arte povera la maggior influenza sull’approccio stilistico di Yamamoto; egli, dice il giornalista, ha cercato di rompere la concezione fossilizzata di ciò che erano gli abiti.
Yohji Yamamoto.
La creazione primavera estate del 2000 intitolata “mussola” rappresenta bene il concetto di abito non finito, e l’idea di processo. Yamamoto voleva mostrare il processo di confezione dell’abito, il suo “momento più felice”. Il designer a volte trova la mussola finale più bella del vestito finito, perché in quel momento le emozioni sono più percepibili. Tutti i capi sono fatti in tessuto bianco o nero e mostrano le cuciture in costruzione. Le tecniche e i materiali adottati all’interno dell’indumento che gli conferiscono forma e tenuta sono così legittimati come elementi ornamentali. Baveri, bottoni e colletti hanno cominciato a essere montati in modo diverso rispetto alla posizione e alla funzione tradizionale .Spiegazzature e increspature sono servite per creare motivi ornamentali, in analogia con il ruolo delle linee in un disegno. Orli sfilacciati, tessuti incompatibili, hanno dato un nuovo assetto alle parti che costituiscono la forma tradizionale di un abito, facendo dell’astrazione e dell’asimmetria i criteri prevalenti. Le forme di Yamamoto sono principalmente asimmetriche (la simmetria, dice “non è umana”), le tradizionali scarpe a punta con i tacchi a spillo sono bandite dai suoi completi femminili, e sostituite da calzature rasoterra essenziali e silenziose.
Nel processo creativo di Yamamoto e in tutto il suo atteggiamento, un ruolo centrale è giocato del colore nero, inteso come il buio definitivo e la silhouette universale. Nella cultura giapponese è un colore tradizionalmente associato ai contadini e allo spirito nobile dei samurai. Le collezioni di Yamamoto sono dei veri inni all’oscurità, con la completa eliminazione dei gioielli, della decorazione e del dettaglio. Il nero prevale e viene esaltato dall’accostamento con il bianco e i colori chiari e brillanti, spesso in monocromia. Il nero è come l’insieme di tutti i colori: “è come se li mischiassi tutti, come se buttassi tutti i colori nel water; questo mi provoca una sensazione isterica”. Il nero è il colore delle ombre, il colore di sua madre vedova. Tutti capi sono di colore nero ma confezionati con tessuti e in forme diverse. Ogni altro colore lo disturba, gli provoca “emozione”.
Con il trascorrere degli anni, comunque, le sue collezioni si sono arricchite di altre tinte; il bianco, a volte il blu, e il rosso vivo. Quest’ultimo usato come una traccia di rossetto, come una pura luce in mezzo all’oscurità. Ogni colore nei lavori di Yamamoto deve essere forte come il nero, altrimenti non è contrasto. Assistere ad una sfilata di Yamamoto è come sentirsi proiettati in un mondo che sembra coniugare il futuro con la tradizione, è un tutt’uno. I suoi abiti sembrano uscire da certe antiche stampe giapponesi. In Giappone, ogni difetto e imperfezione in un tessuto è considerato prezioso.
Yohji Yamamoto.
Lo stesso Yamamoto si esprime chiaramente sulla necessità di trascendere il corpo, non solo quello connotato sessualmente, ma il corpo in assoluto: “Per me il corpo è nulla. Muta senza tregua. Invecchia in ogni istante, non ci si può affidare ad esso perché non si può controllare il tempo. Io non credo al corpo umano. Non lo trovo bello”.
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Issey Miyake (Colori)
Miyake è il primo stilista asiatico a guadagnare fama mondiale. E’ noto per come miscela i tessuti fluenti e i disegni tessili d’Oriente con la tecnologia di produzione e i moderni metodi d’Occidente, ha sperimentato sia fibre naturali che sintetiche, e applicato le tecnologie più avanzate della scienza tessile. Ha vinto quasi tutte le fashion award, è famoso per non gradire il titolo di “stilista” e preferisce essere considerato un artista il cui mezzo è il tessuto. Due delle linee più popolari di Miyake sono “Pleats Please”, che utilizza tessuti pieghettati in modo permanente e flessibile, e A-POC (A Piece of Cloth), un unico pezzo ready-towear di abbigliamento. Miyake è nato nel 1938, a Hiroshima, in Giappone, e aveva sette anni quando la bomba atomica venne sganciata durante la Seconda Guerra Mondiale. Sua madre, un insegnante, venne gravemente ustionata dai bombardamenti e morì quattro anni dopo a causa di alcune complicazioni. Ironicamente, fu l’occupazione americana in Giappone, che diede a Miyake l’occasione per conoscere la cultura occidentale. Miyake si interessa all’arte fin da bambino, ammirando le foto di moda nelle riviste glamour di sua sorella.
Incuriosito dal modo in cui i vestiti coprono il corpo umano, decise di diventare uno stilista di moda, anche se a quel tempo quella era considerato una professione strettamente femminile. Nel 1959 Miyake fu ammesso alla prestigiosa Tama Art University di Tokyo, e si laureò in arti grafiche. Durante gli studi mostrò i suoi disegni per la prima volta ad un evento teatrale chiamato “A Poem in Cloth and Stone” e la sua rappresentazione rifletté la sua visione della moda rispetto all’arte. Dopo la laurea si trasferì a Parigi per imparare l’arte dell’haute couture. Studiò al Syndicat de la Couture, per poi lavorare come assistente designer per Guy Laroche dal 1966 al 1968. Quando Hubert de Givenchy gli offrì una posto nella sua casa di design, Miyake accettò e rimase per un anno, durante il quale abbozzò centinaia di disegni che vennero inviati a clienti in tutto il mondo, tra cui la duchessa di Windsor e Audrey Hepburn.
Pleats Please Issey Miyake.
“Un designer che ha dato un grande contributo allo sviluppo innovativo dell’abbigliamento, fondendo la cultura orientale a quella occidentale e applicando tecnologie all’avanguardia”. Con questa motivazione lo stilista e artista giapponese Issey Miyake vince nel 2006 il premio Kyōto per le arti e la filosofia, un riconoscimento che potrebbe essere paragonato, nel mondo occidentale, al premio Nobel. La sua visione artistica e la predisposizione all’uso delle nuove tecnologie, gli hanno permesso di realizzare, nelle sue collezioni, un connubio di origami e hi-tech, di minimalismo e lavorazioni complesse. Uno degli stilisti più innovativi, Miyake sperimenta nuovi tessuti e tecnologie di produzione tessile per creare una miscela artistica di influenze orientali e occidentali. Il brand Issey Miyake è fondato sulla filosofia del capo d’abbigliamento realizzato da un singolo pezzo di stoffa: con questa idea lo stilista intende esplorare “non solo la relazione tra il corpo e l’abito, ma anche lo spazio tra i due elementi”, quindi le caratteristiche fisiche di matericità e leggerezza del vestito. Per questa ragione tutte le collezioni Issey Miyake derivano da un’accurata ricerca di lavorazioni e di materiali più all’avanguardia.
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Issey Miyake, A-POC.
Stanco dello stile haute couture , Miyake decise così di fare vestiti per le persone comuni. “Sono diventato uno stilista fare i vestiti per la gente, non per essere un sarto nella tradizione francese”. Pronto ad espandersi in proprio, si trasferì a New York dove lavorò come assistente designer per Geoffrey Beene, che si dimostrò essere il suo mentore creativo. Lavorare con i designer europei e americani diede a Miyake una visione della moda diversa da quella della sua cultura giapponese, che non teneva conto di alcuna distinzione tra tessuto e forma del corpo. In contrasto con i larghi kimono giapponesi, la cultura occidentale colloca la forma del corpo umano al centro di mutevoli mode. Miyake assorbì la nuova cultura ma rimase fedele al suo stile tradizionale che comprendeva un’unione di concetti artistici tradizionali sommati alla libertà moderna, energia e tecnologia. Miyake Design Studio Nel 1970 Miyake lasciò New York per tornare a Tokyo dove fondò la Miyake Design Studio. Il nuovo studio divenne il suo santuario, dove iniziò ad esplorare nuove direzioni nel mondo della moda. Innovatore nel campo della scienza tessile, ha sviluppato tecniche innovative sperimentando
diverse composizioni per prodotti tessili basati su disegni tradizionali giapponesi. La sua carriera internazionale decollò quando, nel 1971, sfilò la sua prima collezione a Tokyo e poi subito dopo nella nuova “Galleria Giappone House” di New York. Ma la vera affermazione avvenne nel 1973 quando presentò la collezione a Parigi. Fu un successo immediato. Dal quel momento in poi, durante tutto l’arco della sua carriera, è stato costantemente elencato dalla camera di commercio francese come uno dei migliori 10 designer. Nel corso degli anni 1970, Miyake continuò a sperimentare con costante varietà e innovazione il design orientale, incorporando alcuni temi giapponesi come armonia, semplicità e umiltà, cercando di dar vita ad uno stile originale ed innovativo. Sono famose alcune sue creazioni basate su concetti tradizionali giapponesi, come il kimono e il cappotto sashiko. Nel 1979 aprì una società di design in Francia, seguita da una negli Stati Uniti nel 1982. Miyake ha continuato a lavorare nel corso degli anni ‘80 nel suo studio a Tokyo, creando abiti comodi e pratici a prezzi accessibili.
sperimentato fibre naturali e sintetiche, come la carta-olio giapponese, e il monofilamento di nylon e silicone stampato. Fu il primo ad utilizzare ultrasuede e ad esplorare nuove tecniche di tessitura e tintura. Miyake ha anche approfondito altri ambiti di espressione artistica, come dimostra la sua mostra “Carrozzerie” organizzata nei musei di Tokyo, San Francisco e Londra. Ha anche lavorato su concetti di design con il coreografo William Forsythe del Balletto di Francoforte nel 1988 e ha creato giacche a pieghe per la squadra lituana alle Olimpiadi di Barcellona 1992. Nel 1992 Miyake è entrata nel mercato dei profumi con il lancio di L’Eau d’Issey. I critici hanno elogiato questa linea per le sua fragranza pulita, fresca e minimale. La forma conica della bottiglia di profumo era ispirata sulla Torre Eiffel, che Miyake aveva ammirato a Parigi. Miyake ha anche rilasciato una linea di prodotti per la cura del corpo, lozioni e creme. PLEATS PLEASE Nel 1993, dopo cinque lunghi anni di ricerca, Miyake riuscì a realizzare il suo desiderio lanciando finalmente il suo personale concetto di design: le pieghe. I suoi abiti piegati in maniera permanente dovevano essere funzionali, universali per l’acquirente moderno e accessibili ad un
ampio mercato. Le pieghe sono state effettuate utilizzando l’innovativo tessuto tecnologico brevettato da Miyake. Singoli pezzi di tessuto 100 per cento poliestere sono stati tagliati di una dimensione maggiore del prodotto finito e premuti tra due fogli di carta, un processo che crea una piega permanente verticale, orizzontale, o zigzag. Il tessuto “memoria” conserva le pieghe e quando i capi vengono liberati dal loro bozzolo di carta, sono pronti a essere indossati. Disponibili in una vasta gamma di colori i vestiti sono leggeri, flessibili, facile da lavare e da conservare. In questo periodo, Miyake iniziò a coinvolgere alcuni colleghi perché si assumessero alcune delle sue responsabilità in modo da avere più tempo per concentrarsi sulla ricerca.A Naoki Takizawa venne assegnata la progettazione della linea Miyake e delle collezioni uomo e donna. Nel 1995 subentrò il designer Dai Fujiwara, che collaborò anche con Miyake per i processi produttivi. . La collezione primaveraestate 2012 è stata affidata a Yoshiyuki Miyamae. Miyake rimane direttore artistico e supervisore di tutti i prodotti che portavano il suo nome.
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A-POC Approfondendo la sua ricerca per la realizzazione di abbigliamento poco costoso adatto alla gente comune, Miyake nel 1999 sviluppò un processo rivoluzionario per la produzione di maglie ed abiti originati da un unico pezzo di stoffa che non richiedevano nessun tipo di cucitura. Nel febbraio 2000 viene lanciato il brand A-Poc, acronimo per A Piece of Cloth, che si riferisce a una tecnologia computerizzata che realizza gli abiti da un singolo rullo di tessuto. Dal 2003 in poi il metodo A-Poc verrà applicato ad alcune collezioni sia del brand Issey Miyake che a Pleats Please. A-POC venne ideato in collaborazione con l’ingegnere tessile Fujiwara, che combinò moderne tecnologie unite alla tradizionale conoscenza sartoriale. Il capo quindi deve solo essere tagliato lungo la sagoma sul tessuto. Gli abiti ottenuti non si smaglieranno e non si scuciranno. Gli acquirenti possono inoltre personalizzare il loro capo, tagliando le maniche, gonne e scollature della lunghezza che più preferiscono. Il progetto di Miyake per la prima volta permette ai clienti di partecipare alla progettazione e produzione dei propri vestiti. Nel 2010 viene presentato il progetto 132 5. Issey Miyake, ideato dal gruppo di ricerca Reality Lab fondato nel 2007 nel Miyake Design Studio. Il progetto mira a realizzare abiti tridimensionali: i numeri nel nome si riferiscono al fatto che da un singolo pezzo di stoffa si arriva a un abito a tre dimensioni, che tuttavia può essere ripiegato e riportato alla bidimensionalità. Anche il brand Bao Bao Issey Miyake, lanciato nel settembre 2010, gioca molto sul concetto delle dimensioni plurime, che si comprende ancor meglio negli accessori, immaginati come origami che si aprono e si chiudono.
Issey Miyake Seaweed Dress, New York.
Nel corso della sua prolifica carriera, Miyake ha ricevuto molti premi nel mondo del design e della moda. Nel 2001, la Città di Toronto lo ha celebrato come leader mondiale in un festival di geni creativi, e il Victoria and Albert Museum di Londra ha organizzato la mostra dal titolo “Che cos’è la moda Radicale”, dove erano esposti i lavori dei progettisti più rivoluzionarie ed influenti al mondo, incluso Miyake. “Sarei molto felice se venisse mai detto di me che ho contribuito a fondare le basi dello stile del 21 ° secolo. Tutto quello che posso fare è continuare a sperimentare, e sviluppare ulteriormente i miei pensieri. Alcuni pensano che la definizione del design siano la bellezza o l’utilità, ma nel mio lavoro, voglio integrare anche i sentimenti, le emozioni. Devi metterci la vita in questo lavoro” (Julie Dam, Time Asia).
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ABOUT DOUBLE TROUBLE: Il brand Double Trouble nasce nel Gennaio 2013 dalla voglia di creare un prodotto di qualità e con una marcata personalità. Margherita Libouri giovane designer di Bologna, porta avanti un progetto totalmente handmade, per offrire borse e accessori capaci di distinguersi nello stile e nella qualità del pellame. L’ obiettivo è quello di produrre borse fatte a mano di alta qualità in modo socialmente responsabile ed etico; fornire un eccellente servizio al cliente con ogni transazione. La moda sostenibile produce capi che possono essere riassorbiti dall’ambiente una volta concluso il loro ciclo di vita. Double Trouble per evitare inutili sprechi e presta una particolare attenzione al riutilizzo dei materiali. La linea è infatti interamente realizzata con materiali di scarto provenienti da concerie, ex magazzini o anche solo da vecchie giacche dimenticati nell’armadio, che tagliuzzati e ricuciti danno vita a un nuovo prodotto unico nel suo genere.
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Vestito nero in pelle con frange e cerniera posteriore.
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Top in pelle con frange e allacciatura in vita / Gilet in seta con spacco posteriore / Pantalone in seta bordato in pelle e chiusura a zip.
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Abito ampio in seta con manica a kimono e scollo bordato in pelle / Borsa con frange orizzontali e manico cintura vintage.
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Abito ampio in seta con manica a kimono e scollo bordato in pelle / Borsa con frange, manico intrecciato e chiusura a contatto.
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Top in pelle con frange e allacciatura in vita con cintura / Gilet in seta con spacco posteriore / Pantalone in seta bordato in pelle e chiusura a zip.
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Camicia oversize e pantalone con la piega in seta con tasche. Collana/Cintura con frange e chiusura a contatto.
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Corpetto in pelle con frange e cintura / gonna con frange double face.
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Abito lungo in seta con spacchi laterali. Gonna / Cintura in vita con frange. Make-Up Caterina Libouri. Hair Marguetite N. Photo Margherita Libouri Model-Elena M. /Ranya S.
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Bibliografia A. Golbin, Fashion Designers, London, Watson-Guptill, 2001. P. Volontè, La creatività diffusa. Culture e mestieri della moda oggi, Milano, Franco Angeli, 2003. E. Morini, Storia della moda. XVIII-XX secolo, Skira, Milano, 2006 (1a ed.). A.D. Durland, S. Takeda, Contro-Moda. La moda contemporanea del Los Angeles County Museum of Art, Milano, Skira, 2007. S. Seivewright, Come nasce la moda. Dalla ricerca allo stile, Bologna, Zanichelli, 2010. N. Giusti, Appunti su moda e creatività. Il caso Martin Margiela, Urbino, Bononia, 2012.
Ringraziamenti Alla Prof. Paola Maddaluno per i suggerimenti e la fiducia. Alla Prof. Rossella Piergallini per gli utili consigli. A Giacomo Viapiana per il supporto grafico.
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