Editoria di progetto

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Maria Nora Arnone

Editoria di progetto


Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica Diploma Accademico di Secondo Livello in Graphic design indirizzo Editoria Anno Accademico 2016/2017 Candidata Maria Nora Arnone Relatore Gianni Latino Progetto grafico Maria Nora Arnone Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Pubblicazione composta in Akzidenz Grotesk prodotto dalla fonderia Berthold nel 1869 e Sabon, disegnato da Jan Tschichold nel 1965. © Copyright 2018 Accademia di Belle Arti di Catania Maria Nora Arnone Tutti i diritti riservati www.accademiadicatania.com


Maria Nora Arnone

Editoria di progetto



Indice Premessa 11 Cos'è un libro 13 Parte I — Il linguaggio 17 Codificare 18 La scrittura nel mondo 22 Parte II — La lettera 31 Maiuscole e minuscole 32 Il carattere tipografico 34 Anatomia 40 Proporzioni 46 Leggibilità 50 Classificazione 52 Contrografismi e correzioni ottiche 60 Unità di misura 78 Punteggiatura, accenti e legature 84 Breve storia del carattere tipografico 88 Parte III — Il testo 99 Cos’è il testo 100 Dattiloscritto e testo composto 103 Crenatura e spaziatura 106 Interlinea 112 Allineamento 116 Gerarchie 120


Suddivisione 122 Testo e paratesto 125 Parte IV — L’immagine 135 Leggere l’immagine 136 Impaginazione 144 Proporzioni e dimensioni 146 Parte V — La carta 149 Materiali e fabbricazione 150 Finiture e grammature 154 Formati Uni 156 Segnature 158 Parte VI — La pagina L’unità del libro Formato e sezione aurea Ritmo e gerarchia: gabbia e griglia Giustezza e leggibilità

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Parte VII — Il volume Elementi del volume

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Parte VIII — La stampa Impressione a stampa

187 188


Parte IX — Legatura e copertina 197 La legatura 198 Il filo refe 200 Copertina e sovracoperta 202 Layout e gerarchia 204 Finiture 208 Parte X — L’e-book 211 Cos’è un e-book 212 Differenze e analogie 215 Linguaggi 218 Formati 224 Device 228 Tipologie di ePub 230 Parte XI — Breve storia dell’editoria Il libro nei secoli La marca editoriale

233 234 246

Parte XII — Protagonisti e antagonisti I mestieri dell’editoria

261 262

Parte XIII — Bibliodiversità ed editoria indipendente 269 Bibliodiversità 270 Modelli di case editrici 273 Editoria indipendente di progetto 276



Parte XIV — Il mercato editoriale Globalizzazione e concentrazione Promozione e distribuzione

285 286 290

Parte XV — I lettori Il lettore e il libro

295 296

Parte XVI — Case study 301 Mondadori 302 Einaudi 306 Adelphi 310 Sellerio 314 Edizioni e/o 318 Quodlibet 322 Minimum fax 326 Voland 330 Nottetempo 334 Hacca 338 LetteraVentidue 342 Malcor d’Edizione 346 Bonus — Libri multimodali Libri multimodali

351 352

Conclusioni 358 Ringraziamenti 360 Note 362 Bibliografia 364



Premessa Scrivere di editoria non è semplice, gli elementi da tenere in considerazione sono molti, e gli approcci infiniti. Lo scopo di questa tesi è prima di tutto dimostrare il valore del libro come elemento di diffusione di cultura, nella sua duplice valenza di oggetto concreto e astratto, ma anche, e soprattutto, evidenziare la situazione in cui versa il panorama editoriale italiano contemporaneo, tenendo in considerazione i piccoli e medi editori: un folto sottobosco che cerca di farsi strada sul mercato cercando di non seguire la via maestra delle grandi tirature, ma puntando sulla qualità. Ciò che è mutato, nella società dei consumi, è l’accezione data al termine libro che perde il proprio valore culturale in favore di quello commerciale: nella grande editoria contemporanea il libro è prima di tutto una merce, un oggetto che risponde alle regole del mercato. Le domande che vengono a porsi sono dunque molteplici, e riguardano il futuro del libro inteso come oggetto culturale, come interfaccia tra il lettore e il sapere. Da qui il titolo, “Editoria di progetto”, termine ripreso da Gilles Colleau¹, che con esso intende un tipo di editoria che punta alla qualità dell’oggetto-libro, che si esplica tanto sul piano oggettuale che su quello culturale. Il valore dell’editoria di progetto consiste nel fatto che essa crede ancora nel valore intrinseco del libro e della cultura, non si lascia condizionare dalle logiche di mercato, permettendo di mantenere vivo il concetto di bibliodiversità. L’editore di progetto considera il profitto ricavato dalla vendita dei libri, tuttavia non fa di esso una priorità; egli sceglie cosa pubblicare: «l’editoria è l'essenza della generosit໲.

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Questa tesi non vuole essere esaustiva, né fornire indicazioni che abbiano la pretesa di essere assolute, essa vuole far comprendere l’importanza, nella società dei consumi, del libro come oggetto culturale, e per fare ciò vuole dimostrare come con editoria di “qualità” ci si riferisca sia alla valenza culturale del testo pubblicato che agli aspetti dell’interfaccia su cui questo testo viene fruito, il libro, sia esso cartaceo o digitale. L’editoria di qualità tiene conto di tutti gli aspetti del libro, cura i dettagli, crea valore.

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Cos'è un libro Il termine “libro” ha diverse radici etimologiche nelle varie lingue, le quali fanno tutte riferimento alla natura del supporto che lo ospita: ad esempio il greco biblion indica il papiro, mentre il latino liber indica la sottile membrana presente tra la corteccia e il tronco di un albero, e ancora il tedesco bokis sta per “faggio”. Gino Roncaglia³ tenta di raccogliere alcune delle possibili definizioni del concetto di libro: «Il libro è una raccolta rilegata di pagine a stampa caratterizzata da una certa lunghezza e dall’assenza di periodicità.» Tant’è che l’UNESCO definisce il libro come «una pubblicazione a stampa, non periodica, di almeno 49 pagine» ponendo dunque l’accento su due aspetti che oggi sono mutati radicalmente ovvero il supporto, la stampa, e la lunghezza delle pagine, variabile sui dispositivi elettronici per la lettura, in cui il formato della pagina non viene stabilito dall’editore ma è legato strettamente alle dimensioni del dispositivo che variano in base al modello e alla casa di produzione: ciò rende questa definizione restrittiva e non più utilizzabile. Se invece si volesse porre l’accento sulla natura testuale del libro, si potrebbe dire, sempre citando Roncaglia, che il libro è «un oggetto testuale astratto caratterizzato dall’uso di un codice linguistico, una certa lunghezza, una particolare organizzazione interna, da un’unità tematica o compositiva», di contro, però si potrebbe citare Philip Smith4, che nel suo The whatness of bookness afferma: «Nel suo significato più semplice, il termine si riferisce al confezionamento (packaging) di più supporti piani tenuti insieme in una sequenza fissa o variabile attraverso qualche meccanismo di

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incardinamento, o un sostegno, o un contenitore, associati a un contenuto visuale e verbale chiamato testo. Il termine non dovrebbe includere, in senso stretto, supporti del testo precedenti il codice, come i rotoli o le tavolette di argilla, e in effetti niente che sia contenuto su una singola superficie piana, come uno schermo televisivo, un poster o un volantino. [...] Un testo è un testo e non un libro, e potrebbe essere convogliato da qualunque altro oggetto si voglia immaginare. Un testo può essere inscritto su qualunque supporto, ma questo non lo rende un libro, né gli dà la qualità dell’esser-libro, e un rotolo conserva la sua qualità dell’esser-rotolo anche se non vi è scritto alcun testo. Un orsetto di peluche con un testo scritto sopra non è un libro! Il libro non è il testo, anche se è tradizionalmente associato con esso, e questi due elementi sono spesso confusi come se fossero la stessa cosa». Smith, dunque, afferma che l’esser-libro derivi non tanto dal testo quanto dal supporto, dalla configurazione dell’oggetto-libro, più essa è simile all’archetipo di libro presente nell’immaginario comune, più il suddetto libro possiede libritudine. In risposta, e a conferma delle affermazioni di Smith, Edward Hutchins5 afferma che:«Alcune delle caratteristiche che potrebbero costituire l’esser-libro sono le pagine, la copertina, la rilegatura, la sequenza, la narrazione, le illustrazioni, l’indice, la durabilità, la portabilità, la forma, lo scopo, il significato, l’uso, la ricezione, il numero ISBN, l’esser suscettibile di conservazione in uno scaffale, ecc. Più un libro ha queste caratteristiche, più ha libritudine». Emerge dunque chiaramente il fatto che il termine libro sia polisemico e che tra il libro-testo e il libro-oggetto

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Cos’è un libro

esistano molti significati intermedi: si può passare, parlando di un libro, dal considerarlo un oggetto intellettuale a un testo codificato, si può porre l’accento sulla possibilità di pubblicazione di un testo o se ne può parlare come oggetto commerciale, si può parlare di un libro in riferimento a una particolare edizione e infine se ne può parlare come di un oggetto fisico nello spazio, dunque il libro è nello stesso tempo medium culturale e oggetto fisico, testuale e commerciale. Inoltre il libro può essere considerato nella sua accezione di interfaccia di lettura, e dunque come supporto che risponde a determinate convenzioni che determinano la fruizione del testo e che a loro volta da essa vengono influenzate: non si può infatti affermare con certezza in quanta misura le interfacce testuali determinino il testo o ne siano determinate, tuttavia è importante comprendere la rosa di possibilità offerte dallo scambio tra supporto e testo: il supporto esclude e determina le modalità di organizzazione dei contenuti e viceversa. Il supporto dunque non è neutro, esso è in stretta relazione con il contenuto e con la sua organizzazione, e dunque, analizzare il libro come supporto può fornire uno spunto di riflessione al lettore attraverso una minuziosa scomposizione del libro a stampa nelle parti che lo compongono, partendo dal linguaggio sino ad arrivare al confezionamento.

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Parte I — Il linguaggio


Codificare Nel capitolo precedente si è parlato del libro come oggetto testuale codificato, intendendo come codifica il linguaggio. L’enciclopedia Treccani6 definisce così il termine linguaggio: «Forma di condotta comunicativa atta a trasmettere informazioni e a stabilire un rapporto di interazione che utilizza simboli aventi identico valore per gli individui appartenenti a uno stesso ambiente socioculturale», se ne deduce dunque che la capacità di comunicare con i propri simili non sia un’esclusiva del genere umano, ogni essere vivente necessita di un modo per comunicare, e lo fa attraverso i cinque sensi: ciò avvalora la tesi secondo cui inizialmente anche tra i primi uomini il linguaggio non consistesse soltanto in affermazioni verbali o visive, ma si accompagnasse anche a gesti, odori e sapori. Le pitture rupestri dimostrano come l’uomo, dopo aver avuto la percezione della vita e della morte abbia sentito il bisogno di creare segni che fossero capaci di durare nel tempo; tuttavia si suppone che queste iscrizioni fossero dettate dal bisogno di dar sfogo a un istinto naturale, registrare ciò che si è visto. Un’altra ipotesi molto accreditata sostiene che le pitture rupestri avessero valore apotropaico. Si suppone inoltre che i disegni dovessero essere accompagnati da suoni e gesti che ne chiarissero il significato, tuttavia è impossibile oggi ricostruire il significato originario. Probabilmente il linguaggio si è evoluto nella direzione della scrittura per poter superare il limite imposto dal tempo: uno scritto può sopravvivere al proprio autore e un autore può sopravvivere nella memoria grazie al proprio scritto; se ne deduce che la scrittura è un modo che l’uomo ha per affermare se stesso e per ingannare la morte.

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Il linguaggio

La scrittura nasce dall’uso combinato di parole e gesti descrittivi i quali, gradualmente, per convenzione, cominciarono ad essere associati alle stesse dichiarazioni. La scrittura è dunque un sistema che fissa la parola e il pensiero affinché possano essere riletti illimitatamente nel tempo. Nel V millennio a. C. in Medio Oriente, gli scribi ordinarono i segni in maniera lineare: da quel momento si cominciò a parlare di scrittura. Essa nasce dal pittogramma, tuttavia, in base al grado di astrazione a cui i vari pittogrammi giungono si possono distinguere due tipi di scrittura con sviluppo differente: da una parte ci sono le scritture figurative, in cui il processo di astrazione ha portato ad una semplificazione della forma che tuttavia richiama in maniera palese il rispettivo pittogramma, ne è un esempio la scrittura cinese, in cui i tratti del segno moderno richiamano chiaramente quelli della scrittura arcaica; dall’altra ci sono le scritture alfabetiche, ovvero tutte quelle scritture in cui il processo di astrazione e semplificazione ha portato i segni a non avere quasi più contatto con la rappresentazione figurativa, ne è un esempio l’alfabeto latino. Un’altra differenza fondamentale tra i due tipi di scrittura sta nel fatto che, mentre nelle scritture figurative i vari segni possono anche identificare un oggetto, un concetto o un’intera frase, nelle scritture alfabetiche ogni segno ha come referente un’unità fonetica, e solo l’articolarsi dei vari segni in combinazione permette di comporre parole. Si è ipotizzata un’origine comune per le due scritture, in quanto i segni elementari arcaici che designano oggetti comuni presentano delle analogie, come ad esempio il segno per indicare l’acqua, tuttavia è improbabile che esistesse una

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scrittura originaria, dunque le suddette analogie potrebbero attribuirsi all’ottimo spirito di osservazione dello scriba. Inizialmente i pittogrammi erano disegni abbastanza dettagliati e quanto più realistici possibile di un oggetto o di un particolare di esso, successivamente però i vari segni iniziarono ad essere usati tra loro per creare significati complessi. Questo processo di combinazione permise ai pittogrammi di recidere il legame con l’oggetto reale da cui erano stati generati, e di creare un significato nuovo. Un’altra importante convenzione introdotta fu quella dei determinativi: un pittogramma o un ideogramma associato ad un altro può determinare una qualità di quest’ultimo: prendendo come esempio il linguaggio sumero, il pittogramma di un aratro accanto a quello di un campo determina il fatto che il campo sia coltivato, mentre lo stesso pittogramma associato a una figura umana ne determina la professione, il contadino. Un altro passaggio fondamentale è quello dal pittogramma all’ideogramma, in quanto da il via al processo di astrazione e semplificazione: la scrittura si stacca così dal legame con la realtà tangibile per diventare convenzione, dunque da questo momento in poi non sarà possibile decifrare la scrittura senza l’ausilio di una chiave di lettura. L’ultimo passo fondamentale che permise la nascita della scrittura alfabetica fu l’associazione di un dato pittogramma a un dato suono, nacque così il fonogramma. Per comprendere meglio lo sviluppo della lettera, con particolare riferimento all’alfabeto latino, si procede con una breve storia delle principali scritture.

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Il linguaggio

Tre segni per indicare l’acqua in tre aree geografiche differenti. Da sinistra: Mesopotamia, Cina, Egitto.

Pittogrammi sumeri che mostrano come i segni venissero combinati per creare nuovi significati: partendo da sinistra vengono mostrati il pittogramma che designa il termine toro e quello che designa il termine montagne che unificati danno vita al pittogramma per selvatico.

Sviluppo di scrittura pittografica e scrittura alfabetica. L’evoluzione della parola cavallo nella scrittura cinese: a sinistra la forma arcaica e a destra tutte le evoluzioni fino ad arrivare alla forma moderna. Si noti come nonostante la stilizzazione il pittogramma rimangia comunque identificabile. L’evoluzione della lettera a. Si noti come il grado di stilizzazione non permetta di riconoscere il pittogramma originario.

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La scrittura nel mondo I Sumeri erano un popolo nomade con una forte attitudine logico scientifica che nel V millennio a. C. si era stanziato in Mesopotamia, tra i fiumi Tigri ed Eufrate. La prima testimonianza di scrittura cuneiforme risale al IV millennio a. C. e consiste in una serie di pittogrammi incisi a sgraffio sull’argilla, probabilmente con una spatola viste le linee dritte. Ciò che più incuriosisce riguardo questi segni è il fatto che il processo di stilizzazione sembra essere avvenuto quasi immediatamente, nonostante non si sappia se esistesse una versione precedente meno stilizzata, forse in relazione al fatto che recenti studi archeologici hanno portato alla luce degli oggetti in creta che nella forma richiamano da vicino i pittogrammi sumeri: si può dunque supporre che i pittogrammi non rappresentassero gli oggetti ma i loro contenitori, o che gli oggetti di creta fossero una sorta di protoscrittura tridimensionale. Ad ogni modo i pittogrammi sumeri, seppure semplificati, avevano un forte grado di leggibilità, come si può notare nei simboli per uomo e donna che anziché rappresentare per intero la figura ne rappresentano un particolare chiave: i genitali. Questo rapido processo di semplificazione può attribuirsi al fatto che i sumeri avessero una mentalità incline al movimento: il supporto da loro utilizzato non era la pietra, bensì le tavolette d’argilla, facili da scambiare e trasportare. Si suppone inoltre che le tavolette, dopo essere state cotte al sole, venissero conservate in pile, in quanto la tecnica di incisione dell’argilla, che provocava delle sbavature che minavano la stabilità delle pile, venne sostituita con la tecnica di impressione che non provocava rilievi di sorta. Il termine cuneiforme deriva dal fatto che i segni erano composti per lo più da forme triangolari (cunei)

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Il linguaggio

poiché con la tecnica a sgraffio non era possibile disegnare forme circolari o curve. Dal 3000 a. C. i pittogrammi sumeri cominciarono a subire un graduale processo di alterazione che ebbe come conseguenza il passaggio dei suddetti segni dal piano pittografico a quello fonetico, tant’è che nel I millennio a. C. la scrittura cuneiforme era diffusa in tutto l’ambito semitico. Tuttavia con la nascita dell’alfabeto aramaico di soli 22 segni, la scrittura cuneiforme cadde in disuso in quanto i suoi 1000 segni non la rendevano fruibile. Il popolo egizio era stanziato nella valle del Nilo, che con il suo limo permetteva una florida agricoltura. La civiltà egizia era molto vicina alla natura e disposta alla contemplazione; da questa attitudine nacquero una serie di culti per evocare la natura anche attraverso segni magici: il primo utilizzo dei geroglifici. Nel IV millennio gli egizi iniziarono a costruire monumenti e ad incidervi sopra dei segni che dovevano sfidare il tempo e affermare la grandezza del popolo che li aveva creati, così nacquero i geroglifici. Il termine geroglifico si applica soltanto ai pittogrammi, che qui si mostrano come forme stilizzate e ben proporzionate, create dai sacerdoti. Nonostante i geroglifici fossero fortemente riconoscibili, ad essi si andò affiancando nel III millennio a. C. la scrittura ieratica, in cui i segni figurativi che dapprima erano incisi su pietra venivano riportati più fluidamente su papiro per mezzo di una penna di canna, permettendo una forte semplificazione del segno. Nel I millennio a. C. la scrittura ieratica subì un’ulteriore evoluzione divenendo ancora più astratta e stilizzata: nacque la scrittura demotica, in cui non esisteva più alcun legame con il geroglifico. La scrittura egizia è considerata la base dell’alfabeto occidentale.

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La civiltà cretese, fiorita intorno al 2000 a. C. sviluppò un proprio modo di esprimersi che successivamente si espanse nel circondario grazie ai commerci e alle migrazioni. Possono essere distinte tre differenti tipologie di scrittura: i geroglifici, la Lineare A e la Lineare B. I geroglifici venivano per lo più apposti sui sigilli, mentre la prima scrittura utilizzata per i documenti ufficiali era la Lineare A, detta anche minoico, ancora oggi non completamente decifrata. La Lineare B invece, una forma primitiva di greco detta anche miceneo, si sviluppò in seguito ai contatti con la Grecia. Oggi quasi del tutto decifrata, fornisce testimonianza della contaminatio tra le varie culture limitrofe, che tuttavia mantenevano dei propri caratteri individuali, cosa ancor più evidente a Creta data la sua natura insulare. Nelle iscrizioni cretesi, ideogrammi e segni sillabici potevano trovarsi inoltre sulla stessa riga, dunque nonostante le forme della scrittura cretese, soprattutto dei geroglifici e della Lineare A suggeriscano rappresentazioni figurative, in molti casi non offrono alcuna chiave interpretativa. Ad oggi non è possibile stabilire in quale misura i pittogrammi e la scrittura cretese abbiano influito sullo sviluppo delle lingue occidentali, tuttavia non vi è alcun dubbio sul valore della cultura dell’isola. La scrittura cinese è un tipo di scrittura figurativa che consta di circa 2500 ideogrammi differenti. Nonostante le evidenti difficoltà di decifrazione essa è un tipo di scrittura altamente riconosciuto in quasi tutto il continente asiatico. Per un’adeguata comprensione dello sviluppo della scrittura cinese verrà fatto riferimento a un tipo di scrittura, oggi in disuso, il cui grado di semplificazione rende possibile un collegamento con le prime forme di scrittura pittografica

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Il linguaggio

cinese: l’I-ching. L’I-ching è una riduzione concettuale di forme risalente al III millennio a. C. definita dall’imperatore Fu-hsi per registrare la saggezza trasmessa oralmente. Esso parte dai due concetti filosofici di Yin e Yang che rappresentano rispettivamente la natura maschile, attiva e aggressiva, e quella femminile passiva e pacata. In un mondo ideale i due principi sono perfettamente complementari e si bilanciano a vicenda creando equilibrio, rappresentato attraverso il segno del Tao. Nell’I-ching i due principi vengono rappresentati rispettivamente attraverso una linea spezzata e una intera, e danno vita a otto trigrammi fondamentali rappresentanti gli elementi fondamentali del mondo, che combinati tra loro a coppie danno vita a sessantaquattro esagrammi. La scrittura pittografica cinese che riporta delle somiglianze con l’I-ching è stata molto condizionata dl mezzo scrivente e dal supporto: l’uso del pennello favoriva la scomposizione dei tratti curvi in tratti brevi e retti in quanto non era possibile spingere o cambiare direzione senza interrompere il tratto. Grande importanza era data ai gesti, come provano svariati pittogrammi che rappresentano le varie posizioni delle mani. Alla fine del II millennio a. C. i Fenici erano stanziati sulle coste orientali del Mediterraneo. Popolo con forte attitudine mercantile intratteneva rapporti con ognuna delle civiltà vicine, fatto che rese necessaria una sintesi delle scritture viste in precedenza (ad esclusione di quella cinese, trattata unicamente per fornire un panorama più vasto al lettore), attuabile mediante l’utilizzo di un alfabeto, ovvero di un insieme di segni fonetici che non indicano sillabe ma singole lettere, unità minime del linguaggio. In tempi

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relativamente brevi l’alfabeto fenicio si ridusse a 22 segni, un insieme di consonanti e semivocali. Presso ogni popolo i segni venivano elaborati in maniera autonoma e ciò permise agli inizi del I millennio a. C. la nascita di tutte le principali scritture contemporanee. Per prime si svilupparono le lingue semitiche, l’aramaico e l’arabo, che conservarono il principio dei segni consonantici dell’alfabeto fenicio, in cui le vocali sono rappresentate occasionalmente attraverso accenti o punti. Successivamente si sviluppò l’alfabeto greco in cui i suoni aspirati delle semivocali fenicie diedero vita alle vocali. L’alfabeto greco, per contaminazione diede vita a quello latino poi elevato a mezzo di comunicazione internazionale.

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Il linguaggio

Pittogrammi sumeri, 3500 a. C. Dall'alto a sinistra: pesce, uccello, orecchie, mano, porta, città, barca, vedere, divinità.Si noti come le forme siano costituite in gran parte da linee spezzate chiuse, chiaro indice del fatto che il supporto su cui si scrive influenzi la forma della scrittura: l'incisione a sgraffio sull'argilla rende particolarmente difficile tracciare linee curve o "spingere". Le forme sono stilizzate, alcune più riconoscibili, pesce, uccello e porta, altre la cui interpretazione è quasi impossibile senza la conoscenza del linguaggio, come divinità e vedere. Geroglifici egizi, 3000 a. C. Dall'alto a sinistra: occhio, sandalo, passero, camminare, rompere, legare, città, luce, astratto. Si noti come i pittogrammi della prima riga, i quali rappresentano oggetti e animali, tendano a mostrare per intero la figura, quasi senza stilizzazione. Invece i pittogrammi della seconda riga, i quali indicano azioni, pur mantenendo un certo grado di riconoscibilità, si dimostrano sostanzialmente più astratti dei primi. I pittogrammi dell'ultima siga posseggono un grado di astrazione ancora maggiore poichè hanno perso ogni riferimento con l'oggetto rappresentato, o perchè quest'ultimo non rappresenta un oggetto esistente, come nell'ultimo pittogramma.

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Scrittura figurativo-sillabica da Creta, 1500 a. C. I segni non sono ancora stati decifrati.

Pittogrammi cinesi arcaici, dall'alto a sinistra: terra, albero, pioggia, tartaruga, piuma, pesce, uomo, donna, bambino. Si noti come le forme, oltre a presentare un medio grado di astrazione, siano caratterizzate da tratti ad arco, a causa dell'uso del pennello. Tuttavia a volte i tratti non seguono una direzione usuale, forse in relazione al legame tra la scrittura e l'architettura, anch'essa caratterizzata da linee inarcate.

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Il linguaggio

Vocale pura

Semivocale

Egitto, Sumero

Ieratico, Sinai, Creta, Mesopotamia Fenicio

Greco antico, Aramaico antico, Scrittura Devanagari Latino antico, Aramaico, Nabateo

Onciale, Ebraico, Sinaitico

Minuscola carolingia, Ebraico, Arabo antico

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Semivocale



Parte II — La lettera


Maiuscole e minuscole L’alfabeto minuscolo si è sviluppato a partire da quello maiuscolo ed è nato in stretta relazione al supporto su cui veniva tracciato: le maiuscole, relegate all’ambito ufficiale, venivano in gran parte incise su pietra, dunque la loro forma rimase immutata; le minuscole, invece, venivano tracciate su pergamena tramite penne e pennelli, ragion per cui i tratti obliqui delle maiuscole diventarono curvi nelle minuscole perché più agevoli da tracciare. Nel 400 d. C. si sviluppa la scrittura onciale, una semplificazione del maiuscolo che darà vita nel 900 d. C. alle minuscole carolinge, non molto dissimili dalle minuscole odierne. Molte lettere maiuscole subiscono, nel minuscolo, mutazioni radicali: è il caso delle lettere a b d e f g m n p q r, mentre altre lettere come i k s u v w x y z, meno utilizzate, non subiscono variazioni di sorta. L’aggiunta di tratti ascendenti e discendenti permette alle minuscole di essere facilmente riconosciute come dimostra la teoria delle emiporzioni, la quale afferma che un testo composto in minuscolo è riconoscibile anche se la metà inferiore delle lettere è nascosta. Dal Medioevo in poi maiuscole e minuscole iniziarono a coesistere e si sviluppò il modo di scrivere odierno. Il mezzo utilizzato per tracciare le lettere e il supporto su cui queste venivano tracciate influenzò molto l’arte della calligrafia: in base all’inclinazione della penna la scrittura poteva essere condensata e ornata; a un’inclinazione maggiore corrisponde un tratto più omogeneo e compatto. Dalla minuscola carolingia derivano la minuscola umanistica e la maiuscola corsiva, entrambe ancora in uso.

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La lettera

Il passaggio da maiuscole a minuscole: a sinistra le maiuscole latine risalenti al 500 a. C., al centro la forma corsiva delle suddette, a destra le minuscole carolinge risalenti al 900 d. C.

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Il carattere tipografico Il carattere tipografico, e con esso la stampa a caratteri mobili vengono considerati la terza delle quattro rivoluzioni fondamentali che caratterizzano la storia del libro, preceduti dal passaggio da oralità a scrittura e da quello da volumen a codex ovvero dal rotolo al volume rilegato, e seguiti dalla nascita del libro digitale. Il termine tipografico contiene in sé due termini che permettono di definirne il carattere essenziale, ovvero tipo, cioè matrice, stampo, e grafein, dal greco che indica tanto l’atto di scrivere quanto quello di dipingere. L’innovazione insita nella tipografia consiste nella possibilità di revisionare un testo e di duplicarlo in tempi relativamente brevi, mentre precedentemente questo compito veniva affidato ai monaci amanuensi. Lo sviluppo della stampa ha dunque permesso la diffusione del sapere in un’epoca in cui era già presente, in nuce, l’inclinazione al cambiamento: il Quattrocento. Oggi, per gli addetti ai lavori, un carattere tipografico è costituito da un insieme di lettere create attraverso tracciati vettoriali, punti di ancoraggio, curve e linee rette. Tuttavia il progetto di un carattere tipografico deve tener conto di molte convenzioni mutuate dal carattere mobile, il quale nonostante sia caduto quasi totalmente in disuso, non ha perso la sua aura di mistero e magia: la natura inizialmente artigianale del carattere mobile gli conferisce infatti un fascino particolare, che solo un vero tipofilo è in grado di apprezzare. Ad ogni modo un carattere mobile è costituito da un parallelepipedo di metallo, generalmente una lega di piombo, antimonio e stagno, sul quale è incisa una lettera a rovescio. Gli elementi che lo compongono sono: l’occhio, ovvero il

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La lettera

rilievo della lettera, la cui dimensione stabilisce l’altezza del carattere; la spalla, ovvero la parte della faccia del parallelepipedo in cui è presente l’occhio ma che non ospita il rilievo, sia sulla parte superiore che inferiore, essa determina la distanza tra le righe di testo; l’altezza, ovvero la distanza tra il piede e la superficie dell’occhio, corrispondente alla misura della macchina da stampa; il piede, già citato, ovvero la base del parallelepipedo che sostiene il carattere; l’avvicinamento, ovvero la distanza tra i limiti sinistro e destro del carattere, dalla quale dipende la distanza fra i caratteri, che può variare in base alle correzioni ottiche apportate al carattere in fase di progettazione; la tacca, un incavo posto sul retro del parallelepipedo a diverse distanza dal piede che permette al compositore di riconoscere al tatto i singoli caratteri disposti nella cassa tipografica; e infine il canale, un incavo che serve a ridurre il peso del parallelepipedo e dunque a risparmiare materiale durante la fusione. Il carattere tipografico viene ricavato attraverso l’incisione ad incavo di una matrice, generalmente in metallo, la quale viene sagomata mediante l’uso di un punzone, sulla cui estremità è incisa una lettera in rilievo. Il punzone è costituito da una barretta di acciaio al carbonio, lunga circa 6 cm sulla quale la lettera viene incisa a rilievo mediante l’uso di lime e bulini. I primi punzonisti si servivano anche di contropunzoni, ovvero piccoli punzoni d’acciaio che dopo essere stati temprati vengono battuti sulla testa di un punzone non temprato determinando lo spazio interno della lettera detto occhiello; successivamente si ricava la forma della lettera limando via il metallo intorno all’incisione, massimizzando così il bianco interno della lettera.

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Qualora non fosse utilizzato un contropunzone, invece, si procedeva ad intagliare prima il contorno della lettera e successivamente l’occhiello. Innanzitutto la barra d’acciaio viene levigata con una lima grossa per fare in modo che i due lati siano lisci e ad angolo retto, successivamente viene foggiata l’estremità posteriore per far sì che il colpo agisca sul centro del punzone, si lima ad angolo retto l’estremità anteriore e la si lucida, infine si incide una tacca vicino all’estremità posteriore per indicare la base della lettera e permettere al compositore di riconoscerla al tatto. Viene dunque foggiato il contropunzone d’acciaio, il quale dopo essere stato inciso viene cotto due volte per rendere l’acciaio resistente alla pressione. Il contropunzone viene dunque battuto sul punzone che viene levigato per correggere la distorsione creata dal colpo e successivamente inserito in una morsa e sgrossato fino ad ottenere la forma della lettera dapprima in maniera grossolana, per poi essere rifinito attraverso lime piatte, tonde e triangolari. Il punzone può essere dunque testato avvicinandone la testa alla fiamma di una lampada ad alcol che la ricopre con una patina di nerofumo e successivamente premendolo su un pezzo di carta gessata per verificare i contorni della lettera, se questo risulta soddisfacente si procede ad affusolare l’estremità del punzone dalla testa verso i lati, e infine il punzone viene temprato e ricotto. Per poter fondere i caratteri in maniera uniforme è necessaria la creazione di una matrice e di uno stampo a mano per regolarla. I caratteri venivano fusi in una lega di piombo, antimonio e stagno e dunque era necessario che la matrice fosse realizzata con un materiale che rispondesse in maniera adeguata

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La lettera

alla battuta: il rame. Dopo aver impresso la lettera sulla superficie della matrice è necessario appiattire ogni parte del metallo che si sia sollevata facendo scorrere orizzontalmente la matrice su una lima. La matrice viene dunque livellata e continuamente verificata secondo un procedimento detto giustificazione. La matrice giustificata viene inserita in una delle due estremità dello stampo ed è tenuta in posizione da una grossa molla a forma di ferro di cavallo. L’altra estremità dello stampo assume invece una forma a imbuto quando le due parti che lo compongono vengono unite: essa è utile a favorire la colata nello stampo del metallo utilizzato per fondere i caratteri. Il metallo fuso viene dunque versato nello stampo e dopo la fusione vengono spezzati i “colami” e il carattere viene posto su un’asta di rifinitura e limato per garantire al blocco la giusta altezza tipografica ovvero per fare in modo che esso sia compatibile con la macchina da stampa, e infine si incide il canale e si leviga il piede. Questo procedimento viene ripetuto per ognuno dei caratteri che compongono la cosiddetta polizza ovvero l’insieme di tutti i glifi che compongono il carattere. La polizza viene dunque sistemata all’interno della cassa tipografica, spesso un insieme di due o più casse suddivise in scomparti, di cui una è atta a contenere le maiuscole, il maiuscoletto e i caratteri speciali, mentre l’altra le minuscole, i numeri e gli elementi per la spaziatura.

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Spalla Altezza

Occhio

Spalla

Canale Tacca Piede

Vengono mostrate le componenti di un carattere mobile. Essi venivano realizzati mediante una lega di piombo, stagno e antimonio.

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La lettera

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spazi fini

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Viene mostrata la tipica disposizione dei caratteri mobili all’interno della cosiddetta cassa tipografica. La disposizione è determinata dalla frequenza dell’uso dei caratteri, quelli di uso meno frequente vengono relegati al fondo della cassa.

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Anatomia Gli elementi che compongono un carattere tipografico sono molteplici e spesso le definizioni variano da un testo a un altro. L’Ente Italiano di Unificazione ha prodotto degli studi, detti Uni 9874, al fine di standardizzare la nomenclatura in ambito tipografico. I caratteri poggiano tutti su una linea immaginaria che è detta linea di base, fondamentale nell’ausilio che fornisce all’occhio del lettore. Attraverso lettere come la x minuscola può essere calcolata l’altezza del minuscolo, detta anche occhio medio o x-height e determina l’altezza del carattere a un determinato corpo, in genere il minuscolo è alto più della metà del maiuscolo. Successivamente vengono tracciate altre due linee che identificano i tratti ascendenti e discendenti delle lettere minuscole e uno per l’altezza del maiuscolo, ovvero la distanza tra la linea di base e la sommità della lettera: spesso le lettere minuscole hanno tratti ascendenti più estesi rispetto all’altezza del maiuscolo in quanto un disegno troppo regolare non permetterebbe all’occhio del lettore di identificare velocemente le lettere e dunque le parole. Infine bisogna tenere in considerazione l’altezza delle lettere maiuscole accentate che determinano la massima estensione del carattere. Le varie parti che compongono le singole lettere hanno dei nomi specifici, una prima suddivisione può essere fatta tra aste verticali, ascendenti e discendenti, aste trasversali, che uniscono le aste verticali, e aste curve, aperte o chiuse. A queste vengono aggiunte altre parti in riferimento a gruppi meno numerosi di lettere come code, bracci, ardiglioni, pilastrini, cravatte, colli, vertici e tratti terminali, detti grazie.

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La lettera

Infine, un altro elemento da tenere in considerazione è l’asse del tratto delle lettere, ovvero l’asse dello strumento che le ha tracciate: in base alla sua inclinazione si può determinare quale sia il modello preso in considerazione per il disegno del carattere nonché le peculiarità dello stesso, al fine di utilizzarlo in maniera corretta.

1

Viene mostrata la lettera h del carattere Sabon, disegnato da Jan Tschichold nel 1964. Il tratteggio mostra le aste verticali della lettera che si uniscono ai raccordi e al tratto curvo. 1. Il raccordo della porzione superiore della lettera si mostra differente rispetto a quello inferiore per migliorarne la riconoscibilità. 2. Le aste curve vengono assottigliate nei tratti in cui si congiungono alle aste verticali. 3. L’asta verticale si raccorda al tratto terminale mediante una curva.

2

3

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montante

asta dritta

Anatomia del carattere a. maiuscola accentata b. minuscola ascendente c. altezza del maiuscolo d. altezza della x e. linea di base f. minuscola discendente

Caratteri con occhi medi molto differenti. Dall'alto: Adobe Garamond Pro Sabon Akzidenz Grotesk Futura tutti in corpo 24 pt e peso regular.

coda

occhiello

orecchio

x-height x-height x-height x-height

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cravatta


La lettera

Aste verticali

Montanti

Aste trasversali o barre

Coda

Aste curve

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Asse del tratto: Rinascimento Il carattere presenta tratti modulati e un asse umanistico ovvero obliquo. I tratti terminali ricordano le forme della scrittura come anche le aperture molto ampie. Il corsivo è indipendente dal tondo.

Barocco Il carattere ha un tratto modulato e un asse variabile. I tratti terminali sono modulati come anche l’apertura delle lettere. Il corsivo è strettamente legato al tondo. Spesso caratteri di questo genere mostrano un asse secondario verticale mentre quello principale risulta essere obliquo.

Neoclassico Il carattere presenta un tratto modulato e un asse verticale, mentre le grazie sono digradanti, ovvero collegate alle aste in maniera progressiva. I tratti terminali di alcune lettere presentano una forma a goccia. Le aperture sono moderate e il corsivo è totalmente dipendente dal tondo.

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La lettera

Romantico Le lettere presentano netti contrasti e un evidente asse verticale. Le grazie sono sottili e raccordate ad angolo retto mentre i tratti terminali risultano arrotondati. Le aperture sono ridotte e il corsivo è sottomesso al tondo. Il carattere presenta un asse secondario obliquo.

Realista Il carattere presenta un tratto costante e un asse verticale implicito. Le aperture sono ridotte e le grazie assenti o ad angolo, di spessore uguale ai tratti principali. Il corsivo è costituito da un tondo inclinato.

Modernista geometrico Le lettere hanno tratto costante e occhielli circolari senza asse. Le aperture sono moderate e le grazie assenti o di spessore uguale ai tratti principali. Il corsivo è assente e rimpiazzato da un tondo inclinato. Spesso il disegno di queste lettere è molto più raffinato di quanto appaia.

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Proporzioni Nella creazione di un carattere è necessario realizzare una correlazione tra le varie lettere: ciò è possibile se si utilizza una griglia. La griglia garantisce alle lettere le stesse proporzioni e ne permette uno sviluppo razionale in cui ogni lettera mantiene la propria individualità pur uniformandosi alle altre. Oggi ogni carattere si compone di pesi e stili diversi, ma non è sempre stato così: Un buon tipografo, nell’Ottocento, avrebbe utilizzato soltanto tre stili dello stesso carattere, ovvero il tondo il corsivo e il nero, utilizzati in gran parte in editoria. Con l’avvento della pubblicità si è reso però necessario creare stili più incisivi e in grado di catturare l’attenzione. Da una parte furono creati molti pesi, dall’extra light all’ultra black, dall’altra si cominciarono a variare le proporzioni tra larghezza e altezza, dal condensed all’extended: è bene tener presente che ogni carattere va progettato in ogni variante, in quanto il rapporto tra pieni e vuoti deve mantenersi armonico. Ad esempio una H maiuscola verrà percepita come “normale” se la sua larghezza è pari a 4/5 della sua altezza. Allo stesso modo un corsivo ben proporzionato deve avere un angolo di inclinazione compreso tra 10˚ e 12˚ in modo tale da non confondersi col tondo e da non risultare “cadente”. Nel 1957 Adrian Frutiger7 elabora una tavola sinottica per il proprio carattere, Univers, in cui vengono espresse tutte le possibili variazioni: le colonne determinano il peso, mentre le righe determinano il grado di compressione. Bisogna notare come il passaggio da un peso a un altro comporti anche dei cambiamenti nel disegno del carattere, più evidenti nel passaggio da roman a italic, soprattutto nei caratteri serif, in cui spesso il disegno del corsivo differisce

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La lettera

in maniera talmente sostanziale da essere considerato un carattere a parte, e nelle variazioni di peso soprattutto a corpi di dimensioni ridotte, in cui a un peso maggiore corrisponde una lieve alterazione degli occhielli e dei raccordi al fine di non far risultare il carattere poco leggibile a causa dell’inchiostro per la stampa che espandendosi potrebbe far risultare le lettere “impastate�.

Roman Italic Bold

Il cosiddetto trittico del tipografo ovvero quegli stili di carattere che in genere venivano usati per la composizione di un libro dai tipografi tradizionalisti. Viene mostrato nuovamente il carattere Sabon.

mmm m m Variazioni di spessore nella lettera m del carattere Futura progettato da Paul Renner nel 1927. Si noti come le variazioni interessino solo i tratti verticali.

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Viene mostrata una griglia per la costruzione di un carattere. Illustrazione tratta da Adrian Frutiger, Segni & simboli, 1979.

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La lettera

La tavola sinottica realizzata da Adrian Frutiger nel 1957 per il carattere Univers da lui progettato. Sugli assi orizzontali vengono mostrate le compressioni mentre su quelli verticali gli spessori. Alternatamente vengono mostrati il tondo e il corsivo.

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Leggibilità Come accennato precedentemente, il lettore non percepisce le singole lettere ma le parole, tuttavia qualsiasi irregolarità nel contorno della lettera diminuisce la chiarezza del riconoscimento e genera confusione. Nell’esempio mostrato sotto la riconoscibilità delle lettere viene compromessa per generare confusione nel lettore. Un altro parametro da tenere in conto nel processo di lettura è la motivazione del lettore: l’interesse e l’importanza del contenuto determinano quanto sforzo il lettore impiegherà per leggere. La scrittura tipografica è quella più radicata nel subconscio, in quanto leggibile e di qualità, con netti contrasti e forme familiari. Nonostante esistano vari tipi di carattere, ognuno di essi mantiene dei tratti fondamentali, mentre le variazioni riferibili allo stile rientrano nella cosiddetta zona di risonanza ovvero si collocano in maniera marginale rispetto al disegno base della lettera.

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La lettera

Vari gradi di inclinazione di una lettera senza grazie: si noti come la riconoscibilità dello stile corsivo diminuisca alla minima variazione dell'angolo tipicamente utilizzato (12º) rendendo la lettera troppo simile al tondo (9º), o troppo "cadente" (17º). La progettazione dello stile italic, soprattutto nei caratteri con grazie, prevede modifiche alle forme di alcune lettere per assimilarle alla scrittura.

Variazioni di larghezza della lettera H. La larghezza tipica, evidenziata in nero, è pari ai 4/5 dell'altezza; le altre variazioni sono in genere utilizzate nell creazione dei vari gradi di compressione delle lettere, dall'extracondensed all'expanded.

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Classificazione Esistono vari tipi di carattere e altrettanti tipi di classificazione. Una distinzione fondamentale è quella, basata sulla presenza di tratti terminali, tra caratteri serif, con le grazie, e sans serif, ovvero senza grazie. In base alla forma delle grazie e al loro modo di raccordarsi al corpo del carattere vengono distinti vari tipi di carattere. In questo campo la posizione geografica fa la differenza: negli Stati Uniti i caratteri senza grazie (bastoni) vengono definiti gotici, mentre in Europa con gotico si designano i caratteri ornati e stretti di stampo medievale. L’assenza di una classificazione valida e standardizzata e il crescente numero di caratteri nascenti portarono, nel ‘900, molti studiosi e disegnatori di caratteri a tentare di crearne una che potesse comprendere qualsiasi tipo di carattere. Tre figure di spicco in questo ambito furono François Thibaudeau, Maximilien Vox, e Aldo Novarese8. Thibandeau compose la propria classificazione nel 1924, suddividendo i caratteri in base alla forma dei tratti terminali, in quattro grandi famiglie composte a loro volta da sottofamiglie. Il limite della classificazione di Thibandeau era il fatto che i caratteri gotici, le fantasie e i caratteri che simulavano la scrittura non venissero presi in considerazione, rendendo la classificazione parziale. Nel 1954 Maximilien Vox enunciò un’altra classificazione, basata sulla storia dei caratteri, molto più completa della precedente, nella quale i caratteri venivano suddivisi in dieci categorie. Nel 1956 Aldo Novarese, probabilmente sulla base dei modelli precedentemente elencati, elaborò la propria classificazione, che suddivideva i caratteri in base alla forma dei tratti terminali come aveva fatto Thibandeau,

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La lettera

ma possedeva anche la completezza della classificazione di Vox. Nella Classificazione Novarese i caratteri vengono raggruppati in dieci categorie: lapidari, ovvero i caratteri derivanti dalle incisioni lapidarie romane, caratterizzati da grazie triangolari raccordate ad angolo acuto; medievali, derivanti dalle scritture degli amanuensi, che presentano grazie con la cosiddetta “forma a punta di lancia rivolta verso il basso”; veneziani, derivanti anch’essi dai romani antichi, si differenziano dai lapidari per le grazie arrotondate e per il piede leggermente concavo; transizionali, aventi grazie molto sottili e raccordate; bodoniani, derivanti dai tipi incisi da Giambattista Bodoni e François Ambroise Didot, che presentano grazie molto sottili raccordate ad angolo retto; scritti, ovvero tutti quei caratteri che imitano la scrittura manuale; ornati, ovvero caratteri molto decorati utilizzati in genere come capilettera; egiziani, aventi grazie molto spesse che possono essere raccordate o meno; lineari, detti anche bastoni, non presentano grazie; fantasie, ovvero tutti quei caratteri impossibili da inserire nelle categorie precedenti. Ad ogni modo il dibattito è ancora aperto e ogni paese possiede una o più classificazioni dei caratteri.

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Classificazione Novarese I caratteri vengono raggruppati in dieci categorie: Lapidari: ovvero i caratteri derivanti dalle incisioni lapidarie romane, caratterizzati da grazie triangolari raccordate ad angolo acuto. Medievali: derivanti dalle scritture degli amanuensi, presentano grazie con la cosiddetta forma a punta di lancia rivolta verso il basso. Veneziani: derivanti anch'essi dai romani antichi, si differenziano dai lapidari per le grazie arrotondate e per il piede leggermente concavo. Transizionali: aventi grazie molto sottili e raccordate. Bodoniani: derivanti dai tipi incisi da Giambattista Bodoni e Franรงois Ambroise Didot, che presentano grazie molto sottili raccordate ad angolo retto. Scritti: tutti quei caratteri che imitano la scrittura manuale. Ornati: caratteri molto decorati utilizzati in genere come capilettera. Egiziani: aventi grazie spesse che possono essere raccordate o meno. Lineari: detti anche bastoni, non presentano grazie. Fantasie: ovvero tutti quei caratteri impossibili da inserire nelle categorie precedenti.

Lapidari

Scritti

Medievali

Ornati

Veneziani

Egiziani

Transizionali

Lineari

Bodoniani

Fantasie

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La lettera

Lapidari I caratteri lapidari presentano un tratto costante, privo di contrasti, e aperture ampie. L’asse del tratto è verticale e spesso la polizza presenta esclusivamente le lettere maiuscole dell’alfabeto.

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Medievali I caratteri medievali presentano tratti spessi e aperture molto strette. L’asse del tratto è verticale e richiama il tratto della penna a punta piatta utilizzata dagli amanuensi per tracciare le lettere che compongono i codici miniati.


Veneziani I caratteri veneziani si rifanno ai tipi utilizzati da Nicholas Jenson e Aldo Manuzio tra la seconda metà del 1400 e la prima del 1500. Presentano un asse del tratto inclinato, contrasto quasi inesistente e grazie raccordate mediante curve e leggermente concave.

Transizionali I caratteri transizionali presentano un contrasto più elevato tra tratti sottili e spessi. L’asse del tratto rimane inclinato, le grazie sono raccordate e più sottili rispetto a quelle di veneziani e lapidari, il disegno diventa più razionale e totalmente slegato da qualsiasi strumento di scrittura.

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La lettera

Bodoniani I caratteri bodoniani presentano un netto contrasto tra aste spesse e sottili. Le grazie, non raccordate, si congiungono ai tratti mediante un angolo retto. L’asse del tratto è verticale, di stampo razionalista.

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Scritti I caratteri scritti imitano le forme della scrittura manuale, i tratti presentano spessore variabile per simulare la pressione esercitata dalla penna sul foglio, spesso sono corredati da legature particolarmente ornate dette swash, di natura ornamentale.


Ornati I caratteri ornati vengono utilizzati soprattutto come capilettera, in genere sono composti da sole maiuscole per simulare l’effetto della rubricazione effettuata nei testi manoscritti e negli incunaboli.

Egiziani I caratteri egiziani presentano un tratto uniforme e grazie spesse tanto quanto le aste. Queste ultime possono essere raccordate, ovvero collegate alle aste mediante curve, o come nell’esempio sopra non raccordate, e dunque collegate alle aste mediante un angolo retto.

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La lettera

Lineari I caratteri lineari non presentano grazie. Lo spessore dei tratti è pressocchè costante, con alcune variazioni che hanno lo scopo di correggere difetti di percezione dettati dal disegno geometrico.

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Fantasie Nella categoria fantasie rientrano tutti i caratteri che non possono essere inseriti nelle categorie precedenti.


Contrografismi e correzioni ottiche Sino a questo punto si è parlato della scrittura, della forma delle lettere e del loro sviluppo, ma un altro elemento di fondamentale importanza è lo spazio. Un alfabeto creato con lettere perfettamente proporzionate e dalle splendide forme può risultare fastidioso o addirittura illeggibile se non si sono calcolati bene gli spazi: ciò che da armonia a un testo è l’equilibrio tra pieni e vuoti, l’equilibrio tra l’inchiostro e la carta. I caratteri romani ad esempio creano, con i loro perimetri, profondi contrasti geometrici, mentre i caratteri gotici, nel loro susseguirsi creano quasi una trama. Sorge spontaneo il parallelo con l’architettura, infatti l’espressione tipografica si compone di due elementi: il materiale, ovvero l’inchiostro, e lo spazio attorno ad esso. Il rapporto tra contenuto e contenitore deve essere armonico, ragion per cui lo spazio, interno ed esterno alla lettera, fa parte del progetto in misura uguale a quella del tratto. È bene notare come un disegno geometricamente perfetto non sempre garantisca una perfetta riuscita del carattere, e dunque si rende necessario l’utilizzo di alcuni espedienti per migliorare la percezione visiva delle lettere, ad esempio le lettere con la base curva in genere si estendono leggermente al di sotto della linea di base per non risultare fluttuanti, si può scegliere di assottigliare alcune parti del carattere per renderne più armonica la forma, si può variare lo spessore dei tratti in base al peso del carattere, e infine si possono realizzare delle correzioni ottiche sui raccordi tra le aste delle lettere o su quelli tra esse e le grazie. Altre correzioni ottiche riguardano la crenatura, ovvero lo spazio tra le lettere, che verrà affrontato in relazione al testo nelle pagine a seguire.

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La lettera

Viene evidenziato lo spazio negativo che si crea attorno ai caratteri, i cosiddetti contrografismi. Vengono mostrati i caratteri Trajan, un lapidario, Bodoni, un bodoniano, e Univers, un lineare.

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1

2

3

4 Vengono mostrate Le aree che compongono la lettera, da sinistra: 1. La lettera 2. Area totale 3. Superficie della lettera 4. Area interna 5. Area esterna

5

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La lettera

Nella figura vengono mostrati tre caratteri disegnati su griglia isometrica in cui è stato modificato il rapporto base altezza e i tratti verticali. Nel primo caso (prima riga) le lettere appaiono uniformi, poichè i tratti obliqui e parte dei tratti curvi sono stati resi verticali. Così facendo le lettere diventano troppo poco differenziate, non permettendo il riconoscimento immediato, ciò rende il carattere poco leggibile e adatto soltanto a titoli di grandi dimensioni.

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Nel secondo caso invece vengono mostrate delle lettere senza grazie costruite secondo la norma, che pur differenziandosi mantengono una certa omogeneità. Nel terzo esempio le lettere sono talmente diverse tra loro da non permettere un'immediata riconoscibilità. Citando Adrian Frutiger: «Il segreto di un buon carattere sta tutto nel coordinamento delle lettere, che devono formare un insieme di contrasti ricchi pur mantenendo un'aria di famiglia.»


Molti type designer preferiscono cominciare il disegno di un nuovo carattere con lettere come la n dalla quale ricavano le lettere m u e h. Si noti come i tratti curvi delle lettere superino di qualche millimetro la linea di base e l’altezza delle aste verticali, questa tecnica è detta overshooting e permette di percepirle di dimensioni uguali alle altre lettere.

Le spalle delle lettere n m e h sono leggermente spostate verso destra per bilanciare il peso delle aste e per enfatizzare la direzione di scrittura e lettura. I due occhielli della lettera m hanno aree differenti che vengono percepite come uguali. Inoltre gli occhielli di tutte le lettere mostrate sopra non sono mai simmetrici. I tratti ascendenti della lettera h

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La lettera

determinano le relazioni tra l’occhio medio e l’altezza del maiuscolo. Attraverso le modulazioni del tratto della o è possibile determinare l’asse del tratto del carattere. La lettera c è leggermente più stretta della o per compensare il suo maggiore spazio negativo, inoltre la sua apertura non deve risultare troppo ampia, in quanto

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ne comprometterebbe il colore, né troppo stretta, in quanto ne ridurrebbe la leggibilità. La lettera e presenta un forte assottigliamento dei tratti curvi e orizzontali per evitare che con l’espandersi dell’inchiostro sulla carta essa risulti troppo scura, inoltre la sua barra orizzontale si trova in genere leggermente spostata


rispetto al centro per evitare che l’occhiello appaia troppo ampio. La lettera a presenta un forte assottigliamento delle aste al fine di non apparire troppo scura. In alcuni caratteri essa può avere una coda detta grazia transitiva che rimarca il tratto di uscita della penna mentre in altri essa può presentare un singolo occhiello, come accade nei caratteri

con asse modernista geometrico o nel corsivo di molti caratteri serif e sans-serif. Le lettere con aste diagonali in genere presentano un maggiore contrasto tra i tratti, come si può notare nella lettera v in cui l’asta di destra è più spessa rispetto a quella di sinistra, inoltre le aste si restringono leggermente nel punto di

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La lettera

congiunzione per evitare sbavature nell’inchiostro, questa tecnica è detta ink trapping. Le lettere con aste trasversali non sono quali mai simmetriche e le aste non hanno lo stesso angolo di inclinazione per non far divenire la lettera troppo ampia, come nel caso della w. La parte superiore della lettera x è leggermente più corta e stretta

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rispetto a quella inferiore per permettere all’occhio di percepirla come simmetrica, inoltre l’asta di destra risulta più assottigliata rispetto a quella di sinistra. Le aste della lettera y si congiungono al di sopra della linea di base, inoltre il suo tratto discendente si allarga nella parte terminale e si interrompe leggermente più a destra rispetto


all’asta trasversale più spessa. Anche nella lettera z la parte bassa risulta più larga rispetto a quella superiore, inoltre la sua asta trasversale, a differenza delle altre lettere, ha uno spessore simile a quello delle aste orizzontali per non comprometterne la leggibilità. Anche la base della lettera k si estende leggermente al di là della

barra superiore, inoltre la barra trasversale superiore si congiunge a quella verticale al di sopra del centro della lettera. I tratti della lettera g si assottigliano, alla pari di quelli della a per mantenere un colore omogeneo, inoltre il suo occhiello superiore è più stretto e arrotondato rispetto a quello inferiore per bilanciarne il peso.

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La lettera

La lettera s a differenza di quanto si possa pensare, non è composta da due semicerchi: le curve della parte superiore sono nettamente diverse da quelle della parte inferiore e si congiungono al tratto trasversale mediante un assottigliamento dei tratti. Inoltre la parte superiore della lettera è leggermente piÚ stretta rispetto a quella inferiore al fine di

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garantirle maggiore equilibrio. Le lettere p q b e d sono molto simili tuttavia per ognuna di esse vengono effettuati accorgimenti differenti, tuttavia si può notare come le aste curve si assottiglino nel congiungersi a quelle verticali per rispettare lo spazio negativo delle lettere e non appesantirle troppo. La lettera q termina spesso con una


grazia transitiva posta nella parte superiore dell’asta dritta, come accade nella parte inferiore della b, traccia dell’eredità della calligrafia. Le quattro lettere subiscono di volta in volta correzioni per quanto riguarda l’enfasi e le forme degli occhielli per riequilibrare il loro peso visivo e l’orientamento di lettura. La lettera l spesso si protrae al di

là dell’altezza del maiuscolo per dfferenziarla dalla lettera I, inoltre può presentare una grazia transitiva nella parte superiore. La lettera r presenta tratti simili alla n tuttavia la congiunzione tra i tratti avviene leggermente più in basso, mentre la coda presenta una forma leggermente svasata. I puntini sulle lettere i e j risultano più vicini

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La lettera

all’asta in caratteri con un occhio medio ampio, mentre necessitano di più distanza in quelli con occhio medio stretto. Inoltre i puntini rotondi in genere risultano più larghi rispetto alle aste verticali.La coda della lettera j può presentare forme differenti ed è uno dei tratti distintivi del carattere. La ridotta larghezza delle lettere

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f t ed r serve ad evitare problemi di crenatura dati dal loro disegno asimmetrico. Le aste di f e t sono generalmente spostate verso destra per non farle apparire cadenti. Le lettere maiuscole in genere hanno un’ampiezza maggiore rispetto alle minuscole e presentano tratti leggermente più spessi per compensare il maggiore spazio


negativo dato dal loro disegno. La lettera H è in genere più stretta rispetto alla O e rappresenta uno dei caratteri di controllo nella costruzione dell’alfabeto definendo le proporzioni delle maiuscole dai tratti squadrati e fungendo da metro di paragone per le correzioni ottiche. In genere la barra orizzontale è meno spessa rispetto a quelle verticali. La lettera

E è più stretta della H e presenta tratti orizzontali più assottigliati. Inoltre la barra orizzontale centrale è leggermente più corta di quelle verticali. La barra centrale della lettera F si trova leggermente più in basso rispetto a quella della E per bilanciarne la forma asimmetrica. Anche la lettera T è leggermente più stretta della H e le sue aste

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La lettera

sono leggermente più spesse per bilanciarne il peso visivo. La lettera L è uno dei caratteri più problematici data la sua forma asimmetrica e la grande quantità di spazio negativo da essa generato, in genere le sue aste vengono ispessite per compensarne il colore. La lettera I, al pari delle precedenti, presenta un’asta più spessa per

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distinguersi dalla lettera l, inoltre in molti caratteri sans-serif vengono aggiunte delle grazie simili a quelle dei caratteri egiziani. Al pari della H anche la O è un carattere di controllo. Essa è in genere più ampia della H per bilanciarne i tratti curvi, che risultano essere particolarmente modulati che risultano più larghi delle aste della


lettera H nei tratti spessi, e più stretti della barra orizzontale della suddetta nei tratti più assottigliati; la forma dell’occhiello ne definisce l’asse. La lettera C presenta un’apertura leggermente maggiore rispetto alla O e il tratto terminale superiore non deve mai estendersi al di sotto dell’altezza del minuscolo. L’occhio della lettera Q in genere è

molto simile a quello della O ma mai perfettamente identico. La sua coda è uno dei tratti distintivi del carattere e determina l’approccio progettuale. La lettera G è in genere più larga rispetto alla C e la sua barra orizzontale viene posta al di sopra del centro geometrico della lettera, inoltre essa è leggermente assottigliata e non si protrae al di là

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La lettera

dell’asse verticale della lettera per non comprometterne la leggibilità. Inoltre può presentare una grazia transitiva per ragioni di stabilità. Le curve della lettera D differiscono da quelle della lettera O, essa è in genere più larga della lettera H ma più stretta della O. I tratti orizzontali della lettera B vengono assottigliati per garantire

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una buona resa dell’area interna della lettera, inoltre le due aste curve si incrociano al di sopra del centro, mentre l’occhiello inferiore è di dimensioni leggermente superiori rispetto a quello inferiore, dunque la barra orizzontale si trova al di sopra del centro della lettera. L’occhiello della lettera P, invece, è generalmente più largo di quello


delle lettere B ed R per compensare lo spazio negativo al di sotto di esso. In alcuni caratteri esso è staccato rispetto all’asta verticale. La barra orizzontale della lettera R è più sottile per mantenere un colore uniforme, mentre la sua coda può estendersi al di là della larghezza dell’occhiello; inoltre la forma della stessa è uno dei tratti peculiari del

progetto tipografico. Per quanto riguarda la lettera A essa ha l’asta trasversale di destra più spessa rispetto a quella di sinistra, soprattutto nei caratteri con un contrasto molto elevato. La barra orizzontale cade in genere al di sotto della metà della lettera, inoltre in prossimità dell’apice il tratto si restringe per limitare l’espansione

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La lettera

dell’inchiostro. Lo spazio negativo interno alla lettera viene bilanciato attraverso un occhiello leggermente ingrandito che ne riequilibra il peso visivo e il colore. La lettera V è leggermente più stretta della A, e in questo caso è la barra trasversale di sinistra ad avere un tratto leggermente più spesso. In genere nei pesi più elevati, viene utilizzato l’ink trapping nella giuntura delle due aste. La lettera X, al pari della sua controparte minuscola presenta una simmetria ottica data dal restringimento della porzione superiore. Le aste risultano di diverso spessore, inoltre quella di destra è composta da due aste leggermente spostate che ne migliorano la leggibilità soprattutto a pesi elevati. Le aste della W subiscono rastremazioni soprattutto nella parte interna per diminuire lo spazio occupato dalla lettera e donarle un colore omogeneo. Al pari della minuscola anch’essa presenta una leggera asimmetria e le due aste interne hanno inclinazioni differenti. Le aste trasversali della K si incrociano leggermente al di sopra del centro della lettera; il tratto diagonale superiore viene alleggerito per non dare alla lettera un aspetto troppo scuro, mentre l’area della lettera è quasi equivalente allo spazio negativo da essa generato. La lettera Y presenta asimmetria e un’enfasi più pronunciata sul lato

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sinistro, come si può notare dal fatto che l’asta trasversale destra è leggermente più sottile rispetto a quella di sinistra. La lettera N presenta un’asta trasversale più spessa rispetto a quelle verticali al fine di riequilibrarne il peso visivo. I tratti diagonali della M hanno una conformazione simile a quelli della V, tuttavia in questo caso la differenza di spessore tra le due aste è molto attenuata. La lettera U presenta l’asta destra più sottile rispetto alla sinistra, ciò è utile a non far apparire la lettera cadente e inclinata. La lettera J è una delle maiuscole più strette, nel momento in cui la sua coda diviene troppo larga il suo equilibrio visivo vacilla. La lettera S presenta delle proporzioni simili a quelle della s, tuttavia essa risulta leggermente più stretta per bilanciare lo spazio negativo intorno e all’interno di essa. I tratti sono alleggeriti ma in maniere più celata rispetto che nella minuscola, e la sua porzione inferiore è più larga della superiore. Infine la lettera Z presenta una barra trasversale più spessa di quelle orizzontali al fine di garantirle un colore omogeneo.


Unità di misura Anche i caratteri tipografici necessitano unità di misura che ne permettano la standardizzazione, tuttavia, nella storia della tipografia la standardizzazione non è sopraggiunta immediatamente in quanto in un primo momento le figure professionali di stampatore, tipografo, ed editore dapprima erano rivestite da un singolo individuo, e in genere ogni stamperia fondeva per se i propri caratteri, utilizzando unità di misura arbitrarie. L’inizio della separazione tra stampa e tipografia, come citato da Robin Kinross9 può essere esplicato attraverso la definizione di chi sia il “tipografo”, ovvero «qualcuno che con il proprio giudizio, da solidi ragionamenti dentro di sé, possa sia eseguire, sia dirigere altri affinché eseguano, dall’inizio alla fine, tutti i lavori manuali e le operazioni fisiche collegate alla tipografia» citando Joseph Moxon e i suoi Mechanick exercises: or the doctrine of handyworks applied to the art of printing, del 1683, che rappresentano anche la prima discussione sulla stampa ad essere stata pubblicata. Moxon ebbe il pregio di essere dunque tra i primi a far circolare informazioni sulla stampa e sulla tipografia in un’epoca in cui la standardizzazione sarebbe stata impossibile vista l’assenza di informazioni e divulgazioni a riguardo. Egli proponeva inoltre, in un contesto in cui non esistevano standard dimensionali né nomenclatura comune, un metodo ausiliare alla progettazione del carattere tipografico, consistente nell’immaginare che l’intero corpo fosse «suddiviso in quarantadue parti uguali: sette parti, ognuna delle quali con sei suddivisioni». Questo metodo, sebbene non risultasse funzionale per i corpi più piccoli, divenne il siste-

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ma attraverso cui si calcolarono le proporzioni delle lettere, tuttavia non essendo in relazione con i sistemi di misurazione esistenti esso risultava alquanto ambiguo e discutibile. Un altro tentativo venne fatto in Francia nel secolo successivo, nel corso della progettazione del Romain du Roi, carattere realizzato non da un singolo artigiano, bensì da una commissione scientifica istituita appositamente per l’occasione nel 1693, la quale, sei anni dopo aveva dato vita a una polizza di caratteri realizzata appositamente per la corona francese. Il Romain du Roi è fondamentale, nella dissertazione sugli standard tipografici, in quanto attraverso il suo progetto esso introdusse due fondamentali novità: la prima consistette nella stesura di una tavola, da parte di Sébastien Trichet, che conteneva le proporzioni dei caratteri dell’Imprimere Royale, ovvero la stamperia del re, nella quale al corpo di ognuna delle denominazioni tradizionali venivano dati valori unitari, sebbene questi non fossero ancora esplicitamente collegati ad alcun sistema di misura esistente, operazione effettuata successivamente attraverso un documento, denominato Calibre de toutes les sortes et grandeurs de lettres nel quale esse venivano messe in relazione con una delle unità di misura correnti, la ligne, ovvero la dodicesima parte di un pouce, il “pollice” francese. Nel documento vengono inoltre fornite indicazioni sui caratteri, sulla loro anatomia, sul disegno del carattere e sulla stampa e i supporti, il tutto riportato a un’unità equivalente a 1/204 di una ligne. La seconda innovazione introdotta con il Romain du Roi fu l’utilizzo, nella progettazione dei glifi, di una gri-

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glia modulare composta inizialmente da 64 quadrati (8x8) per le maiuscole, e successivamente ampliata attraverso la suddivisione di ogni unità in 6 parti, per un totale di 2304 quadrati, la quale, nonostante non fosse di grande aiuto nell’incisione dei punzoni, fornì un primo spunto verso la razionalizzazione e la standardizzazione della tipografia. Alcune delle proposte della commissione furono poi riprese da Pierre Simon Fournier, il quale aveva avviato un’attività di fonditore di caratteri nella prima metà del ‘700. Nel 1737 Fournier pubblicò una tavola di proporzioni dei caratteri da stampa nella quale suggeriva di stabilire le dimensioni del corpo del carattere attraverso un nuovo sistema di unità collegate al pouce e alla ligne: essa veniva ottenuta suddividendo la linea in 6 points, di modo che un pouce contenesse 72 “punti”. La proposta di Fournier fu il riferimento per il sistema di misurazione adottato come standard nei paesi anglofoni. Il lavoro di Fournier fu proseguito e sviluppato dalla famiglia Didot, la quale, a metà Settecento, dominava bene o male ogni ambito della tipografia in Francia. François Ambroise Didot, specializzato nella fusione di caratteri, adottò il sistema di misurazione di Fournier e lo perfezionò mettendolo in relazione con l’unità di misura vigente in Francia all’epoca: il Pied du Roi, di modo che 72 punti equivalessero a un pollice standard francese. Tuttavia, ironia della sorte, poco dopo la proposta di Didot, venne adottato il sistema metrico decimale. Il figlio di quest’ultimo, Firmin, rapportò il punto Didot all’unità decimale, facendolo corrispondere a 0,376 mm, standard utilizzato tutt’ora nell’ambito tipografico europeo.

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Per quanto riguarda l’ambiente anglosassone e statunitense, invece fu il sistema di Fournier ad essere adottato,nel 1886, per quanto riguarda la nomenclatura dei corpi, tuttavia il valore unitario non aveva alcuna corrispondenza con i sistemi generali di misura e si scelse come unità quella in uso in una delle fonderie maggior per giungere alla conclusione che 996 punti equivalessero a circa 35 cm. Oggi queste unità di misura sono rimaste pressocchè invariate, esse condividono la scelta di un sistema duodecimale composto da righe – dette cicero nel sistema Didot e pica nel sistema anglo-americano – composte da 12 punti, tuttavia nel sistema Didot un punto equivale a 0,376065 mm, mentre nel sistema anglo-americano equivale a 0,3527 mm. I sistemi di misurazione finora descritti vengono definiti unità di misura assolute, tuttavia nell’ambito dell’editoria digitale ad esse vanno affiancate altre unità di misura relative, che meglio si confanno ai dispositivi di lettura che ospiteranno il contenuto. Le unità di misura relative sono pixel, em, e percentuali. Il discorso sull’e-book e sui vari linguaggi attraverso cui esso può essere generato verrà affrontato in seguito, tuttavia si ritiene necessario fornire in questo capitolo le informazioni sulle unità di misura in ambito digitale per far si che il lettore possa avere una rappresentazione quanto più completa dell’argomento. Per quanto riguarda i pixel la definizione fornita dall’enciclopedia Treccani è la seguente «Nelle tecniche di digitalizzazione delle immagini, il più piccolo elemento (distinto per colore, intensità, ecc.) in cui è scomposta l’immagine originale; la definizione dell’immagine memorizzata sarà tanto maggiore quanto maggiore è il numero di pixel in cui

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è scomposta, per cui spesso si usa quantificare la risoluzione dei dispositivi per la visualizzazione delle immagini digitalizzate (schermo video, stampanti o altro) con il numero di pixel che il dispositivo stesso può visualizzare contemporaneamente», dunque se ne deduce che, nonostante la tendenza a considerare il pixel un’unità di misura assoluta, essa sia invece relativa e legata alla risoluzione dello schermo su cui viene visualizzata, tanto che all’aumentare della risoluzione dello schermo la dimensione dei pixel diminuisce per consentire una maggiore definizione dei contorni dell’oggetto visualizzato. La relatività del pixel si fonda dunque sull’hardware in uso, mentre quella degli em è legata strettamente alle dimensioni di altri elementi. Il termine em è mutuato dall’ambito tipografico tradizionale e indica il cosiddetto quadratone ovvero un parallelepipedo a base quadrata che ha lo stesso corpo del carattere sul quale si basa, compreso di spalle, nello specifico esso si basa sull’ingombro della lettera W, la lettera che in genere occupa più spazio. Nella tipografia digitale em è un’unità di misura relativa in quanto viene determinata dall’elemento che contiene il testo, ad esempio se l’elemento contenitore ha un corpo che equivale a 16 pixel allora 1 em corrisponderà a 16 pixel, 2 em a 32 px e via dicendo. Infine anche la percentuale si basa sulle dimensioni dell’elemento contenitore, dunque in un documento il cui testo è impostato a 16 pixel, se un titolo viene impostato al 125% esso avrà dimensioni pari a 20px.

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Vengono mostrati rispettivamente il sistema di misurazione dei caratteri basato sul punto Didot (0,376 mm) e il sistema metrico decimale.

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Punteggiatura, accenti e legature «La spaziatura come scrittura è il divenir-assente e il divenir-inconscio del soggetto». La citazione viene dal teorico del decostruttivismo Jacques Derrida10 che negli anni ’60 del ventesimo secolo pose l’accento sul fatto che l’alfabeto, pur rappresentando il suono, non può funzionare in assenza di segni silenziosi e di spazi. Finora si è parlato del carattere e si è fatto riferimento alle lettere, tuttavia, il testo scritto non è composto solo ed esclusivamente da parole, esso consta di spazi, accenti, segni silenziosi che come nella musica, donano al testo ritmo e intonazione: gli spazi e la punteggiatura possono essere paragonati alle pause tra una nota e l’altra che permettono di apprezzare il brano. Nella stampa tipografica infatti tutti gli elementi che compongono gli spazi possiedono la stessa fisicità di quelli che compongono le lettere e la tipografia può essere definita più come un lavoro sullo spazio che sui segni. Anche gli accenti e i vari segni diacritici possono fare la differenza, già nella lingua italiana un semplice accento può influire in maniera fondamentale sulla semantica, sul significato. Inoltre molti caratteri sono forniti di legature costituite da combinazioni di lettere frequenti che vengono racchiuse in un unico glifo: un esempio su tutti è rappresentato dalla congiunzione et latina, che con il passare del tempo ha assunto la forma del noto ampersand rappresentato dal glifo &.

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Gli spazi e la punteggiatura possono essere paragonati alle pause tra una nota e l’altra che permettono di apprezzare il brano. Essi definiscono il ritmo della lettura.

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Sopra vengono mostrati alcuni tipi di accenti e caratteri speciali. Da sinistra: accento grave, accento acuto, accento circonflesso, tilde, dieresi, accento breve, ogonek, caron e cedilla.

Molti caratteri, soprattutto quelli serif, presentano legature che condensano in un unico glifo combinazioni di lettere frequenti.

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L'ampersand deriva da una legatura della congiunzione et.

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Breve storia del carattere tipografico Poco dopo la morte di Gutenberg la stampa si era già diffusa in tutto l’Occidente. I libri stampati tra il 1450 e il 1480 erano pressoché indistinguibili da quelli manoscritti dagli amanuensi: non avevano frontespizio o numeri di pagina ed erano stampati utilizzando il carattere Gotico nelle varianti textura, per i libri liturgici, bastarda per i testi di legge, rotunda e gothicoantiqua per le prose letterarie. I testi di legge, ad esempio, erano stampati con dei caratteri neri e stretti e i margini ospitavano il commento al testo, ricco di politipi e abbreviazioni. Il carattere Gotico dava al libro un aspetto manoscritto dettato da esigenze di mercato: e dunque fintanto che i libri stampati avessero avuto l’aspetto di quelli manoscritti il pubblico sarebbe stato invogliato a comprarli. Il principale concorrente del carattere Gotico ai tempi della sua infanzia era il carattere Romano, sviluppato a Venezia da Nicholas Jenson e ampiamente utilizzato da Aldo Manuzio, tuttavia alla morte di quest’ultimo la Germania aveva già avviato un proprio stile tipografico basato appunto sul carattere Gotico nelle varianti Fraktur e Schwabach, il primo, portato a compimento da Schönsperger verso il 1510, il secondo, inciso e utilizzato da Gutenberg a partire dal 1450. Con l’andare del tempo il Fraktur soppiantò lo Schwabach che invece venne relegato a una sorta di complemento e accostato al primo; tuttavia, nonostante lo Schwabach fosse più rotondo e aperto esso si distingueva poco dal Fraktur, tanto da non poter essere più considerato un carattere diverso. Questa è una delle ragioni per cui il Gotico non ha mai raggiunto il livello di diffusione dell’Antiqua, ovvero il fatto che non esistessero abbastanza varianti da

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rendere il testo leggibile. Il carattere Gotico resterà comunque il carattere adottato dagli stampatori tedeschi per altri quattrocento anni, per poi essere soppiantato dai caratteri romani durante il nazismo: nel partito nazionalsocialista esistevano due opposti atteggiamenti riguardo le questioni culturali, uno modernizzatore e l’altro antiurbano, nell’ambito delle questioni riguardo il carattere tipografico se in un primo momento a vincere fu il Gotico, simbolo di tradizione tedesca, nel 1941 esso fu soppiantato dall’Antiqua, simbolo della politica espansionistica dell’Impero Romano, e il gotico venne eliminato con l’assurda accusa di essere ebreo e dunque vietato. L’Antiqua, come affermato in precedenza, venne sviluppato dapprima a Subiaco da Sweynheheym e Pannartz che per il De Oratore di Cicerone utilizzarono una rotonda simile a quella utilizzata dagli amanuensi rinascimentali; successivamente il carattere Antiqua venne utilizzato anche in Francia al fine di diffondere il Rinascimento, ma venne portato a compimento a Venezia per opera di Nicholas Jenson verso il 1470. Fu però Aldo Manuzio a decretare la vittoria dell’Antiqua sul Gotico: attraverso i punzoni incisi da Francesco Griffo egli sviluppò il carattere tondo, basato sulle iscrizioni lapidarie dell’antica Roma e il corsivo, basato sulla scrittura corsiva della cancelleria papale e più precisamente da quella utilizzata da Poggio Bracciolini, adottata dagli umanisti per i loro scritti non ufficiali. Il corsivo veniva utilizzato da Manuzio non nell’accezione che oggi ha, di enfasi nel testo scritto in tondo, ma come carattere a sé stante, al fine di poter stampare pagine più ricche di testo riducendo i costi di produzione poiché esso era più stretto

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e condensato del tondo. Risulta molto curioso il fatto che in Spagna il corsivo venga chiamato letra grifa, dal nome appunto di Francesco Griffo. Nel Cinquecento il predominio sull’arte della stampa cominciò a passare dall’Italia di Manuzio alla Francia, dove il carattere latino venne utilizzato anche nel Libri D’Ore al posto del textura che aveva resistito fino a quel momento. Nascono dunque alcuni dei caratteri più noti e utilizzati ancora oggi: i tipi di Claude Garamond, il quale fu il primo a dedicarsi al disegno, all’incisione ed alla fusione di caratteri e dal 1531 creò per l’editore Estienne una serie di caratteri tondi che avrebbero influenzato la stampa francese sino al Settecento, utilizzando per la prima volta insieme le serie di tondo e corsivo, avviandosi verso formattazione del testo ancor’oggi adottata. La minuscola umanistica, nata dunque in Italia è all’origine delle scritture moderne poiché essa fu un modello per i successivi sviluppi della storia della tipografia, e per questa ragione oggi è conosciuta come italic. Nel Seicento l’impulso principale fu quello di giungere a una sorta di razionalizzazione delle lettere: i modelli utilizzati furono quelli di Garamond e Granjon ma a fine secolo si tese a cercare un ordine geometrico anche in ambito tipografico. In Francia, nel 1693, durante il regno di Luigi XIV, su incarico del ministro Colbert prese il via la costituzione di una commissione di studio che si occupasse dell’arte del fare libri e successivamente di come creare le lettere dell’alfabeto per utilizzarle nelle comunicazioni ufficiali. In questo contesto, cercando dunque di rinnovare matrici e punzoni dell’Imprimerie Royale, la stamperia ufficiale del re france-

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se, si cominciò inoltre a cercare un’unità di misura universale da applicare al carattere tipografico. Ogni lettera del neonato Romain du Roi, il carattere di cui sopra, fu dunque progettata utilizzando una griglia suddivisa in 2304 quadrati, dando così un carattere dal disegno regolare, con un forte contrasto tra le aste piene e quelle sottili. É interessante notare come la lettera Tonda o Antiqua che dir si voglia si sia diffusa in maniera talmente capillare da non lasciare dubbi sul tipo di carattere da sviluppare: il Romain du Roi non è altro che un perfezionamento della minuscola cancelleresca. Un altro fatto parimenti interessante fu il desiderio di razionalizzare le lettere, e dunque di donare loro dei canoni costruttivi che le rendessero più armoniose: fu un grande passo in avanti verso lo sviluppo della concezione della tipografia come tecnica, progettazione, e non come arte e interpretazione. Sebbene il tempo abbia consacrato ad arte molti caratteri e molti prodotti editoriali è bene ricordare come questi non debbano essere valutati sulla base di nostalgie romantiche e poetiche ma attraverso criteri logici e tecnici. Lo sviluppo del carattere tipografico seicentesco aprì le porte al gusto neoclassico che nel Settecento avrebbe avuto il proprio periodo di massima fioritura. Il carattere latino dominava in tutto l’Occidente durante il Settecento, ma la sua forma stava cominciando a evolversi verso scenari allora sconosciuti. Robin Kinross fa risalire al secolo di Bodoni e Didot la nascita della tipografia moderna, ma è bene chiarire in questa sede l’accezione che qui viene data al termine moderno. Le lettere disegnate e incise da Bodoni e Didot vengono definite moderne poiché creano una netta scissione con il

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panorama tipografico del secolo precedente. In tipografia, infatti, soprattutto nell’ambito inglese, il termine modern viene utilizzato per definire i caratteri che vanno dal Romain du Roi in poi, in quanto con il termine si indica il trattamento delle grazie, molto sottili, diritte e raccordate ad angolo retto, che danno alle lettere una forte enfasi verticale. Questo nuovo modo di incidere i caratteri dipende dal fatto che in ambito tecnico nel Settecento si cominciò a stampare le lettere attraverso le lastre di rame le quali permettevano di stampare anche linee molto sottili, cosa impossibile da ottenere attraverso il procedimento di stampa a caratteri mobili. Questi caratteri tuttavia non furono ben accetti in quanto ritenuti «troppo perfetti», come affermato da Sobry11, tanto da giungere a “un’ultra perfezione distruttiva”. Inoltre questo tipo di caratteri veniva ritenuto poco leggibile e i tentativi di razionalizzazione portarono al primo esperimento sulla leggibilità ovvero quello di Anisson: egli fece stampare lo stesso testo nei caratteri Garamond e Didot, successivamente sottopose le pagine stampate ad alcuni lettori, allontanandole di volta in volta dalla posizione del lettore egli dimostrò come il carattere Didot perdesse leggibilità a una distanza nettamente inferiore rispetto al Garamond. Tuttavia il parere discordante della critica non lasciò cadere i caratteri bodoniani e transizionali nell’oblio e ancora oggi i tipi composti da Bodoni, Didot e Baskerville sono simbolo di eleganza e raffinatezza. Spesso la tipografia ottocentesca nella quale la meccanizzazione aveva permesso la creazione di macchine alimentate a motore con una standardizzazione e una suddivisione dei ruoli finora sconosciuta, viene an-

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noverata per la perdita di qualità dovuta all’industrializzazione: secondo questa teoria i caratteri da stampa moderni sono divenuti sempre più sottili fino all’estremo per poi ritornare al disegno dei caratteri antichi con i rispettivi revival ovvero rivisitazioni. A questo complesso standardizzato si oppose un sottobosco di piccoli stampatori-editori che continuavano ad utilizzare strumenti manuali nella convinzione di produrre libri di qualità superiore. Dal punto di vista del disegno del carattere furono due i tipi di caratteri nati nel corso dell’Ottocento: i sans-serif e i caratteri bold, per quanto riguarda la produzione di massa. D’altra parte, i piccoli editori-stampatori, che tentavano di rifarsi ai modelli cinquecenteschi, finirono per creare qualcosa di completamente diverso: William Morris12, ad esempio, si scagliò contro la falsa perfezione dei Bodoni e dei Didot nonché contro l’industrializzazione, al fine di ridare dignità alle arti della calligrafia e della stampa, soffocate dal contesto industriale, attraverso la valorizzazione dell’artigianato. Una ribellione dunque, che nel disegno del carattere portò a una reinterpretazione dei caratteri veneziani e gotici della seconda metà dei Quattrocento, e che diede il via alla produzione di numerosi nuovi caratteri ispirati alla tradizione. Dunque se da una parte vennero ripresi i caratteri “antichi”, dall’altra i “moderni” cominciarono a deformarsi e ad essere utilizzati negli stampati pubblicitari divenendo i cosiddetti ultrabodoni, pallide imitazioni dei caratteri che li ispirarono. Da questa dicotomia nacquero le tendenze del Novecento, alcune volte a rimettere ordine nel caos generato dai revival ottocenteschi, altre, volte a creare sempre

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nuovi caratteri, alcuni validi, altri destinati a cadere nell’oblio in brevissimo tempo. Nell’ambito dei caratteri da stampa per l’editoria, il Novecento sancì la necessità di un ritorno alla tradizione, perpetrato attraverso i caratteri creati dalle nuove aziende produttrici di compositrici meccaniche: la Linotype e la Monotype13. Quest’ultima, in particolare, sotto la guida di Stanley Morison patrocinò la re-incisione dei caratteri che avevano fatto la storia della tipografia, permettendo ai caratteri della tradizione di divenire immortali. Questa necessità di un ritorno alla belle époque tipografica fu forse dettata dalla necessità di stabilire ordine nel caotico mondo dell’editoria novecentesca, fatto di nascenti case editrici molto competitive e di collane tascabili. I caratteri antichi erano dunque status symbol di qualità, un po’ come per le edizioni di Manuzio, e per questa ragione anziché creare nuovi caratteri tipografici se ne utilizzavano altri, già muniti di un’eredità. Morison, venne nominato consulente presso la Monotype di Londra nel 1922, e sotto la sua guida molti furono i caratteri prodotti, alcuni originali e altri redesign di alfabeti preesistenti. Basandosi sui tipi di Granjon, Morison produsse il Times, un carattere destinato alla testata giornalistica “The Times”. Nello stesso secolo Tschichold progettò il carattere Sabon, dopo aver abbandonato per sempre la Nuova Tipografia, rifacendosi ai tipi incisi dal punzonista Sabon per la tipografia di Plantin. Quello di Tschichold fu un caso molto particolare in quanto, negli anni venti egli era tra i sostenitori della nuova tipografia, ovvero una tendenza alla rivoluzione in ambito tipografico volta a portare in auge il carat-

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tere sans-serif e a scardinare le norme tipografiche dettate dal revival dei caratteri antichi producendo artefatti editoriali lineari non solo nel carattere ma anche nella struttura. Questa corrente di pensiero si sviluppò soprattutto nei paesi di lingua tedesca e in Russia, ad opera dei costruttivisti, tuttavia gli orrori dei regimi totalitari degli anni Trenta ebbero, su alcuni degli esponenti di questa corrente progettuale, un impatto talmente forte da portarli a ritornare sui propri passi e a una tipografia più mediata dall’influenza della tradizione, tra questi vi era anche Tschichold il quale, soprattutto nel redesign della veste grafica dei Penguin Books di Allen Lane dimostrò come fosse possibile innovare pur seguendo la tradizione. Il panorama editoriale contemporaneo è molto vasto e la divisione tra grande e media editoria è presente e pregnante. Le grandi case editrici, quelle italiane, nate prevalentemente nella seconda metà del Novecento, hanno adottato vesti grafiche differenti, e spesso curate da grafici di fama internazionale, tuttavia risulta evidente una certa staticità nel layout delle pagine interne del volume, per il quale vengono spesso utilizzati caratteri serif che si rifanno alla tradizione. É il caso di Einaudi che fa creare appositamente la propria versione del Garamond dalla fonderia Simoncini di Bologna, di Adelphi che utilizza il Baskerville, o di Mondadori che stampa in Palatino, recente ma basato su modelli antichi. Il lettore ha delle aspettative su quello che debba essere l’aspetto della pagina che si accinge a leggere, sulla base di convenzioni maturate negli anni, dunque il carattere tipografico permette di donare un aspetto di autorevolezza al testo e di rassicurare il lettore permettendogli di non no-

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tare l’impaginazione e di focalizzarsi sul contenuto. Questa metodologia progettuale presuppone che la tipografia debba rendersi invisibile al lettore, permettendogli una lettura quanto più agevole possibile. In questa concezione la forma segue il contenuto e si adatta ad esso valorizzandolo; così potrebbe spiegarsi la riluttanza da parte delle case editrici a modificare l’assetto della pagina. Questa concezione dell’editoria tuttavia deve scontrarsi con le esigenze del mercato editoriale odierno che richiede una buona dose di innovazione e soprattutto il compromesso con l’editoria digitale, ambito nel quale alcune concezioni devono necessariamente essere scardinate, come ad esempio l’unità della doppia pagina, ed è dunque necessario comprendere come l’editoria contemporanea non possa essere un semplice riadattamento della precedente ma debba fornirsi di una propria, peculiare identità.

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Alcuni dei caratteri che hanno fatto la storia dell’editoria. Dall’alto: Textura, utilizzato da Gutenberg nel 1453; Bembo, realizzato dalla Monotype nel 1929 e ispirato ai caratteri utilizzati da Aldo Manuzio; Plantin, realizzato da Fritz Steltzer nel 1913 e ispirato all’omonimo stampatore; Bodoni, realizzato dalla Fonderia Berthold nel 1930 e ispirato ai tipi incisi da

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Giambattista Bodoni tra il 1765 e il 1813; Garamond Simoncini, realizzato da Francesco Simoncini nel 1958 e Adobe Garamond Pro, realizzato da Robert Slimbach nel 1989, entrambi ispirati ai tipi incisi da Claude Garamond nel 1500.



Parte III — Il testo


Cos’è il testo Ellen Lupton14 definisce così il testo: «Il testo può essere visto come una cosa, un oggetto solido e pieno, oppure come un fluido versato nel contenitore della pagina o dello schermo. Può essere solido o liquido, corpo o sangue». Con l’introduzione della tipografia infatti, il testo assume una connotazione differente rispetto a quella di sequenza continua di parole, è compito del designer dunque coadiuvare il lettore nell’atto di leggere il testo, fino a permettergli di evitare di leggere. Organizzare un testo infatti è un’operazione meno scontata di quanto si pensi, bisogna tenere in conto il contenuto e il contesto in cui esso verrà utilizzato w il medium su cui verrà fruito: formattare un testo che come scopo ultimo avrà quello di essere stampato è un’operazione diversa rispetto a formattare lo stesso testo per fare in modo che esso venga fruito su un dispositivo elettronico di lettura e dunque su uno schermo, la formattazione di un romanzo sarà differente rispetto a quella di un manuale di anatomia, e via dicendo. Ciò dimostra la validità della tesi proposta nel capitolo relativo alla definizione di libro, il libro non è soltanto un testo, esso è un testo organizzato secondo principi programmatici che ne permettono la fruizione. Prima dell’invenzione della stampa i documenti erano redatti a mano e errori e interpolazioni erano all’ordine del giorno. La stampa a caratteri mobili sostituì il sistema di copiatura effettuato dagli amanuensi e permise di compiere un’operazione fondamentale: la revisione del testo. Tuttavia, anche dopo la stampa della copia definitiva il testo non rappresenta altro che un reperto fossile, esso potrà essere

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rivisto nuovamente e modificato per un’edizione successiva, una traduzione o una rivisitazione. Inoltre uno degli elementi caratterizzanti del libro a stampa, e una delle fondamentali differenze tra questo e il libro digitale, consiste nella linearità del testo, che si contrappone alla struttura reticolare del libro digitale, fatta di rimandi e ipertesti di cui si parlerà in seguito. Ciò su cui si vuole porre l’attenzione in questa sede è la stretta correlazione tra il testo e il supporto sui cui esso si mostra, il fatto che, come già affermato, il supporto non sia neutrale rispetto al testo. A tal fine può risultare utile la definizione di due modelli di scrittura contrapposti data da Roland Barthes15: «”l’opera”, chiusa e immutabile e “il testo”, aperto e instabile. L’opera è un oggetto ordinato e confezionato con cura, redatto e protetto dal diritto d’autore, reso perfetto e completo attraverso l’arte grafica. Il testo, al contrario, è impossibile da contenere e agisce mediante una rete disseminata di trame standardizzate e di idee generalmente accettate.» Dunque, dalla definizione di Barthes si deduce che la tipografia abbia contribuito nel dare una forma al testo, liberandolo dalla sua linearità, infatti nonostante la linearità domini nell’ambito del linguaggio, basti pensare che la lingua parlata scorre in un’unica direzione e molta tecnologia contemporanea propone un trattamento lineare del testo, la tipografia ha lo scopo di orientare il lettore e lo libera dalla linearità del testo creando anche strumenti che gli permettano di accedere a determinate parti di esso e di fuggire da altre: questi elementi costituiscono il paratesto e possono essere ad esempio: numeri di pagine, capitoli, paragrafi, sezioni. La perdita di linearità del testo viene esasperata quan-

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do il discorso si sposta dal libro cartaceo a quello digitale: la struttura reticolare dell’e-book, di fatti, permette di creare legami di contenuto tra elementi presenti nello stesso testo ed elementi esterni ad esso, gli ipertesti appunto, da una parte dunque spezza la struttura narrativa lineare, ma dall’altra permette un livello di interattività con altri contenuti maggiore rispetto a quello fornito dal libro cartaceo. Nei capitoli seguenti verrà esplicato il percorso che porta dal testo all’opera.

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Dattiloscritto e testo composto Il dattiloscritto rappresenta la stesura del testo da parte dell’autore, esso non tiene conto del tipo di carattere, del corpo, o del tipo di impaginazione che verranno utilizzati nel prodotto finito dunque sarà necessario calcolare a monte lo sviluppo del testo per valutare il numero di pagine. Normalmente il dattiloscritto consta di 30 righe, ognuna composta da 60 battute, per un totale di circa 1800 battute. Moltiplicando il numero di battute di una pagina per il numero totale di pagine si otterrà il numero totale delle battute. Per conoscere il numero di battute occupate dal testo originale, composto con criteri diversi, nel corpo e nel carattere scelto per l’impaginazione bisogna calcolare il coefficiente tra la misura di una riga dell’originale e quella di una riga di testo impaginato. Il coefficiente può essere calcolato dividendo il numero di battute di una riga dell’originale per il numero di battute di una riga di testo impaginato. Ad esempio se una riga di testo originale è composta da 64 battute e una originale è composta da 41 battute in Helvetica corpo 14 il coefficiente sarà uguale a 1,56 ovvero per ogni riga di testo originale si otterranno 1,56 righe di testo composto. Come già affermato in precedenza, la composizione del testo e la sua successiva impaginazione contribuiscono a conferirgli l’aspetto di libro, a prescindere che si parli di libro cartaceo o digitale, il fatto che esso sia impaginato secondo determinati criteri conferisce ad esso l’autorevolezza propria del libro come medium culturale. I criteri secondo cui un testo viene redatto e impaginato sono di fondamentale importanza al fine di ottenere una pagina armonica, e qualora si volesse invece creare disarmo-

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nia, questa operazione deve essere effettuata con consapevolezza, le regole vanno conosciute alla perfezione per poter essere infrante in bellezza. Il lavoro del progettista editoriale dunque, non si pone al servizio dell’autore o dell’editore, egli deve rendere conto prima di tutto agli utenti finali, i lettori, e agevolarli nel processo di lettura.

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Il testo

Ur atem quodiatur molo Ur atem quodiatur molori de

Ur atem quodiatur molori de vol Ur atem quodiatur molori de volupti Ur atem quodiatur molori de volupti vo Ur atem quodiatur molori de volupti volup Ur atem quodiatur molori de volupti volupta Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tum Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquun Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia dolori Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia doloriti necati Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia doloriti necati vitions eq Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia doloriti necati vitions equiaec tissundes Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia doloriti necati vitions equiaec tissundestis dolest ut volupta

Ur atem quodiatur molori de volupti volupta tumquunti nia doloriti necati vitions equiaec tissundestis dolest ut volupta tquiat magniet et alicaesti bla

Giustezza in relazione al corpo del carattere Sabon rappresentato nei corpi da 4 a 24 punti. Viene evidenziato il corpo in cui è composto questo testo ossia 10 punti.

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Crenatura e spaziatura Si dice crenatura, in inglese kerning, lo spazio che intercorre tra due caratteri contenuti nella stessa parola. La distanza tra due lettere dello stesso carattere è variabile e rientra nell’ambito delle correzioni ottiche che permettono a un testo di risultare leggibile, stabilire delle tavole di crenatura del carattere è una questione di sottili equilibri: le lettere risulterebbero “attaccate” nel caso di una crenatura troppo stretta, mentre una crenatura troppo esasperata farebbe disperdere le parole, compromettendo la leggibilità del testo. Innanzitutto è bene comprendere come in linea di massima lo spazio tra due caratteri aventi tratti simili debba essere minore, come ad esempio tra le lettere A e V o D e O, rispetto a quello tra lettere i cui tratti risultino differenti, come ad esempio O e H. Di norma tuttavia è preferibile utilizzare una crenatura inferiore rispetto a una maggiore. Nella stampa tipografica la modifica della crenatura è detta avvicinamento e consiste nell’inserire in maniera empirica degli spazi, costituiti da blocchetti di metallo e quindi aventi una propria fisicità, tra le lettere, o nel ridurre l’ampiezza delle spalle di un carattere per ridurre lo spazio negativo intorno ad esso. Un carattere ben progettato, di norma, possiede già una tavola di crenatura che è bene non modificare, tuttavia, soprattutto a corpi elevati, potrebbe essere comunque necessario, in relazione al contesto, apportare delle modifiche alla suddetta, ragion per cui si mostrerà come poter stabilire un sistema di crenatura personalizzato. Per stabilire un codice di crenatura bisogna prima di tutto prendere dei punti di riferimento in relazione al corpo e al peso del carattere che si sta utilizzando, al fine di stabi-

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Il testo

lire delle unità standard valide solo ed esclusivamente per quel dato carattere a quel determinato corpo. Per definire le dimensioni delle unità è possibile suddividere la larghezza della lettera “W” in 40 parti o, in alternativa l’altezza della lettera “A” in 32 parti. È bene comprendere come non si debbano prendere come riferimento lettere sulle quali sono state apportate correzioni ottiche né lettere con tratti curvi, in quanto queste fuorvierebbero il calcolo dell’unità, dunque la divisione andrà operata a partire dalla linea ascendente sino a giungere alla linea di base di una lettera che non abbia tratti curvilinei. Inoltre per misurare la crenatura andranno presi come punti di riferimento i tratti estremi inferiori della lettera, sia a sinistra che a destra, i quali costituiranno la linea immaginaria dalla quale fare partire il valore di crenatura, che potrà essere definito attraverso un numero positivo o negativo di unità standard. L’unità standard così trovata permetterà di stabilire lo spazio tra i caratteri in maniera affidabile in quanto creata appositamente e in maniera proporzionale al corpo e al peso degli stessi. Nella terminologia inglese, alla crenatura (kerning) si contrappone il cosiddetto tracking che in italiano potrebbe tradursi con “spazieggiatura”, da non confondere con la spaziatura di cui si parlerà a breve, esso determina il variare dello spazio presente tra tutte le lettere. In genere è pratica comune spaziare le sequenze di numeri, le lettere maiuscole o il maiuscoletto per conferire loro un aspetto regale soprattutto nei titoli, mentre aumentare i valori di tracking delle lettere minuscole è considerato un crimine tipografico, come lo è utilizzare un valore di tracking negativo.

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Un altro valore da tenere in considerazione per quanto riguarda il movimento orizzontale del testo è quello della spaziatura ovvero lo spazio tra le parole. Di norma non è auspicabile aumentare lo spazio tra le parole in quanto esse apparirebbero slegate fra loro e il testo non risulterebbe leggibile e fluido. La distanza che deve intercorrere tra una parola e la seguente può essere calcolata suddividendo, come per il valore di crenatura, l’altezza della lettera “A” in 32 parti e utilizzando 16 unità per stabilire lo spazio standard tra due parole, alle quali vanno sommate le unità di crenatura presenti tra l’ultima lettera della suddetta parola e la prima lettera di quella seguente.

La lettera w viene suddivisa in 40 parti al fine di creare l'unità standard che permetterà di gestire il valore di crenatura x.

40 x

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Il testo

-1 x

+3 x

+2 x

-4 x

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32 x

40 x

32 x

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Il testo

2

4

5

1

3

1

3

3

4

4

1

32 x

La suddivisione della lettera A in 32 parti fornisce l’unità standard per calcolare i valori di crenatura e spaziatura a corpi elevati.

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1

16-1

1

5


Interlinea L’interlinea è lo spazio tra una riga di testo e la successiva, essa definisce il movimento verticale del testo nella pagina e influisce in maniera sostanziale sulla sua leggibilità. A tal proposito la definizione di interlinea fornita da Robert Bringhurst16 sembra calzare a pennello: «Lo spazio nella tipografia è come il tempo nella musica. È divisibile in modo infinito, ma un piccolo numero di intervalli proporzionali può essere molto più utile di una scelta illimitata di quantità arbitrarie. […] Quando si compone il testo, la giustezza viene riempita con il ritmo variato della forma delle lettere che si avvicendano, musica per gli occhi. Lo spazio verticale viene misurato in modo diverso. Non solo bisogna scegliere la misura complessiva, l’altezza della colonna, ma anche un’unità ritmica fondamentale. Questa unità è l’interlinea, vale a dire la distanza tra una linea di base del testo e quella successiva». In genere l’interlinea si misura in punti tipografici e un valore standard è pari a due punti in più del corpo del carattere utilizzato, ad esempio se si sta utilizzando un carattere in corpo 10 l’interlinea standard sarà pari a 12 punti tale che il carattere sarà in corpo 10/12. Quando in un testo il valore dell’interlinea è pari a quello del corpo esso si dice sterlineato, di norma, l’utilizzo di un’interlinea negativa non è auspicabile nella composizione di un testo mentre può essere accettabile per comporre titoli in corpi grandi, a patto che i tratti discendenti delle lettere della prima riga tocchino quelli ascendenti delle lettere della seconda riga. L’interlinea permette al blocco di testo di “respirare” e in genere più la riga di testo è larga, maggiore dovrà essere l’interlinea per sopperire ai problemi di leggibilità. Inoltre

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Il testo

caratteri con un forte contrasto tra i tratti, come i bodoniani, necessitano un’interlinea maggiore rispetto a caratteri dal disegno regolare, come anche i caratteri sans serif rispetto a quelli serif. Qualora invece si stesse componendo un titolo e si avesse dunque la necessità di utilizzare le unità standard di cui si è discusso riguardo crenatura e spaziatura, è bene sapere che l’interlinea è pari a 3 unità standard in genere, e va misurata dal punto estremo in basso di una lettera con tratti discendenti al punto estremo in alto di una lettera maiuscola o con tratti ascendenti, tuttavia il calcolo potrebbe necessitare delle correzioni ottiche in quanto l’equilibrio della composizione così realizzata varia sia in base al carattere che da un peso all’altro.

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Questo testo è stato composto con il carattere Akzidenz Grotesk corpo 21/25,2 pt, ovvero il valore di interlinea preimpostato mentre il testo sotto è stato composto con lo stesso carattere in corpo 21/21 pt.


L’interlinea è lo spazio tra una riga di testo e la successiva, essa definisce il movimento verticale del testo nella pagina e influisce in maniera sostanziale sulla sua leggibilità. A tal proposito la definizione di interlinea fornita da Robert Bringhurst16 sembra calzare a pennello: «Lo spazio nella tipografia è come il tempo nella musica. È divisibile in modo infinito, ma un piccolo numero di intervalli proporzionali può essere molto più utile di una scelta illimitata di quantità arbitrarie. […] Quando si compone il testo, la giustezza viene riempita con il ritmo variato della forma delle lettere che si avvicendano, musica per gli occhi. Lo spazio verticale viene misurato in modo diverso.

L’interlinea è lo spazio tra una riga di testo e la successiva, essa definisce il movimento verticale del testo nella pagina e influisce in maniera sostanziale sulla sua leggibilità. A tal proposito la definizione di interlinea fornita da Robert Bringhurst16 sembra calzare a pennello: «Lo spazio nella tipografia è come il tempo nella musica. È divisibile in modo infinito, ma un piccolo numero di intervalli proporzionali può essere molto più utile di una scelta illimitata di quantità arbitrarie. […] Quando si compone il testo, la giustezza viene riempita con il ritmo variato della forma delle lettere che si avvicendano, musica per gli occhi. Lo spazio verticale viene misurato in modo diverso.

Sabon 8/8 Corpo 8 su 8 punti di interlinea

Sabon 8/9,6 Corpo 8 su 9,6 punti di interlinea

Il testo si dice sterlineato e la leggibilià è ridotta.

Nella grande maggioranza dei programmi di impaginazione l’interlinea è impostata al 120% della misura del corpo.

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Il testo

L’interlinea è lo spazio tra una riga di testo e la successiva, essa definisce il movimento verticale del testo nella pagina e influisce in maniera sostanziale sulla sua leggibilità. A tal proposito la definizione di interlinea fornita da Robert Bringhurst16 sembra calzare a pennello: «Lo spazio nella tipografia è come il tempo nella musica. È divisibile in modo infinito, ma un piccolo numero di intervalli proporzionali può essere molto più utile di una scelta illimitata di quantità arbitrarie. […] Quando si compone il testo, la giustezza viene riempita con il ritmo variato della forma delle lettere che si avvicendano, musica per gli occhi. Lo spazio verticale viene misurato in modo diverso.

L’interlinea è lo spazio tra una riga di testo e la successiva, essa definisce il movimento verticale del testo nella pagina e influisce in maniera sostanziale sulla sua leggibilità. A tal proposito la definizione di interlinea fornita da Robert Bringhurst16 sembra calzare a pennello: «Lo spazio nella tipografia è come il tempo nella musica. È divisibile in modo infinito, ma un piccolo numero di intervalli proporzionali può essere molto più utile di una scelta illimitata di quantità arbitrarie. […] Quando si compone il testo, la giustezza viene riempita con il ritmo variato della forma delle lettere che si avvicendano, musica per gli occhi. Lo spazio verticale viene misurato in modo diverso.

Sabon 8/10 Corpo 8 su 10 punti di interlinea

Sabon 8/11 Corpo 8 su 11 punti di interlinea

In questo caso l’interlinea è leggermente più ampia rispetto al valore standard per favorire una migliore leggibilità.

Aumentando ulteriormente l’interlinea il blocco di testo comincia a perdere la propria solidità per trasformarsi in una serie di righe sconnesse.

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Allineamento Un altro elemento fondamentale nella composizione di un testo è l’allineamento, ovvero la disposizione del testo rispetto ai margini. La scelta del tipo di allineamento va fatta tenendo in considerazione il contesto in cui il testo si trova. Esistono quattro tipi fondamentali di allineamento del testo: giustificato, a bandiera con allineamento a sinistra, a bandiera con allineamento a destra e centrato. Ognuno di essi offre vantaggi e svantaggi nella composizione, per cui è fondamentale utilizzare degli accorgimenti al fine di mantenere la composizione quanto più armonica possibile. Il testo giustificato è quello in cui i margini sinistro e destro sono entrambi regolari, esso ha rappresentato la norma sin dall’origine della stampa a caratteri mobili e dona un aspetto molto regolare alla pagina. Tuttavia, qualora la lunghezza della riga di testo fosse troppo breve rispetto alla dimensione del carattere e il testo non fosse sillabato, potrebbero crearsi i cosiddetti canali tipografici, ovvero degli spazi bianchi di dimensioni notevoli che creano appunto come dei fiumiciattoli all’interno della pagina facendola risultare sgradevole. Il testo giustificato è utile perché permette di ottimizzare lo spazio, e di creare una pagina omogenea e uniforme, tuttavia deve essere preso in considerazione l’utilizzo di rientri a inizio paragrafo e di un’interlinea leggermente maggiore per ragioni di leggibilità. Il testo composto a bandiera con allineamento a sinistra, o più semplicemente sbandierato a sinistra, presenta il margine sinistro regolare e il destro irregolare. Questo tipo di allineamento rispetta il fluire del linguaggio e il senso del discorso, evitando la spaziatura irregolare tipica del testo giustificato, e non va mai sillabato. Uno dei problemi più

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Il testo

comuni dato dal testo allineato a bandiera consiste nella forma assunta dal margine destro della colonna di testo, esso non deve essere troppo irregolare né troppo regolare e soprattutto non deve delineare strane forme come quella a cuneo: l’aspetto della bandiera deve risultare piacevolmente irregolare. Il testo sbandierato a destra, all’opposto del precedente, presenta un margine destro regolare mentre quello sinistro è irregolare. Per questo tipo di allineamento valgono le stesse regole precedentemente enunciate per l’allineamento a sinistra, tuttavia esso va usato con molta cautela e solo per testi relativamente brevi, in quanto nella società occidentale la lettura procede da sinistra verso destra, dunque il fatto che le righe di testo non comincino tutte nello stesso punto forza l’occhio a ricercare, ogni volta che va a capo, l’inizio della riga, compromettendo la fluidità del discorso. Tuttavia il testo allineato a destra è un utile diversivo rispetto alla normalità del testo e può essere utilizzato con successo per comporre didascalie, note a margine e barre laterali. Infine l’allineamento centrato detto anche composizione a epigrafe è un tipo di allineamento simmetrico, nel quale il testo si dispone ai due lati di un asse verticale di simmetria, e dunque presenta entrambi i bordi irregolari. In genere si utilizza per testi brevi, quando ad essi si voglia dare un tono formale e classico. Esso manda a capo il testo per enfatizzarne il significato e crea una forma organica che risponde al flusso del contenuto, tuttavia va utilizzato con cura data la sua staticità che può farlo apparire fermo e pesante, persino luttuoso.

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Testo giustificato

Bandiera a sinistra

Un altro elemento fondamentale nella composizione di un testo è l’allineamento, ovvero la disposizione del testo rispetto ai margini. La scelta del tipo di allineamento va fatta tenendo in considerazione il contesto in cui il testo si trova. Esistono quattro tipi fondamentali di allineamento del testo: giustificato, a bandiera con allineamento a sinistra, a bandiera con allineamento a destra e centrato. Ognuno di essi offre vantaggi e svantaggi nella composizione, per cui è fondamentale utilizzare degli accorgimenti al fine di mantenere la composizione quanto più armonica possibile.

Un altro elemento fondamentale nella composizione di un testo è l’allineamento, ovvero la disposizione del testo rispetto ai margini. La scelta del tipo di allineamento va fatta tenendo in considerazione il contesto in cui il testo si trova. Esistono quattro tipi fondamentali di allineamento del testo: giustificato, a bandiera con allineamento a sinistra, a bandiera con allineamento a destra e centrato. Ognuno di essi offre vantaggi e svantaggi nella composizione, per cui è fondamentale utilizzare degli accorgimenti al fine di mantenere la composizione quanto più armonica possibile.

Il testo giustificato presenta entrambi i margini regolari.

Nel testo sbandierato a sinistra il margine sinistro è netto mentre quello destro è frastagliato.

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Il testo

Composizione a epigrafe

Bandiera a destra Un altro elemento fondamentale nella composizione di un testo è l’allineamento, ovvero la disposizione del testo rispetto ai margini. La scelta del tipo di allineamento va fatta tenendo in considerazione il contesto in cui il testo si trova. Esistono quattro tipi fondamentali di allineamento del testo: giustificato, a bandiera con allineamento a sinistra, a bandiera con allineamento a destra e centrato. Ognuno di essi offre vantaggi e svantaggi nella composizione, per cui è fondamentale utilizzare degli accorgimenti al fine di mantenere la composizione quanto più armonica possibile.

Un altro elemento fondamentale nella composizione di un testo è l’allineamento, ovvero la disposizione del testo rispetto ai margini. La scelta del tipo di allineamento va fatta tenendo in considerazione il contesto in cui il testo si trova. Esistono quattro tipi fondamentali di allineamento del testo: giustificato, a bandiera con allineamento a sinistra, a bandiera con allineamento a destra e centrato. Ognuno di essi offre vantaggi e svantaggi nella composizione, per cui è fondamentale utilizzare degli accorgimenti al fine di mantenere la composizione quanto più armonica possibile.

Nel testo sbandierato a destra il margine destro è netto mentre quello sinistro è frastagliato.

Nella composizione a epigrafe le righe sono centrate tra i margini e dunque simmetriche mentre i bordi sono frastagliati.

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Gerarchie Il contenuto di un libro è spesso organizzato su più livelli e suddiviso in sezioni per essere reso più fruibile. Il numero e il tipo di sezioni dipende dal contesto e dal genere di testo che si sta impaginando: un romanzo ha meno necessità di dover essere spezzato rispetto a un manuale scolastico, nel primo il racconto viene fruito in maniera continua e probabilmente sarà necessaria una semplice suddivisione in capitoli, mentre nel secondo l’utente, dovendo di fissare i concetti, può esplorare il testo in maniera differente, fissando alcuni punti chiave e senza necessariamente procedere in ordine lineare. La gerarchia dunque può essere definita come la segnaletica del testo, essa aiuta il lettore a trovare una strada e gli fornisce una chiave interpretativa. Se il contenuto del libro è organizzato in livelli sarà dunque necessario segnalare la presenza dei suddetti stabilendo appunto una gerarchia che può esplicarsi attraverso segnali spaziali come rientri e stacchi di riga, oppure attraverso segnali grafici, come lo stile, la dimensione e il colore del carattere, tenendo in considerazione il fatto che in ambito tipografico molto spesso è raccomandata una certa dose di ridondanza ovvero dall’utilizzo, ad esempio di due segnali per ogni livello come nell’inserimento di un a capo e di un rientro all’inizio di ogni paragrafo, tuttavia non bisogna esagerare con i segnali in quanto essi potrebbero generare confusione. Anche il testo corrente può contenere dei contenuti che vanno enfatizzati, ad esempio delle parole chiave o degli ipertesti: in questo caso ricorrere alle convenzioni è fondamentale al fine di far comprendere al lettore quale tipo di enfasi si è voluto dare a un determinato termine, se ad esem-

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Il testo

pio, in un libro elettronico una parola appare di colore blu e sottolineata l’utente comprenderà immediatamente che si tratta di un ipertesto, mentre se nella lettura di un libro ci si imbatte in termini in corsivo, in neretto o in maiuscoletto sarà chiaro come questi siano stati enfatizzati al fine di permettere al lettore di individuarli immediatamente sulla pagina.

Titolo

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Suddivisione Le suddivisioni all’interno del corpo del testo sono funzionali all’esposizione dei diversi argomenti che ne compongono la struttura. Esse possono essere espresse formalmente attraverso schemi convenzionali e standard redazionali che variano in base alle norme editoriali vigenti in una determinata casa editrice, ragion per cui a volte lo schema di suddivisione viene definito prima che il testo venga scritto, mentre in altri casi l’autore si troverà a lavorare senza indicazioni a riguardo, dovendo operare scelte personali. Ad ogni modo una normativa ISO17 – ISO 2145 Numbering of divisions and subdivisions in written documents – definisce in maniera generica un sistema di suddivisione e numerazione sistematica dei testi che prevede l’adozione di successivi livelli gerarchici di suddivisione contrassegnati nel primo livello dai numeri arabi progressivi (1, 2, 3, ecc) e nei livelli successivi dal numero della suddivisione di appartenenza e dal loro progressivo all’interno della suddetta suddivisione (2.1, 2.2, 2.1.1, ecc.), tuttavia è bene suddividere il testo con parsimonia e solo laddove una suddivisione sia realmente necessaria in quanto un elevato numero di livelli appesantirebbe il testo in maniera eccessiva rendendone difficile la fruizione. Esistono vari tipi di suddivisioni per quanto riguarda il corpo del testo: sezioni, capitoli, parti, e paragrafi. In via generale, ogni suddivisione del testo può essere denominata sezione. Quando la struttura del testo lo richiede alle sezioni possono essere assegnati vari livelli gerarchici ed esse si definiranno sezioni di primo livello, di secondo, di terzo, e via dicendo. Ogni sezione deve essere indicata da un titolo preceduto dall’eventuale numerazione, qualora

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Il testo

quest’ultima non venisse adottata è bene utilizzare i criteri di gerarchia descritti precedentemente per di differenziare i diversi livelli di sezioni. Nel caso di testi molto brevi, che richiedono un solo livello di suddivisione, in luogo del termine sezione può essere utilizzato il termine punto, in tal caso i punti non devono necessariamente essere indicati da un titolo ma possono essere identificati attraverso una semplice numerazione progressiva. La numerazione delle sezioni è utile come riferimento per i rimandi interni, ma può essere tralasciata qualora non se ne avesse esigenza. Nei testi di una certa lunghezza e complessità le sezioni di primo livello in genere vengono denominate capitoli. All’interno del testo ogni capitolo è segnalato attraverso il titolo del suddetto preceduto dall’eventuale numero il quale può a sua volta essere preceduto dal termine “capitolo”. Nei testi redatti da più autori in genere i capitoli non vengono numerati e al titolo del capitolo segue sempre il nome dell’autore. In alcuni casi il testo effettivo di un capitolo è preceduto da un sommario che ne sintetizza il contenuto, oppure qualora lo si ritenga necessario, esso può essere preceduto da un testo d’esordio posto immediatamente a seguito del titolo. Quando i capitoli che compongono il testo possono essere raggruppati in sezioni più ampie queste prenderanno il nome di parti, che risultano funzionali nel momento in cui ognuna di esse tratti diversi aspetti relativi all’argomento. Ogni parte può contenere un numero qualsiasi di capitoli, essa verrà indicata attraverso un titolo e un numero progressivo.

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Qualora i capitoli fossero numerati si può scegliere di utilizzare le cifre romane per numerare le parti, in ogni caso la numerazione dei capitoli deve procedere in ordine progressivo senza interrompersi per ricominciare all’inizio di ogni parte. Spesso all’interno del testo l’inizio di ogni parte è costituito dal titolo della suddetta preceduto dal termine “parte” e dal numero progressivo, ad esempio: Parte 1 — il libro.

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Testo e paratesto Fin qui si è parlato del corpo del testo, tuttavia un libro possiede delle connotazioni legate alla sua forma che influiscono sul suo contenuto e su come esso viene percepito. Orientare il lettore è il compito di ogni designer, ragion per cui esistono norme redazionali che permettono di stabilire dei criteri di utilizzo della tipografia al fine di rendere agevole lo sviluppo del libro. Un primo esempio può essere dato dal corretto utilizzo e dalla corretta impaginazione di titoli, sottotitoli e dei paragrafi, nonché di altri elementi funzionali al testo come inserti, note e citazioni. Il titolo contrassegna una porzione significativa del testo e svolge la funzione di indicarne l’argomento. Al termine del titolo non va mai inserito il punto, mentre possono comparire il punto interrogativo o il punto esclamativo. In genere i titoli utilizzano un corpo e un peso diversi rispetto a quelli del corpo del testo e possono presentare una maggiore spaziatura verticale che li separi dal testo seguente al fine di enfatizzarli. In genere ogni capitolo viene riportato su una nuova pagina. Inoltre essi vengono generalmente composti in minuscolo con l’iniziale maiuscola, riservando il tutto maiuscolo per i titoli delle parti. Inoltre è bene far in modo che i titoli non occupino più di una riga, tuttavia, qualora fosse necessario spezzarli su due righe, bisognerebbe farlo mantenendo un certo senso logico ed evitando la punteggiatura a fine riga. I titoli delle sezioni di livello più basso rispetto ai capitoli vengono scritti invece sulla stessa riga di inizio del testo e differenziati da esso ad esempio dall’uso del corsivo; in tal caso essi devono essere seguiti dal punto. In alcuni casi può essere utile accompagnare i titoli con altre informazioni correlate, i cosiddetti sottotitoli: il titolo

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principale corrisponde dunque a un primo livello di informazione mentre il sottotitolo fornisce un successivo livello di dettaglio. Esso può essere separato dal titolo mediante l’utilizzo di un segno, ad esempio la lineetta (—) o il trattino medio (-). Esso avrà inoltre l’iniziale maiuscola in quanto consiste in una proposizione compiuta e separata dal titolo. In alternativa esso può essere riportato una riga al di sotto del titolo e può essere caratterizzato dall’utilizzo di un peso e di un corpo del carattere differenti. Il paragrafo è l’unità minima del testo, il livello elementare di frammentazione individuabile dal lettore. Esso è costituito da un tratto di testo compreso tra due ritorni a capo nel quale sono compresi periodi grammaticali chiusi dal punto e scritti uno di seguito all’altro senza ritornare a capo. Il paragrafo deve dunque corrispondere a un tratto compiuto dell’esposizione e costituire una singola unità informativa per il lettore. Esso nasce come convenzione letteraria al fine di rendere il contenuto più gradevole al lettore e generalmente, dal punto di vista tipografico il suo inizio può essere segnalato tramite: un semplice ritorno a capo, un ritorno a capo con rientro, il rientro potrà essere anche negativo, in tal caso viene detto rientro a sommario, un ritorno a capo e spaziatura verticale, attraverso l’aggiunta di spazio nella riga di testo e dunque senza andare a capo, o infine attraverso l’utilizzo di simboli. Jan Tschichold18 fornisce delle importanti delucidazioni riguardo il motivo per cui il ogni inizio di paragrafo debba avere un rientro e come questa sia pratica comune sin dagli incunaboli medievali, nel quali lo spazio del rientro veniva lasciato vuoto per permettere al rubricatore di trac-

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Il testo

ciarvi il simbolo di paragrafo, per il quale veniva utilizzato l’inchiostro rosso – ruber – spesso però il segno non veniva tracciato e dunque con l’andare del tempo ci si convinse che il rientro quadrato, pari alla misura del corpo del carattere fosse sufficiente ad indicare l’attacco di un nuovo paragrafo. Tschichold afferma inoltre che vi è un solo caso in cui il rientro risulta superfluo: sotto un titolo centrato. Qui il paragrafo dovrà essere allineato a sinistra, mentre se il titolo è allineato a sinistra sarà necessario inserire il rientro. In genere il rientro deve essere largo quanto la misura del corpo del carattere ma può essere ristretto o allargato in base alle circostanze. Le note sono tratti di testo presentati separatamente rispetto al testo ordinario al fine di non comprometterne la continuità di esposizione. La loro funzione può essere quella di riportare commenti o spiegazioni, in tal caso vengono dette note di contenuto, o di esprimere riferimenti bibliografici, dette dunque note bibliografiche. Esse vengono generalmente indicate nel testo corrente attraverso l’utilizzo di numeri esponenti progressivi la cui progressione non si interrompe all’inizio di ogni capitolo. Esse possono essere inserite a piè di pagina, chiaramente separate dal testo corrente e con un corpo leggermente inferiore, o in alternativa raccolte a chiusura del libro o, qualora lo si ritenesse necessario ai fini della comprensione del testo, a chiusura di ogni capitolo. Qualora il testo dovesse contenere poche note esse possono essere indicate attraverso un asterisco e inserite al piede della pagina. Il numero di nota va inserito in forma di esponente solo all’interno del testo corrente mentre nel testo del-

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la nota esso deve essere composto con lo stesso corpo della stessa. La nota può essere impaginata senza rientri, preceduta dal numero e da un punto separati dal testo per mezzo di uno spazio sottile, in alternativa il numero può avere un rientro negativo e risultare sporgente, o ancora, essa potrà avere la prima riga allineata a sinistra seguita dalle altre righe con rientro quadrato. Qualora si decidesse di inserire l’elenco delle note al termine del libro esse dovranno essere suddivise in base ai capitoli a cui fanno riferimento, mentre qualora si decida di disporle a piè di pagina esse dovranno essere impaginate nella stessa pagina del testo corrente a cui fanno riferimento. Si dice citazione un tratto di testo preso direttamente da un altro testo e riportato alla lettera indicandone la fonte, spesso attraverso una nota. Nella lingua italiana le citazioni vanno indicate inserite all’interno di virgolette caporali («») in tondo, possono essere inserite all’interno del testo corrente o separate da esso e caratterizzate da un rientro pari a quello di inizio paragrafo o leggermente maggiore. Ad eccezione di quando precedono lettere di forma triangolare e dopo i punti, esse devono sempre essere composte con l’utilizzo di uno spazio sottile. Per quanto riguarda la punteggiatura essa va in genere inserita dopo la chiusura delle virgolette, tuttavia qualora la frase citata fosse composta da un periodo completo il punto andrà inserito all’interno delle suddette e alla chiusura di virgolette seguirà una lettera maiuscola. Nel caso in cui fosse presente una citazione all’interno della citazione sarebbe bene utilizzare le virgolette singole (‹›) per la citazione interna, nonostante utilizzare prima le virgolette singole e

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Il testo

successivamente quelle doppie sia comunque considerata una pratica corretta. L’utilizzo dei vari pesi di un carattere è un territorio ricco di insidie, l’utilizzo di troppe varianti al fine di dare enfasi potrebbe confondere il lettore, mentre non utilizzarle affatto potrebbe disorientarlo nei confronti di un paragrafo troppo uniforme. Le lettere maiuscole hanno una storia molto più antica rispetto alle minuscole, nonostante queste ultime oggi detengano il potere per questioni legate alla leggibilità, alle convenzioni e al supporto. Ad esse si è poi aggiunto il maiuscoletto, come anche le cifre arabe, mentre il corsivo in un primo momento veniva utilizzato in sostituzione del tondo e non insieme ad esso, ad eccezione delle maiuscole. Il maiuscolo inclinato fu sviluppato solo a partire dal 1500 mentre le varianti neretto e stretto divennero di moda solo nel 1800. Il tondo minuscolo è la variante che viene utilizzata per il testo a correre, esso ha un aspetto regolare e le altre varianti aggiungono movimento ed enfasi alla pagina. Ogni variante ha un proprio peso, nero e neretto possono essere utilizzati, ad esempio, per segnalare titoli e sottotitoli, numeri o parole chiave, mentre il corsivo, inizialmente utilizzato per la prefazione, le note e le citazioni fuori testo, cominciò a mescolarsi al tondo nel 1500 per dare enfasi a singole parole e segnalare specifiche categorie di informazione. Il maiuscoletto in genere è utilizzato per dare enfasi, per comporre la prima frase di un paragrafo, o per scrivere il nome di un autore in una nota bibliografica.

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L’utilizzo dei vari pesi di un carattere è un territorio ricco di insidie, l’utilizzo di troppe varianti al fine di dare enfasi potrebbe confondere il lettore, mentre non utilizzarle affatto potrebbe disorientarlo nei confronti di un paragrafo troppo uniforme. Le lettere maiuscole hanno una storia molto più antica rispetto alle minuscole, nonostante queste ultime oggi detengano il potere per questioni legate alla leggibilità, alle convenzioni e al supporto. Ad esse si è poi aggiunto il maiuscoletto, come anche le cifre arabe, mentre il corsivo in un primo momento veniva utilizzato in sostituzione del tondo e non insieme ad esso, ad eccezione delle maiuscole.

Vari modi per segnalare la presenza di un paragrafo. Rientro e a capo

L’utilizzo dei vari pesi di un carattere è un territorio ricco di insidie, l’utilizzo di troppe varianti al fine di dare enfasi potrebbe confondere il lettore, mentre non utilizzarle affatto potrebbe disorientarlo nei confronti di un paragrafo troppo uniforme. Le lettere maiuscole hanno una storia molto più antica rispetto alle minuscole, nonostante queste ultime oggi detengano il potere per questioni legate alla leggibilità, alle convenzioni e al supporto. Ad esse si è poi aggiunto il maiuscoletto, come anche le cifre arabe, mentre il corsivo in un primo momento veniva utilizzato in sostituzione del tondo e non insieme ad esso, ad eccezione delle maiuscole.

Solo a capo

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Il testo

L’utilizzo dei vari pesi di un carattere è un territorio ricco di insidie, l’utilizzo di troppe varianti al fine di dare enfasi potrebbe confondere il lettore, mentre non utilizzarle affatto potrebbe disorientarlo nei confronti di un paragrafo troppo uniforme.   Le lettere maiuscole hanno una storia molto più antica rispetto alle minuscole, nonostante queste ultime oggi detengano il potere per questioni legate alla leggibilità, alle convenzioni e al supporto. Ad esse si è poi aggiunto il maiuscoletto, come anche le cifre arabe, mentre il corsivo in un primo momento veniva utilizzato in sostituzione del tondo e non insieme ad esso, ad eccezione delle maiuscole.

Spazio aggiuntivo nella riga di testo, senza a capo

L’utilizzo dei vari pesi di un carattere è un territorio ricco di insidie, l’utilizzo di troppe varianti al fine di dare enfasi potrebbe confondere il lettore, mentre non utilizzarle affatto potrebbe disorientarlo nei confronti di un paragrafo troppo uniforme.

A capo e mezza riga di stacco

Le lettere maiuscole hanno una storia molto più antica rispetto alle minuscole, nonostante queste ultime oggi detengano il potere per questioni legate alla leggibilità, alle convenzioni e al supporto. Ad esse si è poi aggiunto il maiuscoletto, come anche le cifre arabe, mentre il corsivo in un primo momento veniva utilizzato in sostituzione del tondo e non insieme ad esso, ad eccezione delle maiuscole.

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Vari tipi di virgolette: virgolette caporali doppie, virgolette caporali singole, virgolette alte doppie e virgolette alte singole. Nella lingua italiana le citazioni vanno inserite all’interno di un paio di virgolette caporali con le punte rivolte verso l’esterno, tuttavia ogni lingua presenta regole diverse circa l’utilizzo delle virgolette.Â

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Il testo

Molti caratteri serif, come il Sabon, presentano cifre arabe maiuscole e minuscole. Le cifre maiuscole hanno la stessa altezza e poggiano sulla medesima linea di base, mentre quelle minuscole, dette anche cifre Old style o anche numeri saltellanti non poggiano sulla stessa linea di base e presentano altezze differenti; esse si prestano bene ad essere inserite all’interno del testo corrente.

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Parte IV — L’immagine


Leggere l’immagine L’immagine non è un elemento subordinato al testo, o quantomeno non deve necessariamente esserlo: che sia essa un’illustrazione o una fotografia è un medium complesso e carico di significati e, nonostante sembri immediato nella sua fruizione molto spesso è capace di racchiudere molte informazioni su piani differenti e con una struttura lontana dalla linearità del testo, che sebbene possa peccare di eccessiva lunghezza, tranne quando non esplicitamente utilizzato per creare delle ambiguità, mantiene una struttura lineare e semplice che si contrappone a quella dell’immagine. Esistono libri di sole immagini, tuttavia non bisogna declassare i suddetti come libri per bambini, qualora si trattasse di libri illustrati, o libri specifici del settore, come i libri fotografici. Quando invece testo e immagine sono contenuti nello stesso libro in genere si ha la tendenza a considerare l’immagine come qualcosa che spieghi il testo, che lo illustri, mentre a uno sguardo più approfondito si comprende come essa sia foriera di significati che aggiungono informazioni al testo e che da esso non possono essere veicolate. Il testo che segue è ispirato al workshop tenuto da Bruno Monguzzi19 presso L’Accademia di Belle Arti di Catania dal 19 al 23 settembre 2016 dal titolo L’immagine fotografica. Contenuto, contesto e senso. Nel corso dell’intero workshop è stato oggetto d’analisi un particola libro, The photographer’s eye di John Szarkowski20, e ne sono stati analizzati i criteri di impaginazione seguendo un decalogo che esplica i fattori secondo cui l’immagine viene letta e secondo cui le si attribuisce senso. Prima di tutto bisogna considerare la dimensione dell’im-

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L’immagine

magine e come essa interagisca con il campo creando senso: un immagine più grande vuole richiamare l’attenzione su di sé, vuol permettere di notare il particolare, ma può essere rischioso inserire un’immagine di grandi dimensioni solo per uno sfizio formale: la dimensione attribuisce un peso al significato e crea modifiche di senso, dunque è bene scegliere con cura quali immagini inserire e la modalità in cui farlo. Il secondo fattore riguarda la collocazione dell’immagine nella pagina, l’inserimento in un contesto che è fatto per il lettore di fattori endogeni, ovvero ciò che è percepito attraverso i sensi, e fattori esogeni ovvero le circostanze interne che permettono al lettore di recepire in maniera più o meno ampia una determinata immagine sulla base della propria forma mentis nonché della propria capacità di recepire un determinato messaggio. Ogni variazione nella collocazione e nella dimensione dell’immagine crea modifiche di senso. Il terzo fattore riguarda l’orientamento dell’immagine, verticalità e orizzontalità possono creare fragili equilibri, dinamismo ma anche staticità, se il lettore vede un’immagine ruotata cercherà di attribuire un senso alla suddetta rotazione. Il quarto fattore riguarda invece il punto di vista e dunque dipende da un’immagine in particolare. Il lettore dovrebbe sempre essere in grado di guardare l’immagine dallo stesso punto di vista del fotografo o dell’illustratore e dunque un’immagine in cui il punto di vista sia dall’alto potrebbe collocarsi in basso per enfatizzare il suddetto punto di vista e rendere giustizia al lavoro di chi l’ha realizzata. Il quinto fattore riguarda la scala, che si distingue dalla dimensione in quanto fa riferimento alla scala degli elemen-

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ti interni all’immagine: un’immagine grande che racchiude un soggetto molto ristretto può creare una forte iperbole se accostata a un’immagine di dimensioni ridotte che però racchiude uno spazio grande e creare significati inaspettati. La scala dunque permette di stabilire delle gerarchie di significato tra immagini accostate, permette di creare un percorso di lettura insieme ai fattori citati precedentemente e a quelli a seguire. Il sesto fattore riguarda la scala tonale o gamma cromatica che permette di fare interagire immagini, anche molto diverse, per analogia o per contrasto, legandole indissolubilmente. Il settimo fattore riguarda invece la struttura, qui si fa riferimento a due tipi di struttura: quella grafica e quella latente. La struttura grafica è ciò che viene tracciato sulla carta, è replicabile e esemplificabile: ad esempio la foto di un uomo impiedi può essere esemplificata attraverso una linea verticale. La struttura latente, d’altra parte, è molto più sottile da riconoscere e fa capo al significato dell’immagine: uno sguardo, un’espressione, non sono segnali che hanno a che fare con la composizione della suddetta, tuttavia possono indirizzare gli occhi del lettore e permettergli di attribuire senso a ciò che sta guardando, di tracciare dei percorsi. Non considerare la struttura latente è una banalizzazione di un significato complesso nonché uno spreco di potenziale. L’ottavo fattore è costituito dal segno, dalla texture dell’immagine e da quanto essa sia preponderante, due immagini molto differenti possono essere accomunate per la presenza di strutture segniche condivise.

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L’immagine

Gli ultimi due fattori, infine, riguardano il contenuto e il significato, ove con contenuto si intende la presenza, anche minima, di tutti i fattori sopraelencati, ad eccezione del segno, che definiscono il contenuto attraverso un processo di interazione. Il significato invece può essere ritenuto il risultato di processi di interazione tra la struttura fisica dell’immagine e il suo contenuto e fa riferimento al sé mentale di chi osserva, che può essere influenzato dal progettista. Il cervello umano opera in maniera predittiva, ovvero connette le informazioni in maniera consecutiva attraverso legami causa-effetto e crea delle previsioni che si aspetta siano rispettate. Una sequenza di immagini permette al lettore di prevedere il passo successivo in maniera consequenziale e ne controlla il comportamento. È compito del progettista mettere il lettore nelle condizioni di comprendere il significato dell’immagine attraverso la creazione di un sé mentale che permetta al lettore di comprendere come la narrazione si stia sviluppando.

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Dimensione Lo spazio occupato dalle immagini crea una relazione tra esse e il campo all’interno del quale sono state poste.

Collocazione Una parte fondamentale dell’interazione tra l’immagine e il campo che la contiene, come tra essa e altre immagini, è data dalla collocazione della stessa rispetto al campo e alle altre immagini: la vicinanza indica in genere relazione mentre la distanza contrasto.

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L’immagine

Orientamento Il formato rettangolare di molte immagini crea equilibri differenti in base alle proprie proporzioni, riuscendo a far percepire a volte un forte dinamismo, altre una forte stabilità, portata all’acme dal formato quadrato.

Punto di vista Il punto di vista da cui è stata realizzata l’immagine può essere enfatizzato mediante l’impaginazione, come in questo caso: l’immagine di sinistra è vista dal basso ed è stata posizionata in alto per accentuarne il punto di vista, viceversa per quella di destra.

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Scala Qui la scala è utilizzata per creare un’iperbole in quanto le immagini più piccole contengono un vasto panorama, mentre l’immagine più grande rappresenta un particolare.

Gamma cromatica Le due immagini presentano collocazioni differenti tuttavia sono accomunate da una gamma cromatica simile.

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L’immagine

Struttura La struttura grafica e quella latente interagiscono per massimizzare il contenuto. In questo caso la struttura grafica è data dal tronco che sebbene non abbia alcun significato conduce l’occhio del lettore alla pagina di sinistra in cui si trovano due punti di interesse, uno grafico, la lattina, e uno latente, lo sguardo dell’uomo.

Segno Nonostante le due immagini siano profondamente diverse esse sono accomunate da una struttura segnica prettamente bidimensionale. Quest’ultima non è presente in ogni immagine, a differenza dei fattori citati in precedenza, tuttavia può assumere una forte pregnanza nel momento in cui diventa preponderante.

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Impaginazione «Lavorare con le immagini significa scegliere il tipo di immagine (ad esempio un’illustrazione o una fotografia), individuarne la modalità comunicativa (ad esempio un’icona o un pittogramma) e valutarne l’uso sul piano pratico ( ad esempio la risoluzione e il supporto, cartaceo o digitale, su cui verrà visualizzata.»21 L’immagine può infatti non presentarsi da sola e dunque può dover interagire con altre immagini o testi. Il rispetto per il contenuto dell’immagine deve essere la priorità per il progettista, ad esempio nell’interazione tra due immagini, variazioni e somiglianze rispetto ai fattori sopraindicati possono conferire significati differenti. Due immagini di uguale dimensione collocate su due pagine affiancate entrambe al centro della pagina vengono percepite come un dittico, non come singole immagini, mentre ad esempio due immagini di dimensioni differenti collocate ai due angoli opposti della pagina esprimono un grado minore di correlazione e possono voler enfatizzare un determinato aspetto, come una variazione sostanziale del punto di vista. La creazione di una sequenza non si conclude nell’accostamento delle doppie pagine ma sottende il modo in cui il libro viene fruito: quando il lettore apre il libro, a discapito di quanto si pensi comunemente, vede prima la pagina di destra e solo in un secondo momento quella di sinistra, questo tipo di interazione è detta simultanea diretta. Sfogliando per giungere alla due pagine successive il contatto avviene tra la pagina di destra precedente e quella di destra successiva, detta successiva diretta. L’interazione tra la pagina di sinistra precedente e quella di destra successiva è detta invece simultanea indiretta, mentre quella tra la pagina di destra

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L’immagine

precedente e quella successiva di sinistra è detta successiva indiretta. Quanto detto facendo riferimento alle sole immagini può e deve essere applicato anche nell’interazione tra testo e immagine, sottostando alle regole della percezione visiva: realizzare un libro che contenga entrambi è un’operazione affatto banale. Per dirla con Monguzzi: «Bisogna innamorarsi del problema.»

Sfogliando un libro il lettore vede per prima la pagina di destra, in questo caso pagina 3: l’interazione tra le pagine 3 e 2 è detta simultanea diretta. L’interazione che si genera tra le pagine 3 e 5 è detta invece successiva diretta, mentre quella tra le pagine 2 e 5 è una simultanea indiretta; infine l’interazione tra le pagine 3 e 4 è detta successiva indiretta.

2-3

4-5

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Proporzioni e dimensioni Al fine di essere inserita all’interno della pagina l’immagine può avere bisogno di essere ridimensionata. Prima di tutto bisogna accertarsi che l’immagine che si sta inserendo abbia delle dimensioni e una risoluzione adeguati, verificabile attraverso i software di photo editing come Adobe Photoshop nel caso in cui si tratti di un’immagine digitale. La risoluzione adeguata per un’immagine a stampa deve in genere essere di un minimo di 300 ppi, acronimo che sta per pixels per inch, ciò significa che ogni pollice (corrispondente a 2,54 cm) contiene 300 pixel. In fase di stampa i ppi sono detti dpi ovvero dots per inch in quanto si fa riferimento al numero di punti di inchiostro che la macchina da stampa riesce a stampare in un pollice di spazio. Il discorso cambia se si tratta di un’immagine da inserire in un libro elettronico, in quanto la risoluzione dipenderà anche da quella dello schermo su cui essa verrà fruita e, come si vedrà in seguito, alcuni dispositivi hanno schermi a risoluzione maggiore rispetto ad altri, per cui un buon compromesso potrebbe essere rappresentato da una risoluzione di 150 ppi che, nonostante faccia perdere qualità su dispositivi con display retina come l’iPad di Apple, ha un peso inferiore e non rallenta le prestazioni del file contenente l’e-book. Se un’immagine ha dimensioni 20x30 cm alla sua massima risoluzione, un’ingrandimento causerà una perdita di risoluzione per sopperire alla maggiore area da riempire. Ricampionare l’immagine attraverso i vari metodi di interpolazione offerti dai programmi di fotoritocco può dar luogo a risultati inattesi e deludenti ed è in genere sconsigliabile in quanto i pixel mancanti vengono aggiunti dal programma sulla base di quelli presenti e dunque la resa

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L’immagine

non è ottimale: è bene scegliere sempre immagini di alta qualità in termini di dimensioni e risoluzione. Tenendo a mente di non eccedere le dimensioni massime dell’immagine essa può essere utilizzata a dimensione originale, ridotta proporzionalmente o tagliata per mostrarne un particolare. Non bisogna distorcere l’immagine per adattarla ai criteri di impaginazione, la riduzione va operata in maniera geometrica tracciando una diagonale sull’immagine e scalando sulla base della suddetta o in alternativa attraverso il calcolo proporzionale A:B=C:X per cui se ad esempio si ha un’immagine che misura 20x30 cm e la si vuole ridurre per fare in modo che la base misuri 15 cm l’altezza verra calcolata nel seguente modo: (15x30)/20 ovvero 450/20 cioè 22,5 cm. Esistono fondamentalmente due categorie di immagini digitali: vettoriali e raster, in riferimento alle modalità con cui esse vengono generate, salvate e utilizzate. Ciascuna presenta specifici vantaggi e svantaggi, nonché svariate modalità di utilizzo. Le immagini raster sono costituite da pixel disposti su una griglia che contengono informazioni cromatiche. Esse non sono scalabili, come già affermato, dunque ogni ingrandimento oltre le dimensioni originali comporta una perdita di qualità. Le immagini vettoriali, d’altro canto, sono costituite da singoli oggetti scalabili e indipendenti dalla risoluzione in quanto definiti da regole matematiche anziché da pixel, ragion per cui possono essere scalate all’infinito. Tuttavia non si può utilizzare un formato vettoriale per rappresentare immagini fotorealistiche, esso si presta invece bene nel disegno di illustrazioni, caratteri e icone.

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Parte V — La carta


Materiali e fabbricazione Questo capitolo, a differenza dei precedenti, tratta un argomento che è proprio solo ed esclusivamente del libro cartaceo e non di quello digitale e costituisce uno dei punti di snodo nel dibattito fra i due tipi di libro. Infatti il supporto cartaceo non è affatto neutro e porta con sé connotazioni fondamentali e difficili da abbandonare. Esistono svariati tipi di carta, come si vedrà in seguito, e la scelta della carta adatta al contesto è tutt’altro che semplice. In primo luogo va considerato il tipo di testo che si sta impaginando, se il testo è ricco di immagini potrebbe essere adeguato scegliere una carta patinata con un alto punto di bianco per far risaltare i colori in fase di stampa, mentre i libri che contengono per la maggior parte testo possono essere stampati su una carta ruvida e opaca con un basso punto di bianco per agevolare la lettura. La vista tuttavia non è l’unico dei cinque sensi ad entrare in gioco nella relazione tra il lettore e il libro cartaceo: l’odore della carta, mescolato a quello dell’inchiostro fanno parte della sfera sensoriale legata al libro in cui anche il tatto gioca un ruolo fondamentale: la consistenza della carta, la tessitura, sono tutti fattori che competono alla gradevolezza dell’esperienza del libro cartaceo. La carta è costituita da dei fogli ottenuti filtrando una sospensione in acqua di fibre cellulosiche trattate. Le materie prime che la compongono sono: materie fibrose, in genere cenci di lino, canapa, tuta, cotone, cellulosa, pasta di legno o carta da macero alle quali vengono aggiunte materie di carica, collanti e materie coloranti. Le materie fibrose sono in genere composte da cellulose di straccio o mezze paste, cellulose o paste chimiche, pasta meccanica di lego o pasta legno, e infine pasta di recupero

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La carta

e carta da macero. La pasta di stracci oggi è impossibile da ricavare in quanto è impossibile reperire stracci esenti da fibre artificiali, in sostituzione degli stessi, per ricavare carte valori e di lunga durata in cui la cellulosa è una componente importante si ricorre a vegetali di cotone, canapa e lino. La cellulosa può essere ottenuta anche da conifere, graminacee e altre piante annuali. In genere le cellulose di paglia di grano e riso vengono impiegate nella fabbricazione di carte sottili mentre quelle di cotone, più costose, vengono adoperate per carte valori e per carta da disegno. I linter di cotone, ovvero la sottile peluria che avvolge i semi della pianta, sono invece utilizzati per produrre carte filigranate, mentre le fibre di canapa e lino sono impiegati per carte valori e carte a mano. Le materie di carica sono sostanze minerali che, aggiunte alla sospensione di fibre, donano alla carta caratteristiche speciali come ad esempio il punto di bianco, un’opacità più elevata (come accade aggiungendo biossido di titanio, carbonato di calcio o caolino), un aumento del grado di lisciatura e un aspetto più uniforme. I materiali collanti conferiscono alla carta impermeabilità e la rendono adatta a ricevere l’inchiostro. In genere all’impasto vengono aggiunti saponi di resina o sospensioni colloidali di resina libera, collanti sintetici o resine sintetiche. Alcuni tipi di carte speciali possono essere immerse in soluzioni di gelatina animale. Infine i materiali coloranti, come suggerito dal nome, danno colore alla carta. Esistono pigmenti coloranti naturali come le ocre, la terra di Siena, gli ossidi di ferro, il blu di Prussia, e coloranti organici naturali come il legno rosso o giallo, la cocciniglia e i grani di Persia tuttavia questi in

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genere hanno un debole potere colorante. I coloranti organici artificiali detti aniline sono invece quelli maggiormente utilizzati: essi conferiscono più colore, resistono meglio agli agenti atmosferici e rendono più semplici il trattamento e la lavorazione. Per la fabbricazione della carta le materie fibrose vengono spappolate per via idrodinamica e successivamente depurate e raffinate attraverso un procedimento chimico che permette di ottenere la cosiddetta cellulosa kraft. Nel caso in cui si tratti di carta riciclata invece si ricorre allo scioglimento di carta già utilizzata. La soluzione così ottenuta viene dosata e mescolata con i collanti e i coloranti e accumulata in serbatoi attraverso cui passa gradualmente all’interno della macchina continua, che può essere in piano, in tondo o mista, in cui viene feltrata e essiccata in forma di nastro prodotto su piano o sui tamburi. Successivamente il nastro viene lisciato ed eventualmente calandrato – ovvero passa all’interno della calandra, un macchinario costituito da rulli – per essere disteso e lisciato ulteriormente. Il nastro così ottenuto viene avvolto in bobine.

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La carta

Impasto

Tino di macchina

Uscita della pasta

Cilindro per la filigrana

Feltri

Continua

Depuratore

Cilindri essiccatori

Lisciatura

Nello schema viene mostrato il procedimento di fabbricazione della carta

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Bobinatrice


Finiture e grammature Sostanzialmente esistono tre tipi di carta, ognuna delle quali con infinite variazioni. Le carte patinate, lucide o opache, consigliate appunto per la stampa di libri in cui le immagini hanno un ruolo preponderante; le carte usomano utili per edizioni in cui il testo è protagonista, hanno una superficie più opaca e porosa e sono un buon compromesso tra qualità e prezzo; infine le carte speciali con finiture particolari che possono conferire una marcia in più al progetto, hanno un costo più alto ma se scelte con cura possono portare a risultati sorprendenti. Nello specifico si può distinguere tra carte coast-coated, carte goffrate, carte marcate, carte riciclate e carte vergate. Le carte coast-coated sono patinate con una finitura particolarmente liscia e lucida in cui la patina viene applicata tramite un cilindro metallico riscaldato dall’interno. Le carte goffrate sono caratterizzate da disegni o trame in rilievo ottenuti tramite il passaggio del nastro tra un cilindro d’acciaio che riporta il motivo inciso e un altro di materiale più cedevole; l’operazione viene realizzata a secco dopo che la carta è stata prodotta, per mezzo di una macchina goffratrice. Le carte marcate presentano anch’esse una texture leggermente a rilievo che però è realizzata all’interno della macchina continua quando l’impasto è ancora umido. Le carte riciclate vengono prodotte utilizzando carta già usata; la percentuale di materiale riciclato può variare e si può scegliere di aggiungere cellulosa vergine per migliorarne la stampabilità e il punto di bianco. La carta riciclata può essere sbiancata tramite un processo chimico: la de-inchiostrazione.

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La carta

Con il termine grammatura si intende il peso di un m2 di carta, che può variare da 10 g/m2 per le carte pelure a 500 g/m2 per cartoni e cartoncini. La grammatura della carta ha un’influenza fondamentale nel progetto del libro non solo per il fatto che le pagine avranno una differente consistenza al tatto, ma anche perché a una grammatura maggiore corrisponde un peso della pagina maggiore e dunque più alta è la grammatura più il volume rilegato sarà spesso e pesante. Per calcolare il peso ad esempio di un volume in formato A4 stampato su fogli 70x100 di carta da 140 g/m2 bisognerà intanto calcolare l’area del foglio macchina ovvero 0,7 m2. Moltiplicando questo valore per il peso di un metro quadro di carta otterremo il peso di 1000 fogli, ovvero 0,7x140=98 kg. Per calcolare il peso di una risma di carta da 500 fogli basterà dividere il valore prima ottenuto per due tale che 98:2=49 kg e per conoscere il peso di un singolo foglio basterà dividere il peso per il numero di fogli contenuti nella risma tale che 49:500=98 g ovvero il peso di un foglio macchina 70x100.

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Formati Uni I formati Uni sono nati dall’esigenza di un criterio di compatibilità e la loro storia è molto lunga e complessa. Circa un secolo fa il fisico Lichtenberg22 constatò che un foglio di carta con un’area pari a un metro quadro i cui lati siano in rapporto 5:7 con i lati di 841x1189 mm crea un formato i cui multipli e sottomultipli mantengono le stesse proporzioni senza spreco di carta. Nel 1922 il Deutsche Industrie Normenausschuss stabilì una tabella di formati standardizzati chiamati Din basati sulla relazione 1:√2 tra base e altezza e approvati in tutta la Germania. Successivamente lo standard ISO 216, che definisce i formati negli stampati, ha dichiarato l’adozione di gran parte dei paesi europei ai formati Din che in Italia vengono chiamati Uni dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione. I formati Uni si suddividono in tre serie, A e B per gli stampati e C, definita dallo standard ISO 269, per le buste. I formati più noti sono A3 e A4 ma il calcolo dei multipli e sottomultipli è semplice: ad esempio se si volesse calcolare il sottomultiplo del formato A4, ovvero l’A5, basterebbe sapere che il lato lungo di quest’ultimo avrà misura uguale al lato corto dell’A4, ovvero 210 mm, mentre il lato corto può essere ricavato dividendo il lato lungo dell’A4 per due, ovvero 148,5 mm, sicché il formato A5 verticale misurerà 148,5x210 mm. Inoltre, qualora si stesse progettando un libro per grandi tirature, destinato alla stampa offset di cui si tratterà in seguito, si dovrà tenere in conto la dimensione del foglio macchina le cui dimensioni più comuni sono 64x88 cm e 70x100 cm su cui verrà fatta l’imposizione delle pagine sulla base delle segnature utilizzate per impaginare.

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La carta

A0 841x1189 mm

A1 594x841 mm

A2 420x594 mm

A3 297x420 mm

A4 210x297 mm A5 148x210 mm A6 105x148 mm

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Segnature Nella stampa di un artefatto editoriale bisogna tenere conto delle segnature ovvero dei fascicoli di pagine che in fase di stampa vengono posizionati sullo stesso foglio macchina per poi essere piegati e cuciti. La segnatura minima è il quartino che si ottiene piegando il foglio a metà e ottenendo dunque quattro pagine, due in bianca e due in volta. L’ottavo, composto da otto pagine, si ottiene piegando il foglio due volte, che diventeranno tre per il sedicesimo, quattro per il trentaduesimo e cinque per il sessantaquattresimo; invece qualora si stesse utilizzando il formato quadrato le segnature da utilizzare saranno il dodicesimo e il ventiquattresimo ottenibili rispettivamente mediante tre e sei pieghe. Se ne deduce come l’imposizione tipografica vada fatta seguendo le pieghe che il foglio macchina subirà dopo essere stato stampato. Dunque quattro è il numero minimo di pagine stampabili e le pagine di un libro dovranno sempre essere quantomeno multipli di quattro. La segnatura più comune in ambito editoriale è il sedicesimo, composto appunto da sedici pagine che impostate sul foglio macchina saranno disposte otto in bianca e otto in volta. In base al formato scelto possono essere stampate, sullo stesso foglio macchina più segnature, operazione utile soprattutto nel caso di volumi di piccolo formato. L’imposizione tipografica è qualcosa che il lettore non vede ma che tuttavia è fondamentale nello sviluppo dell’oggetto libro in quanto è nel momento in cui viene disposto sul foglio macchina che esso assume una dimensione nello spazio e nel tempo e comincia a prendere forma.

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La carta

La rilegatura realizzata a filo refe dona al libro una grande resistenza, non ottenibile con la rilegatura in brossura. In questo tipo di rilegatura le segnature vengono raccolte in gruppi composti da un numero multiplo di 4 pagine i quali vengono cuciti insieme mediante l’utilizzo di un particolare filo molto resistente. Imposizione tipografica di un sedicesimo in bianca e volta su foglio macchina.

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Parte VI — La pagina


L’unità del libro La pagina, o per meglio dire la doppia pagina costituisce l’unità minima del libro. Il modo in cui essa è strutturata permette al contenuto di mostrarsi e rendersi comprensibile al lettore. A tal proposito è bene citare Beatrice Warde23 che afferma che la tipografia debba essere un «calice di cristallo» nel senso che essa deve essere un «contenitore trasparente e civilizzatore» e rendersi invisibile al lettore per la buona riuscita del libro. L’approccio di Warde è uno dei possibili approcci che il designer deve tenere nei confronti della pagina ed è fondamentalmente un approccio corretto. Tuttavia non bisogna disdegnare un progetto grafico preponderante, il punto non è la scelta dal punto di vista grafico ma quanto essa risulta funzionale per il contesto in cui è inserita. Ad esempio, sempre a proposito del dibattito tra modernismo e tradizionalismo, se in questi termini può essere tradotta la questione, è interessante il dibattito apertosi tra gli esponenti della Nuova Tipografia come El Lissitskij e Jan Tschichold e i cosiddetti tradizionalisti, ovvero coloro che continuavano a professare il revival dei primi secoli di stampa. La Nuova Tipografia, conosciuta poi anche come Elementare Typograhie24 dal titolo di un numero speciale di Typographische Mitteilungen, una rivista pubblicata dall’organizzazione tedesca per la formazione dei mestieri nella stampa, stabiliva che, essendo la comunicazione lo scopo di qualunque stampato tipografico, questa dovesse avere una forma breve, semplice e immediata. La tipografia diventava asimmetrica, il testo cominciava ad essere composto a bandiera e mediante l’utilizzo di caratteri sans-serif. Non erano consentite immagini se non fotografiche: tutto era orientato alla fruizione del testo.

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La pagina

Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu lo stesso Tschichold a rivedere drasticamente le proprie posizioni: dopo il lavoro di restyling per la famosa casa editrice Penguin Books egli tornò al più austero tradizionalismo tipografico rinnegando totalmente il modernismo tipografico e ingaggiando un animato dibattito con gli esponenti della rivista Neue Grafik.25 In questa sede non si discuterà di questo genere di storiografia, per la quale si rimanda il lettore curioso ai testi consigliati in nota bibliografica, il dibattito viene qui citato per far comprendere il fatto che non esiste alcun approccio assoluto all’ambito tipografico, esistono sì delle regole che tuttavia devono fornire un aiuto al progettista piuttosto che farlo sentire ingabbiato, citando nuovamente Bringhurst26:«Rompete le regole, rompetele in bellezza, deliberatamente e bene. Sono fatte per questo.»

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Formato e sezione aurea Oltre al rispetto per gli standard dei formati al fine di ottenere il minor spreco di carta possibile è fondamentale comprendere che il libro è uno strumento e al pari di qualsiasi altro utensile deve adattarsi all’uso che se ne fa: se si sceglie un formato grande lo si dovrà fare con la consapevolezza che il libro andrà sfogliato su un tavolo, mentre se si sceglie un formato piccolo esso potrà essere tenuto in mano dal lettore e letto più da vicino. La scelta del formato deve prima di tutto fare riferimento al tipo di libro che si sta impaginando e al modo in cui esso dovrà interagire con gli occhi e con le mani del lettore. Ad esempio, per un libro fotografico può essere utile utilizzare un formato grande per dare rilevanza alle immagini, mentre per un romanzo è preferibile un formato piccolo, per far sì che il lettore possa goderne in qualsiasi momento e in totale relax, magari seduto in poltrona: in genere si legge un romanzo per il puro piacere di farlo, ma si sfoglia un dizionario per cercare una determinata voce magari nel corso di una ricerca: non tutte le situazioni di lettura sono uguali. Avendo preso coscienza del contesto, tuttavia, bisogna comprendere anche come alcuni formati risultino più gradevoli di altri, in virtù delle leggi di percezione visiva, come quelle riguardanti la sezione aurea. La sezione aurea è un rapporto matematico presente anche in natura, ad esempio nelle spirali presenti nelle conchiglie di nautilus, nella fillotassi delle foglie di alcune piante e nel corpo umano. Essa viene spesso indicata con la lettera FI dell’alfabeto greco che corrisponde al numero aureo 1,6180339887 approssimato a 1,61803 e rappresentante il rapporto tra due lunghezze disuguali delle quali la

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La pagina

maggiore è media proporzionale tra la minore e la somma delle due ovvero a : b = b : ( a + b ). Le proporzioni delle pagine di molti manoscritti medievali si basano su questo rapporto, come anche gran parte dell’architettura e della scultura delle civiltà più antiche. Molti formati possono inoltre essere ricavati da figure geometriche semplici come il triangolo, il cerchio e l’esagono, e tutti sembrano soddisfare sia l’occhio che la mente. L’approssimazione numerica più vicina al rapporto 1:FI è data dai numeri di Fibonacci, una serie numerica che prende il nome dal matematico Leonardo Fibonacci operante nel XIII secolo, in cui ogni numero è uguale alla somma dei due precedenti e nella quale più si va avanti più il rapporto si avvicina al numero FI. Geometricamente la serie può essere espressa attraverso una spirale logaritmica di crescita. Le proporzioni auree possono essere ritrovate in molte figure elementari semplici come il pentagono e il quadrato. Ritornando al discorso sui formati, la sezione aurea non è l’unico metodo per definire il formato di una pagina, infatti considerando le dimensioni del foglio macchina 70x100 il formato più utilizzato è il 17x24 cm che permette di non sprecare carta e in genere viene impostato sul foglio macchina diviso a metà in due sedicesimi, questo è anche il formato della pubblicazione che si sta leggendo. Dal foglio 70x100 si ricava inoltre, stampando in dodicesimi, il formato quadrato 22x22. Si può raggiungere anche il formato 22x34 stampando in ottavi e dal foglio macchina possono essere ricavati tutti i formati più piccoli di uso comune come il 13x21 o il 10x16. Qualora si volessero utilizzare le proporzioni geometriche per stabilire un formato armonico per

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le pagine si potrebbe citare Robert Bringhurst che nel suo Gli elementi dello stile tipografico mostra un interessante paragone tra i formati della pagina, le figure geometriche e la scala cromatica musicale. Ad ogni modo la scelta del formato è fondamentale al fine della riuscita del libro e va operata in maniera estremamente oculata.

Costruzione della spirale logaritmica di Fibonacci.

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La pagina

Segmenti in rapporto aureo a:b=b:(a+b)

Viene evidenziato il rapporto aureo presente all’interno del pentagono. Nelle pagine seguenti vengono mostrati formati basati sul pentagono, l’esagono, l’ottagono e il quadrato e i relativi rapporti.

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1:1,7 Pagina pentagonale alta

1:1,539 Pagina pentagonale

1:1,539 Pagina pentagonale corta

1:2,753 Ala pentagonale

1:1,176 Pagina pentagonale troncata

1:1,866 Pagina esagonale alta

1:1,732 Pagina esagonale

1:2,309 Ala esagonale

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La pagina

1:1,924 Pagina ottagonale alta

1:1,848 Mezza pagina ottagonale alta

1:1,539 Pagina ottagonale trasversale piena

1:2 Pagina quadrata doppia

1:1,414 Pagina quadrata larga (ISO)

1:1,2828 Doppio ISO

1:1 Quadrato perfetto

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Ritmo e gerarchia: gabbia e griglia La pagina, o per meglio dire la doppia pagina, è l’unità fondamentale del libro. A differenza di altri stampati, infatti, il progetto di un libro deve rendersi autoesplicativo: il testo, ad esempio, viene trattato in genere in maniera uniforme e con l’obiettivo di rendere chiara la gerarchia degli elementi all’interno della doppia pagina. Ciò non deve suggerire un progetto statico e immutabile, la pagina deve essere costruita in maniera organica ed elastica al fine di adattarsi al contenuto e allo stesso tempo di plasmarlo donandogli la forma che si ritiene più opportuna. Come nella musica, anche la doppia pagina necessita di possedere un ritmo visivo, in modo tale che gli elementi siano disposti con criterio e risultino gradevoli da fruire agli occhi dell’utente. Per questa ragione l’utilizzo di gabbie e griglie non deve essere visto come un vincolo imprescindibile: esse permettono di dare forma al libro nello spazio e nel tempo della pagina, più che come un vincolo andrebbero considerate un suggerimento, al fine di dare alla pagina una struttura gerarchica che la forma-libro impone in funzione della propria struttura interna. La gabbia di impaginazione permette di controllare e definire un sistema di organizzazione del contenuto all’interno della pagina. Essa non è una rigida formula ma una struttura flessibile che si muove di comune accordo con le informazioni. Essa non deve essere considerata come un vincolo ma come un campo aperto di possibilità. Qui con gabbia si intende la struttura che permette di definire le dimensioni dell’area di testo all’interno dell’unità fondamentale del libro: la doppia pagina. Utilizzare una gabbia di impaginazione significa stabilire il contrasto tra il testo e lo spazio

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La pagina

che lo circonda, essa è la struttura che sottende all’equilibro tra il colore del testo e il bianco della pagina, rappresenta l’interfaccia utente del libro ospitando al proprio interno non solo il testo ma anche elementi del paratesto come i numeri di pagina, le testatine e le note. La definizione dei margini dell’area di testo deve tenere conto di come il libro verrà fruito dal lettore: tenendo in mano il libro in genere i pollici di entrambe le mani poggiano sulla pagina, dunque qualora l’area di testo avesse margini troppo stretti la lettura risulterebbe sgradevole in quanto si dovrebbero costantemente spostare le dita per riuscire a leggere il testo. I quattro margini della pagina sono identificati come testa per il margine superiore, piede per il margine inferiore, cucitura per il margine interno e taglio per il margine esterno. Il margine di cucitura deve tenere conto della lunghezza del testo e del tipo di rilegatura che verrà adottata al fine di non far finire il testo sulla piega e dunque renderlo illeggibile. Per quanto riguarda le dimensioni dei margini e la definizione dell’area di testo, in genere in ambito editoriale vengono adottate due differenti strategie, la sezione aurea o in alternativa la gabbia modulare. Il metodo aureo di impaginazione è volto a creare proporzioni armoniche della pagina. Un rapporto aureo tra i margini e l’area di testo può essere ottenuto matematicamente, attraverso il calcolo, oppure geometricamente, costruendo, a partire dalle diagonali, il rettangolo di testo. Il metodo aureo è stato il più utilizzato fino alla metà degli anni Venti del ‘900, quando le tendenze del design e dell’architettura funzionalista diedero vita alla sopracitata

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nuova tipografia, che oltre all’abbandono delle grazie nel carattere e alla scelta dell’allineamento a bandiera, proponeva di utilizzare gabbie i cui margini avessero tutti le stesse dimensioni al fine di fornire la pagina di elementi modulari, funzionali all’esposizione del contenuto. La definizione dell’area di testo non permette, da sola, di disporre gli elementi secondo un criterio ordinato, ragion per cui viene sviluppata la griglia, composta da righe e colonne separate da uno spazio detto gutter o intercolonna. La griglia permette di disporre il testo e le eventuali immagini su più colonne, permette di distribuire le immagini in base al contenuto e soprattutto di instaurare ritmo e gerarchia all’interno della doppia pagina. L’equilibrio che si viene a creare può essere simmetrico, e dunque più statico, o asimmetrico, più dinamico. Disponendo gli elementi nello spazio infatti, si definisce il peso visivo che questi devono occupare, si distribuisce il colore al fine di creare equilibrio oppure contrasto. In genere le griglie sono costituite da elementi modulari di uguali dimensioni, tuttavia qualora fosse necessario, i moduli possono avere dimensioni variabili in base al contenuto che vi andrà inserito. Josef Müller-Brockmann27 ad esempio, proponeva l’utilizzo di una griglia composta da 4 colonne e 8 righe con un gutter pari a 5 mm, dimostrando come questo tipo di griglia risulti versatile e adattabile ai contesti più svariati. Ad ogni modo non esiste un tipo di griglia ideale per ogni libro: le scelte, anche in questo caso, vanno valutate in base al contesto, al contenuto e alla struttura del libro.

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La pagina

1

2

3

4 1. Bibbia di Gutenberg rilievo di Josef MĂźller-Brockmann.

1,5

1

2

3

2. Manoscritti medievali rilievo effettuato da Jan Tschichold. 3. Incunaboli tardomedievali rilievo effettuato da Jan Tschichold. 4. Canone Van der Graaf.

5

5. Proporzioni matematiche dei margini rilievo di Josef MĂźller-Brockmann.

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Brockmann mostra come attraverso un’unica soluzione di gabbia e griglia si possano realizzare molte impaginazioni diverse.

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La pagina

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Giustezza e leggibilità Si definisce giustezza la misura in larghezza di una riga di testo impaginato. La lettura è un procedimento che non avviene in modo analitico ma in modo sintetico. L’occhio del lettore si muove continuamente sulla riga di testo e si ferma per brevi istanti detti fissazioni. Più i tempi di fissazione sono brevi più il testo è leggibile e scorrevole. Agevolare il lettore significa comporre un testo in cui la giustezza sia commisurata al corpo del carattere utilizzato: a corpi più grandi devono corrispondere giustezza più ampie. Va inoltre considerato anche il cosiddetto nero tipografico ovvero il testo considerato come area carica di colore. Esso va bilanciato rispetto al bianco della pagina attraverso una giustezza più larga o attraverso un’interlinea maggiore, sempre sulla base del carattere con cui si sta impaginando. È bene tenere in considerazione anche il tipo di allineamento del testo nello stabilire la giustezza della colonna, giustezze inferiori prediligono testi in corpo piccolo, allineati a sinistra e non sillabati, mentre con giustezze maggiori è possibile utilizzare il testo giustificato evitando però la presenza di troppi trattini di sillabazione diminuendo leggermente il corpo ove necessario. Infine il testo, generalmente viene stampato con inchiostro nero su carta bianca, tuttavia grazie ai processi di stampa è possibile utilizzare fondi colorati. L’utilizzo del colore in tipografia deve sottostare alla regola del contrasto tipografico, ovvero, un testo nero su fondo bianco avrà un grado di contrasto massimo, come anche uno bianco su fondo nero, o un testo nero su fondo giallo, mentre ad esempio un testo bianco su fondo giallo risulterebbe poco leggibile.

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La pagina

A una giustezza ridotta corrisponde un corpo sempre piĂš piccolo. I testi mostrati di fianco sono stati composti in Sabon, rispetttivamente 6/8 pt, 8/10 pt e 9/11 pt.

Imporro cusame con re et et eost, solorit, ipientis est, cumque et officienimus dolores et velita que pa ditio inveriatur am voluptat. Unt optatum que dipic totatur aut aut earci dera pernam fugit evelecae dolor aditasi officiat. Uciusan deroviderio. Me nonseque dolorepe mil illabor autatumQuias exerit ut estius ducieniatur sint,

Imporro cusame con re et et eost, solorit, ipientis est, cumque et officienimus dolores et velita que pa ditio inveriatur am voluptat. Unt optatum que dipic totatur aut aut earci dera pernam fugit evelecae dolor aditasi officiat. Uciusan deroviderio. Me nonseque dolorepe mil illabor autatumQuias exerit ut estius ducieniatur sint,Bearum conse net, tem quae sunt assequatia cum venis am rero tem alignis quatur, cusant. Tius endelecusam estiisinum facerion cor aborest, cone dolupid enimporem et alit eictatiis maion

Imporro cusame con re et et eost, solorit, ipientis est, cumque et officienimus dolores et velita que pa ditio inveriatur am voluptat. Unt optatum que dipic totatur aut aut earci dera pernam fugit evelecae dolor aditasi officiat. Uciusan deroviderio. Me nonseque dolorepe mil illabor autatum. Quias exerit ut estius ducieniatur sint,Bearum conse net, tem quae sunt assequatia cum venis am rero tem alignis quatur, cusant. Tius endelecusam estiisinum facerion cor aborest, cone dolupid enimporem et alit eictatiis maion

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Parte VII — Il volume

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Elementi del volume Il volume è l’insieme delle pagine di un libro, contenenti testi e paratesti, suddivise in segnature e cucite insieme. Il volume rappresenta fisicamente l’atto di comproprietà del libro tra autore ed editore. Le pagine vengono disposte in sequenza e il libro prende forma, non solo dal punto di vista testuale e tipografico: qui esso si connota come oggetto-libro, assume una posizione e delle dimensioni nello spazio e nel tempo. Così costituito, carente soltanto della copertina, il libro deve introdurre il lettore al proprio interno secondo un processo graduale e regolato da convenzioni, soglie, che fanno da preludio al testo e nel contempo svolgono funzioni fondamentali tanto per il lettore quanto per l’editore e l’autore. Si dice occhiello la prima pagina di un libro. Esso è la prima soglia fra il lettore e il testo dell’autore, è una pagina atta a esprimere la volontà editoriale di chi ha pubblicato il testo. In genere contiene il nome della collana editoriale di riferimento e rappresenta il primo approccio tipografico al libro. Il colophon fu, sin dagli inizi della stampa, il primo mezzo utilizzato dallo stampatore-editore per mostrare quale ruolo avesse avuto nella produzione del libro: una dichiarazione di diritti e doveri. Esso viene generalmente posto nella seconda pagina del volume, tuttavia era inizialmente posto alla fine dello stesso, dove oggi invece si riporta la dicitura “Finito di stampare” seguita da luogo, data e nome dello stampatore. Inizialmente esso svolgeva una funzione simile a quella successivamente attribuita al frontespizio e in genere conteneva un elogio delle qualità della stampa. Oggi rappresenta i diritti degli autori e di chiunque compete alla

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Il volume

realizzazione del libro e anche i loro doveri nei confronti del lettore. In un colophon ben progettato dovranno apparire i diritti di proprietà dell’autore e quelli dell’editore; si dovrebbe dar spazio al progettista grafico, all’editor e a chi ha effettuato la cura redazionale; si dovrebbe inserire il codice ISBN ( fondamentale per il commercio del libro) e infine si dovrebbe anche render il lettore consapevole del lavoro tipografico svolto elencando i caratteri utilizzati nel testo e, nel caso del libro a stampa, la carta su cui è stato stampato. Il colophon è dunque «la carta d’identità»28 del libro e come tale deve render conto di tutti gli attori che hanno partecipato alla sua realizzazione. Il frontespizio può essere considerato come lo spazio che intercorre tra il lettore e il testo dell’autore. Esso oggi rappresenta una pagina funzionale nella quale vengono riportati i dati essenziali riguardanti il libro come il nome dell’autore, il titolo e l’editore, e alcuni dati aggiuntivi come il nome di un eventuale traduttore o di un curatore. L’utilizzo del frontespizio nasce con l’invenzione della stampa tipografica: non era prassi comune tra gli amanuensi inserire tale pagina, e in genere la sola funzione da esso svolta era quella di proteggere il libro dallo sporco costituendone la prima pagina, sicché il volume, privo di copertina potesse essere maneggiato senza timore di rovinarlo. All’epoca della sua introduzione in esso venivano collocate le informazioni proprie del colophon, spesso in forma di commento poetico e riportava al piede il nome dell’editore-stampatore, il luogo e la data di pubblicazione. L’evoluzione del frontespizio nel corso dei secoli può permettere di definire quali fossero le tendenze in ambito tipografico: durante il periodo

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barocco esso consta di decorazioni e motivi intricati, che riflettono il gusto dell’epoca, mentre solo nel ‘700 fanno la loro comparsa i frontespizi che possiedono una conformazione similare a quella odierna, merito di tipografi come John Baskerville e Giambattista Bodoni, che spogliano di ogni orpello il frontespizio fino a renderlo puramente tipografico e in pieno gusto neoclassico. Nell’Ottocento, con il fiorire delle private presses, si ha un ritorno alla connotazione tardo medievale del frontespizio il quale si riempie di motivi fitomorfi e intricati. Nel ‘900 invece, l’influenza dell’approccio tipografico funzionalista, o modernista che dir si voglia, permette al frontespizio di tornare a un’essenzialità tipografica e di assolvere al suo ruolo di introduzione del lettore all’interno del testo. «Il frontespizio è un obbligo progettuale»29 L’indice viene inserito, salvo particolari eccezioni, tra le prime pagine del libro, nonostante esso sia uno degli ultimi contenuti redatti. Consiste in una mappa di orientamento per il lettore in cui ogni capitolo viene segnalato in base al proprio numero di pagina. L’indice permette al lettore di non rispettare la linearità del testo e di scegliere quale argomento leggere, inoltre ne fornisce una prima idea generale dei contenuti. È un paratesto che mostra la gerarchia del libro, il modo in cui esso è stato pensato. Permette dunque al lettore di orientarsi all’interno dello spazio del libro, esso è «la prima avvertenza all’uso del libro»30 e permette al testo una prima metamorfosi tipografica all’interno del libro, ambiente che ospita e fissa lo scorrere del testo. Ancora riguardo l’orientamento del lettore all’interno del testo, i numeri di pagina e le cosiddette testatine o titoli cor-

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Il volume

renti sono degli elementi che inseriti all’interno delle doppie pagine permettono al lettore, oltre che di rintracciare grazie alla concomitanza con l’indice le sezioni principali del libro, di comprendere esattamente in quale punto della narrazione si trova, e nel caso di capitoli particolarmente lunghi di non perdere il filo del discorso e l’argomento trattato grazie ai titoli correnti che specificano di quale capitolo faccia parte la pagina che si sta leggendo. Anche questi elementi non fanno parte del testo redatto e scritto dall’autore, essi sono funzioni aggiunte in ambito tipografico e concorrono alla conformazione del libro come tale. I numeri di pagina inizialmente non vennero utilizzati con lo scopo di aiutare il lettore, essi erano un espediente tecnico per aiutare il legatore e colui che effettuava l’imposizione, la paginazione per come è nota oggi è opera degli umanisti del XV secolo. Nei testi digitali la numerazione delle pagine, nonostante non assoluta e dipendente dal dispositivo per cui spesso indicata anche in percentuale, è di fondamentale importanza in quanto l’e-book non possiede alcuno spessore, il lettore non può notare immediatamente del punto della narrazione in cui si trova, e dunque solo la numerazione delle pagine gli è di ausilio. Ciò rimarca sempre più l’importanza del paratesto, la sua funzione fondamentale di interfaccia tra autore e lettore, il servizio svolto all’utente finale attraverso il progettista grafico. Le appendici hanno lo scopo di contenere informazioni non necessarie alla fruizione del testo che fungono da approfondimento di argomenti che se inseriti all’interno del testo principale ne interromperebbero il flusso di lettura. Questi approfondimenti sono destinati a una particola-

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re categoria di lettori interessati a consultazioni specifiche. Esse possono richiedere un diverso trattamento dal punto di vista grafico per differenziarsi dal resto del testo. Non vanno utilizzate per aggiungere argomenti postumi, e non devono esprimere argomenti già trattati all’interno del testo. Si identificano in genere attraverso un titolo preceduto dalla dicitura “appendice” e una lettera progressiva, nel caso ne fosse presente più di una, per non confondersi con la suddivisione di capitoli e sezioni. Anch’esse possono essere suddivise in sezioni e qualora queste fossero numerate bisognerà inserirle all’interno dell’indice generale. Il glossario riporta le definizioni di termini specialistici o l’accezione che ad essi è data all’interno del testo, non rintracciabile dunque sugli ordinari vocabolari. Esso va redatto come un elenco di termini, ognuno dei quali accompagnato dalla propria definizione, inseriti in ordine alfabetico. La bibliografia è un elenco di opere scritte che riguardano l’argomento trattato nel testo, possono essere opere citate all’interno del testo o suggerimenti di testi approfonditi da consigliare al lettore. Gli scritti vengono in genere citati nel complesso, ma qualora lo si ritenesse necessario può essere inserito anche il numero di pagina del testo cui si fa riferimento. In genere essa va redatta come un elenco alfabetico di voci che contengono il nome dell’autore, il titolo dell’opera, l’editore e l’anno di pubblicazione, adeguatamente formattati attraverso l’uso del maiuscoletto per il nome dell’autore e del corsivo per il titolo dell’opera e infine disposti in ordine alfabetico.

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Il volume

La sitografia è il corrispettivo digitale della bibliografia in cui vanno riportati gli indirizzi di pagine web citate o utili per approfondimenti, anch’esse ordinate alfabeticamente. Bibliografia e sitografia in genere occupano le ultime pagine del volume, tuttavia, qualora lo si ritenesse preferibile ai fini della comprensione del testo o nel caso di testi di più autori, esse possono essere inserite a conclusione di ogni capitolo. L’indice analitico è un elenco alfabetico di parole o frasi che identificano un determinato soggetto trattato nel testo. Per ogni voce viene riportata la pagina di riferimento alla posizione nel testo dell’argomento trattato. Qualora esso dovesse contenere nomi di personaggi citati all’interno del testo il nome dei suddetti dovrà essere accompagnato dall’anno di nascita e dall’eventuale anno di decesso inseriti tra parentesi subito dopo il nome. L’indice analitico può essere unico per tutti i soggetti o suddiviso per categorie di soggetti. Ad esempio potrebbe essere un’indice dei nomi, o un elenco delle illustrazioni, o ancora un elenco delle tabelle, qualora presenti, avente lo scopo di agevolare il lettore nella ricerca di specifici argomenti non esplicati nell’indice generale.

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Parte VIII — La stampa


Impressione a stampa In questo capitolo si tratterà del procedimento che ha dato il via al mondo dell’editoria. «La stampa è il procedimento mediante il quale si duplicano immagini su un supporto attraverso procedimenti meccanici.»31 Esistono tre metodi principali per stampare un artefatto e dunque tre tipi di stampa: tipografica, calcografica e planografica. Ciascuno dei tre metodi richiede strumenti e materiali adeguati tuttavia il termine impressione viene utilizzato in tutti i casi. La stampa nel 1400, ha permesso la diffusione della cultura in un’epoca che stava volgendo lo sguardo verso il cambiamento. La rivoluzione culturale a cui l’utilizzo della stampa a caratteri mobili ha dato il via è andata man mano a progredire anche per mezzo dello sviluppo delle tecniche. Alcuni dei procedimenti sotto elencati non vengono più utilizzati per stampare libri, ad esempio la xilografia e la stampa tipografica, ormai divenuta un metodo di stampa di lusso, tuttavia si è ritenuto necessario fornire al lettore una spiegazione sulle principali metodologie di lavoro che venivano e vengono tutt’ora utilizzate al fine di fornirgli un’idea di base delle implicazioni del processo di stampa; lo scopo qui è di fornire un’infarinatura di quelli che sono i procedimenti e i metodi di stampa per la cui trattazione specializzata si rimanda il lettore ai testi consigliati in bibliografia. La xilografia è uno dei procedimenti di stampa più antichi. Consiste nell’intaglio e successiva inchiostratura di blocchi di legno di varie dimensioni in cui la matrice, intagliata a rilievo e a rovescio, viene pressata sul supporto. Essa veniva utilizzata già in Cina e Corea all’inizio dell’VIII secolo d. C. per stampare intere pagine che venivano intagliate su blocchi di legno piani, che presupponeva un trattamento del

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La stampa

testo non dissimile da quello dell’immagine. Anche in Europa, nel XV secolo si stamparono libri di valore inestimabile attraverso la xilografia, tuttavia questo procedimento venne soppiantato dalla stampa tipografica, per quanto riguarda il testo, in quanto la pagina intagliata non poteva essere in alcun modo modificata: potevano apportarsi correzioni ma attuare una revisione del testo risultava un lavoro dispendioso in fatto di tempo e fatica, ragion per cui essa si affiancò alla stampa tipografica per la riproduzione di illustrazioni e fregi ma il suo utilizzo per la composizione venne abbandonato. L’incisione xilografica si esegue su legno di filo, ovvero una sezione longitudinale del tronco di un albero in cui le fibre sono parallele all’incisione. Il disegno può essere eseguito direttamente sulla tavola o in alternativa lo si può trasferire dalla carta strofinando il retro di un lucido realizzato con una mina morbida sul legno. Dopo che il disegno è stato eseguito si applica una leggera tinta blu alla tavola per evidenziare le incisioni in maniera chiara e nitida. L’incisione viene realizzata mediante l’utilizzo di coltelli con punte di varie forme e dimensioni e il legno depositato all’interno degli spazi tra le linee viene eliminato mediante l’ausilio di sgorbie e scalpelli. Eventuali riparazioni vanno effettuate incollando un nuovo pezzo di legno nel punto in cui si desidera effettuare la riparazione. La tavola così incisa viene inchiostrata e pressata sul supporto. La stampa tipografica da il via a un nuovo metodo di composizione del testo da stampare, essa è dette anche a caratteri mobili in quanto le stesse lettere possono essere riutilizzate per stampare un numero infinito di testi. Nacque nel XI secolo in Cina e in Corea ma ebbe la sua fioritura in

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Europa nel 1400. Si è già trattata in dettaglio la fase di incisione e di fusione del carattere tipografico, ragion per cui qui si illustrerà come le lettere vengono composte e successivamente stampate. Inizialmente i caratteri venivano composti a mano, ogni polizza di caratteri veniva sistemata nella cassa del compositore e le singole lettere venivano prelevate per comporre le righe di testo mediante una staffa regolabile sorretta manualmente detta compositoio. Alla misura corrispondente alla giustezza del blocco di testo veniva posto un arresto regolabile che permetteva al compositore di giustificare lo spazio tra le parole. Le righe di testo composte sul compositoio venivano poi trasferite su un carrello d’acciaio aperto da un lato, il vantaggio e successivamente venivano fissati i margini dell’area di testo: si otteneva così la cosiddetta forma tipografica attraverso cui le righe, raccolte in pagine vengono utilizzate per tirare le cosiddette bozze in colonna ovvero prove di stampa effettuate su lunghi fogli di carta. Inizialmente per la stampa tipografica veniva utilizzato il torchio a mano, ovvero una macchina da stampa a platina il cui funzionamento si basa sull’abbassamento, a una pressione controllata, di una pesante lastra di ferro, la platina, contro la forma tipografica saldamente fissata. Il piano del torchio è la parte su cui la forma viene posta per essere inchiostrata per mezzo di tamponi e successivamente impressa sulla carta leggermente inumidita. Nel momento in cui viene inserita la carta bisogna tirare la leva per imprimere il testo sulla faccia inferiore del foglio. Il piano scorre su un binario che permette di spostarlo da sotto la platina manovrata dalla leva. La carta viene stesa su un telaio incernierato al piano detto timpano.

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La stampa

L’incisione calcografica, progenitrice della stampa rotocalcografica, ebbe un forte impatto sull’economia del mercato editoriale europeo nel ‘600. Molti artisti utilizzavano questo genere di incisione per realizzare stampe dei propri lavori. Alla famiglia Plantin si deve l’inserimento di lastre calcografiche in sostituzione della xilografia nella stampa dei libri, procedimento disprezzato da molti critici dell’epoca in quanto, sebbene permetta di ammortizzare i costi, l’utilizzo di un metodo di stampa ad incavo insieme ad uno a rilievo non sempre porta a risultati di qualità. Essa si differenzia sostanzialmente da xilografia e stampa tipografica in virtù del fatto che in tale tecnica la lastra di metallo viene incisa ad incavo e non a rilievo. Si effettua incidendo in maniera diretta o indiretta una lastra di metallo, in genere zinco, la quale verrà inchiostrata e pulita per far in modo che l’inchiostro rimanga solo all’interno delle incisioni. In questo caso il torchio esercita una forte pressione affinché la carta venga premuta negli incavi che trasferiscono l’inchiostro sulla sua superficie. Il torchio consiste in un piano che si muove tra due cilindri d’acciaio e viene avviato per mezzo di un feltro posto tra il cilindro superiore, il foglio e la lastra, entrambi sul piano. Come si è già detto la lastra può essere incisa in maniera diretta o indiretta, si dice incisione diretta la cosiddetta puntasecca che consiste nel tracciare le linee direttamente sulla lastra attraverso un utensile d’acciaio. Le tecniche di incisione indiretta invece, si attuano mediante l’utilizzo di mordenti, vernici protettive e resine, come nel caso dell’acquaforte o dell’acquatinta in cui la lastra viene protetta attraverso la vernice e/o la resina e successivamente incisa il tanto che basta per grattare via

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lo strato protettivo; successivamente viene immersa in una soluzione di acido, detta appunto mordente che corrodendo il metallo incide il disegno. Infine un’altra tecnica indiretta è rappresentata dalla mezzatinta o maniera nera, in cui la lastra viene resa scambra attraverso l’utilizzo di mezzelune dentate e successivamente le parti chiare del disegno vengono levigate attraverso l’utilizzo di raschietti e brunitoi. La litografia è un procedimento di stampa detta planografica, ovvero essa non viene realizzata mediante incisioni, a rilievo o incavo, ma si basa totalmente sui princìpi della chimica. Fu scoperta casualmente a fine ‘700 da uno scrittore, Aloys Senefelder, commediografo che, non riuscendo a far pubblicare le proprie opere volle provare a stamparle da sé. Egli compì i primi tentativi con lastre di rame su un torchio di fortuna, tuttavia visto l’elevato costo del rame cominciò a fare esperimenti con la pietra calcarea: nel 1796 riuscì a realizzare un’immagine sulla pietra attraverso l’uso di un inchiostro che aveva preparato come base per la morsura del suo lavoro su lastra. Dopo aver effettuato la morsura con acido nitrico ottenne l’immagine leggermente in rilievo sulla superficie quindi la inchiostrò e la stampò. Ulteriori esperimenti lo portarono a scoprire che non era necessaria la morsura con acido nitrico per far apparire il disegno in rilievo in quanto il disegno, se tracciato con una sostanza grassa e circondato con una superficie ricettiva all’acqua trattiene l’inchiostro che invece viene respinto dalle parti inumidite. Nel 1803 riuscì ad adattare il procedimento a lastre di metallo. La pressione, nella stampa planografica, avviene per strofinio. I principali materiali della litografia sono i pastelli in forma di matita o bastoncino, una forma

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La stampa

di inchiostro grasso detto touche da applicare con una penna o un pennello, e una sorta di bulino a forma di matita. La pietra litografica può essere riutilizzata dopo essere stata opportunamente levigata. La stampa offset è diretta discendente della litografia e pertanto anch’essa è un procedimento di stampa planografica. La macchina offset venne messa a punto nel 1904 a New York da Ira Rubel, uno stampatore. Mentre per la litografia vengono utilizzate lastre di pietra, l’offset utilizza lastre di metallo flessibili avvolte intorno a un cilindro che ruota attorno a un secondo cilindro ricoperto di caucciù. L’immagine viene trasferita dalla lastra al caucciù e da questo alla carta. Anche in questo caso l’immagine giace sulla carta anziché essere impressa. Le lastre per stampa offset vengono create con un procedimento fotografico, la fotoincisione, che permette di ingrandire e rimpicciolire a piacimento i caratteri e le immagini. La stampa offset è tutt’oggi utilizzata nella stampa di esemplari a grandi tirature. Prima di mandare in stampa un libro è opportuno effettuare delle prove di stampa: molti procedimenti che potrebbero sembrare banali potrebbero portare a risultati inattesi in fase di stampa, inoltre il colore della carta, il formato della pagina e il metodo di stampa daranno al libro un aspetto di volta in volta diverso, che, in fase di progettazione, non può essere previsto ma soltanto approssimato. Per questa ragione è opportuno effettuare delle prove durante la fase progettuale. Una di queste è il menabò, dal dialetto milanese, letteralmente “menare i buoi”, che consiste in un artefatto avente lo stesso formato e la stessa impaginazione del libro che si sta progettando e che permette dunque di

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osservare bene gli ingombri di testo e immagini, il ritmo della pagina e la sua gerarchia. Dopo l’impaginazione e svariate prove di stampa, va effettuata la cosiddetta cianografia, che deve il proprio nome al fatto che appare caratterizzata da un colorito bluastro ovvero una prova di stampa effettuata a bassa qualità ma che contenga il testo e le immagini impaginati in maniera definitiva, sulla quale verrà apposta la dicitura “visto, si stampi”, che responsabilizza tanto l’editore quanto lo stampatore, infatti al primo apparterranno le responsabilità legate ad eventuali refusi all’interno del contenuto mentre al secondo quelle relative a modifiche indesiderate nella messa in pagina.

Distribuzione della pressione nella stampa tipografica.

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La stampa

Distribuzione della pressione nella stampa calcografica.

Distribuzione della pressione nella stampa planografica.

Distribuzione della pressione nella stampa offset.

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Parte IX — Legatura e copertina


La legatura L’ultimo capitolo relativo al libro riguarda il procedimento mediante il quale il volume, composto, impaginato e stampato, assume la connotazione di libro: la legatura. Questo procedimento, a differenza degli altri elencati, risulta essere precedente alla stampa tipografica: anche i libri manoscritti venivano rilegati. Le rilegature dei manoscritti e degli incunaboli sorprendono tutt’oggi per la resistenza e per l’impiego di materiali pregiati, tuttavia bisogna considerare il fatto che i primi libri non erano appannaggio di chiunque, essi venivano realizzati per uomini facoltosi che potevano permettersi di studiare e dunque di imparare a leggere e scrivere: i libri erano una merce rara e costosa. Con la stampa a caratteri mobili il pubblico del libro andò via via ampliandosi, tuttavia esso rimase comunque un bene di lusso disponibile per una minoranza privilegiata. Tra le legature dei libri manoscritti e quelle degli incunaboli vi è ben poca differenza, esse sono pesanti e resistenti al fine di proteggere il volume, che generalmente veniva appoggiato su un leggio per essere consultato. In genere le legatorie erano presenti all’interno dei convitti, vicino alle botteghe dei copisti, ma vi erano anche botteghe private che rilegavano i manoscritti per i laici e le università. Con l’invenzione della stampa, e l’aumento della richiesta di libri, le botteghe private cominciano a fiorire affermandosi sempre più soprattutto nelle città universitarie dove si affiancano alle botteghe dei librai. Molti librai-editori avevano installato una propria legatoria, tuttavia la rilegatura del libro da parte dell’editore non era un fatto così comune e scontato: spesso si faceva stampare un volume in una determinata bottega e succes-

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Legatura e copertina

sivamente lo si portava in legatoria per avere la possibilità di scegliere il tipo di rilegatura e il rispettivo costo. I libri stampati venivano conservati dalle legatorie in fogli sciolti e venivano rilegati soltanto gli esemplari richiesti in vendita. Dunque un libro poteva essere stampato in una data città e rilegato in un’altra sulla base delle scelte dell’acquirente. La domanda crescente di libri rilegati portò i legatori ad operare delle modifiche al proprio lavoro al fine di velocizzarne i tempi, ad esempio se in un primo momento i piatti della copertina venivano decorati per mezzo di piccoli ferri, si trovò un un buon compromesso nella sostituzione dei suddetti con una placca che permetteva di realizzare risultati d’effetto riducendo notevolmente i tempi di lavorazione. Al crescere della domanda di libri stampati le legature cominciano a suddividersi in due categorie: quelle commerciali, appunto destinate al grande pubblico, realizzate con procedimenti sempre più veloci e con sempre meno cura, sino ad arrivare alla legatura incollata, la quale oltre al fattore estetico, perde soprattutto in resistenza e le legature di lusso, realizzate per personalità eminenti e facoltose con uno sfarzo sempre maggiore ma con altrettanta cura. Oggi la legatura è un procedimento che può avvenire in diversi modi, tuttavia essa continua ad esplicare il valore di un testo: più cura viene prestata alla legatura più il testo sarà da ritenersi di valore.

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Il filo refe Esistono molti metodi per tenere insieme dei fogli, i due più consoni alla forma-libro sono la legatura a colla e il filo refe. Nella legatura a colla le pagine, raggruppate in segnature, vengono nella legatura a colla incollate a una striscia di carta e successivamente alla copertina. Questo metodo tuttavia oltre che sgradevole alla vista, influisce pesantemente sulla durabilità del libro poichè, essendo le pagine sciolte esse tenderanno a staccarsi in tempi brevi, tuttavia il vantaggio della legatura a colla risiede nell’abbassamento del prezzo del libro e dunque è una scelta che l’editore può operare in base alla fascia di mercato in cui si colloca. La legatura a filo refe, d’altro canto, garantisce al libro un’estrema resistenza alla trazione e risulta gradevole alla vista. Essa si effettua mediante l’utilizzo di un filo di cotone, lino, canapa o materiale sintetico che serve a cucire insieme le pagine di una segnatura e la stessa alle altre segnature. Esistono vari modi di eseguire la rilegatura a filo refe e si distinguono in base alla trama che creano sul dorso del volume intonso ovvero non rifilato. Il libro è forma e contenuto, l’uno non prescinde dall’altro, e sebbene non sia necessario decorare in oro i piatti di copertina è bene scegliere un metodo di rilegatura che sia per esso dignitoso e che funga da garanzia di affidabilità nei confronti del lettore, libero adesso di manipolare il libro nella sua interezza senza rischiare di rovinarlo.

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Nella rilegatura a colla le pagine vengono raccolte e incollate, essa è un tipo di rilegatura economica ma poco resistente.

Nella rilegatura a filo refe le pagine vengono cucite insieme, ciò garantisce al libro una forte resistenza alla trazione e gli permette di durare piÚ a lungo.

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Copertina e sovracoperta Il volume rilegato manca così soltanto dell’ultimo elemento che gli conferirà l’aspetto tridimensionale di libro, la copertina. Esistono fondamentalmente due tipi di copertina, quella cartonata e quella morbida. La copertina cartonata viene utilizzata per volumi ai quali si vuole conferire un determinato pregio: essa consta di due piatti e un dorso realizzati in cartone rivestito che verranno incollati al volume attraverso delle sguardie, dei fogli esterni alle segnature che piegati a quartino andranno incollati da una parte al piatto della copertina per congiungerla al volume rilegato. La copertina morbida d’altro canto, è utilizzata in genere per le edizioni economiche e per i tascabili. Essa viene stampata su carte pesanti che successivamente possono essere plastificate al fine di renderla più resistente, le quali vengono piegate e incollate direttamente al volume e successivamente rifilate con esso. La copertina morbida viene anche definita brossura e può essere fresata nel caso in cui le pagine siano tenute insieme dalla colla o cucita nel caso in cui esse siano cucite a filo refe. Sia la copertina morbida che quella cartonata possono essere provviste di bandelle, risvolti effettuati sui due lati della copertina che contengono in genere testi riguardanti l’autore, il libro, o la collana editoriale qualora esso ne faccia parte. La sovracoperta o sovraccoperta ha una storia molto curiosa: essa veniva utilizzata inizialmente con lo scopo di proteggere la copertina del libro dallo sporco e dall’umidità, e solo nel XIX secolo essa comincia ad essere utilizzata per inserirvi messaggi promozionali assumendo pian piano la funzione della copertina.

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Inoltre, volumi pregiati possono essere presentati all’interno di confezioni come blister, cofanetti e custodie che hanno lo scopo di proteggere il libro e al contempo sono espressione di pregio e qualità. Se utilizzate per un volume singolo ne fanno percepire l’alto valore, mentre se utilizzate per più volumi di una collana editoriale permettono anche di tenere insieme più libri e creare nuovi contesti di vendita. La scelta di una confezione speciale influisce in maniera non indifferente sui costi di produzione, tuttavia molte volte permette di realizzare volumi di particolare pregio: la scelta di utilizzarla dunque deve basarsi sul tipo di libro che si sta pubblicando e sulla posizione che questi occuperà all’interno del mercato. Nella realizzazione della copertina cartonata vengono rivestiti ambo i lati tre pezzi di cartone pressato che costituiscono i due piatti della copertina e il dorso.

Le copertine cartonate possono essere realizzate sia con un dorso tondo che con uno quadrato.

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Layout e gerarchia Il layout di una copertina e quello di una sovraccoperta, quando presente, svolge un duplice ruolo: da una parte informa, sul testo, sull’autore e sull’editore, mentre dall’altra persuade il lettore ad acquistare proprio quel libro. La funzione suasivo-informativa della copertina di un libro la rende un artefatto molto particolare dal punto di vista del trattamento grafico: stabilire delle gerarchie è fondamentale. Una copertina è in genere composta da: la prima di copertina, ovvero la parte di copertina a fronte del libro, la quarta di copertina, a chiusura del libro, il dorso o costa ovvero la parte di copertina che copre la rilegatura del volume, ed infine eventuali bandelle che possono contenere paratesti. La copertina può essere composta in maniera esclusivamente tipografica, e quindi attraverso l’uso del lettering, oppure attraverso la commistione tra testo e immagini. Anche nel caso della copertina è bene predisporre una griglia di impaginazione, al fine di rendere lo spazio modulare. Nessun elemento va trascurato, bisogna scegliere la palette di colori più adeguata, dei caratteri che siano in relazione con il contenuto del testo, come del resto le eventuali immagini. Un elemento a cui bisogna prestare particolare attenzione è il dorso: spesso in libreria lo spazio concesso al libro è quello della copertina, ma ancor più spesso questo spazio si riduce al solo dorso, quando i libri vengono riposti sugli scaffali. Il dorso deve contenere dunque le informazioni presenti in copertina disposti questa volta in uno spazio molto ristretto. In genere il dorso va composto in verticale, dal basso verso l’alto, tuttavia qualora si trattasse di un volume

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con un dorso superiore ai 3 cm di larghezza, esso può essere composto in orizzontale. La gerarchia degli elementi può variare in base al contenuto a cui si sceglie di dare predominanza: nel caso di autori emergenti sarà di certo il titolo ad avere predominanza, mentre nel caso di autori affermati potrebbe rivelarsi necessario mettere al primo gradino della scala gerarchica l’autore al fine di richiamare l’attenzione sul personaggio più che sul testo.

La copertina rappresenta il luogo del primo incontro tra il lettore e il libro, ragion per cui la sua costruzione deve essere peculiare. Ad ogni modo ogni copertina deve contenere: il nome dell’autore, il titolo del libro e il marchio dell’editore.

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Gli elementi che compongono la copertina. 1. La prima di copertina è la prima pagina della suddetta, essa contiene il nome dell’autore, il titolo, il marchio dell’editore ed eventuali immagini in riferimento all’identità visiva dell’editore e della collana. 2. La quarta di copertina è la pagina che chiude il libro e contiene il codice ISBN del libro e il suo prezzo, può contenere brevi testi riguardo l’autore o il libro. 3. Il dorso del volume è fondamentale per riconoscere il libro anche quando esso si trova poggiato sullo scaffale della libreria. 4. Eventuali bandelle che vengono piegate verso l’interno del libro e possono contenere testi riguardanti l’autore o la collana editoriale di riferimento.

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Finiture Nella progettazione a stampa la scelta dei materiali, è bene ribadirlo, svolge un ruolo fondamentale. Il libro cartaceo deve essere concepito come un oggetto multisensoriale e la scelta di finiture particolari può conferire ad esso una marcia in più. La scelta della carta è il primo passo verso la definizione tattile e olfattiva del libro, tuttavia un volume di un certo pregio potrebbe richiedere un trattamento ancor più particolare che ne metta in risalto il valore. La scelta può ricadere sull’utilizzo di una vernice: in commercio ne esistono svariati tipi, ad esempio vi è la vernice spot, un liquido che oltre a proteggere il supporto a stampa ne migliora le qualità estetiche. Essa può essere applicata su tutta la pagina o su alcuni punti mediante la creazione di una lastra di stampa apposita. La vernice lucida, d’altro canto, permette di migliorare l’aspetto di foto ed elementi grafici accentuandone il contrasto e la saturazione mentre quella opaca è in genere utilizzata nella pagine ricche di testo e stampate su carta patinata per diffondere la luce e ridurre i riflessi. Una via intermedia è fornita dalla vernice satinata, che mette in evidenza alcuni elementi evitando l’aspetto piatto della vernice opaca. La vernice neutra sigilla l’inchiostro di stampa senza modificarne l’aspetto e viene in genere utilizzata per velocizzare l’asciugatura dell’inchiostro su carte satinate e opache che lo assorbono più lentamente. La verniciatura UV avviene mediante l’applicazione di un liquido trasparente sul supporto stampato e trattato con raggi ultravioletti. Viene spesso utilizzata con un rivestimento spot per fornire maggiore lucentezza a un elemento rispetto a una normale vernice e può essere utilizzata per

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conferire texture allo stampato. Infine la vernice perlescente riflette miriadi di colori per creare un effetto sfarzoso. Oltre alle vernici esistono altri procedimenti che permettono di fornire qualità visive e tattili aggiunte, come ad esempio l’utilizzo della stampa a rilievo in cui il motivo viene impresso su un supporto per produrre un rilievo o un incavo comprimendo il foglio tra un punzone a sbalzo e uno a incavo detti cliché e contromatrice. Un altro espediente potrebbe essere il termorilievo, ovvero un procedimento di stampa attuato mediante l’applicazione, tramite calore, di resine naturali sullo stampato che produce una superficie molto visibile, tattile e riflettente. La fustellatura d’altro canto, permette d eliminare parte del supporto attraverso una fustella in acciaio per dare luogo alla creazione di forme interessanti. Infine, la stampa foil a caldo permette di applicare una lamina colorata attraverso pressione e calore e può essere utilizzata per dare risalto a singoli elementi; è disponibile in svariati colori inclusi foil metallizzati.

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Parte X — L’e-book

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Cos’è un e-book Giunti a questo punto è doveroso fare un passo indietro nei confronti del libro cartaceo e osservare da vicino l’elemento costituente della «quarta rivoluzione» della storia del libro, l’e-book. Fornire una definizione del termine libro si è dimostrata un’operazione per nulla banale, e fornirne una di libro elettronico lo è ancor meno. L’e-book infatti, contraddice molte delle definizioni precedentemente citate riguardo il libro: esso non ha una consistenza materiale, non è fatto di pagine, o quantomeno non di un numero fisso di pagine, eppure è un libro, non un testo digitale ma un vero e proprio libro. In primo luogo uno dei problemi nel definire il libro elettronico consiste nel fatto che con esso vengano identificati il testo elettronico, il file e il dispositivo di lettura. L’international Encyclopedia of Information and Library Science riporta nella sua prima edizione una definizione di e-book come «termine usato per descrivere un testo analogo a un libro, in forma digitale e destinato ad essere visualizzato sullo schermo di un computer», mentre nella seconda edizione la definizione di e-book muta radicalmente, essendo esso «il risultato dell’integrazione della classica struttura di un libro, o piuttosto del familiare concetto di libro, con caratteristiche che possono essere offerte all’interno di un ambiente elettronico.» Un’altra definizione viene fornita dal NISO – National Information Standards Organization – che definisce un e-book come un «documento digitale, sotto licenza o liberamente accessibile, costituito prevalentemente da testo ricaricabile, e che può essere visto in analogia con un libro a stampa (monografia). L’uso degli e-book dipende in molti casi da lettori dedicati e/o da software specifici per

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la visualizzazione e la lettura.»Se ne deduce come inizialmente l’attenzione vertesse sul fatto che l’e-book consistesse esclusivamente nella digitalizzazione di un libro stampato e soprattutto sul dispositivo di lettura, mentre le definizioni date tra il 2002 e il 2007 vertono più sui riferimenti al web, come dimostrato da Chris Armstrong32 che afferma: «un e-book è qualunque contenuto che sia riconoscibile come analogo a un libro (“book-like”), indipendentemente dalla sua origine, dalle sue dimensioni, dalla sua composizione, ma escludendo le pubblicazioni periodiche, che sia reso disponibile in formato elettronico per riferimento o lettura attraverso qualunque dispositivo (portatile o da scrivania) che includa uno schermo.» E ancora Andrew Cox e Sarah Ormes33 definiscono i libri elettronici come «testi scaricati dalla rete e letti su un PC o su un dispositivo portatile, utilizzando un software specifico o un browser […] o letti attraverso un dispositivo hardware dedicato (che noi chiameremo E-book reader).» Dunque si evince che in molti casi l’accento viene posto sul contenuto espresso in formato digitale, mentre in altri viene data rilevanza anche alla parte hardware e materiale costituita dal dispositivo di lettura. Il problema, nel definire l’e-book, consiste nel fatto che utilizzato con un’accezione tanto estesa, si attribusice il titolo di libro elettronico a qualunque testo compiuto, organico e sufficientemente lungo, distribuito in rete e leggibile attraverso dispositivi dedicati o meno. Tuttavia questa definizione includerebbe anche ogni documento redatto con un qualsiasi software di word processing, e colliderebbe con l’accezione data sin ora al concetto di libro. Tuttavia, come affermato anche da Michael Hart, fondatore del progetto

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Gutenberg34, ciò che conta, tanto riguardo il libro cartaceo quanto riguardo quello digitale, non sarebbe la forma ma il contenuto. Dunque il libro elettronico si esplica, come supporto per il contenuto, in maniera molto differente rispetto a quello cartaceo, esistono aspetti in comune tra i due ma anche fondamentali differenze, e dunque il progetto dell’oggetto-libro rappresenta una nuova sfida per il progettista, in quanto si apre verso contenuti multimediali e interattivi che il libro cartaceo non possiede ma, d’altro canto, mantiene di esso molti elementi strutturali di vitale importanza per il lettore, che tuttavia si configurano in un ambiente nuovo, mutevole, eternamente modificabile e intangibile al tempo stesso.

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Differenze e analogie Il libro cartaceo e la sua controparte elettronica vengono spesso considerati antagonisti: la tendenza a schierarsi in favore dell’uno o dell’altro sembra essere irrefrenabile, tuttavia è bene notare come sia il caso, più che di parteggiare per uno dei due, di notare analogie e differenze al fine di comprendere come i due tipi di libri offrano vantaggi e svantaggi non indifferenti, fatto che, più che opposti li rende complementari. Se da una parte infatti la struttura e la fisicità del libro cartaceo lo rendono una forma di lettura consolidata dall’esperienza e dal tempo, i vantaggi offerti dal libro elettronico non si rivelano affatto inconsistenti e meritano adeguata attenzione. Partendo dalle analogie, si può notare come, quantomeno al momento, i due tipi di libro condividano, a livello contenutistico, la stessa struttura, e dunque un testo di una certa lunghezza organizzato in un determinato modo in base al contesto d’uso nel quale verrà inserito, tuttavia mentre un’edizione a stampa di un libro cartaceo è un reperto fossile dello stesso, in quanto ogni modifica può essere apportata solo con una riedizione e una relativa ristampa, mentre il testo digitale può essere continuamente rivisto e aggiornato. Essi, al momento, condividono anche i generi letterari di riferimento, difatti spesso di un libro esistono entrambe le versioni, cartacea e digitale. D’altra parte, il libro digitale, come forma di testo, offre il vantaggio dell’immediata disponibilità e di un costo inferiore, tuttavia ogni caratteristica tattile e olfattiva si perde per fare posto ai pixel. Uno dei problemi fondamentali legati al libro elettronico consiste nella sua modalità di fruizione: l’esperienza di lettura su device viene inficiata dalla luminosità emessa

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dallo schermo, nonostante esistano dispositivi con display dotati di tecnologie E-paper e E-ink, che tentano di mimare l’inchiostro sulla pagina, essi non sono ancora in grado di ridurre al minimo il fastidio nella lettura del testo, dunque la tecnologia dei dispositivi di visualizzazione non è ancora in grado di eguagliare la pagina stampata. D’altro canto uno dei vantaggi consiste nel potenziale espresso da ipertesti e contenuti multimediali, che potrebbero permettere lo sviluppo di una forma libro totalmente differente rispetto al libro cartaceo, ricca di contenuti e approfondimenti di natura non esclusivamente testuale, e il fatto che il libro sia archiviato su un dispositivo che è atto a contenerne un numero imprecisato permetterebbe di possedere un’intera biblioteca all’interno di un solo device che può essere trasportato in totale comodità. Infine, una componente che spesso viene sottovalutata nel dibattito tra elettronico e cartaceo, è la valenza affettiva dell’oggetto-libro, il suo esistere nello spazio e nel tempo permette di stringerlo tra le mani, di sfogliarlo, di portarlo con sé come fosse un talismano, il possesso del libro indica una componente fisica dalla quale nessun lettore assiduo può prescindere. Il libro cartaceo e quello elettronico offrono esperienze diverse che variano in base al contesto, se determinate forme libro possono risultare più vantaggiose in formato elettronico, come dizionari e manuali, altre non possono prescindere dall’aspetto fisico e affettivo, come i romanzi, dunque si deduce che più che una guerra, quella tra cartaceo e digitale è al momento una pacifica coesistenza. Nonostante l’e-book possa considerarsi un libro, esso necessita dal punto di vista progettuale, nuove definizioni

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e nuovi standard che si adattino al contesto di fruizione del testo digitale: l’e-book non è una mera trasposizione del libro cartaceo sullo schermo, merita un progetto che ne valorizzi ogni parte, come per il libro cartaceo con il quale condivide molti aspetti ma dal quale si differenzia notevolmente.

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Linguaggi Il testo digitale, al fine di essere fruito sui dispositivi, necessita un’operazione di codifica che ne definisca la struttura, che sia in grado di leggerlo e manipolarlo. La codifica è l’interfaccia attraverso cui il testo diventa fruibile. Il testo è un oggetto complesso che contiene delle informazioni strutturate su più livelli che i computer non sono in grado di comprendere e interpretare direttamente in quanto troppo complesse, dunque è necessario fornire al computer un metodo per definire la struttura dei contenuti evidenziandone i punti focali attraverso un’operazione di codifica operata su due livelli, una codifica di livello zero in cui ogni carattere che compone il testo viene rappresentata mediante il codice binario, e una codifica di alto livello in cui si rappresenta l’organizzazione strutturale del testo permettendo di individuare, selezionare e classificare gli elementi rilevanti del testo sulla base di livelli strutturali e inoltre di stabilire uno schema di relazioni tra i suddetti elementi. I linguaggi che permettono di effettuare operazioni del genere sono detti linguaggi di marcatura o in inglese markup languages, essi descrivono tramite convenzioni standardizzate i meccanismi di rappresentazione del testo a livello strutturale, semantico o di presentazione. Essi contengono una serie di marcatori o tag che individuano blocchi di testo a cui assegnare determinate interpretazioni, una grammatica che regoli l’uso dei suddetti tag e una semantica che definisce la funzione della marcatura, che viene inserita all’interno del testo e applicata utilizzando apposite istruzioni. Le istruzioni utilizzano dei caratteri speciali che permettono all’elaboratore di distinguere il markup dal contenuto. Esistono due categorie di linguaggi

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di markup, i linguaggi procedurali o specifici e quelli descrittivi o generici. I linguaggi procedurali specificano al computer quali operazioni compiere sul documento in termini di presentazione, ossia la struttura tipografica e compositiva della pagina, la spaziatura, l’interlinea e le caratteristiche dei caratteri ma non forniscono alcuna informazione sulla struttura o sul contenuto del testo. Due linguaggi procedurali sono RTF e LaTeX. RTF è l’acronimo di Rich Text Format ed è un formato aperto realizzato da Microsoft al fine di semplificare lo scambio di documenti tra diverse applicazioni, in esso la marcatura determina la formattazione da applicare al testo, l’allineamento, l’impaginazione, il tipo di carattere e via dicendo. LaTeX invece è un linguaggio di markup distribuito con una licenza di software libero e ciò lo rende disponibile per qualsiasi sistema operativo. È stato ideato nel 1978 da Donald Knuth35 e viene utilizzato soprattutto per la preparazione di testi scientifici grazie alle sue enormi potenzialità in fatto di gestione dell’impaginazione delle formule matematiche, dei riferimenti bibliografici, delle note, delle tabelle e delle figure, oltre che dell’organizzazione generale delle pagine. I linguaggi dichiarativi, d’altro canto, si caratterizzano per la loro attenzione al contenuto e per il tentativo di rappresentarne la struttura astratta. Essi si basano su un insieme di marcatori o tag che inseriti nel testo indicano la funzione che esso assolve, ad esempio esistono tag per i titoli, per i paragrafi, per le citazioni, tuttavia esso non stabilisce l’aspetto del testo, e dunque è indipendente dal dispositivo di visualizzazione.

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In genere la resa grafica di un documento trattato con un linguaggio di markup dichiarativo è affidata a un documento esterno chiamato foglio di stile nel quale vengono associate ai tag delle istruzioni di resa grafica, il cui vantaggio consiste nel fatto che a un documento possono essere associati più fogli di stile e con essi numerose soluzioni di presentazione che rendono possibile soddisfare le diverse esigenze di visualizzazione. Un esempio di linguaggio descrittivo è SGML acronimo di Standard Generalized Markup Language, sviluppato per consentire lo scambio di documenti che potessero essere interpretati per molto tempo. Le sue origini risalgono agli anni Settanta, periodo in cui lo standard era rappresentato dai linguaggi procedurali che causavano non pochi problemi nello scambio di documenti tra macchine e applicazioni diverse. SGML definiva inoltre uno standard per la trasmissione e l’archiviazione dei documenti fornendo un sistema di codifica astratto e generalizzato. Più che un linguaggio può definirsi metalinguaggio in quanto non definisce direttamente i tag ma fornisce una serie di regole attraverso cui è possibile definire le norme da applicare per la marcatura di documenti specifici. Due applicazioni di SGML sono rappresentate dai linguaggi HTML e XML. HTML è l’acronimo di HyperText Markup Language, è stato ideato da Tim Berners-Lee36 nel 1990 per creare un sistema di pubblicazione e ritrovamento dell’informazione in grado di tenere in contatto la comunità internazionale dei fisici servendosi di un protocollo di trasferimento, HTTP ovvero HyperText Transfer Protocol. Berners-Lee definì inoltre l’indirizzamento dei documenti in

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internet, URL, ovvero Universal Resource Locator. Dall’insieme di queste tecnologie nacque il World Wide Web, inizialmente interamente composto da soli testi. HTML è un linguaggio di pubblico dominio e il suo standard è definito dal World Wide Web Consortium – il W3C. Il suo contenuto può essere elaborato da qualunque dispositivo in quanto esso definisce la struttura logica di un documento ma non il suo aspetto. In Html gli elementi indicano al dispositivo come interpretare i dati e come formattarli, sono costituiti da un tag di apertura e uno di chiusura tra i quali è racchiuso il testo in questione. I documenti scritti in HTML si sviluppano attraverso una struttura ad albero in cui il testo viene scomposto in sezioni in base alla valenza semantica del contenuto. XML è l’acronimo di eXtensibile Markup Language, esso consiste in un metalinguaggio di marcatura che definisce una versione semplificata di SGML per creare in modo semplice nuovi linguaggi di markup adatti al web. Il termine eXtensible si riferisce alla possibilità di creare tag personalizzati. Nonostante sia nato per il web le sue potenzialità lo rendono adatto all’utilizzo in svariati contesti in quanto esso è indipendente dal tipo di piattaforma hardware o software su cui viene utilizzato e consente la descrizione di qualsiasi tipo di documento o struttura testuale. XML è un formato di pubblico dominio e, in qualità di metalinguaggio è in grado di creare la sintassi di un linguaggio di markup detto applicazione XML che, pur ereditando determinate caratteristiche di sintassi da XML possiede delle proprie regole specifiche.

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La struttura fondante di XML si sviluppa sulla base di elementi, attributi e documenti validi e ben formati. Gli elementi sono i componentii strutturali del documento e a ognuno di essi può essere associato uno o più attributi che ne specificano caratteristiche o proprietà non strutturali. Un documento ben formato dichiara implicitamente la propria struttura nel markup e rispetta i vincoli indicati nelle specifiche di linguaggio. Una delle applicazioni di XML più rilevanti per la creazione di documenti di testo è XHTML, acronimo di eXstensibile Hyper Text Markup Language, ovvero una versione di HTML conforme allo standard XML e dunque avente una sintassi più restrittiva. I file HTML e XHTML vengono accompagnati da fogli di stile in linguaggio CSS, acronimo di Cascading Style Sheet e permettono di definire le informazioni di visualizzazione del codice al fine di renderlo più leggibile e flessibile, essi sono pensati specificamente per il web, dunque mancano di alcune caratteristiche necessarie ad altri ambiti di presentazione, ragion per cui il W3C ha definito un insieme di specifiche in grado di gestire la presentazione e la trasformazione di documenti XML: XSL. Acronimo di eXtensible Stylesheet Language esso comprende una famiglia di specifiche con tre componenti non dipendenti l’una dall’altra: XSL Transformation – XSLT – che controlla le operazioni che permettono di rendere i dati presentabili, XML Path Language – XPath – che utilizzato da XSLT permette di individuare gli attributi e gli elementi del documento XML sui quali effettuare la trasformazione, e XSL Formatting Objects – XSL-FO – che consiste in un vocabolario per definire la formattazione di un documento.

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<?xml version=’1.0’ encoding=’utf-8’?> <html xmlns=”http://www.w3.org/1999/xhtml”> <head> <title>titolo</title> <link href=”css/style.css” rel=”stylesheet” type=”text/css”/> </head> <body id=”ebook” xml:lang=”it-IT”> <div id=”container” class=”style-1”> <h1 id=”main” class=”style-1”><a id=”link”></a>Titolo </h1> <p id=”paragraph” class=”subtitle”><a id=”link”></a>sub</p> <p class=”txt”>Author</p> <p class=”txt”><strong class=”intestazione”>title</strong></p> <p class=”corpo”><em class=”corsivo”>sottotitolo</em></p> </div> </body> </html> Esempio di struttura di uno dei file XHTML che compongono un e-book.

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Formati Non tutti i documenti digitali possono essere considerati libri digitali. Uno degli elementi specifici di un e-book consiste nel fatto che esso venga identificato attraverso determinati formati di file. Una prima divisione tra i formati per i libri digitali può essere effettuata tra formati testuali e formati immagine. I formati immagine sono in genere più rari da trovare in quanto prevedono la creazione di un file per ogni pagina di carta a discapito del peso del file complessivo. In genere si prestano alla riproduzione di libri d’arte e fumetti e in linea di massima di tutti i documenti in cui la resa dell’immagine è predominante rispetto al testo. Il formato immagine più interessante per gli e-book è DjVu, che indica allo stesso tempo una tecnologia di compressione per le immagini, un formato file e una piattaforma di distribuzione di contenuti online. Le parti che compongono l’immagine vengono separate in livelli compressi singolarmente a seconda delle esigenze richieste dal contenuto del livello stesso. DjVu può garantire un’elevata risoluzione del livello che contiene il testo e al tempo stesso ottenere un documento di dimensioni complessive molto basse. È un formato aperto e molto utilizzato da biblioteche ed emeroteche per la digitalizzazione dei documenti. Tuttavia DjVu non è un vero e proprio formato per e-book in quanto esso permette di digitalizzare i libri cartacei ma non permette lo sviluppo di un documento totalmente digitale in maniera agevole. D’altra parte esistono svariati formati testuali per la creazione di libri elettronici, essi si dividono in formati aperti e formati proprietari, in cui nei secondi, le specifiche tecniche

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non sono di pubblico dominio, ragion per cui comportano limitazioni nell’utilizzo e nello scambio di file come anche nella scelta di software in grado di interpretarli; la questione è legata alla gestione dei diritti digitali, detti DRM. I formati più noti sono OeBPS, LIT, Mobipocket, Amazon Kindle, PDF ed ePub. Il formato OeBPS è basato su XML e consiste in un vero e proprio standard rilasciato nel 1999 dall’Open eBook Forum. È ormai un formato in disuso ma risulta importante in quanto su di esso si basa il formato ePub. OeBPS è un formato aperto e non proprietario, in una pubblicazione del genere il contenuto del libro viene codificato in file XHTML legati fra loro da un file XML detto package file con estensione .opf che costituisce la radice dell’albero dei documenti che insieme compongono il libro elettronico. OeBPS è stato pensato per essere una sorta di formato sorgente più che per la fruizione diretta da parte dell’utente, l’idea era quella di utilizzarlo come base per la generazione di file in altri formati. Il formato LIT è stato sviluppato da Microsoft e può essere letto da Microsoft Reader, un’applicazione gratuita e disponibile solo per Windows. Esso deriva da OeBPS, al quale aggiunge sistemi di protezione del contenuto di vario livello impedendo la modifica non autorizzata del libro digitale, tuttavia può essere utilizzato solo su dispositivi con sistema operativo Windows dunque la sua diffusione è limitata. Il formato Mobipocket, anch’esso basato su OeBPS, utilizza documenti in XHTML e permette l’inclusione di JavaScript. Supporta inoltre nativamente anche SQL consentendo l’utilizzo del formato in sinergia con i database.

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Il formato Amazon Kindle, nome con il quale vengono identificati anche il dispositivo ereader e il software di visualizzazione, è fondamentalmente il formato Mobipocket, acquisito da Amazon, con un differente schema di generazione del numero seriale e con un sistema DRM di protezione dei file. Il formato PDF, acronimo di Portable Document Format è uno dei primi formati multipiattaforma per la distribuzione di documenti elettronici. È un prodotto Adobe nato da una trasformazione del PostScript, un formato per la stampa sviluppato per comunicare direttamente con le stampanti. PDF infatti è un linguaggio di descrizione della pagina e allo stesso tempo di programmazione procedurale che fornisce informazioni su come la pagina vada rappresentata. Esso è inoltre indipendente dai dispositivi di output, il cui unico obbligo è quello di supportare il linguaggio, e rende possibile la condivisione e distribuzione di documenti formattati su più piattaforme senza alterazioni nel layout originale. Tuttavia, poiché PDF si occupa di descrivere la pagina dal punto di vista grafico e non da quello testuale il suo utilizzo come formato per e-book presenta forti limitazioni: le pagine di un PDF possono soltanto essere ingrandite o rimpicciolite per adattarsi allo schermo del dispositivo di visualizzazione, a differenza dei documenti creati attraverso linguaggi di marcatura. Infine il formato ePub rappresenta una rivoluzione nel campo dei formati per libri digitali: esso tenta di ovviare al problema dell’assenza di uno standard univoco e riconosciuto da tutti, in grado di affermarsi uniformemente su software e dispositivi di lettura. Si tratta di un formato ba-

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sato su OeBPS e dunque su XML e composto da tre specifiche aperte, ideate per favorirne la compatibilità con diversi dispositivi. La sua caratteristica principale consiste nel permettere al testo di adattarsi in modo fluido al dispositivo di visualizzazione, esso rappresenta il testo attraverso file codificati in XHTML e ne gestisce la struttura attraverso un file XML. L’insieme dei file è archiviato e compresso in un unico file .zip rinominato poi .epub. Il pacchetto contiene dei fogli stile CSS che presentano limitazioni, come l’utilizzo del posizionamento assoluto, altamente sconsigliato. I caratteri utilizzati devono essere OpenType, un formato per caratteri multipiattaforma, e indicati nel foglio di stile attraverso la proprietà @font-face. Esso supporta inoltre molti formati immagine come JPG, PNG, GIF e SVG. I file sono archiviati all’interno di una cartella che contiene tanti file xml quanti sono i capitoli del libro, oltre a una cartella per le immagini, il foglio di stile, il sommario e infine una cartella contenente i metadati ovvero le informazioni riguardanti il libro, come l’autore, il titolo e l’editore, indicizzabili dalle piattaforme di distribuzione, e le informazioni sull’eventuale cifratura del contenuto o sulla presenza di DRM.

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Device I primi dispositivi per la lettura degli e-book fanno la loro comparsa nel 1999. Se infatti il libro elettronico costituisce una tecnologia, lo stesso vale per i dispositivi di lettura, essi hanno lo scopo di far dimenticare al lettore il mezzo sul quale sta leggendo il libro al fine di permettergli una completa e totale concentrazione sul contenuto. I dispositivi elettronici di lettura, a differenza della conformazione del libro cartaceo, non possono contare sul senso di familiarità proprio della forma-libro e oltre agli effetti sensoriali e soggettivi essi riscontrano delle difficolta oggettive dettate dal tipo di tecnologia che utilizzano, primo fra tutti l’affaticamento della vista dato dalla lettura prolungata su schermi retroillumiati, a cui si è tentato di ovviare attraverso lo sviluppo dell’inchiostro elettronico. Epaper è infatti una tecnologia che simula la resa dell’inchiostro sulla carta su uno schermo. Un display realizzato con tecnologia epaper riflette la luce e visualizza testo e immagini per un periodo di tempo prolungato senza consumare elettricità e permettendo dunque una lettura più confortevole data dalla stabilità dell’immagine sullo schermo e dal fatto che questi non emetta luce ma rifletta la luce ambientale. Sull’Epaper non è possibile visualizzare i colori. L’inventore di questa tecnologia è stato Joe Jacobson37 che nel 1996 ha fondato la compagnia E-Ink. La tecnologia E-ink prevede l’utilizzo di piccole sfere all’interno dello schermo: ognuna di esse è colorata per metà di bianco e per metà di nero, le due parti possiedono l’una carica elettrica negativa e l’altra carica positiva, dunque grazie a dei campi elettrici è possibile orientare le sfere e fare in modo che le zone dello schermo interessate cambino colore, ragion per

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L’e-book

cui lo schermo richiede alimentazione solo nel momento in cui la posizione delle sfere deve essere variata: i dispositivi che utilizzano questa tecnologia risultano molto leggeri e hanno un’autonomia piuttosto elevata. Dunque i dispositivi per la lettura di e-book si dividono in due categorie, quelli dedicati e quelli multifunzione. I dispositivi dedicati sono progettati esclusivamente per la lettura di libri elettronici, essi possono svolgere altre azioni ma in genere si tratta di attività utili o complementari alla lettura. Tra i dispositivi dedicati il più noto è sicuramente Kindle di Amazon. I dispositivi multifunzione d’altro canto, non sono stati progettati esclusivamente per la fruizione di libri digitali, essi svolgono svariate funzioni e tra queste vi è anche la lettura di e-book; i più noti tra questi sono iPhone e iPad di Apple. Nonostante gli ereader siano stati progettati esclusivamente per la lettura di libri elettronici hanno lo svantaggio di essere troppo specializzati e poco flessibili nonché molto costosi. I dispositivi multifunzione, nonostante siano dotati di display retroilluminati, permettono di svolgere sullo stesso dispositivo un numero svariato di operazioni attraverso applicazioni fornite dallo Store della casa di produzione che permettono di guardare filmati, fare ricerche su internet, ascoltare la musica, collegarsi a vari social network e via dicendo. Nonostante la diffusione degli ereader sia in costante crescita, quella di smartphone e tablet ha visto una diffusione capillare di questi dispositivi, ragion per cui le compagnie che si occupano di distribuzione degli e-book, come Amazon, hanno realizzato la propria applicazione per smartphone e tablet che permette di leggere i libri elettronici anche su questi dispositivi.

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Tipologie di ePub Esistono due tipologie di formato ePub, la prima viene definita con scorrimento del testo, mentre la seconda viene definita a layout fisso. Dal punto di vista progettuale le due strutture richiedono un trattamento grafico molto diverso, infatti l’ePub con scorrimento del testo deve essere progettato per far sì che il testo del libro scorra in maniera fluida all’interno dello schermo del dispositivo di visualizzazione. L’ePub a layout fisso d’altra parte, permette di impostare le dimensioni della pagina e dunque di stabilire un layout statico che non vari in base al dispositivo di visualizzazione ma che al tempo stesso consenta l’inserimento di contenuti interattivi. Nonostante siano valide le indicazioni sulla tipografia fornite nei capitoli riguardanti il libro cartaceo esistono degli accorgimenti da adottare prettamente per la visualizzazione a schermo. Innanzitutto, mentre per un libro cartaceo adottare una misura del corpo compresa tra 8 e 12 pt può essere considerata una scelta sensata, nella visualizzazione a schermo è buona norma adottare un corpo del carattere leggermente maggiore e aumentare il valore dell’interlinea per causare minori difficolta nella lettura. Nella prima tipologia di ePub, in fase di impaginazione, deve essere tenuto in conto il fatto che, dato il gran numero di dispositivi di visualizzazione con schermi differenti, il testo non verrà visualizzato sempre allo stesso modo, dunque la suddivisione gerarchica dei contenuti giocherà un ruolo fondamentale nel far comprendere al lettore la struttura del testo. Inoltre i dispositivi di lettura che utilizzano le tecnologie E-paper ed E-ink non permettono la visualizzazione dei colori, dunque è bene prevedere quale potrebbe essere l’aspetto del libro sui dispositivi principali e sulla base di

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L’e-book

questi effettuare le modifiche necessarie a renderlo fruibile sul maggior numero di dispositivi possibile. Una delle sostanziali differenze tra il libro cartaceo e quello digitale consiste nella possibilità, nel secondo, di inserire collegamenti ipertestuali e elementi interattivi all’interno del libro. Il collegamento ipertestuale permette infatti di spezzare la struttura lineare del libro per crearne una reticolare, fatta di rimandi a contenuti interni o esterni che in alcuni contesti può agevolare il lettore permettendogli di effettuare approfondimenti e comparazioni. I contenuti multimediali, come file video e audio, d’altra parte, permettono di scardinare la forma-libro e di effettuare un processo di rimediazione38, consistente nel fornire una tecnologia dei mezzi propri di un’altra creando in tal modo un media ibrido che ingloba al proprio interno strutture e meccanismi comunicativi già consolidati al fine di affermare se stesso. Le possibilità offerte dal libro digitale sono dunque molto differenti rispetto a quelle del libro cartaceo e in un certo senso forse in futuro l’e-book smetterà di simulare il libro cartaceo per divenire un media a se stante, con delle peculiarità che non inficiano la valenza culturale del libro cartaceo, ma che la espandono verso direzioni ancora impreviste.

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Parte XI — Breve storia dell’editoria


Il libro nei secoli Oggi tenere un libro in mano appare come un’azione relativamente comune per chiunque, ma non è sempre stato così. Nel 1400, secolo al quale si fa risalire la nascita della stampa, il sapere non era affatto appannaggio di tutti: non solo il tasso di alfabetizzazione era minimo, ma soprattutto il sapere era detenuto dai ceti più abbienti e dalla chiesa. In questo secolo l’intervento di Gutenberg ebbe successo non perché egli avesse davvero inventato la stampa, nata invece in Cina nel 594 d. C. ad opera di BÍ Sheng, né per il fatto che egli avesse inventato il libro, già prima del 1400 si producevano libri prima nella forma del codice e successivamente in quella del volume. Cosa fece dunque sì che la stampa prendesse piede? Bisogna considerare il contesto storico: ci si avvicinava all’era della Controriforma, il Medioevo era agli sgoccioli come anche il Sacro Romano Impero. Dunque l’invenzione di Gutenberg ebbe fortuna poiché i tempi erano maturi tanto dal punto di vista culturale quanto da quello tecnologico. Di ritorno a Magonza dopo un periodo di esilio politico egli cominciò a perfezionare il procedimento di stampa a caratteri mobili, che consisteva nell’incidere le singole lettere in rilievo su una matrice di metallo, successivamente il punzone veniva pressato su un’altra matrice affinché creasse un’incisione in incavo, dopodiché si procedeva al riempimento dello stampo così creato con una lega di piombo e antimonio. I caratteri così realizzati potevano essere fusi molte volte al fine di avere più copie della stessa lettera, e venivano sistemati in righe di testo rovesciate per la mise en page. La pagina veniva successivamente inchiostrata con un inchiostro molto denso e grasso, invenzione dello stesso Gu-

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tenberg, e pressata sul foglio grazie al torchio a vite. Questo procedimento permetteva di revisionare il testo e di modificarlo ma i libri stampati dal 1456 al 1500, gli incunaboli, non differivano per nulla, nell’aspetto, dai libri manoscritti degli amanuensi, soprattutto per ragioni commerciali, ne è esempio il fatto che il nobile Federigo da Urbino si facesse vanto del fatto che nella sua biblioteca fossero presenti solo ed esclusivamente libri manoscritti. La stampa dunque muoveva i primi passi verso il Rinascimento. Dopo le prime sperimentazioni degli incunaboli è il Rinascimento a vedere nascere la figura dell’editore. Durante questo secolo, come in quello precedente, le figure di stampatore, editore e libraio erano ancora poco dissimili e spesso le mansioni venivano svolte dalla stessa persona, tuttavia si cominciava a profilare un radicale cambiamento nel modo di percepire il libro: non più come copia del volume miniato dagli amanuensi, bensì come oggetto recante una propria identità in quanto prodotto con una tecnica totalmente differente. Nel corso del Cinquecento erano già state installate alcune stamperie e molti dei primi stampatori avevano deciso di spostarsi dalla Germania, terra di origine della stampa, verso i principali centri commerciali europei. Tra questi, Nicholas Jenson aveva installato la propria stamperia nella città di Venezia, punto di snodo del commercio dell’epoca. È proprio a Venezia che nel 1494 Aldo Manuzio installò la propria stamperia, nella quale vennero prodotti volumi dal valore inestimabile. Manuzio era un appassionato di letteratura classica e decise di fare stampare opere dal grande valore letterario, come quelle di Virgilio. Una delle opere più

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note stampate da Manuzio fu L’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, stampata con i caratteri disegnati da Griffo e illustrata dalle xilografie di Benedetto Bordon. Il famosissimo marchio recante l’ancora, il delfino e la frase Festina Lente era all’epoca sinonimo di pregio e qualità, tant’è che molti realizzarono dei falsi dei libri stampati da Manuzio. I suoi volumi si distinguevano inoltre per il formato, quello che oggi potrebbe essere definito il progenitore del libro tascabile, e per il pregio nella scelta della carta e nel lavoro di legatoria. Il Rinascimento fu dunque il secolo della rinascita anche per la giovanissima tipografia, tuttavia dal punto di vista tecnico poche furono le innovazioni introdotte: la tecnica di Gutenberg era destinata a rimanere invariata fino all’Ottocento, secolo della Rivoluzione Industriale. Nel corso del Seicento la stampa si era ormai diffusa a livello mondiale, il sapere, pian piano, stava diventando alla portata di tutti, e la richiesta di libri sul mercato continuava a crescere. In questo periodo la figura dell’editore come imprenditore cominciò a delinearsi in maniera direttamente proporzionale a quella del mercato. Due furono le case editrici che in questo periodo si distinsero maggiormente: gli Elzevier e i Plantin. Gli Elzevier furono una dinastia di editori operanti a Leida. La casa editrice nacque con Louis Elzevier verso la fine del Cinquecento, e si distinse da subito per l’attenzione all’aspetto economico dell’editoria producendo edizioni in dodicesimo o duodecimos; i libri, in formato tascabile, alti circa 11 cm, erano accompagnati da un frontespizio stampato mediante la tecnica della xilografia.

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Anche i libri prodotti dai Plantin erano ornati da un frontespizio inciso, alla pari di quelli stampati dagli Elzevier, ed erano inoltre illustrati per mezzo di calcografie. Molti giudicarono questa scelta un abominio, per via del risultato non ottimale, tuttavia le motivazioni di Plantin erano più meramente materiali che estetiche, in quanto l’utilizzo della calcografia permetteva di realizzare libri illustrati con un costo inferiore rispetto a quelli stampati in xilografia. Dunque nel corso di questo secolo il carattere prettamente commerciale dell’editoria comincia a profilarsi, anche grazie all’utilizzo di stampati pubblicitari quali opuscoli e/o volantini, a riprova del fatto che l’attività della lettura cominciava a diffondersi: basti pensare al fatto che mentre nei secoli precedenti, la censura da parte dello stato e soprattutto della chiesa, era stata opprimente, mentre adesso si cominciava a parlare di tolleranza nei confronti dei testi stampati come dimostra l’Aeropagitica scritta da John Milton nel 1643, che deve il proprio nome all’orazione pronunciata da Isocrate davanti all’Aeropago ateniese, nella quale Milton afferma che: «I libri infatti non sono per nulla cose morte, bensì contengono in sé una potenza di vita che li rende tanto attivi quanto quello spirito di cui sono la progenie; di più, essi preservano come in una fiala la più pura forza ed essenza di quel vivente intelletto che li generò.» Il Settecento fu un secolo di grandi sperimentazioni, soprattutto riguardanti la leggibilità del testo. Gli studi sulla leggibilità del carattere, come gli esperimenti condotti da Anisson, si schieravano contro quei tipografi definiti neoclassici, ovvero Baskerville, Didot e Bodoni. In questo periodo l’arte della stampa tipografica godeva ormai di gran-

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de fama, tant’è che anche i piccoli ducati, come quello di Parma, avendo ormai installato le proprie stamperie ufficiali, avessero superato, relativamente, il limite imposto dalla censura, pregnante nei tre secoli antecedenti, imposta dallo stato e dalla chiesa. In questo periodo di grande fioritura si percepì dunque, come già affermato, la necessità di fornirsi di un’unità di misura universale. Il primo a tentare questa via fu Pierre Simon Fournier, il cui sistema fu successivamente implementato da Francois Ambroise Didot, il quale, nel 1795 lo mise in relazione con un’unità di misura antecedente, il cosiddetto Pied du Roi, stabilendo dunque il punto Didot, che equivale a 0,376 mm ed è ancora oggi utilizzato dai più noti software di desktop publishing. Questo bisogno di razionalizzazione si espresse, in ambito editoriale, in un totale cambiamento nel modo di percepire il libro: i frontespizi furono spogliati di ogni orpello per divenire puramente tipografici, si prestò particolare attenzione al tipo di carta e di inchiostro utilizzati, insomma, la stampa si erse ad arte e di essa venne curato ogni singolo dettaglio. John Baskerville, soprannominato il lacchiere di Birmingham aveva fatto installare nella sua dimora due torchi. Si dice che egli producesse da sé la carta e l’inchiostro che utilizzava per le proprie opere di pregio. Giambattista Bodoni, dal canto suo, poté permettersi il lusso di sperimentare in quanto non dovette mai confrontarsi con le dure logiche del mercato, essendo protetto dalla nobiltà cittadina. Ricevette svariati premi ed encomi, e il suo Manuale Tipografico resta un testo sacro per gli appassionati del settore.

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Breve storia dell’editoria

Il Settecento fu dunque l’anticamera della rivoluzione nel mondo della stampa e le sue reminiscenze, come anche quelle dei secoli precedenti, avrebbero portato il mondo della tipografia verso una netta scissione: quella tra industria e artigianato. L’Ottocento fu il secolo di svolta nella storia della parola stampata. La meccanizzazione introdotta dalla seconda Rivoluzione Industriale aveva scosso nel profondo il mondo degli editori-stampatori, provocando reazioni differenti. I ruoli di editore, stampatore e libraio cominciarono a differenziarsi con una preminenza dell’editore. L’industrializzazione ebbe dunque come effetto sì, quello di ampliare il mercato e migliorare la produzione accorciandone i tempi, ma, come per l’invenzione della stampa, anche in questo periodo non mancarono delle obiezioni e dei rifiuti nei confronti di questo nuovo modo di affrontare la produzione. La principale obiezione mossa dai riformatori, era riferita al fatto che la meccanizzazione dei procedimenti di stampa rendeva l’artefatto dozzinale e di bassa qualità, in quanto prodotto con mezzi che ad esso toglievano ogni pregio. Il principale esponente di questa “ribellione” fu William Morris, il quale si accostò all’arte della stampa negli ultimi anni della propria vita, dopo un’intera esistenza dedita all’impegno politico. Morris fondò a fine secolo la Kelmscott Press, una casa editrice indipendente la quale produceva edizioni pregiate di opere della letteratura inglese. All’intensa, seppur breve, esperienza della Kelmscott Press, fecero seguito altre case editrici indipendenti che aderivano al revival della stampa. Gli artefatti realizzati avevano dunque lo scopo di ritornare alle tradizioni tanto nella produzione quanto

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nello stile, rifacendosi ai libri cinquecenteschi e ornando i frontespizi con fregi fitomorfi. Accanto ai riformatori anche l’editoria commerciale era in continua espansione, sebbene non vi siano esempi degni di nota, in quanto la qualità della stampa e della composizione erano a un livello nettamente inferiore rispetto ai secoli precedenti, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti. L’esempio della Kelmscott ebbe però degli effetti positivi anche sull’editoria commerciale: la figura del tipografo era divenuta simbolo di qualità e ogni editore professionista cominciava a interessarsi a parametri come l’istruzione del lettore, la leggibilità del testo e l’utilizzo improprio delle decorazioni: l’Ottocento definiva le basi del mercato editoriale odierno. Il Novecento fu il secolo che vide finalmente la stampa diffondersi in maniera trasversale rispetto alle classi sociali, denotando dunque un altissimo tasso di alfabetizzazione che in editoria si tradusse con l’adozione di soluzioni che, ottimizzando i costi, potessero aumentare la produzione di libri. Nascono dunque le principali case editrici ancora oggi conosciute, e nasce soprattutto il libro tascabile. I primi tascabili furono i famosissimi Penguin Books inglesi, opera di Allen Lane, ma anche in Italia e nelle altre parti del mondo la tendenza a produrre libri di formato tascabile prese piede, come anche l’abitudine da parte dei lettori di leggere durante il tempo libero, in viaggio, durante le pause dal lavoro, a letto la sera: necessità che richiedevano la produzione di libri estremamente maneggevoli e facili da sfogliare. Durante questo secolo la predominanza delle opere di narrativa è indice del fatto che la lettura venga percepita come un piacere.

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I formati della carta vengono standardizzati, come anche la produzione, che grazie alle innovazioni tecniche si avvale delle macchine fotocompositrici, della stampa offset, dell’utilizzo di illustrazioni e fotografie, ecc. Non mancarono tuttavia gli ostacoli da superare, primo fra tutti l’avvento dei regimi totalitari che annientavano qualsiasi forma di libertà di espressione e che costrinsero molte tra le personalità più eminenti all’esilio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’occidente si trovava frammentato e distrutto ed anche l’ambito editoriale risentì di questa crisi, e si espresse con reazioni estreme conseguenti agli orrori della guerra, caso emblematico è quello di Jan Tschichold, portavoce della Nuova Tipografia che dopo la guerra cambiò radicalmente modo di percepire il libro per ritornare a soluzioni più ponderate. Infine, a fine secolo, l’avvento del digitale investì l’appena guarita editoria, spalancando le porte di una realtà ancora oggi in buona parte inesplorata. Molti sono i dubbi sul futuro dell’editoria nel nuovo millennio. Si parla di ebook, di rivoluzione digitale, di sopravvivenza del libro di carta, ma nel frattempo il numero di lettori forti, soprattutto in Italia, scende. L’editoria degli anni Duemila è ben lontana sia da quella di Gutenberg che da quella del Novecento. Le logiche di mercato hanno preso il sopravvento e tutto si riduce a una serie di bilanci: non più libri, solo numeri. Il mercato, soprattutto quello italiano, è dunque dominato da pochi grandi nomi, a discapito della piccola e media editoria, come dimostra il caso Mondazzoli, nel mirino dell’antitrust: dalla fine degli anni ‘90 il gruppo Mondadori, oggi dominato da Rcs e con a capo Marina Berlusconi, ha acquisito

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buona parte delle principali case editrici italiane arrivando a possedere circa il 60% del mercato. Gli anni Duemila, insomma, sono anni di incertezza dovuta alla profonda crisi economica, alla situazione del mercato editoriale dominato dall’oligopolio, allo sviluppo digitale di cui non si conosce la portata. Ma sono anche anni di impegno e di voglia di sperimentare, di rilanciare e scommettere non solo sul futuro dell’editoria ma soprattutto su quello della cultura di un intero paese, che, ora piÚ che mai di cultura ha bisogno.

Johannes Gutenberg, Bibbia delle 42 linee, 1456.

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Aldo Manuzio, Hypnerotomachia Poliphili, 1499.

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Christophe Plantin, Biblia Regia, 1568-73.

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Giambattista Bodoni, Orazio, 1791.

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La marca editoriale Esistono vari tipi di rappresentazione degli oggetti esistenti, e non. Nella stampa, la natura del medium sposta la rappresentazione su un piano prettamente bidimensionale ma anche in questa categoria è il processo mentale antecedente alla rappresentazione a fare la differenza. Tra i processi di rappresentazione verranno presi in esame quelli relativi alla figura, al diagramma, all’allegoria ed al simbolo. Con il termine figura si intende una registrazione quanto più possibile veritiera di ciò che l’occhio umano vede o crede di vedere. A livello qualitativo le figure possono contenere informazioni concise e superficiali, e quindi essere considerate “schizzi”, oppure possono cercare di riprodurre in maniera quanto più veritiera possibile la realtà e quindi essere definite “verosimili”. Il diagramma, invece, consiste nella rappresentazione schematica di un oggetto o di un concetto astratto al fine di permetterne l’analisi e la comprensione. Anche in questo caso esistono vari stadi di schematizzazione, ovvero l’illustrazione semplificata nella quale vengono mostrate solo le parti essenziali dell’oggetto; la sezione trasversale, che si scinde dalla realtà, poiché è probabilmente impossibile vedere l’oggetto o una specifica parte di esso, ma così facendo cerca di rendere chiara la comprensione del suo funzionamento; lo schema, che anziché rappresentare un oggetto rappresenta un intero processo, ad esempio quello di funzionamento, impiegando segni di non immediata comprensione che necessitano una legenda o una spiegazione verbale; il grafico, che rappresenta dei dati complessi cercando di semplificarli al fine di rendere l’informazione più comprensibile ma necessita di una spiegazione verbale.

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Ad ogni grado di rappresentazione, la necessità di fornire una spiegazione verbale si fa sempre più pregnante in quanto la stilizzazione rende la comprensione sempre meno immediata. Con il termine allegoria, invece si intende la rappresentazione di un concetto astratto, come la fortuna o la giustizia, fornendo un’illustrazione naturalistica di fatti straordinari. Questo tipo di rappresentazione veniva spesso utilizzato nella mitologia greca. Il fattore di polisemia dell’immagine non ne permette un’immediata comprensione, raramente il significato è inequivocabile. Ciò è dovuto al contenuto simbolico delle immagini: spesso il termine simbolico viene travisato, ovvero viene utilizzato per definire segni di nuova invenzione, differenti dal normale alfabeto e dalle cifre, nonostante questo genere di segni non possa essere definito simbolo in quanto l’elemento simbolico rappresenta un valore implicito che spazia dal piano della coscienza a quello dell’inconscio, è un tramite tra la realtà conoscibile e quella mistica. Dunque chi produce oggetti con valenza simbolica in un certo senso media tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile. Anche nell’ambito del simbolo il tipo di rappresentazione può essere vario: esistono simboli realizzati in maniera dettagliata sotto forma di figura, ma esistono anche icone, ovvero rappresentazioni semplificate la cui bellezza è esaltata dalla semplificazione che le rende immediate. La rappresentazione segue dunque una forma base non perdendo tuttavia il proprio significato simbolico, che non dipende dalla perfezione del segno ma dalla volontà di chi vi ripone la propria fede. Dare un nome alle cose è un’attività che è nata molto tempo prima della nascita della scrit-

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tura, poiché la rappresentazione dell’individuo, intesa come espressione individuale della persona e non del suo aspetto, ovvero la firma, è stata introdotta soprattutto al fine di affermare la proprietà di un oggetto, bestiame o utensili, già nell’Età della Pietra, dove i segni venivano graffiti su corna bovine e vasellame vario. Con lo sviluppo della scrittura l’abitudine di apporre sigle personali sugli oggetti non si è persa a causa del fatto che l’alfabetizzazione non fosse appannaggio di molti: si considerino come esempio le firme realizzate con la x. Persino negli ambiti più colti la firma ha sempre avuto una forte attrattiva per il suo carattere criptico e a volte decorativo. Il bisogno di identificazione personale attraverso l’utilizzo di un segno visibile può porsi alla base della storia del segno in senso lato, ne è prova la tavola per marcature ritrovata in Finlandia e datata nel XVII secolo, nella quale vengono registrati i pagamenti fatti ai lavoratori giornalieri da un fattore, in cui ogni operaio è identificato attraverso la propria firma. Il marchio non nasce dunque con l’accezione prettamente commerciale che oggi gli viene attribuita: inizialmente, come si è già detto esso era necessario ai fini di indicare il concetto di proprietà riguardo un determinato oggetto. Successivamente, con lo sviluppo delle varie professioni, e quindi dell’artigianato, molti di questi neo-professionisti, spesso comprendendo il valore del proprio lavoro, cominciarono a siglare gli oggetti che producevano. In questo contesto è interessante conoscere il lavoro svolto da J. Knauth, il quale redisse uno studio sui marchi dei tagliapietre presenti all’interno della cattedrale di Strasburgo, facendone un inventa-

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rio e ipotizzando una griglia di costruzione. Nel corso dei secoli lo stile con cui questi marchi venivano rappresentati andò modificandosi sulla base del sostrato storico-sociale e la scelta di adottare questi segni di firma fu presa anche dai ceti dell’alta società e dai cosiddetti artisti che scelsero di identificarsi attraverso il monogramma, ovvero le proprie iniziali intrecciate in vario modo. I segni così nati cominciarono pian piano ad estendere il proprio significato a un numero sempre più alto di persone arrivando a divenire segni di comunità. L’abitudine di marchiare i propri oggetti per un certo tempo fu legata alla necessità di esercitare un diritto di proprietà su di essi. Tuttavia, con la nascita del commercio la firma del venditore poteva essere considerata come un simbolo di qualità e per questa ragione si cominciò ad apporre marchi sugli oggetti da vendere. Il primo esempio è costituito dai capi di bestiame che venivano marchiati a fuoco dagli allevatori prima di essere venduti; successivamente l’abitudine di apporre il marchio sugli oggetti in vendita si estese a quasi qualsiasi oggetto vendibile, fatto che, per i commercianti, permetteva di evitare scambi con altre merci durante il trasporto. Con l’aumentare della specializzazione degli artigiani il marchio divenne anche motivo di orgoglio e prestigio, ne sono un esempio le filigrane inserite nei fogli dai produttori di carta, i marchi dei vasisti, degli armaioli e degli orefici, ad esempio, i quali realizzavano il marchio attraverso le tecniche dell’incisione, della stampa, del disegno, oppure incorporandolo all’interno dell’oggetto.

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Nel Quattrocento, essendo la tipografia un’arte neonata, e il mestiere di stampatore un mestiere nuovo, nello sviluppo delle prime marche editoriali si cercò di attenersi molto alla tradizione figurativa e allegorica del tempo utilizzando segni che avessero un richiamo a qualcosa di astratto, come gli scudi di Fust e Schöffer, utilizzati probabilmente per infondere un senso di nobiltà alla neonata professione tanto osteggiata ai tempi della sua nascita, e conferirle uno status sociale inattaccabile. Questo genere di motivo, già presente ampiamente nell’ambito dell’araldica, ovvero della disciplina che regola la rappresentazione di una data famiglia, spesso nobile, attraverso dei criteri che oggi possono apparire antiquati, ma all’epoca erano fondamentali soprattutto nell’ambito degli scudi e degli stendardi che venivano esposti durante le guerre, fu utilizzato, in ambito editoriale anche da Albrecht Durer nell’ex libris per Hieronymus Ebner, nel quali appunto oltre ad altri motivi tipici dell’ex libris appaiono anche i due scudi intrecciati, si suppone con il significato di alleanza. Molto diffuso era anche il motivo fitomorfo, come nel caso del marchio degli Elzevier e di Froshauer, a voler rappresentare forse il fatto che, come le radici di un albero crescono in profondità nel terreno, così la stampa tipografica sarebbe riuscita a porre le proprie basi per poi crescere e svilupparsi in maniera stabile. Inoltre l’albero trasmette un senso di riverenza ed è simbolo di conoscenza, di sapere, che se un tempo era appannaggio delle caste alte della società adesso poteva diffondersi grazie alla nascita del libro e alla crescente alfabetizzazione.

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Nel Cinquecento col consolidarsi dell’attività di stampatore, che cominciava a ottenere alcuni riconoscimenti, essendo riuscita a realizzare artefatti di qualità attraverso un procedimento così oscuro come la stampa, si avviò una nuova fase della vita della marca editoriale, legata al significato religioso, come mostra anche il marchio di Aldo Manuzio. Tuttavia il marchio di Manuzio non fu l’unico ad avere un significato legato alla fede: il termine pesce, infatti, in greco si scrive ichthys, e nella simbologia cristiana sta per Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore, acronimo utilizzato nelle catacombe dai primi cristiani perseguitati. Un altro simbolo dalla valenza religiosa era quello della croce unita al globo, utilizzato da molti stampatori, soprattutto italiani, primo fra tutti Nicholas Jenson, il quale adottò per il proprio marchio un globo sormontato da una croce di Lorena, ovvero una croce composta da un braccio verticale molto lungo e due braccia orizzontali di larghezza variabile, dei quali quello in alto simboleggiava la scritta I.N.R.I posta, nell’iconografia cristiana, sopra la croce di Gesù Cristo. Il fatto che tanto l’utilizzo della croce quanto quello del delfino o del pesce più in generale si siano protratti così a lungo nel tempo è dimostrato dall’utilizzo, da parte di svariate case editoriali nate nel Novecento, di questo simbolo, come nel caso di Thames e Hudson o dell’editore Schweiller, nei quali compare la figura del delfino, forse però accomunato in questo caso più al marchio di Manuzio che alla morale religiosa. Altra sorte per il simbolo della croce utilizzato sì, ai fini di preghiera e come marchio ma anche come sostituto della firma per chi non sapesse leggere e scrivere e connotato da infinite valenze grazie alla sua semplicità intrisa di

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significato. Purtroppo lo spazio concesso da questo volume è troppo breve per dilungarsi sulla simbologia religiosa legata al disegno di figure animali, tuttavia è fondamentale comprendere il meccanismo secondo cui l’arte della stampa fosse considerata, e si considerasse, talmente misteriosa e trascendente da sentirsi in diritto di ergersi a un livello superiore dal punto di vista spirituale. Le definizioni di arte e tecnica sembrano essere in rapporto gerarchico, ovvero si suppone che la tecnica sia subordinata all’arte, e che quest’ultima trascenda il proprio legame con la manualità per elevarsi a puro processo spirituale. In Grecia non esisteva un termine corrispondente all’italiano arte, al suo posto veniva utilizzato il termine tecnh riferito all’attività di produrre in senso generico, mentre il passaggio al latino portò alla nascita del termine ars, ovvero arte. Il divario tra arte e tecnica è presente già da prima della nascita della stampa, ad esempio basti pensare al fatto che la pittura e la scultura fossero considerate inferiori rispetto alla scrittura e alla composizione musicale poiché implicavano l’utilizzo delle mani e non della sola mente. All’epoca della nascita della stampa questa era stata, come già detto, molto osteggiata poichè ritenuta di bassa qualità rispetto alle copie realizzate a mano dai monaci amanuensi, tuttavia stampatori come Manuzio avevano permesso l’elevazione della stampa da tecnica ad arte, spogliandola di quell’alone di mistero che nei primi secoli la attorniava. Nel Seicento erano molte le stamperie, ufficiali e non, dunque per gli editori era di fondamentale importanza non solo munirsi di un marchio ma soprattutto trasmettere, attraverso quest’ultimo, nonché attraverso la qualità

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degli artefatti, la garanzia di comprare un’opera realizzata in maniera ineccepibile. Infatti, nel ‘600, a un proliferare di stamperie corrispose un calo nella qualità dei volumi stampati, dunque gli editori sentirono la necessità di tutelare la qualità del proprio lavoro attraverso marchi che facessero riferimento ora al fatto che una determinata famiglia praticasse la professione da tempo e avesse una tradizione tale da definirne la qualità, come quello degli Elzevier, ora al fatto che la cura con cui le edizioni erano stampate fosse tale da avere alla base una grande abilità tecnica dovuta alla fatica e alla costanza con cui l’attività veniva praticata, come quello dei Plantin. Il Settecento fu il secolo che vide l’affermarsi della stampa come vera e propria arte. A riprova di questo fatto basti notare come molte famiglie aristocratiche, nonché lo stesso Re di Francia, si interessarono ad installare stamperie e a investire tempo e denaro agli studi sull’impaginazione e sul disegno del carattere. Fu il secolo del Romain du Roi, dei sistemi di misurazione del carattere tipografico, dei caratteri di Baskerville, Bodoni, Didot e Fournier che modificarono in maniera radicale l’idea di carattere tipografico. Il fatto che anche le classi alte si fossero interessate in maniera così pregnante alla stampa tutelò molti stampatori, tra cui lo stesso Bodoni, tanto da farli rinunciare all’utilizzo di un proprio marchio poiché la qualità del loro operato, e la tutela del mecenate, ne proteggevano l’autenticità. Non vi era dunque interesse a competere con altri editori o a vendere un gran numero di copie, ma lo scopo ultimo di ogni stampatore era quello di realizzare la perfezione in ambito tipografico, attraverso una composizione privata

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degli orpelli dei secoli precedenti, che desse spazio e respiro alle lettere che avevano dato vita a questa professione, ora in una veste nuova e mai vista prima. Il Settecento aprì una fessura verso un mondo che avrebbe spalancato le proprie porte un secolo dopo, alla Rivoluzione Industriale, che avrebbe modificato per sempre l’assetto della tipografia e della produzione in genere, con la produzione standardizzata, le grandi tirature e la nascita dell’editoria moderna. L’Ottocento, d’altro canto, fu un secolo di grandi innovazioni, e fu anche il secolo di una dottrina filosofica nota con il nome di positivismo. I positivisti avevano assoluta fiducia nella scienza e credevano nella continua perfettibilità del mondo ottenuta attraverso l’utilizzo dell’intelletto. Il pensiero positivo si basava sulla convinzione che attraverso il progredire dell’industria fosse possibile raggiungere la perfezione in ogni ambito, in quanto la macchina, a differenza dell’uomo, era reputata come infallibile. La Rivoluzione Industriale colpì, come era ovvio, anche l’ambito tipografico, nel quale la standardizzazione del lavoro e la logica della catena di montaggio apportarono grandi benefici, soprattutto in tema di quantità di libri prodotti, un numero ineguagliabile attraverso l’utilizzo degli strumenti manuali. Le private presses, di cui si è parlato precedentemente, si opponevano alla perdita di qualità conseguente la standardizzazione dei processi produttivi che causarono infatti, paradossalmente, una controrivoluzione, nel senso che al fine di recuperare la qualità era necessario ridare valore all’artigianato e alla mano dell’uomo, sulla base di un’etica socialista, alimentata dal pensiero di John Ruskin, rifacendosi ai modelli del tardo medioevo, ossia agli incunaboli e

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ai codici miniati e rifiutando la progressiva degenerazione della stampa. I marchi delle private presses non avevano un tema ben preciso ma in essi era presente un elemento ricorrente: il motivo floreale geometrizzato, che apriva la strada alla corrente nota con il nome di Jugendstil o Art Nouveau, e basata sull’organicismo delle forme e la fluidità della linea di contorno. Tuttavia questo genere di rappresentazione era destinata a sparire in brevissimo tempo, in quanto, all’inizio del Novecento, le Avanguardie storiche avrebbero portato all’apice la logica industriale in tipografia, spazzando via molte reminiscenze di un passato ormai lontano. Nel Novecento l’editoria subì una svolta epocale: le case editrici cominciarono a fiorire, il tasso di alfabetizzazione crebbe in maniera esponenziale e con esso la domanda di libri anche da parte dei ceti meno abbienti. Il mercato si fece dunque più competitivo e ogni casa editrice adottò strategie differenti per veicolare il messaggio insito nella propria weltanshauung. I tipi di marchi utilizzati, soprattutto nell’ambito dell’editoria italiana, facevano riferimento a tre principali categorie, generate da diverse visioni del concetto di cultura: alcuni scelsero di seguire la via della tradizione, proponendo dunque marchi figurati, dal chiaro riferimento allegorico, come i delfini di Thames and Hudson, il celeberrimo struzzo di Einaudi o il gufo di Guanda, ognuno dei quali recava con sé chiari, o celati, riferimenti allegorici; altri invece scelsero un tipo di marchio detto monogrammatico, ovvero composto dall’intreccio delle iniziali del fondatore, più o meno decorate, come il primo marchio di Mondadori, quello di Faber e Faber, o quello di Valentino Bompiani.

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Con il tempo alcune collane divennero talmente preponderanti da sviluppare una propria identità, distinta dalla casa editrice madre, come la collana Medusa di Mondadori, e successivamente gli Oscar. Un caso a sé stante è quello di Adelphi, fondata nel 1969, il cui marchio è la rivisitazione di un ideogramma cinese rappresentante due fratelli: infatti il termine greco adelfoi significa appunto fratelli. La casa editrice mantenne inoltre una veste grafica molto scarna ma curata al tempo stesso che ancora oggi la identifica. Un altro caso emblematico è quello di BUR, acronimo per “Biblioteca Universale Rizzoli”, un’altra collana staccatasi, per identità, dalla casa editrice di riferimento, il cui marchio fu progettato da John Alcorn nello stile del Push Pin Studio, attraverso il disegno delle tre lettere che compongono l’acronimo, legate fra loro da linee sinuose in stile liberty. Il ventunesimo secolo, per quanto concerne il mercato editoriale, è stato ed è un secolo complicato e ricco di spunti per un futuro incerto che spacca a metà l’opinione degli esperti del settore. Infatti la nascita dell’ebook, alla fine del secolo scorso, ha creato non pochi dubbi su quale possa essere il futuro dell’editoria. Le case editrici hanno totalmente cambiato i propri modelli di comunicazione, attuando vere e proprie strategie di branding, espandendo i propri interessi e spaziando in ambiti come la musica e il merchandising generico, basti pensare agli store di Feltrinelli. Oggi è fondamentale, per un’azienda che voglia imporsi sul mercato, fornirsi non solo di un marchio, ma anche e soprattutto di un intero sistema di identità visiva, che le permetta sì, di essere immediatamente riconosciuta dal cliente, ma soprattutto di trasmetteregli un mood, uno stato d’animo ben pre-

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ciso, che dipende dalla visione dell’azienda, e che lo faccia sentire a proprio agio al fine di fidelizzarlo. Anche i marchi, oggi, cambiano forma, divengono liquidi, per adattarsi a molteplici usi, pur rifacendosi alle tre categorie citate precedentemente, il disegno si fa più preciso ed emblematico, le applicazioni vengono definite in maniera cristallina, le copertine si fanno via via più accattivanti.

Nella prima riga vengono mostrati i segni dei tagliapietre ritrovati nella cattedrale di Strasburgo. Al centro viene mostrata la teoria di Knauth, che tentò di ricostruire la struttura geometrica dei segni dei tagliapietre mentre nell’ultima riga vengono mostrati segni di comunità.

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Marchi di stampatori ed editori antichi e contemporanei. 1. Johann Fust e Peter Schรถffer 2. Johann Froben 3. Geoffroy Tory 4. Andrea Torresano 5. Aldo Manuzio 6. Robert Granjon 7. William Caxton 8. Louis Elzevier

9.10. Robert Estienne 11.12. Christoph Plantin 13.14.15. Bompiani (Uff. Graf. Int.) 16.17. Bompiani (Aurelia Raffo) 18. Bompiani (Studio Arcoquattro) 19. Armando Armando Ed. (Sergio Vezzali) 20. Armando Ed. (Giuseppe Rampazzo) 21. Editori Riuniti (Uff. Graf. Int)

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22. Editori Riuniti (Uff. Graf. Int.) 23. Valentino Bompiani (Uff. Graf. Int.) 24. Arnoldo Mondadori ( Uff. Graf. Int.) 25. Arnoldo Mondadori (Bob Noorda) 26. Giangiacomo Feltrinelli Ed. (Albe Steiner) 27. Feltrinelli (Bob Noorda) 28. Biblioteca Universale Rizzoli (John Alcorn)

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Parte XII — Protagonisti e antagonisti


I mestieri dell’editoria Sino a questo punto si è discusso dell’oggetto-libro, delle conformazioni che può assumere, e della sua valenza come supporto di diffusione culturale dal punto di vista testuale e oggettuale. Qui si tratterà invece dell’attività professionale legata alla produzione e diffusione del libro, l’editoria, facendo riferimento alle figure professionali che competono, all’interno di una casa editrice, alla buona realizzazione dei libri e alla loro messa in commercio. Il tratto interessante dell’attività editoriale è proprio questa duplice valenza di impresa commerciale e culturale, un ambito in cui molto spesso si può ricadere nell’errore di sottovalutare uno dei due aspetti e dunque a un estremo vengono prodotti contenuti che non possiedono alcuna valenza culturale a puro scopo monetario, mentre all’altro estremo il non curarsi della casa editrice come impresa, avendo in mente solo la valenza culturale dei prodotti editoriali può spesso portare a situazioni di bancarotta e costringere alla vendita. In medio stat virtus dunque. Ciò che qui si vuole approfondire è la definizione degli attori che si muovono sulla scena del libro a partire dal più noto: l’editore. C’è stato un tempo in cui la figura di editore corrispondeva a quella di tipografo, a quella di progettista e a quella di stampatore. Non esisteva un termine che identificasse un mestiere che ancora oggi risulta difficile da delineare. L’editore infatti non è colui che fa i libri, tuttavia il suo ruolo lo pone nella condizione di effettuare delle scelte sull’aspetto e sul contenuto dei libri che vuole pubblicare. Editoria come responsabilità dunque, ma anche come entusiasmo. Un editore è prima di tutto un lettore vorace

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che intraprende delle scelte legate a ciò che vorrebbe vedere sugli scaffali della libreria. Editoria, però, significa anche impresa, non solo culturale ma anche commerciale. Fino a che punto infatti l’editore pubblica per il lettore e fino a che punto per se stesso? Il rapporto con i lettori deve essere fondamentale, essi non devono sentirsi meri consumatori ma parte attiva nelle scelte editoriali, tra il lettore e l’editore deve instaurarsi un rapporto di fiducia reciproca fatto di aspettative: il lettore che si fida dell’editore sa che questi pubblicherà titoli che seguono un progetto e una linea di pensiero e consoliderà la propria fiducia acquistando il libro; d’altro canto l’editore dovrà avere fede nel lettore, con il quale condividerà le proprie scelte, non facendosi guidare dal mercato e dalle tendenze ma in un rapporto di reciproco scambio: editoria come dialogo. Ma l’editore deve anche farsi carico della promozione del libro, il libro non ha ragione d’esistere qualora non ci sia nessuno disposto a leggerlo, l’editore ha il compito e il dovere di rendere il libro disponibile. Essere un editore vuol dire vivere costantemente una dicotomia tra pubblico e privato cercando di conciliare la propria visione del mondo con un interesse comunitario, essere un imprenditore ma con una responsabilità culturale. E operare delle scelte può voler dire tanti “no”: un editore che si rispetti non deve prendere parte alla pseudoeditoria a pagamento, fatta di autori che pur di vedere pubblicato un proprio lavoro sono disposti a pagare, l’editore non ha il dovere di pubblicare, egli ha il dovere di scegliere cosa pubblicare. Fare l’editore dunque vuol dire anche far circolare

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le proprie idee, la propria visione del mondo assumendosi un grosso rischio, tanto di impresa quanto intellettuale. Il redattore, come anche all’editore, rappresenta una soglia tra il testo dell’autore e quello che il lettore fruisce per mezzo del libro. Infatti il passaggio in casa editrice non si limita a trasformare il testo solo esteriormente. Tra il manoscritto redatto dall’autore e il testo che verrà pubblicato si pongono tutte le revisioni atte a renderlo più comprensibile, rispettando il pensiero dell’autore. Autore e redattore lavorano fianco a fianco per far in modo che il testo pubblicato possa essere al meglio della sua forma e conforme agli standard della casa editrice. Il ruolo dell’ufficio stampa è di fondamentale importanza in quanto il libro non avrebbe senso di esistere se non ci fosse un pubblico pronto a leggerlo ma per poter essere letto esso deve essere diffuso e portato alla conoscenza del lettore. L’ufficio stampa dunque si occupa dei rapporti con la stampa e gli altri media al fine di far conoscere il libro, può giocare d’anticipo fornendo bozze e altri materiali prima dell’uscita del libro per enfatizzarne il lancio, può organizzare incontri con i librai, e acquistare spazi pubblicitari da dedicare al libro in uscita. Inoltre l’ufficio stampa ha il ruolo di curare la comunicazione esterna della casa editrice, farne conoscere il pensiero, interagire con gli altri attori che competono alla nascita del libro e infine con i lettori. Il grafico è colui che da forma al libro. Nonostante sembri un’operazione banale è fondamentale comprendere che questo dare forma, questo mettere in pagina, rappresenta una responsabilità culturale: lanciare un progetto editoriale significa creare una serie di oggetti che mostrano una parti-

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colare visione del mondo che va esplicata sia nel contenuto che nella forma. Editoria vuol dire diffondere idee, non oggetti di carta: il libro deve essere curato in ogni dettaglio. Albe Steiner39 parlava di una figura professionale molto particolare: il grafico redattore, un grafico che non si occupi semplicemente di ingabbiare il testo all’interno delle pagine, ma che sia un operatore della cultura, con un obbligo verso il lettore, che nell’impaginare un libro sia consapevole del fatto che in tal modo sta permettendo la diffusione di un’idea e che quest’idea dovrebbe avere la forma che le è più consona. Il grafico infatti è un’interfaccia: da una parte deve lavorare per l’editore, rendere i suoi libri riconoscibili e curati, e dall’altra per il lettore, permettendogli materialmente di leggere il testo e di comprenderlo. Un libro ben progettato è un libro progettato per i lettori, non per ragioni estetiche o autocompiacimento: mettere in pagina vuol dire affrontare i problemi del libro dall’interno, dare un corpo al pensiero, renderlo disponibile, e dunque diffonderlo: diffondere il sapere. Il grafico redattore non è un mero operatore della catena di montaggio, egli deve essere cosciente del proprio ruolo, deve fare delle scelte dettate dalla progettualità e dall’etica che influiscono direttamente sul lettore, deve intendere il libro come veicolo di diffusione della cultura per mezzo del quale l’uomo è libero, di pensare e di agire. Il grafico analizza le ragioni del committente e ne dimostra la personalità, rende identificabile il libro, consente la metamorfosi del testo in contesto40, lo rende credibile. Progetto grafico e cura redazionale rendono credibile e identificabile il testo.

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Il progetto grafico, inoltre condiziona sensibilmente la lettura: il lettore può ammirarlo a partire dalla copertina e fruirlo all’interno del volume, rappresentato da un rettangolo di carta che esprime delle qualità ormai consolidate nell’inconscio del lettore che non solo rendono possibile la lettura ma la influenzano sulla base delle regole della percezione visiva. Il grafico redattore, responsabile del contesto, esprime significati culturali attraverso il linguaggio visivo, determina il supporto, in-forma il libro. A tal proposito è bene citare la Carta del progetto grafico, un documento redatto il 24 giugno 1989 da Giovanni Anceschi, Giovanni Baule e Gianfranco Torri, che ha lo scopo di instaurare un dialogo sul valore della progettazione grafica, come affermato al punto 1:«Noi osserviamo che il sistema della comunicazione e dell’informazione dispone oggi di una presenza generalizzata, di una diffusione capillare, di un assetto poderoso. È l’industria della comunicazione e dell’informazione a porsi come traente nello scenario contemporaneo. Peraltro sono riscontrabili in parallelo inquietanti fenomeni di inquinamento visivo e di saturazione comunicativa, sintomi di un sistema in cui tecnologie e apparati, lontani dall’essere autosufficienti, sono bisognosi di direzioni, di scelte e orientamenti progettati.La grafica è ormai una presenza trasversale. Dove c’è comunicazione c’è grafica. Come la comunicazione essa è dappertutto. La grafica è là dove la cultura si fa editoria. La grafica è là dove i sistemi di trasporto si stanno informatizzando. La grafica interviene nell’assetto multimediale della politica. La grafica è presente non solo nella divulgazione ma anche nella modellazione della scienza. La grafica è in azione là

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dove il prodotto industriale interagisce con l’utilizzazione. La grafica è nella grande distribuzione dove il consumatore incontra la merce. La grafica è anche nello sport, nell’immagine delle grandi manifestazioni come nella loro diffusione massmediale.»

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Parte XIII — Bibliodiversità ed editoria indipendente


Bibliodiversità Il panorama editoriale italiano contemporaneo versa in una situazione non esattame florida, in cui cinque grandi gruppi editoriali dominano il mercato in una situazione di oligopolio che soffoca le piccole e medie realtà editoriali schiacciate dal peso delle multinazionali e impossibilitate ad inserirsi nei cicli di distribuzione per mancanza di liquidità sufficienti a coprire le spese di una produzione che diventa di giorno in giorno sempre più un’utopia. In Italia esistono circa 1500 case editrici attive di cui soltanto il 33% sono piccole e medie imprese che spesso non pubblicano più di un’opera all’anno. Il problema consiste nel fatto che, nonostante i dati statistici indichino una sostanziale produzione di titoli nuovi ogni anno in realtà questi titoli vengono pubblicati in larga misura da grandi case editrici, sempre più spesso raggruppate in agglomerati editoriali al cui vertice vengono poste società che con l’editoria hanno poco a che fare e dunque i titoli prodotti rientrano in un ciclo di sovrapproduzione e di obsolescenza programmata dettato dalla società dei consumi di massa. Vengono infatti prodotti molti titoli nuovi ma questi, pur essendo libri diversi, rientrano in un tipo di produzione caratterizzato dalla ridondanza, sono “nuovi” e “vecchi” al tempo stesso, omologati a un modello dettato dai reparti marketing, dalle tendenze del mercato e sono destinati e diventare in breve tempo merce da macero per essere sostituiti senza però apportare nuovi impulsi allo sviluppo culturale. Qui entra in gioco il valore della bibliodiversitàe dell’editoria indipendente: in un mondo caratterizzato dalla globalizzazione e dalla concentrazione dettati dall’economia

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liberale fatta di prodotti pensati per il consumo impulsivo, gadget che rappresentano promesse, è fondamentale comprendere come essere indipendenti è una scelta intellettuale ed economica molto difficile ma che va salvaguardata in quanto ultimo baluardo in difesa del libro-oggetto-culturale il cui valore si sgretola di giorno in giorno sotto il peso del libro-merce. Il termine bibliodiversità è stato coniato alla fine degli anni ’90 da alcuni editori cileni raggruppatisi sotto il nome di Editores independientes de Chile e indica «la diversità culturale applicata al mondo del libro. Ispirandosi alla biodiversità, fa riferimento all’indispensabile diversificazione della produzione editoriale messa a disposizione del lettore.»41 Bibliodiversità dunque indica non tanto il fatto che l’editoria continui a produrre nuovi titoli ma la necessità dell’esistenza di libri che garantiscano la pluralità delle idee, il rispetto della produzione locale, in contrapposizione con il mercato globale tendente all’omologazione anche nel campo del sapere. La Federazione Italiana Editori Indipendenti (FIDARE) continua: «I grandi gruppi concorrono a una certa offerta editoriale con una massiccia produzione di libri, ma la bibliodiversità è strettamente legata alla produzione degli editori indipendenti. Infatti, attraverso la libertà di espressione, questi sono i garanti della pluralità e della diffusione delle idee, sono i veri protagonisti, difensori della diversità culturale applicata ai libri. Il libro di progetto rappresenta l’incarnazione della bibliodiversità ponendosi in opposizione al progressivo processo di best-sellerizzazione ovvero di tutta quella produzione editoriale che si basa su prodotti calibrati per il grande

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pubblico e risponde principalmente a obiettivi finanziari. Oggi, la bibliodiversità sembra minacciata dalla sovrapproduzione e dalla concentrazione di capitali, che favoriscono la supremazia di pochi grandi gruppi editoriali e la ricerca di profitti elevati.» La bibliodiversità è un diritto del lettore, è il diritto di un libro a esistere solo ed esclusivamente in base alla suo apporto culturale, al suo valore intrinseco e non a quello monetario. Il discorso fatto finora tuttavia deve coniugarsi con la realtà imprenditoriale dell’editoria, difendere la bibliodiversità vuol dire attuare strategie concrete per il fiorire della cultura, essa non può ritenersi esclusivamente un’utopia attuabile in un mondo ideale, ragion per cui è bene esaminare, da un punto di vista strettamente pratico quali metodologie permettono di definire una casa editrice indipendente rispetto ad un altra. Il mercato editoriale è infatti colmo di case editrici autoproclamatesi indipendenti nelle quali però non si riscontra alcun tipo di progetto editoriale di qualche valore, essere un editore significa infatti informare con la propria visione del mondo un progetto che esula dal singolo libro per porsi in un panorama più ampio, da costruire lentamente anche attraverso la gestione della propria azienda, consiste nello sviluppare un progetto culturale. Un vero editore indipendente è prima di tutto un editore di progetto.

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Modelli di case editrici Essere un editore vuol dire cercare di far vivere il proprio catalogo nel lungo periodo, permettendo alle opere di consolidarsi, tuttavia questo non è lo scopo ultimo dei gradi gruppi editoriali che al consolidamento preferiscono il consumo a breve termine delle proprie merci. La struttura del capitale di un’azienda ne influenza fortemente la politica editoriale, in quanto sempre più spesso anche in ambito editoriale esistono aziende al cui vertice siedono amministratori disinteressati al contenuto di ciò che pubblicano e più interessati al profitto a breve termine. L’editore, in questo tipo di aziende verte a trasformare il cittadino-lettore in consumatore attraverso libri che diventano oggetti di distrazione destinati al tempo libero. L’affermazione «purché si legga, non importa cosa» risulta completamente errata, non è importante solo leggere ma anche e soprattutto cosa si legge, e dunque la qualità di un libro non può esprimersi, come spesso avviene, sulla base del numero di copie vendute. Il paradosso dell’editoria contemporanea sta nel fatto che non dovrebbe esserci alcuna contraddizione tra pubblicare delle opere per i loro contenuti e guadagnare il denaro necessario alla loro produzione, mentre oggi si riscontra una totale inversione che mette al primo posto il profitto a discapito del contenuto. Esistono cinque principali modelli42 di gestione di una casa editrice che mostrano i legami di dipendenza rispetto al progetto editoriale e al mercato finanziario. Il primo modello è quello dell’azienda familiare in cui il capo è spesso l’azionista principale o il rappresentante di un gruppo familiare o di amici mentre tra gli azionisti di minoranza si trovano anche dipendenti e soci che partecipano

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alla vita dell’azienda. In questo modello tutti gli azionisti sono persone fisiche, nessuna azienda o organismo finanziario possiede alcuna quota della società. Queste aziende sono finanziariamente indipendenti, tuttavia possono essere soggette a vincoli da parte dei promotori e dei distributori. Il secondo modello deriva dai meccanismi della crescita, ovvero poiché gli investimenti vengono fatti con fondi autofinanziati o grazie a prestiti bancari la struttura dell’azienda diviene precaria e le garanzie richieste da promotori e distributori diventano difficili da coprire; a tal ragione il capo dell’azienda potrà decidere di accettare che partner provenienti dal settore entrino nel capitale pur restando minoritari. Così facendo rischiano di farsi via via scivolare di mano il proprio capitale e la propria indipendenza che si regge sul peso di ogni azionista e sulla personalità del dirigente. Il terzo modello è costituito dal piccolo o medio gruppo familiare, che può possedere diverse filiali e quote più o meno grandi in altre piccole o medie imprese. L’acquisizione di case editrici più piccole o la possibilità di unirsi a imprese più grandi potrebbe sembrare vantaggioso a questo genere di aziende in quanto la crescita attraverso la creazione di collane editoriali è molto lenta mentre gli investimenti umani e le spese da affrontare per l’ingresso nel mercato risultano imminenti, e dunque è necessario molto tempo per rendere l’attività redditizia. Tuttavia, a causa di dimensioni differenti delle aziende facenti parte di questi gruppi in cui le società più grandi federano quelle più piccole, si pone il problema dell’indipendenza editoriale che risulta poco credibile nel momento in cui i capitali dell’azienda sono controllati al 100% da soggetti esterni e il più delle volte accade

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che le regole di gestione della casa-madre vengono imposte anche alle filiali secondo modalità più o meno vincolanti. Tali gruppi, che lasciano entrare nel loro capitale soci professionisti, non sempre hanno i mezzi per controllare la promozione e la distribuzione della propria produzione. Il quarto modello prevede invece un sempre minore controllo dell’azionariato familiare in favore dell’introduzione di capitali provenienti dai mercati finanziari che sostengono i progetti e gli investimenti. La diversità e l’abbondanza dei capitali da investire permettono all’azienda di crescere rapidamente. In questo genere di struttura spesso il dirigente è il rappresentante del capitale industriale della famiglia e ha il compito di tenere a bada l’azionariato finanziario che lo potrebbe allontanare dalla direzione per cercare di incrementare i propri profitti mediante una fusione. Il quinto modello, infine prevede una struttura in cui la direzione non possiede alcun capitale che invece è ripartito tra un numero elevato di azionisti. Questo modello auspica la concentrazione in quanto fusioni e acquisizioni possono rafforzare la posizione economica dell’azienda in cui la priorità viene data alla retribuzione dell’azionariato. Gli ultimi due modelli dimostrano il ruolo svolto da gran parte della grande editoria che attraverso i meccanismi della concentrazione trasforma la cultura in un investimento economico che ha l’obbligo di fruttare in un determinato periodo di tempo a discapito di qualsiasi valore di natura sociale, culturale o etica.

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Editoria indipendente di progetto Si è scelto, in questa sede, di porre l’accento sull’editoria indipendente in quanto attraverso questo testo si vuole parlare del libro come oggetto culturale e non come pura merce, tuttavia non sempre basta che una casa editrice apponga su di se l’etichetta di “indipendente” per dare valore al proprio progetto editoriale: esistono editori di progetto che lavorano per grandi gruppi e la visione che qui si vuole dare lunge da atteggiamenti manicheisti volti a stigmatizzare i grandi editori, per mirare invece a far comprendere l’importanza del progetto editoriale nella produzione libraria e cercando di comprendere come questo viene esplicato materialmente e intellettualmente. Dunque è bene interrogarsi a riguardo sulla base di criteri di valutazione economica e politica e comprendere come il termine “indipendente” possa avere accezioni molto differenti in base al contesto in cui lo si pone.Innanzitutto un editore totalmente indipendente è colui che possiede il proprio capitale: ciò non significa che egli debba essere un imprenditore individuale che possiede tutte le quote della propria azienda ma che egli debba avere potere decisionale assoluto indipendentemente dalla struttura giuridica scelta. È fondamentale che nessun socio finanziario figuri nel capitale dell’azienda in quanto questo genere di enti hanno obiettivi di redditività incompatibili con una politica editoriale di progetto vista la difficoltà di crescita a breve termine. Inoltre sono molti gli editori che pur dichiarando di essere indipendenti vengono controllati da altri gruppi. Nonostante molte volte, in questi casi, non ci siano delle vere e proprie direttive dettate dal gruppo, l’influenza di quest’ultimo sull’editore controllato è ineluttabile e la ten-

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denza all’autocensura diventa la soluzione riguardo a progetti troppo sensibili. C’è una netta differenza tra indipendenza e autonomia editoriale, nel secondo caso infatti l’editore gode dell’indipendenza editoriale fintanto che il suo ruolo continua ad essere simbolico, di centro di ricerca e vetrina di creazione su cui gli azionisti non hanno forti pretese di redditività. «Ci sono moltissimi esempi di editori sicuri del proprio potere e acume politico, convinti di essere insostituibili e protetti dal proprio talento, che dall’oggi al domani hanno realizzato a che punto le competenze incidano poco di fronte al controllo finanziario.»43 Infine è importante porre l’accento sul fatto che un gruppo non è e non può essere un editore indipendente, in quanto per definizione esso assorbe altri editori, anche solo in parte, e dunque li controlla. Essere editore vuol dire anche essere gestore soprattutto essere virtuoso: non è sbagliato associarsi con altri, anzi la condivisione è fondamentale fintanto che non si parli di acquisizioni, assorbimenti e fusioni, dunque fintanto che non si entri nel capitale di altri in maniera talmente preponderante da non consentir loro il controllo. È bene dunque non confondere i raggruppamenti di editori con i gruppi in quanto nel primo caso il fatto che le risorse siano ripartite giova a tutti ma ognuno resta autonomo nell’agire. Fondamentalmente però è bene ricordare che non c’è virtù o gloria nell’essere un editore indipendente rispetto a un editore di progetto controllato da un gruppo o da un altro editore, l’attenzione al proprio catalogo e l’impegno a partecipare in maniera utile alla diversità culturale è ciò che de-

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finisce un editore virtuoso. Non sempre essere indipendenti è una scelta ideologica e oculata, l’editoria si pone all’incrocio tra la sfera simbolica e intellettuale e quella economica, dal rapporto tra le due dipende la vita dell’editore. Indipendente dunque non è più un termine adatto a definire il tipo di editore di cui si sta trattando, l’indipendenza di un editore è prima di tutto nella sua testa, nel mettere al centro della propria attività autori e lettori, e dunque non basta l’indipendenza economica per definire un editore indipendente anche un editore di progetto, poiché entrano in gioco criteri etici, intellettuali e qualitativi che non riguardano solo la sfera economica ma soprattutto le competenze del suddetto editore, che da adesso verrà definito editore indipendente di progetto44. L’editore indipendente di progetto non pubblica per mero opportunismo economico ma in maniera coerente con la propria politica editoriale, egli cerca le alleanze senza schiacciare gli altri, rispetta i diritti di autori e traduttori, rispetta i propri dipendenti e i loro diritti. Non sempre, dunque un editore indipendente è anche un editore virtuoso, a volte si è indipendenti per necessità, altre volte per difetto e altre ancora per scelta. Si è indipendenti per necessità quando le dimensioni dell’impresa sono troppo ridotte per interessare a potenziali investitori. In questa categoria rientrano molti editori improvvisati il cui unico interesse è il fatto che il libro esista in quanto oggetto, e la differenza tra questi editori amatoriali e gli editori professionisti sta proprio nel fatto che i secondi sono consapevoli che l’aspetto veramente importante dell’editoria consiste nel rendere disponibile il libro

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Bibliodiversità ed editoria indipendente

per il lettore, fornirgli un supporto culturale. Il passaggio da questa micro-editoria amatoriale all’editoria professionale avviene con la presa di coscienza del fatto che un catalogo si costituisce per essere percepito e apprezzato per la sua originalità e specificità. Ma un nuovo editore diventa interessante solo se diverso rispetto agli altri, solo se riesce a sviluppare combinazioni originali di risorse all’interno del sistema. L’indipendenza non è una necessità per molti editori, per loro è importante che ci sia soltanto la libertà di pubblicare ed esulano dalle connotazioni etiche e politiche dell’editoria indipendente. Un editore indipendente per difetto in genere si specializza in una determinata nicchia di mercato non ancora occupata che gli garantisce una crescita molto più rapida. Non tutte le case editrici che si presentano come indipendenti hanno la vocazione a difendere la pluralità delle idee e quelle che lo fanno sono in numero esimio. Essere indipendenti per scelta vuol dire anche e soprattutto sperimentare, pubblicare opere impegnative ed originali che non riproducano formule comprovate dall’esperienza ma che rispondano ai bisogni culturali della società. Nonostante un editore di progetto possa essere inserito all’interno di un grande gruppo e un editore indipendente non debba necessariamente essere un editore di progetto si può notare come l’indipendenza fornisca un terreno fertile affinché questi diventi un vero e proprio progettatore. L’editore indipendente di progetto è promotore della bibliodiversità e difensore della libertà editoriale e di espressione. Per definire un editore indipendente di progetto bisogna tenere in considerazione la struttura del capitale dell’impre-

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sa, quanto essa sia controllata dall’editore e quanto influiscano gli azionisti finanziari e i soci professionisti, e qualora presente quale sia l’influenza di partiti politici, movimenti sociali e strutture religiose per comprendere quanto le logiche di redditività influiscano sulla struttura editoriale. Bisogna poi analizzare la struttura del catalogo, le ragioni per cui un titolo viene inserito e la maniera in cui i mezzi finanziari vengono messi al servizio dell’impresa culturale, il tipo di equilibrio tra le novità prodotte e le opere già presenti in catalogo, l’impegno nella scoperta di nuovi autori e la volontà di correre rischi finanziari al fine di creare un catalogo basato sulla logica dell’offerta e che non risponda unicamente alla logica imperante della domanda, quanto l’editore tenda ad evitare le produzioni fatte su commissione e quanto questi sia disposto a investire in nuovi titoli e a partecipare alla pluralità delle idee e al dibattito pubblico. Inoltre è bene tenere in considerazione anche la maniera in cui l’editore entra in contatto con il lettore, il modo in cui i suoi libri vengono distribuiti, la scelta di affidarsi alle librerie indipendenti o meno, la disponibilità a praticare delle partnership con editori provenienti da altri paesi e via dicendo. Nondimeno è fondamentale osservare quale sia il comportamento dell’editore con i suoi collaboratori, la sua etica nei confronti del mestiere che può esprimersi nel rifiuto di controllare altri editori, nel rispetto dell’ambiente, nel praticare solidarietà all’interno della catena del libro con i librai indipendenti e con altri editori a lui omologhi provenienti da altri paesi. Le case editrici indipendenti sono piccole strutture i cui membri devono essere versatili, esse hanno la necessità di

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Bibliodiversità ed editoria indipendente

svolgere tutte le funzioni svolte dalle grandi case editrici, dunque non è semplice restare indipendenti per via del potere e dell’influenza nel gruppi sul settore. L’editore ha infatti la necessità di definire il proprio catalogo ma al tempo stesso deve farsi carico degli aspetti finanziari e assumersi dei rischi legati alle proprie decisioni. A tal ragione egli deve conoscere ogni aspetto della vita dell’oggetto-libro al fine di poter operare delle scelte consapevoli e che rispettino gli autori dalla creazione alla diffusione del libro: egli deve conoscere e controllare ogni parte del sistema. Il compito più delicato per un editore consiste nello scegliere e nel proteggere un determinato catalogo, nel fare delle scelte e a volte dover scendere a compromessi sulla base delle sue prese di posizione ma anche delle sue debolezze. Il catalogo può dunque essere letto come la parte più intima di un editore che può trarre legittimità nel momento in cui al suo interno i libri risuonino insieme, riflettendo la politica editoriale dell’editore in un’epoca in cui l’industrializzazione e la concentrazione portano invece all’omologazione della produzione. Il lavoro dell’editore indipendente si svolge sul lungo periodo, egli riesce a valorizzare i propri autori e a praticare soluzioni su misura per loro, ragion per cui molti autori comprendono come sia preferibile essere importanti per un piccolo editore piuttosto che essere anonimi per uno grande. Nonostante i mezzi inferiori infatti, il piccolo editore è in grado di accompagnare l’opera nel tempo, sia con i successi che con i fallimenti. Egli deve “fare di tutto” affinché il suo catalogo esista per più tempo possibile, anche scendere a compromessi riguardanti l’etica editoriale ricercando

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costantemente l’equilibrio in un sistema in cui i libri che vendono di più possono sostenere quelli che vendono meno, l’equilibrio tra autori affermati e nuovi autori attraverso un sistema per cui il denaro non è un obiettivo ma un mezzo a servizio della cultura. Per un editore indipendente infine è di fondamentale importanza scegliere un modello di crescita in un mercato che sfreccia veloce e che non si adatta ai ritmi lenti dell’editoria di progetto. Bisogna tenere in conto possibili imprevisti che possono turbare i già fragili equilibri della casa editrice e che potrebbero portarla a ricorrere a un investitore per far quadrare i conti, con annessa perdita dell’indipendenza. Infine bisogna far in modo che la politica editoriale non sia d’intralcio alla crescita del catalogo, e trovare un equilibri tra le novità e il resto del catalogo. Non basta, purtroppo avere un buon catalogo, bisogna anche farlo conoscere e trovare il modo di accedere ai meccanismi di promozione sempre più inglobati nelle filiere gestite dai grandi gruppi, dunque sceglie di optare per una diffusione basata su procedimenti più artigianali, su mezzi di promozione che siano in grado di difenderne il catalogo e di accompagnarlo nel corso del tempo.

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Bibliodiversità ed editoria indipendente

Disegno di Jacques Sempé, da i disegni di Sempé, Garzanti, 1974.

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Parte XIV — Il mercato editoriale


Globalizzazione e concentrazione Lo statuto simbolico del libro non gli permette di sfuggire agli effetti della globalizzazione e del commercio internazionale. Gli effetti della concentrazione hanno obbligato le strutture editoriali a modificare il proprio comportamento per diventare delle multinazionali in cui gli obiettivi di produzione tengono poco in conto la durata dell’impresa nel tempo senza farsi scrupoli riguardo la durata del catalogo e il consolidamento dei titoli presenti in esso. Il cambiamento della struttura del capitale delle aziende ne influenza fortemente la politica editoriale e il numero di copie vendute è l’unico metro di paragone per misurare la qualità del prodotto-libro. In questo genere di industria vengono fabbricati prodotti che hanno il solo scopo di fare scattare il desiderio e indurre a comprare. Il crescente incremento di volumi stampati potrebbe infatti portare a pensare che l’industria del libro proceda a gonfie vele e che tale produzione sia segno di una diversità atta a soddisfare il lettore. La realtà è molto diversa: esistono sempre più libri che però si vendono sempre peggio e che restano sempre meno tempo sugli scaffali a causa del fatto che bisogna vendere più titoli per arrivare a un buon fatturato e dunque i libri diventano prodotti che periscono in fretta, prodotti con una data di scadenza nella cui produzione la quantità conta molto più della qualità in quanto l’unico scopo è quello della presenza massiccia in libreria. In questo gioco le grandi case editrici eccellono e molti piccoli editori, imitando tali modelli di gestione partecipano alla sovrabbondanza di libri a scadenza breve. I dati sull’editoria45, aggiornati al 2014, mostrano come in quell’anno siano stati pubblicati 57.820 libri di cui il

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Il mercato editoriale

63% è costituito da prime edizioni, il 6,5% da edizioni successive e il 30,5% da ristampe. Di questi titoli il 76,3% è stato pubblicato da grandi editori, il 18% da medi editori e solo il 6% da piccoli editori. Il genere letterario con più titoli pubblicati risulta essere quello dei testi letterari moderni, con 12812 libri, ovvero il 22,2% dell’intera produzione. Emerge inoltre che sul mercato sono presenti 855 piccole case editrici attive, 439 case editrici medie e 187 grandi case editrici, ma emerge anche che la minoranza di grandi case editrici pubblica circa 44.147 libri in un anno, a differenza dei 10.192 titoli delle case editrici medie e dei 3.484 delle piccole case editrici, mostrando dunque un’abissale sproporzione nella suddivisione del mercato. Il prezzo medio per titolo è pari a 19,3 euro per i grandi editori, 22,32 per i medi e 23,00 per i piccoli editori. Analizzando i canali di distribuzione si nota come i piccoli e medi editori preferiscano le librerie indipendenti e la distribuzione online mentre i grandi editori prediligano punti vendita non specializzati e librerie di catena. Si nota inoltre, riguardo le pubblicazioni digitali, come queste vengano favorite dai piccoli editori, probabilmente in quanto nella produzione di e-book i costi vengono notevolmente ammortizzati. Un’analisi del numero di case editrici per regione mostra invece il divario tra nord e sud Italia, ponendo ai vertici della classifica la Lombardia, con 394 case editrici attive, il 20% del totale delle case editrici presenti sul territorio italiano. Al momento, in Italia, il mercato editoriale è governato da cinque gruppi editoriali multimediali che possiedono tutti gli elementi della catena del libro, dalla produzione

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alla distribuzione alla commercializzazione. In una situazione del genere i piccoli e medi editori riscontrano serie difficoltà nel promuovere e distribuire i propri volumi restando economicamente indipendenti. L’unico elemento a favore di editori e librai indipendenti consiste nella Legge sul prezzo unico e nella riduzione dell’iva al 4% per quanto riguarda il libro cartaceo, tuttavia ciò non è sufficiente a garantire a piccole realtà editoriali, anche specializzate e di nicchia, la fetta di mercato necessaria a portare avanti la propria produzione. I meccanismi attuati dalle multinazionali dell’editoria fanno si che un libro resti sempre meno tempo sugli scaffali di una libreria, se questa logica è applicabile per quel genere di libri-merce a breve conservazione, acquistati d’impulso e dimenticati altrettanto velocemente, essa non può applicarsi ai libri presenti nel catalogo di un editore indipendente di progetto in quanto questi avranno bisogno di tempi più lenti per essere assimilati e mostrare il loro contributo al profitto dell’azienda, tuttavia purtroppo, alla pari dei libri reificati anche questi ultimi finiscono al macero o ad ammuffire in qualche magazzino. Capita dunque sempre più spesso che i piccoli editori cessino la produzione di titoli nuovi in favore di un tentativo di distribuire i libri in catalogo al fine di non essere oberati dai costi di produzione inferti dai nuovi titoli. A tal proposito il libro elettronico potrebbe essere una soluzione in quanto ammortizza i costi di produzione, tuttavia data la sua relativa giovinezza, la legislazione a riguardo non prevede gli stessi vantaggi di quella relativa al libro cartaceo, primo fra tutti il fatto che un e-book viene tassato al 22%.

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Il mercato editoriale

In un simile panorama dunque, editori e librai indipendenti hanno la possibilità di esistere associandosi e sopportandosi l’un l’altro per far fronte alle grandi catene commerciali che oggi governano anche l’industria culturale.

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Promozione e distribuzione Per un servizio di promozione l’editore rappresenta un fornitore mentre il libraio è un cliente. Il promotore è una sorta di intermediario tra l’editore e il lettore e può rifornire la libreria secondo tre tipi di fonti o flussi. Il primo flusso riguarda le opere diffuse e distribuite da strutture importanti e ben controllate, il secondo le opere di piccoli editori che vengono promosse e distribuite secondo metodi più artigianali e il terzo che riguarda tutti gli editori che non hanno strutture di promozione. A seconda delle dimensioni della libreria e di quelle del promotore i rapporti tra le due figure che rappresentano queste attività saranno più o meno frequenti. Il promotore ha il compito di difendere i libri e incassa una percentuale della vendita che va dall’8% al 10%, dunque ad esempio un piccolo editore promosso da un grande gruppo rischia di vedere la propria produzione declassata rispetto a quella di altri editori con profitti maggiori. Anche i promotori hanno una condotta che li differenzia tra loro, esistono grandi gruppi e realtà più piccole, e sta all’editore scegliere a quale delle due tipologie affidarsi. Infine un editore può scegliere anche di intraprendere la via dell’autopromozione qualora ritenga inadeguati i due modelli sopracitati, in tal caso sarà egli stesso, o chi per lui, a instaurare i rapporti con i librai i quali probabilmente inizialmente si dimostreranno diffidenti nei suoi confronti, ragion per cui l’autopromozione richiede tempi lunghi di rendita in quanto prevede, affinché funzioni, l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra editore e libraio. Un distributore gestisce i movimenti fisici e finanziari tra i diversi partecipanti della rete di vendita del libro, controlla

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Il mercato editoriale

i libri inviati dall’editore, si occupa del corretto imballaggio e della consegna ai venditori, verifica i conti dei librai e si occupa della fatturazione, in poche parole coordina diversi flussi di lavoro al fine di garantirne la gestione e la coordinazione. In genere, a causa della molteplicità di operazioni da svolgere le scelte prese per razionalizzare il sistema influenzano l’immissione sul mercato dei libri, in quanto i costi di stoccaggio vengono fatturati in modo tale da stimolare una rotazione rapida dello stock e dunque i libri del catalogo a rotazione lenta peseranno sui costi dell’editore che, per garantire una buona gestione, sarà costretto a mandare al macero parte della propria produzione. Il distributore non svolge semplicemente la funzione di confezionamento e trasporto, egli è il prolungamento naturale del promotore e qualora fosse troppo grande non risulterebbe adatto ai bisogni delle piccole imprese caratterizzate da produzione incostante e quantità aneddotiche ma, qualora fosse troppo piccolo potrebbe soccombere e cessare l’attività facendo perdere all’editore sia il proprio canale di distribuzione che il fatturato dei mesi trascorsi. Il distributore si trova all’interno di un contesto industriale, caratterizzato da costi reali e da previsioni di mercato, mentre i suoi partner, qualora fossero piccoli editori, rientrano in una realtà molto più artigianale per cui spesso modalità e obiettivi non coincidono. L’editore si trova dunque davanti ai problemi dello stoccaggio e della conservazione delle opere e nel momento in cui lo spazio diventa insufficiente potrebbe dover scegliere il macero per non soccombere ai costi di stoccaggio presso distributori o a quelli di affitto di magazzini.

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Spesso i ruoli di promotore e distributore non sono distinti ma raggruppati all’interno di una singola struttura che svolge un ruolo di gestione e messa a disposizione dei libri per permettere ai librai di rifornirsi più velocemente. Inoltre l’avvento di Internet può costituire per l’editoria un’arma a doppio taglio, in quanto sempre più spesso i lettori acquistano su internet opere che sanno non essere presenti in libreria dunque meno libri del catalogo si troveranno in libreria più si favorirà la vendita online. Al di là della vendita, internet rappresenta per gli editori un formidabile strumento di promozione, da effettuarsi attraverso blog di autori e lettori e siti specializzati. Tuttavia è molto difficile essere visibili nell’immensità del web e risulta dunque fondamentale per l’editore e soprattutto per l’editore indipendente di progetto comprendere i meccanismi di questo medium relativamente nuovo e di sfruttarli per raggiungere potenziali lettori. Se da una parte internet offre agli editori un’opportunità non indifferente di autopromozione, il risvolto della medaglia consiste nel fatto che sempre più spesso esso permette di eliminare il vaglio dell’editore che si interpone tra l’autore e il libro pubblicato attraverso meccanismi come le iniziative di crowdfunding legate all’autoproduzione nell’editoria. Risulta illuminante a riguardo un talk di Frank Chimero46 riguardo il proprio libro The Shape of Design, che su Kickstarter, un sito di crowdfunding ha ricevuto più di 100.000 $ per essere pubblicato. Crowdfunding infatti indica tutte quelle iniziative finanziate da una comunità più o meno ampia e con contributi minimi che permettono di intraprendere un progetto potenzialmente rischioso eliminando parte

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Il mercato editoriale

dei rischi legati ai fattori economici. Qui non si discute la qualità del progetto autoriale, e neanche il fatto che il vaglio dell’editore in molti casi sia fondamentale, tuttavia bisogna notare come iniziative di questo genere svolgano un ruolo fondamentale nell’avvicinare il lettore al libro: chiunque finanzi un progetto su Kickstarter lo fa per pura generosità, perché crede in quel progetto e dunque non solo sarà portato a finanziarne la produzione ma anche ad acquistarlo, le potenzialità di questi strumenti sono ancora inesplorate tuttavia forniscono un assaggio di quella che può diventare l’editoria indipendente del futuro, finanziata da persone che condividono valori e interessi e partecipano attivamente alla produzione del libro. Ciò potrebbe permettere di aggirare l’ostacolo imposto dalla filiera dell’industria culturale massificata per comunicare direttamente con il lettore, creando gruppi di persone, anche geograficamente distanti, che condividono una serie di valori e sono disposte a investire, sebbene in minima parte, in un progetto che ritengono valido culturalmente.

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Parte XV — I lettori


Il lettore e il libro Il lettore è colui per cui il libro è progettato, sia a livello editoriale che a livello grafico, e instaura con il libro, che sia esso cartaceo o digitale, una relazione che dipende in primo luogo dall’uso che ha intenzione di farne e dalla conformazione con cui esso si presenta. Esistono quattro tipi diversi di interazione tra un lettore e un libro. Il primo approccio si definisce lean forward e definisce tutte quelle situazioni in cui si legge prendendo appunti e rielaborando il contenuto, facendo ricerche, come nel caso in cui si stia consultando un dizionario; in questo caso il lettore probabilmente si troverà in posizione eretta, seduto davanti alla scrivania, con il libro aperto e poggiato sul tavolo: in genere i libri progettati per essere letti in modalità lean forward hanno dimensioni maggiori e strutture gerarchiche nette, in un certo senso si rifanno ai manoscritti e agli incunaboli in quanto vengono fruiti su un supporto piuttosto che essere tenuti in mano e richiedono un livello di attenzione altissimo. La prima situazione si adatta bene a determinati generi letterari, tuttavia esiste un’altro tipo di interazione, detto lean back che definisce tutte quelle situazioni in cui il lettore, non avendo necessità di rielaborare il testo o di svolgere operazioni su di esso, si focalizza solo sul leggere e in genere preferisce farlo in una posizione reclinata, ad esempio seduto in poltrona. Questo è il caso di tutti quei libri che prevedono una lettura immersiva, come i libri di narrativa ad esempio, e che in genere sono di piccolo formato e abbastanza leggeri per poter essere tenuti in mano senza problemi, in quanto il lettore non ha la necessità di trarre informazioni specifiche dal testo, può rilassarsi, non è prevista attività funzionale.

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I lettori

Gli altri due atteggiamenti, lettura secondaria e in mobilità non definiscono generalmente metodi di fruizione del testo, infatti una fruizione secondaria si riferisce a quando l’utente è impegnato a fare qualcos’altro e nel contempo fruisce il medium ricevendo informazioni senza prestare attenzione, come quando in casa si accende la tv mentre ci si rilassa sul divano: pur non ascoltandola con attenzione si ricevono informazioni da essa. Il libro, per ovvie ragioni, non permette questo tipo di fruizione. Mentre la fruizione in mobilità avviene nel momento in cui il lettore fruisce il testo mentre si trova su un mezzo di trasporto: egli legge attentamente e il fatto di essere in mobilità non lo disturba. Nell’anno 2015, su un campione di 100 persone con le stesse caratteristiche è stato riscontrato che il 42% aveva letto almeno un libro negli ultimi 12 mesi, un leggero segnale di ripresa dopo anni di declino. Emerge, da un’analisi dell’ISTAT che la percentuale di lettori per regione è più alta al nord Italia rispetto che al sud, con il 56,4% di lettori in Trentino Alto Adige, il picco più alto, contro il 27,5% di Puglia e Campania. Si è chiesto agli editori quali possano essere i fattori ritenuti di ostacolo alla lettura, e il 48,7% ha ritenuto che il problema dipenda dalla mancanza di politiche scolastiche di educazione alla lettura. Si è poi chiesto loro quali fossero i possibili interventi da attuare per lo sviluppo del settore editoriale, e il 31,3% ha proposto di sviluppare le forme di distribuzione dei prodotti editoriali. Inoltre è stato riscontrato che il 66,2% degli editori ritiene che il pubblico apprezzi il basso costo di vendita degli e-book ma il 40,4% ritiene che l’immaterialità del libro digitale sia un ostacolo

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alla diffusione del suddetto. l libro cartaceo, almeno per ora, è destinato a sopravvivere e a convivere con il discendente digitale, se molti lettori scelgono di acquistare gli e-book per il basso prezzo di vendita molti altri non riuscirebbero a fare a meno della materialità del libro stampato, in fondo un libro non è soltanto il suo contenuto, come qui è stato dimostrato, esso è un oggetto a cui ci si affeziona, con cui si instaura un legame inscindibile, il libro è testo, oggetto, contenitore di cultura e contenitore di emozioni, che sia esso un romanzo o un saggio storico, o anche un libro scolastico, esso è un bene che va protetto e diffuso in quanto strumento di libertà. In Italia, specie negli ultimi anni, vengono sempre più organizzati eventi che ruotano intorno al mondo del libro e dell’editoria, esistono saloni, fiere, festival il cui scopo è celebrare il libro e l’editoria. Alcuni di questi eventi sono pensati sulla base delle dimensioni dei partecipanti, esistono infatti eventi dedicati esclusivamente alla piccola e media editoria, mentre altri sono potenzialmente aperti a tutti o dedicati a case editrici specializzate su determinati generi. Questi eventi in genere permettono alle case editrici di aumentare la propria visibilità tuttavia essi comportano un investimento di denaro non irrilevante con un rientro quasi mai commisurato alla spesa effettuata. D’altra parte però essi permettono di intrecciare nuove relazioni o di rinsaldarne di vecchie generando un indotto di valore soprattutto emotivo e di coesione sociale in quanto permettono agli addetti ai lavori di incontrarsi e crescere reciprocamente. Nonostante ciò è errato pensare che questi eventi siano creati per favorire l’incremento della lettura in quanto chi vi par-

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I lettori

tecipa in genere è giĂ un consumatore di libri, mentre bisognerebbe concentrare gli sforzi sulla lettura in altri contesti come quello scolastico, all’interno delle librerie e all’interno delle biblioteche.

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Parte XVI — Case study


Mondadori

Anno di fondazione: 1907 Luogo: Ostiglia

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Mondadori è uno dei colossi dell’editoria italiana contemporanea. Vede la propria consacrazione sulla scena culturale e internazionale nel 1926 con la pubblicazione dell’opera omnia di Gabriele D’Annunzio e da quel momento comincia ad investire in iniziative di sempre più ampio respiro. Innovazioni sostanziali nel panorama editoriale italiano sono state ad esempio la collana del gialli, quella degli oscar, che sancì la nascita del libro tascabile in Italia, la Medusa dedicata ai narratori stranieri, i Meridiani, accaparrandosi pian piano ogni anello della catena di produzione del libro. Dal 1991 è proprietà del gruppo Fininvest, presieduta da Marina Berlusconi e ha acquistato molti grandi nomi dell’editoria italiana come Rizzoli, Fabbri Editori, Einaudi, Piemme, Le Monnier, Electa, Sperling & Kupfer e Frassinelli costituendo quello che potrebbe definirsi monopolio. Dal punto di vista dell’immagine grafica essa non ne possiede una rigida pur riuscendo a caratterizzarsi in maniera eloquente. Indimenticabili le copertine degli Oscar illustrate da Franco Pinter a partire da metà anni’50 caratterizzate da ampie pennellate di colore e il tratto informale danno vita a segni fortemente evocativi. Nel 2016 la collana ha subito un restyling da parte dello studio Leftloft in cui il famoso marchio con la statuetta, ora semplificato e dotato di un carattere personale, Lft Arnoldo, gioca un ruolo fondamentale essendo posto all’angolo superiore destro dell’occhiello di ogni volume, reso visibile grazie a una fustellatura della copertina che, richiamando le “orecchie” fatti dal lettore alle pagine dei libri ne svela il contenuto.

1-2. Franco Pinter, collana Oscar Mondadori, 1969-1986. 3. Giacomo Callo Collana Oscar Mondadori, 1991. 4. Leftloft, collana Oscar Mondadori, 2016.


Case study

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Giacomo Callo, collana Oscar Mondadori - classici moderni, 2016.

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Case study

Leftloft, collana Oscar Mondadori, 2016.

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Einaudi

Anno di fondazione: 1933 Luogo: Torino

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Einaudi è uno dei più famosi marchi editoriali italiani. La casa editrice fu fondata da Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della repubblica Luigi, all’epoca ventunenne. Sin dagli inizi dell’attività la casa editrice si è dimostrata impegnata politicamente e civilmente, tanto da attirare le ire del fascismo, fatto che condusse all’arresto di Einaudi a neanche due anni dalla fondazione. Negli anni il catalogo della casa editrice si è arricchito esponenzialmente senza perdere qualità, tuttavia, purtroppo, nel 1994 la casa editrice è stata acquisita dal gruppo Mondadori, di cui fa parte tutt’ora. La veste grafica di Einaudi rappresenta in toto il concetto di immagine coordinata aziendale, sebbene non sia mai stato redatto alcun manuale d’utilizzo. Einaudi possiede una forte personalità visiva, che si esplica nonostante l’ampiezza del catalogo, grazie a collaborazioni con grafici del calibro di Albe Steiner, Bruno Munari e Max Huber. Le collane Einaudi tendono a una forte riconosciblità evitando però il disturbo ottico, nella cura redazionale, nella scelta di materiali di qualità e nell’impianto di copertina fortemente strutturato, Il contenuto e il contenitore vengono curati nei dettagli, dettagli attraverso cui si esplica lo scopo fondamentale del progetto editoriale di Giulio Einaudi: il rispetto per il lettore.

1. Max Huber, collana Politecnico, 1947. 2. Albe Steiner, collana I gettoni, 1951. 3. Collana Universale Einaudi, 1955. 4. Bruno Munari, collana Nuovo Politecnico, 1965.


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Bruno Munari, collana Piccola Biblioteca Einaudi, 1965.

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Suzanne Dean, collana Einaudi Super ET, 2006.

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Adelphi

Anno di fondazione: 1962 Luogo: Milano

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Adelphi è la casa editrice fondata da Luciano Foà e Roberto Olivetti. Nel 2006 la casa editrice apparteneva per il 48% al gruppo RCS (Mondadori). Le edizioni Adelphi si caratterizzano per l’eccezionale cura redazionale e per la scelta di un’identità visiva stabile e caratterizzante. Innanzitutto il marchio rappresenta il pittogramma cinese detto «della luna nuova» mentre il nome deriva dal lemma greco Aδελφοi ossia «fratelli». La veste grafica è di forte connotazione: realizzata da Enzo Mari, che lo studio grafico interno all’editore ha scelto di mantenere invariata, fa di Adelphi un vero e proprio “caso” all’interno dell’editoria italiana. I volumi sono caratterizzati dall’utilizzo, in copertina di una cornice di ispirazione beardsleyana che reca la dicitura “Biblioteca Adelphi” in negativo. L’utilizzo di tonalità pastello nelle copertine generalmente monocrome è un ulteriore tratto di distinzione e una scelta volta a conferirle una riconoscibilità immediata.

1. Ufficio grafico interno, collana Biblioteca Adelphi, progettazione1965. 2. Ufficio grafico interno, collana Piccola Biblioteca Adelphi, progettazione 1973. 3. Ufficio grafico interno, collana Fabula, 1985. 4. Ufficio grafico interno, collana Adelphi eBook, 2013.


Case study

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Ufficio grafico interno, collana Piccola Biblioteca Adelphi, progettazione 1973.

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Case study

Ufficio grafico interno, collana Fabula, 1985.

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Sellerio

Anno di fondazione: 1969 Luogo: Palermo

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Sellerio è il nome della casa editrice fondata da Elvira Giorgianni ed Enzo Sellerio su ispirazione di Leonardo Sciascia. «Il programma all’origine della casa editrice è il ritorno a una cultura che Sciascia definisce «amena», cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito, quindi una cultura della leggerezza, che non rinuncia all’eleganza, una cultura delle idee, sì, ma in forma di cose belle.»47 Sellerio è una delle poche grandi case editrici aventi sede nel sud Italia. La svolta da piccola realtà artigianale e grande casa editrice è avvenuta con la pubblicazione de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia e di lì attraverso la pubblicazione della collana blu della Memoria, iniziata nel 1979, che ne ha definito la veste grafica caratterizzata da copertine blu realizzate con carta vergata come si legge «nel grigiore metallico delle copertine di quegli anni l’irrompere della macchia blu, della carta vergata, dell’immagine pittorica figurativa al centro della sovraccoperta, dentro una cornicetta colorata che richiamava il colore delle lettere del titolo. Un effetto cromatico accentuato da quella che era allora una originalità audace: i colori delle lettere e della cornice che cambiavano di numero in numero: una volta gialli, una volta celesti, una volta grigi, una volta rossi, quasi mai bianchi. Il libro tornava ad essere anche un oggetto elegante, anche per quel suo formato tendente al quadrato, studiato per essere su misura per la tasca di una giacchetta.»

1-4. Ufficio grafico interno, collana La memoria, progettazione 1979.


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Ufficio grafico interno, collana Il divano, progettazione 1989.

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Case study

Ufficio grafico interno, collana Corti, 2016.

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Edizioni e/o

Anno di fondazione: 1979 Luogo: Roma

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La casa editrice fondata da Sandro Ferri e Sandra Ozzola, lui ex militante di Lotta continua laureato in filosofia, lei esperta in letteratura russa. Il punto focale del progetto editoriale delle Edizioni e/o ruota appunto attorno alla costruzione di un ponte tra la cultura italiana e quella dell’Est, per poi espandere il proprio catalogo con altre letterature, tant’è che il nome può voler significare est/ovest come anche e/ oppure. L’espansione del catalogo nell’ambito delle letterature straniere contemporanee e la contaminazione dei generi nella proposta di una mappatura del mondo sono il punto forte di questa casa editrice: creare ponti in grado di distruggere le frontiere letterarie. Dal punto di vista della progettazione grafica non si può non fare riferimento al lavoro svolto da Sergio Vezzali a partire dal 1979 in cui le costanti sono il disegno e la sistematicità degli elementi disposti nello spazio della copertina che infondono ai suoi lavori uno spirito di «sofisticato artigianato» che si esplica oltre che nel disegno e nella tipografia anche nell’utilizzo di texture che fanno rivivere il piacere del segno, creando libri sempre diversi e sempre uguali al tempo stesso.

1. Sergio Vezzali, collana Est, 1986. 2. Sergio Vezzali, collana Est, 1988. 3-4. Sergio Vezzali, collana Praghese, 1982-88.


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Sergio Vezzali, collana Est, 1983.

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Case study

Sergio Vezzali, collana Est, 1983.

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Quodlibet

Anno di fondazione: 1993 Luogo: Macerata

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Quodlibet è una casa editrice fondata sotto la guida di Gino Giometti e Stefano Verdicchio, inizialmente si occupa prettamente di saggistica e filosofia per poi aprirsi alla letteratura, alla critica d’arte e all’architettura. A proposito di quest’ultima è notevole il restyling della collana riguardante l’architettura, habitat (il nome della collana indica il luogo in cui una specie può vivere nel migliore dei modi, quello che architettura e design si propongono di realizzare per l’uomo), a opera di Mario Piazza, che ha di recente curato anche il restyling dei tascabili Einaudi, il quale crea un segno marcato attraverso l’utilizzo, in copertina, di immagini smarginate attraversate, o per meglio dire tagliate da bande bianche che contengono le informazioni riguardanti il testo, un layout dunque mutevole ma di forte impatto che da una parte uniforma e dall’altra differenzia grazie al fatto che le fasce bianche possono cambiare disposizione e interagire con l’immagine di fondo in modi sempre nuovi.

1-4. Studio 46xy, collana Habitat, progettazione 2010.


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Studio 46xy, collana Habitat, progettazione 2010.

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Studio 46xy, collana Habitat, progettazione 2010.

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Minimum fax

Anno di fondazione: 1994 Luogo: Roma

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La casa editrice fondata da Daniele Di Gennaro e Marco Cassini deve il proprio nome a una rivista letteraria fondata nel 1993 e diffusa via fax negli uffici, nelle università, nelle scuole e nei circoli e che fornì lo spunto di partenza per la creazione delle prime due collane l’anno successivo. Si occupa di contenuti di vario genere che spaziano dalla teoria della scrittura ai libri-intervista, narrativa americana, musica, poesia, narrativa italiana, teatro e cinema. «Da quando è nata, minimum fax segue i linguaggi in trasformazione osservandoli da una prospettiva trasversale. Accanto agli innovatori della letteratura, pubblichiamo autori che esprimono la stessa forza rivoluzionaria nei loro rispettivi campi artistici.»50 Il processo di cura redazionale si esplica totalmente nell’attenzione alla veste grafica di ogni collana, curata inizialmente da Riccardo Falcinelli che con abile maestria è riuscito di volta in volta ad individuare e a dare forma ad elementi di contenuto in cui nessun concept risulta banale ma si struttura sul contenuto da trasmettere e lo esplica in maniera spesso giocosa e coinvolgente, come se fosse un indovinello la cui soluzione può essere colta per mezzo della vista prima ancora di leggere le parole. Dal 2017 la direzione artistica della casa editrice è passata a Patrizio Marini e Agnese Pagliarini che hanno effettuato un processo di restyling quasi totale che ruota attorno ai concetti di trasversalità e indipendenza in cui il primo segno distintivo è dato dalla diagonale che richiama il tratto del pennino sul foglio e dal quale è stata sviluppata una sintassi visiva caratterizzata dalla reiterazione di questo elemento sia in forma segnica che a livello di layout creando delle raffinate asimmetrie che danno nuova luce a una tradizione caratterizzata sin dal principio dall’eccellenza e dalla cura del dettaglio.

1. Riccardo Falcinelli, collana Nichel, 2009. 2. Riccardo Falcinelli, Fuori collana, 2011. 3. Patrizio Marini, Agnese Pagliarini, collana Saggistica, 2017. 4. Patrizio Marini, Agnese Pagliarini, collana Racconti, 2017.


Case study

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Riccardo Falcinelli, collana Sotterranei, 2014.

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Case study

Patrizio Marini, Agnese Pagliarini, collana Sotterranei, 2017.

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Voland

Anno di fondazione: 1995 Luogo: Roma

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«Voland è il nome del Signore delle Tenebre nel romanzo di Michail Bulgakov Il Maestro e Margherita, ma di certo non è un diavolo comune. Per definirlo e per confondere subito le acque e il lettore, Bulgakov premette al suo romanzo una citazione dal Faust di Goethe: “…io sono parte di quella forza che vuole perennemente il Male e perennemente compie il Bene.” Arrivando infatti a Mosca nei cupi anni ‘30, il misterioso Voland e la sua bizzarra corte mettono a soqquadro la città: magie, giochi di prestigio, inquietanti spostamenti nel tempo e nello spazio. Salveranno però il Maestro, uno sfortunato scrittore inviso al potere (“I manoscritti non bruciano”). E la vendetta della schiera diabolica si esercita beffarda soprattutto nei confronti della cattiva letteratura…»49 La casa editrice fondata dalla salmista Daniela Di Sora, si occupa di narrativa di lingua slava, difficile da reperire in Italia, e anche di letteratura italiana e internazionale. Nel 1999 ha ricevuto il Premio alla cultura da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la pregevole attività svolta in campo editoriale, mentre nel 2003 ha ricevuto il Premio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali “per aver svolto attraverso la pubblicazione di traduzioni di elevato profilo un importante ruolo di mediazione culturale”. Interessante la veste grafica della collana di tascabili Supereconomici, il cui progetto grafico è affidato ad Alberto Lecaldano, con disegni di Pedro Scassa in cui il formato particolarmente verticale (11x18,5 cm) viene esaltato dalla presenza di bande di colore verticali, con i testi allineati a sinistra e in cui il nome dell’editore ha lo stesso peso visivo di quello dell’autore e del titolo. Voland ha inoltre pensato anche ai suoi lettori digitali riproponendo in ebook alcuni dei suoi titoli più rappresentativi. Nel 2010 si è inoltre dotata di una nuova custom font, Voland disegnata da Luciano Perondi che è caratterizzata da un glifo, designante la lettera v minuscola che richiama leggermente la coda di un diavolo.

1-4. Alberto Lecaldano, collana Supereconomici, 2011-2018.


Case study

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Alberto Lecaldano, collana Supereconomici, 2011-2018.

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Case study

Alberto Lecaldano, collana Supereconomici, 2011-2018.

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Nottetempo

Anno di fondazione: 2002 Luogo: Roma Fondata da Ginevra Bompiani, a cui nel 2016 è succeduto Andrea Gessner, e Roberta Einaudi, pubblica libri cartacei e digitali ponendo alla base del proprio progetto la qualità, sia letteraria e filosofica che grafica, l’unione di forma e contenuto in un «oggetto comodo» che si piega alle esigenze del lettore. La veste grafica dei volumi è curata dallo studio Cerri ed è caratterizzata da corpi leggermente ingranditi e margini ampi per modulare la pagina sulle dimensioni del corpo umano e permettere di maneggiare i libri in qualsiasi situazione. Le copertine invece sono progettate, dal 2004, dallo Studio Indaco di Dario Zannier e sono, salvo eccezioni, caratterizzate da tonalità tenui e dalla quasi esclusiva presenza del bianco, da una gabbia di impaginazione molto evidente e un filetto rosso che separa autore e titolo, quasi a demarcare la linea sottile che intercorre tra il testo manoscritto e il libro-oggetto pronto all’uso. 334

1. Studio Indaco, collana Narrativa/indies, 2014. 2. Studio Indaco, collana Ritratti, 2016. 3. Studio Indaco, collana Animalia, 2017. 4. Studio Indaco, collana Narrativa, 2017.


Case study

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Studio Indaco, collana Narrativa, 2016.

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Case study

Studio Indaco, collana Narrativa, 2017.

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Hacca

Anno di fondazione: 2006 Luogo: Matelica

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Hacca edizioni è una casa editrice tutta al femminile fondata da Francesca Chiappa. Si occupa di narrativa italiana e straniera, di saggistica e della ristampa di autori del Novecento. Con uno sguardo tra passato, presente e futuro, alla domanda48 su quanto conti l’istinto in un mercato saturo che richiede sempre nuove competenze l’editrice risponde «Dipende dal tipo di editoria. Quella di progetto, che è quella che conosco meglio, sta tutta nella “pancia”. Se, come ho ripetuto più volte, i libri sono visioni, la loro scelta è anch’essa una traiettoria nata nella testa, e nella pancia, di chi in editoria ci lavora. Ogni marchio editoriale, soprattutto tra gli indipendenti, denota uno specifico intuito, quello di chi si è incaponito in una direzione e prova ad aprire la strada. Le tecnologie e le nuove competenze sono solo strumenti per lo stesso identico obiettivo di sempre.» A curare la veste grafica di Hacca edizioni è Maurizio Ceccato con il suo studio di comunicazione e design, IFIX, che attraverso un’identità visiva semplice e forte al tempo stesso, basata su illustrazioni che si stagliano a tutta pagina accompagnate dall’inserimento dei testi all’interno di una cornice finemente ornata e posta in testa al piatto della copertina realizza immagini evocative e travolgenti con uno stile che nel rinnovarsi da vita a suggestioni sempre nuove.

1-4. Maurizio Ceccato, collana Hacca, progettazione 2006.


Case study

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Maurizio Ceccato, collana Hacca, progettazione 2006.

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Case study

Maurizio Ceccato, collana Hacca, progettazione 2006.

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LetteraVentidue

Anno di fondazione: 2007 Luogo: Siracusa

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LetteraVentidue è una casa editrice fondata da un gruppo di architetti tra cui Francesco Trovato e Raffaello Buccheri, la cui visione del libro è quella di «uno strumento fondamentale per la diffusione della conoscenza, ma anche un intramontabile e raffinato oggetto di design.» Si occupa di libri di architettura, design e arti visive, è una casa editrice fatta di addetti ai lavori per gli addetti ai lavori. Per tale ragione ogni collana riceve un trattamento differente in base alle esigenze del testo. Dal punto di vista dell’identità visiva risultano interessanti i lavori svolti sulle collane che risultano alle volte caratterizzate da un layout vincolante, come le collane figure e txt, caratterizzate l’una dall’utilizzo della sola tipografia, accompagnata solo da una banda di colore sul dorso, l’altra, dedicata ai saggi brevi, è caratterizzata dall’utilizzo di un formato tascabile e di una composizione di copertina ottenuta mediante stampa a due colori di forte impatto visivo nel suo apparire rustica e sofisticata al tempo stesso. Altre collane, non vengono caratterizzate da formati e/o impostazioni di layout simili, come nel caso di libri dedicati al design e alle arti visive nei quali la situazione viene valutata caso per caso al fine di scegliere la soluzione ottimale.

1. Raffaello Buccheri, Martina Distefano, collana Figure, progettazione 2013. 2. Gianni Latino, collana Arti visive, 2013. 3. Raffaello Buccheri, Martina Distefano, fuori collana, 2015. 4. Raffaello Buccheri, Martina Distefano, collana Alleli txt, 2017.


Case study

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Raffaello Buccheri, Martina Distefano, collana Costellazioni, progettazione 2016.

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Case study

Raffaello Buccheri, Martina Distefano, collana Architettura, 2016.

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Malcor d’Edizione

Anno di fondazione: 2012 Luogo: Catania

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Malcor d’Edizione è una casa editrice indipendente fondata da Manlio D’Urso. Il suo obiettivo principale è quello di pubblicare opere divulgative rese accessibili ai neofiti, tenendo bene a mente l’interdisciplinarietà e la diffusione della conoscenza attraverso la moltiplicazione dei punti di vista. Semplificare la complessità è dunque lo scopo ultimo di questa casa editrice che si occupa di attualità, di opere che trattano la realtà odierna e i suoi particolari aspetti attraverso metodi sempre nuovi, ma con uno sguardo attento anche alle basi delle discipline di riferimento. «L’intenzione principale di Malcor d’Edizione è quella di pubblicare opere di divulgazione culturale; saranno cioè scritte con linguaggio non tecnico, onde consentirne la diffusione anche tra chi non ha dimestichezza con la materia trattata; ciò al fine di addivenire ad una discussione non specialistica dell’idea proposta. »51 La veste grafica è curata da Fabio Consoli e Giorgia Di Carlo si basa su un’identità variabile, costruita su misura per il singolo titolo e richiamata alla totalità della produzione da elementi caratterizzanti vincolanti come il marchio dell’editore, e non, come l’inserimento del titolo all’interno di due preponderanti parentesi quadre che all’occorrenza svaniscono per lasciare spazio a copertine fatte di solo lettering, a fotografie e a illustrazioni talvolta complesse e altre volte sintetizzate nello spazio immediato di un’icona.

1. Giorgia Di Carlo, collana Persistenze, 2015. 2. Giorgia Di Carlo, collana Extra, 2015. 3. Giorgia Di Carlo, collana Persistenze, 2016. 4. Giorgia Di Carlo, collana Esperienze, 2016.


Case study

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Giorgia Di Carlo, collana Persistenze, 2015.

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Case study

Giorgia Di Carlo, collana Extra, 2017.

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Bonus — Libri multimodali

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Libri multimodali

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A Catania, dal 19 gennaio al 18 febbraio 2018, presso i locali della libreria Mondadori in via A. di Sangiuliano si è tenuta la mostra libri multimodali all’interno della quale sono stati esposti gli artefatti editoriali realizzati dagli allievi del biennio in editoria dell’Accademia di Belle Arti di Catania sotto la direzione del docente Gianni Latino. Scopo della mostra è lo sviluppo di un’interazione tra il lettore e l’oggetto libro che non si limiti allo sfogliarne le pagine ma che lo costringa ad uscire dalla propria comfort zone per interagire con il libro che diventa oggetto manipolabile, strumento che muta nelle mani del lettore, che lo pone in una dimensione ludica e didattica al tempo stesso. Libri multimodali dimostra come la divulgazione culturale possa assumere, mediante il progetto editoriale, forme interattive in cui il lettore si interfaccia al libro in modi che non sono consoni a questo medium e da questo interfacciarsi tragga informazioni non solo attraverso lo strumento della vista ma mettendo in gioco tutti i sensi. Il termine multimodale difatti indica uno strumento «particolare e complesso che mescola la pluralità di modalità cioè mod di descriversi diversamente, come il tempo: multi, molteplice, metamorfico, pieno di variazioni, appunto, fatto di interventi comunicativi e concettuali.»52 Ogni artefatto editoriale esposto infatti presenta uno specifico tema, trattato dalla redazione dei testi alla messa in pagina, sino a giungere alle interazioni fisiche che connettono il lettore all’oggetto-libro in maniera più profonda in quanto lo spingono a compiere delle azioni inconsuete che si fissano nella memoria. Non libri fini a se stessi dunque, ma approcci differenti alla divulgazione culturale attuata mediante forme inconsuete e difficilmente dimenticabili.


Bonus — Libri multimodali

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Bonus — Libri multimodali

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Bonus — Libri multimodali

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Conclusioni

Giunti al termine di questa pubblicazione voglio smettere per un attimo i panni del narratore in terza persona, troppo informale e asettico, per parlare faccia a faccia con chi mi sta leggendo. Questa tesi per me segna la fine di un percorso e l’inizio di un nuovo cammino. Vorrei ricordare a chi legge che tutto ciò che è scritto all’interno di questa pubblicazione non rappresenta una verità assoluta, tutt’altro. Qui si vuole fornire uno spunto per un dialogo che vada ben oltre i confini di una tesi di laurea e che si instauri con la pratica nel quotidiano del buon progetto, ove con buon progetto si intende qualcosa che è stato realizzato con consapevolezza. Se c’è una cosa che ho imparato in questi cinque anni è che non si possono infrangere le regole se prima non le si conosce, quindi chiedo al lettore di tenere bene a mente le parole che chiudono questa tesi e di considerarle non solo nei riguardi del settore editoriale ma anche, e soprattutto, nei confronti della vita. La citazione è di Robert Bringhurst, dal suo Gli elementi dello stile tipografico: «Questo è il modo corretto di seguire una strada: raggiungere nuovi punti di partenza scelti da soli. Rompete le regole, rompetele in bellezza, deliberatamente e bene. Sono fatte per questo.»

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Ringraziamenti

A conclusione di questo percorso vorrei ringraziare tutte le persone che mi sono state vicino e mi hanno aiutata a cresce professionalmente e caratterialmente. Voglio ringraziare il mio relatore per avermi fornito gli strumenti necessari a comprendere e ad amare un oggetto speciale come il libro, per aver avuto pazienza e per avermi fornito un ottimo esempio riguardo quale sia la figura del progettista grafico come in questa trattazione la si è intesa. Vorrei ringraziare i miei genitori, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, e infine vorrei ringraziare personalmente ogni lettore che è giunto sino a questo punto e sta ancora leggendo. Questa tesi finisce qui, ma le cose da imparare sono infinite, dunque grazie a chi mi ha insegnato e chi mi insegnerà quello splendido mestiere che è la comunicazione visiva.

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Note

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1. Gilles Colleau, Editori indipendenti & bibliodiversità, Il leone verde, 2011. 2. David Reinfurt, Open source for graphic design and publishing, www.callforcriticism.com 3. Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione, Laterza, 2010. 4. Philip Smith, The Whatness of Bookness, nel sito della Canadian Bookbinders and Book Artists Guild 5. Edward Hutchins, Defining Books in the Electronic Age, www.artistbooks.com 6. www.treccani.it/enciclopedia/linguaggio 7. A drian Frutiger (1928-2015) è stato un grande disegnatore di caratteri del ventesimo secolo, oltre che un grande teorico riguardo la semiotica e il progetto di caratteri tipografici. 8. A ldo Novarese (1920-1995) è stato un disegnatore di caratteri presso la fonderia Nebiolo di Torino. A lui si deve la classificazione dei caratteri tipografici che porta il suo nome, stilata nel 1955. 9. R obin Kinross, Tipografia moderna, Stampa Alternativa, 2005. 10. Jacques Derrida, De la grammatologie, Minuit, 1967. Traduzione di R. Balzarotti, Della grammatologia, Jaca Book, 1998. 11. D. B. Updike (a cura di), A translation of the reports of Berlier and Sobry on types of Gillé fils, "The Fleuron", n. 6, 1928. 12. William Morris (1834-1896) è stato il primo stampatore a dare il via al fenomeno delle private presses: nella sua stamperia, la Kelmscott Press, egli si dedicò alla stampa di libri pregiati utilizzando tecniche artigianali e opponendosi alla crescente industrializzazione imperante nell'Ottocento, a favore di un ritorno alla tradizione. 13. Linotype e Monotype sono due sistemi per la composizione meccanica di caratteri tipografici. Linotype, inventata da Ottmar Mergentaler fra il 1880 e il 1890, fonde i caratteri riga per riga in lingotti di piombo, componendoli tramite l'intervento di un operatore che opera la composizione mediante una tastiera simile a quella di una macchina da scrivere che permette di richiamare le matrici delle varie lettere. La Monotype, inventata da Tolbert Lanston e riprogettata da John Sellers Bancroft dopo il 1890, si compone di due unità: una tastiera e una fonditrice, che richiedono due operatori. Essa permette di fondere e comporre lettere singole, le cui matrici vengono selezionate attraverso la tastiera, collegata a un nastro perforato. 14. Ellen Lupton, Caratteri, testo, gabbia. Guida alla progettazione grafica, Zanichelli, 2010. 15. Roland Barthes, Dall'opera al testo, articolo pubblicato su Revue d'Estétique, 1971. 16. R obert Bringhurst, Gli elementi dello stile tipografico, Sylvestre Bonnard, 2001.

17. www.iso.org/standard/6937.html 18. Jan Tschichold, Robert Bringhurst, La forma del libro, Sylvestre Bonnard, 2003. 19. Bruno Monguzzi (1941) è un poliedrico designer svizzero che vanta ad oggi collaborazioni con molti dei nomi che hanno fatto la storia nell'ambito del design della comunicazione visiva. La sua metodologia progettuale consiste in un forte rigore spezzato da idiosincrasie che hanno lo scopo di rendere la rigidità, tipica della scuola svizzera, più organica secondo la teoria che egli stesso definisce "della mosca e della ragnatela". 20. John Szarkowski, The photographer's eye, Museum of Modern Art, 2007. 21. Gavin Ambrose, Paul Harris, Fondamenti di grafica, Logos, 2012. 22. Georg Christoph Lichtenberg, Lettera a Johann Beckmann, 1786, www.cl.cam.ac.uk/~mgk25/ lichtenberg-letter.html 23. Beatrice Warde, Printing should be invisible, conferenza tenuta presso la British Typographers' Guild, pubblicata nel 1932 in un saggio intitolato Il calice di cristallo. 24. Jan Tschichold, Elementare Typographie, Typographische Mitteilungen, 1925. 25. Neue grafik è il nome della rivista fondata nel 1958 e diretta da Josef Müller-Brockmann, Richard Lohse, Hans Neuberg e Carlo Vivarelli. Essa aveva lo scopo di diffondere il pensiero della Scuola Svizzera. La pubblicazione della rivista cessò nel 1965. 26. Robert Bringhurst, Gli elementi dello stile tipografico, Sylvestre Bonnard, 2001. 27. Josef Müller-Brockmann, Grid Systems in Graphic Design/Raster Systeme Fur Die Visuele Gestaltung, Arthur Niggli, 1996. 28. Maurizio Accardi, Il libro: avvertenze per l'uso, L'Epos, 2006. 29. Maurizio Accardi, Léggere, L'Epos, 2010. 30. Maurizio Accardi, Il libro: avvertenze per l'uso, L'Epos, 2006. 31. Warren Chappel, Robert Bringhurst, Breve storia della parola stampata, Sylvestre Bonnard, 2004. 32. Chris Armstrong, Books in a Virtual World: The Evolution of the E-Book and its Lexicon, in Journal of Librarianship and Information Science, 2008. 33. Andrew Cox e Sarah Ormes, E-Books, in Library and Information Briefings, n. 96, 2001. 34. Il progetto Gutenberg è una vera e propria biblioteca di testi digitali disponibili in rete. La digitalizzazione dei testi si basa su tecnologie OCR e ha avuto una fondamentale importanza nel far percepire il ruolo delle nuove tecnologie e degli strumenti digitali in rete nella diffusione della cultura del libro.


35. L inguaggio ideato e utilizzato da Donald Knuth per scrivere The art of computer programming nel 1978. La pronuncia del nome deriva dalla parola greca tecnh tanto che l'ultima lettera del nome è una chi greca e non una ics latina come si potrebbe pensare. 36. T im Berners-Lee (1955) è un informatico britannico co-inventore insieme a Robert Cailliau del World Wide Web. 37. J oseph Jacobson (1965) è il capo del Molecular Machines group al MIT media lab e l'inventore della tecnologia e-ink nota anche come display elettroforetico microincapsulato. 38. J ay David Bolter, Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, 2002. 39. Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, 1978. 40. M aurizio Accardi, Il libro: avvertenze per l'uso, L'Epos, 2006. 41. www.fidare.it/la-bibliodiversita 42-44. G illes Colleau, Editori indipendenti & bibliodiversità, Il leone verde, 2011. 45. www.istat.it/it/archivio/editoria 46. www.craigmod.com/onmargins/002 47. www.sellerio.it/it/casa-editrice/ 48. www.lascimmiadellinchiostro.goodbook.it/home-2/ leditore-del-mese-intervista-a-francesca-chiappa-dihacca-edizioni/ 49. www.voland.it/chi-siamo 50. www.minimumfax.com/la-storia 51. www.malcor.it/pubblicazione_di_saggistica_e_varia.asp 52. Libri multimodali, catalogo della mostra, Tyche, 2018.

363


Bibliografia

AA. VV. Catalogo generale delle edizioni Einaudi dalla fondazione della casa editrice al 1° gennaio 1956, G. Einaudi, 1956. AA. VV. Le forme della carta, Fedrigoni, 2011. Accardi Maurizio, Il libro: avvertenze per l’uso, L’Epos, 2006. Accardi Maurizio, Léggere, L’Epos, 2010. Ambrose Gavin, Harris Paul, Fondamenti di grafica, Logos, 2012. Ambrose Gavin, Harris Paul, Il libro del layout. Storia, principi, applicazioni, Zanichelli, 2009. Ambrose Gavin, Harris Paul, Il manuale del graphic design. Progettazione e produzione, Zanichelli, 2009. Balocco Matteo, Tipografia Web: design, stile, tecnologia, Apogeo, 2012. Bandinelli Angiolo, Lussu Giovanni, Iacobelli Roberto, Farsi un libro: propedeutica dell’auto produzione : orientamenti e spunti per un’impresa consapevole : o per una serena rinuncia, Biblioteca del Vascello: Stampa alternativa, 1990. 364

Baroni Daniele, Un oggetto chiamato libro. Breve trattato di cultura del progetto, Sylvestre Bonnard, 2009. Bringhurst Robert, Gli elementi dello stile tipografico, Sylvestre Bonnard, 2001. Cadioli Alberto, Vigini Giuliano, Storia dell’editoria italiana dall’unità ad oggi: un profilo introduttivo, Bibliografica, 2004. Caldwell Cath, Zappaterra Yolanda, Editorial Design: Digital and Print, Laurence King Publishing, 2014. Cataluccio Francesco, Che fine faranno i libri? Nottetempo, 2010. Chappell Warren, Bringhurst Robert, Breve storia della parola stampata, Sylvestre Bonnard, 2004. Colleau Gilles, Editori indipendenti & bibliodiversità, Il leone verde, 2011. Colonetti Aldo, Petrucci Armando, Disegnare il libro: grafica editoriale in Italia dal 1945 ad oggi, Libri Scheiwiller, 1988. Falcinelli Riccardo, Critica portatile al visual design: da Gutenberg ai social network, Einaudi, 2014. Falcinelli Riccardo, Fare i libri, Minimum Fax, 2015. Falcinelli Riccardo, Guardare, pensare, progettare. Neuroscienze per il design, Stampa Alternativa, 2011. Febvre Lucien, Martin Henri-Jean, La nascita del libro, Laterza, 2011.


365


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Müller-Brockmann Josef, Grid systems in graphic design, Niggli, 1981. Munari Bruno, Da cosa nasce cosa, Laterza, 2010. Normann Donald, La caffettiera del masochista. Il design degli oggetti quotidiani, Giunti Editore, 2015. Ormezzano Achille, Codice dell’editore, Bibliografica, 2001. Roncaglia Gino, La quarta rivoluzione: sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, 2010. Sechi Letizia, Editoria digitale, Apogeo Editore, 2010. Serra Fabrizio, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, F. Serra, 2009. Spera Michele, L’abecedario del grafico: La progettazione tra creatività e scienza, Gangemi Editore spa, 2005. Steinberg Sigfrid Henry, Cinque secoli di stampa, Einaudi, 1982. Tschichold Jan, Bringhurst Robert, La forma del libro, Sylvestre Bonnard, 2003. Vignelli Massimo, Il canone Vignelli, Postmedia, 2012.


Finito di stampare nel mese di Febbraio 2018 presso la tipografia Arti Grafiche Leonardi.



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